#ijf15 - Processo ai talk show

Era un lunedì sera quando, corsi i titoli di coda lungo lo schermo della tv, gli spettatori sintonizzati su Rai 1 il 18 ottobre del 1976 vennero sorpresi dalla sigla di un nuovo programma. Una musichetta senza troppe pretese e una didascalia: “IN DIRETTA DALLO STUDIO 11 DI ROMA - BONTA’ LORO” (sì proprio con l’apostrofo, non è un refuso). Tre semplici poltrone per gli ospiti ed uno sgabello per il conduttore Maurizio Costanzo: aveva inizio la storia del talk show italiano. Il programma ebbe vita breve, solo due stagioni, ma Costanzo ritentò il format fino ad ottenerne nel 1981 la versione indimenticabile: il Maurizio Costanzo Show, in onda su Retequattro. Chiunque poteva ritagliarsi uno spazio all’interno del programma (nella prima puntata tra gli ospiti c’era un idraulico), conquistarsi il proprio momento di gloria, rischiare una gaffe, litigare e rispondere alle domande del presentatore. Lo spettacolo catturava l’attenzione del pubblico grazie al giusto equilibrio tra information ed entertainment, quell’equilibrio che darà vita al neologismo coniato dagli studiosi di comunicazione “infotainment”. Oltre ai personaggi del mondo dello spettacolo, attori, registi, comici, cantanti, a divenire presenza fissa a questi appuntamenti fu la specifica figura del politico. Basta con il politichese di Tribuna elettorale (poi Tribuna politica), basta con l’indottrinamento, basta con l’ideologia politica d’elite. I tempi erano maturi affinché i volti dei politici cambiassero, il loro atteggiamento mutasse e la campagna elettorale permanente iniziasse a giocarsi proprio negli studi televisivi.


Dopo 39 anni oggi si contano in televisione ben 19 talk show, di questi, la maggior parte in mano alla rete privata La7. Agorà, Ballarò, L’aria che tira, Piazzapulita, Quinta ColonnaCoffee Break… chi non ne ha mai visto almeno una puntata? Cosa sarebbe la tv senza i talk show? Sarebbe strano svegliarsi una mattina e scoprire che siano stati cancellati da tutti i palinsesti. Eppure siamo tutti stanchi di sentire sempre le stesse voci urlarsi addosso, la Santanchè che litiga con Cacciari, Salvini che discute con Alfano, la Mussolini contro tutti… o forse no? Qui sta il motivo del contendere: l’audience è talmente importante da determinare la durata di un programma, ma non sempre il pubblico privilegia la qualità. 

Sono serviti sei speaker per tentare di venirne a capo durante il panel “Processo ai talk show”, al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia: da un lato l’opposizione era rappresentata da Selvaggia Lucarelli e Filippo Facci, dall’altro la difesa da Corrado Formigli e Marianna Aprile; testimone Francesco Caldarola e moderatore Alessio Viola. 
Secondo l’accusa, la colpa dell’abbassamento di tono dei talk è tutta da imputare al format stesso: sono i programmi a dettare le regole degli ascolti, sostiene Facci, e non il contrario. Quindi è compito degli addetti ai lavori cercare di riportare in primo piano l’information. Facci cade però un un facile tranello e si contraddice presentando poi come prova 19.40 di Floris: un “programma che aveva tutti gli elementi necessari per fare informazione”, eppure ha chiuso subito. Quindi se fosse vero che i programmi dettano le regole degli ascolti, 19.40 avrebbe dovuto spopolare.
La difesa garantisce che l’audience non è certo l’unico criterio di selezione per i contenuti di un programma, altrimenti non ci rimarrebbe altro che tv spazzatura. D’altro canto, Formigli stesso, volto di Piazzapulita, ammette che potendo evitare di sottostare alle regole dell’audience si dedicherebbe maggiormente alla politica estera, ambito coraggiosamente affrontato durante la prima puntata di questa stagione, aperta con un servizio sull’ISIS. Una grande verità, sollevata da Marianna Aprile, è data dal fatto che spesso gli spettatori arrivano davanti alla tv già stanchi dalla lunga giornata lavorativa e non hanno davvero voglia di farsi educare. In sostanza: le solite facce fanno aumentare gli ascolti e “in tv fa più scalpore la litigata che un bel servizio”, per usare le parole di Caldaroli. 

Sembra non se ne possa venire a capo. Il rompicapo “è il pubblico che determina i contenuti o viceversa”, is the new “è nato prima l’uovo o la gallina”. Ad esclusione di pareri prettamente personali, tanti luoghi comuni ed ipocrisie, si scorge poco altro all’orizzonte. A fare il processo al talk show sono le stesse persone che succhiano linfa vitale al digitale.
Solo sul finale, Formigli illumina con parole profetiche: “Il sale del talk show è rappresentare l’opposizione senza rinunciare alla mediazione giornalistica. Alla disintermediazione dei politici come Renzi e Salvini, che impongono l’agenda, bisogna contrapporre la mediazione giornalistica con storie e domande scomode. E se il rischio è quello di non far più venire Salvini in trasmissione, bisogna correrlo. Bisogna costruire un argine professionale. Perciò è un atteggiamento sbagliato quello di imporre al pubblico un determinato argomento, è un atteggiamento da Pravda”.


L’ego te absolvo del pubblico in Sala dei Notari echeggia: talk show vai in pace, Costanzo un po’ ci manchi.

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