SundayUp - Tame Impala: i dolori del giovane Parker (Currents, 2015)

Finalmente, dopo mesi di attesa e qualche settimana di ritardo, venerdì 17 luglio è uscito Currents, il terzo album in studio dei Tame Impala.
Con i due precedenti lavori, Innerspeaker e Lonerism, Kevin Parker – autore, produttore, arrangiatore e vera mente dietro al progetto – ci aveva abituato a un panorama musicale che, pur saccheggiando massicciamente gli stilemi del rock psichedelico di stampo Beatlesiano e 70’s, riusciva comunque a risultare molto più di un semplice esercizio di revivalismo. Il ventinovenne di Fremantle, Western Australia, è riuscito a sobbollire le sue influenze un po’ vintage in un manicaretto estremamente personale, con uno stile compositivo inconfondibile e tutto sommato efficacemente moderno, che ha consacrato i Tame Impala come la punta di diamante dello psych-rock contemporaneo. A livello espressivo poi, come si può intuire già dai titoli, i precedenti lavori aprivano una finestrella sull’universo privato di un Parker che usava la musica per ritirarsi dal mondo; ma per una migliore trattazione dell’argomento vi rimando alla bella recensione della mia collega Sofia Torre.

Quello che colpisce di Currents, invece, è la sua volontà di cesura con il passato. Tutto cambia nel nuovo disco, a partire dal sottinteso del titolo: se gli altri due erano ombelicalmente ripiegati su se stessi, l’ultimo già dal nome parla di abbandono al mondo, dello staccarsi finalmente dallo scoglio del sé per galleggiare sulle correnti dello spazio e del tempo, di un’apertura eraclitea al movimento al quale non ci si può in fondo opporre, se non per breve tempo e con scarsi risultati.
Anche il suono che esce dall’home studio della band vicino a Perth cambia radicalmente. Una massiccia e steroidea iniezione di sintetizzatori prende il posto degli strati di chitarre e dei fuzz grandi come elefanti che nei primi due dischi costituivano la struttura armonica delle canzoni – basti pensare che, in Currents, la chitarra compare non più di tre o quattro volte, e solo per brevi camei. Anche il basso, che soprattutto nel celebratissimo Lonerism svolge un ruolo molto melodico e si addobba quasi sempre di un fuzz armonico dal timbro inconfondibile, nel lavoro appena uscito ritorna ubbidiente al ruolo prettamente ritmico in cui il rock spesso lo relega, svestendo le distorsioni e martellando percussivo per costituire l’ossatura delle canzoni. Persino la batteria, pur sembrando sempre “analogica”, spesso adotta delle sonorità più pompate, elettroniche. La voce, infine, anche se indulgendo sempre nel falsetto che tanto bene riesce a Parker, si libera dei mille effetti che ne confondevano il corpo nei primi album, e spesso risuona apparentemente inalterata, più nuda, come se volesse mostrarsi a tutti per com’è.
Ed effettivamente questo disco è molto intimo. Molti l’hanno definito un “album di separazione”, nel senso che tutte le canzoni trattano in maniera più o meno evidente della fine di una relazione. È difficile non vederci un riverbero della recente rottura tra Parker e Melody Prochet dei francesi Melody’s Echo Chamber, ma come lo stesso autore ha specificato, il tema della separazione non è che una delle forze che guidano Currents.

Kevin Parker
Come si è già detto un’altra fonte d’ispirazione, probabilmente la principale, è la riflessione sul cambiamento. Emblematica, da questo punto di vista, è la scelta di mettere al primo posto della tracklist il singolo Let it Happen, forse il passo più lungo compiuto dalla gamba dei Tame Impala in questo album. Let it Happen è la splendida mela che cade lontano dall’albero, il pezzo che più di tutti si differenzia dalla produzione precedente, eppure resta inconfondibilmente dentro a quella cifra stilistica – e non solo, è anche tra i meglio riusciti di tutto il disco. È la canzone che dà il via al viaggio sciamanico di Kevin Parker dentro se stesso, viaggio che sarà composto da diverse fasi e che alla fine vedrà riemergere un Parker diverso da quello che era partito, eppure sostanzialmente ancora la stessa persona. In un certo senso il pezzo è un riassunto del percorso che, per intero, viene raccontato attraverso l’album, i cui diversi momenti sono ben identificabili nella canzone: dopo la prima strofa, l’effetto “subacqueo” a 0:50 sembra voler dire che in quel punto inizia l’immersione del protagonista nel proprio profondo; il loop nel quale a un certo punto entra il sintetizzatore potrebbe essere un momento di difficoltà o di stallo sul sentiero del cambiamento; l’outro, infine, con il ritorno (caso quasi unico nel disco) della chitarra distorta che si unisce all’elettronica per formare la melodia, può rappresentare la riconciliazione con la vecchia identità (la chitarra) all’interno di una nuova consapevolezza (il sintetizzatore comunque ben presente).

