SundayUp - The Wombats, "Glitterbug" (2015)

Era probabilmente il 2008. Appena entrato all’università e pieno di voglia di consumare cultura, le mie orecchie smaniavano per qualcosa di nuovo da ascoltare che facesse da colonna sonora ai miei anni parcheggiati tra via Zamboni e San Giovanni in Monte. Poi, un giorno, un amico legge su NME di questo nuovo gruppo di sbarbini di Liverpool, con un nome buffo e un primo disco dal titolo accattivante. Loro sono i Wombats, il disco era The Wombats proudly present: A guide to love, loss and desperation, e io ci rimasi veramente sotto.

Il mix di chitarre saltellanti, ritornelli catchy e singalong accuratamente studiati rendeva il primo lavoro dei Wombats una bomba per qualsiasi circa-ventenne che ci avesse messo sopra le orecchie. Erano il sottofondo musicale perfetto per le sbronze low cost del martedì sera, ma anche – sorprendentemente – per i mal di testa del giorno dopo. E il tutto era suonato senza la pretesa di fare a tutti i costi della musica “seria”, ma solo con la voglia di divertirsi e divertire, e questa è un’attitudine che ho sempre apprezzato molto in qualsiasi gruppo.
Poi arrivò il sophomore, ben quattro anni dopo. Nel 2011 uscì The Wombats proudly present: This modern glitch, che mostrava palese il tentativo dei tre di rinnovarsi nel sound pur mantenendo intatto il carattere. Ne viene fuori un disco da dieci tracce pesantemente tinte di elettronica, con il MicroKorg del leader Matthew Murphy che impazza sopra gli strumenti analogici. Il risultato non è dei migliori, ma resta una manciata di quei pezzi che se li senti in un locale con due Negroni nel sangue li salti, eccome se li salti. E forse li canti anche.
Nel frattempo i vombati girano il mondo e arrivano anche a Bologna, dove ho il piacere di vederli dal vivo all’I-Day del 2011. Il live è energico e coinvolgente, ti viene da ridere mentre guardi quel norvegese del bassista che saltella per il palco in calzoncini e ti godi il clima generale, danzereccio e autoironico.Dopo altri quattro anni arriva il terzo disco, che esce nell’aprile 2015 dopo una gestazione che vede i Liverpudlians annunciare una svolta di maturità per la loro musica. Glitterbug è preceduto da tre singoli, Your Body is a WeaponGreek Tragedy e Give Me a Try, che dichiarano a gran voce quale sia la svolta ricercata dai Wombats: maturità, il tuo nome è “pop”.

Con quest’ultima fatica, infatti, il trio lancia nel mondo un prodotto se possibile ancora più spudoratamente ammiccante dei precedenti due. Non a caso si scelgono come produttore Mark Crew, di stanza a Londra e già citato nei crediti di personaggi come Taylor Swift e soprattutto i Bastille, emblema e trionfo dell’indie che fa il botto e diventa mainstream (come dicono alcuni) o, appunto, pop (come preferisco dire io). Il che la dice lunga su quello che probabilmente è un piccolo complesso di inferiorità nascosto – non benissimo – nei cuori dei nostri ragazzi: i Wombats vogliono andare in America, diavolo, e vogliono andarci alla grande. È l’enorme, ricchissimo mercato Usa che vogliono sfondare, l’incubatrice in cui tutte le next big thing della musica mondiale devono entrare da bruchi per uscirne farfalle e dispiegare il loro potenziale in giro per il pianeta, il test che si passa o nel cui tentativo si muore.
Ovvio, i ragazzi negli Stati Uniti ci hanno già suonato, e pure parecchio. Non sono però mai riusciti a fare il colpo grosso, rimanendo di fatto membri minori di quel club di “college bands” britanniche che vanta una tradizione di tutto rispetto, dagli Smiths agli Arctic Monkeys pre-Josh Homme. Per questo tutto, in Glitterbug, grida stelle e strisce.
Tutto, a partire dal filo conduttore che unisce i tredici pezzi dell’album. Le canzoni sono istantanee, in ordine cronologico sparso, di una storia d’amore fittizia tra Matthew “Murph” Murphy e una ragazza losangelina. Il disco è stato scritto nel corso di un soggiorno californiano del cantante, ed effettivamente l’ambientazione è quella: è difficile ascoltare Murph che canta “guiderò questa Cadillac/sulla strada che costeggia l’oceano finché non finisce la benzina” e figurarselo sulla costa est del Galles. Le tematiche sono rimaste quelle di sempre, affrontate con la solita ironia: una storia a distanza (Give Me a Try), il geek che non ha fortuna con le donne (Your Body is a Weapon), le difficoltà di comunicazione del mondo moderno filtrato dalla tecnologia (Emoticons), una relazione distruttiva che non si riesce ad interrompere (Be your Shadow). Anche lo stile peculiare con il quale i testi vengono scritti e poi incastrati sulla musica è lo stesso, e i fan di lunga data apprezzeranno.