Al secondo posto c’è Nangs, che nello slang di Perth indica i palloncini riempiti di gas esilarante usato come droga ricreativa da alcuni circoli post-hippie (e non solo) in Australia, Usa e Uk. Un minuto e cinquanta secondi di interludio trippy, in cui la voce ripete ossessivamente una sola cosa, “But there is something more than that”: non riesco a non pensare al momento iniziale del viaggio sintetizzato nella canzone precedente, quando Parker l’artista si ritrova intrappolato in un genere (lo psych-rock, che potrebbe essere rappresentato dalla droga di cui sono pieni i nangs) e si chiede se non c’è nient’altro a cui può aspirare, assetato di una svolta creativa. Svolta che arriverà proprio con Currents.
Dalla track 3 alla 8 tutte le canzoni parlano, con toni più o meno disperati, della fine di un rapporto. The Moment, Yes I’m Changing – un manifesto d’intenti già dal titolo – , Eventually (per ammissione dello stesso compositore il vero cuore emotivo del disco, un singolone strappalacrime estremamente intenso), Gossip e The Less I Know, the Better raccontano di una persona alle prese con l’abbandono da parte dell’altro e con il cambiamento in se stessa. Improvvisamente però, a partire dalla numero 8 Past Life, la prospettiva si rovescia: la voce narrante, qui pesantemente effettata, incontra dopo anni di distanza una vecchia fiamma mai dimenticata. 


La relazione, mentre prima è raccontata nel momento in cui viene troncata, in questa canzone è vista da un punto molto più in là sulla linea del tempo rispetto alla rottura effettiva. Allo stesso modo, nella successiva Disciples, non è il protagonista che cambia, ma l’altra metà della coppia (And I had no idea/what that feeling could do to you/And I could tell you changed/By the people around you), mentre nella splendida ’Cause I’m a Man il falsetto di Parker non è la vittima, la parte che subisce la crisi della storia, ma quella che si scusa per il dolore causato dalle proprie azioni, determinate da una forma mentis fondamentalmente maschile: “Non posso accettare la sconfitta e lasciar correre/Non ho voce se non penso con la mia testa/La mia debolezza è la fonte di tutto il mio orgoglio”. Ma alla fine si riconosce anche un fondo comune a tutta l’umanità, al di là delle differenze di genere: “Ma sono un essere umano, donna/E rispondo a una forza più grande”.
Per finire, il disco si chiude con New Person, Same Old Mistakes, forse la canzone più densa di tutto l’album. La struttura si svolge intorno a un solo riff di basso, ripreso dalla voce, che resta sempre sullo sfondo, ipnotico, per tutta la durata del pezzo. Scompare solo nel ponte, nel quale lo scintillante arpeggio di sintetizzatore sprizza psichedelia ad ogni nota. In più, come lo stesso autore fa notare nel corso di un’intervista, in questa traccia il testo si unisce al metatesto, mettendo le mani avanti a proteggersi dalle critiche degli zeloti dello psych-rock che gli avrebbero rimproverato di essersi “venduto” – al mercato, all’elettronica o a chissà che altro: I can just hear them now/”How could you let us down”, ma anche I know that you think it’s fake/Maybe fake’s what I like.


Con New Person, Same Old Mistakes si chiude una parabola artistica che ricorda per certi versi un romanzo di formazione ottocentesco: Currents è I dolori del giovane Werther per i Tame Impala, una storia di stallo, necessità che diventa urgenza, decisioni drastiche e rischi da correre, grosse scommesse con il futuro, percorsi di purificazione tra le fiamme e infine rinascita come fenice, uguale eppure diversa, più forte, più bella. I fan di Tolkien ci ritroveranno echi del passaggio di Gandalf da grigio a bianco (a me è venuto spontaneo pensarci). Sta di fatto che questa è una strada che tutti dobbiamo percorrere, prima o poi; per chi non ce la fa la pena è l’immobilismo, e alla fine la morte.

Giovanni Ruggeri 

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