Detto questo, però, iniziano i dolori. Evidentemente il buon Murph ha passato gran parte del suo viaggio nel Nuovo Mondo chiuso dentro locali vintage e feste nostalgiche: da un punto di vista delle sonorità il disco è diviso in due parti piuttosto nette, e le prime sei canzoni si collocano cronologicamente nella dance-pop tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila. Se i sintetizzatori di Give Me a Try e Be Your Shadow richiamano alla mente i suoni dell’Eurodance di Gigi D’Agostino e – perché no – a volte sconfinano nel trash di Gunther, Headspace e This is not a Party non possono non ricordare gli Eighties, con i loro arpeggi dal sapore analogico e i rullanti riverberati alla Billy Idol. Un discorso a parte lo meritano Give me a try e Greek Tragedy, smaccatamente à la Katy Perry nel tentativo di ammiccare a chi compila le classifiche delle radio Usa. Una lancia va spezzata però in favore della traccia 1, Emoticons, che denota in effetti una maggiore maturità compositiva se non altro nell’uso della voce.
Poi lì, in mezzo al disco, siede Isabel, a metà tra un’oasi di pace momentanea e uno spartiacque. Anche se forse un po’ derivativa (i Coldplay affiorano qua e là, senza parere) la canzone arriva al momento giusto per calmare gli animi e fermare la sudorazione, almeno per un po’. Se la si ascolta bene e con calma, diventa uno di quei pezzi che ti fanno venire voglia di affondare la faccia nei capelli di qualcuno e restare lì per qualche minuto, dimenticando quello che c’è intorno.
Però bisogna venire fuori da lì, perché dopo la tappa ricomincia il viaggio, e il paesaggio è cambiato. Nella seconda parte del disco i vombati si ricordano chi sono, ritirano fuori chitarra e basso e decidono di suonare un po’ più simili a come eravamo abituati a vederli. In una delle due bonus track, Flowerball, addirittura non si sente nemmeno un sospetto di elettronica.


Ritorna anche la vecchia dicotomia centro/periferia che anima loro, me e tutti i provinciali del mondo, e quando Murphy canta “Sometimes I like to go uptown/Where flashy people flash around” la mente corre subito al loro anthem per eccellenza, Let’s dance to Joy Division, e alla linea che recita “So if you’re ever feeling down, grab your purse and take a taxi/to the darkest side of town, that’s where we’ll be” che fa tanto proletariato, Tatcherismo e sindacati. La ballatona powerpop Pink lemonade è orecchiabile e danzereccia, e anche The English Summer tutto sommato diverte.
Peccato che i pezzi non siano ancora convincenti. L’impressione generale è che manchi un vero motore alla base della composizione, che le canzoni siano fondamentalmente delle marchette venute fuori benino perché i ragazzi sono bravi, ma vuote, senza ispirazione. Il punto più basso lo raggiunge Curveballs, che ad un orecchio disattento può andare bene come rumore di fondo, ma che a un esame più approfondito risulta essere priva d’intenzione e di senso come un romanzo di Valerio Massimo Manfredi.
Non so se ho interpretato bene i titoli degli album, ma mi sembra significativo che gli ultimi due lavori della band siano traducibili rispettivamente come “Questo errore moderno” e “Anomalia luccicante” (sia glitch che bug sono termini utilizzati in informatica per indicare un errore o un malfunzionamento), così come ancora più significativa è la scomparsa della dicitura “The Wombats proudly present” davanti al titolo dell’ultimo disco. I ragazzi di Liverpool vogliono scrollarsi di dosso l’aria da gente che suona alle feste a cui si gioca a beer-pong affibbiatagli con il primo disco, e forse hanno anche il talento per farlo; ma è già il secondo tentativo che falliscono, almeno in parte, e francamente non so quante vite siano loro rimaste in questo gioco.

Giovanni Ruggeri

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