L'Afghanistan dopo Karzai

Il 22 settembre scorso l’Afghanistan ha finalmente potuto indicare come nuovo Presidente della Repubblica Ashraf Ghani. Finalmente perché era da quasi dieci anni che Hamid Karzai ricopriva tale ruolo (senza contare il periodo in cui era stato nominato Presidente “facente funzioni” tra il 2001 e il 2004, subito dopo l’invasione statunitense) e finalmente anche perché il processo elettorale che ha portato a questa nomina è durato ben cinque mesi. Cinque mesi in cui gli afgani e la comunità internazionale hanno dovuto assistere ad una lunga sequela di tensioni, litigi, accuse di brogli (oltreché di brogli reali), ma anche ad un ballottaggio, a nuovi litigi e nuove accuse e pure ad un riconteggio delle schede del ballottaggio. Atto finale di questa sfiancante guerra politica intestina è stato un accordo di condivisione del potere tra Ghani e il suo principale sfidante arrivato secondo al ballottaggio di giugno, Abdullah Abdullah.

Ghani, Karzai e Abdullah.

L’accordo Abdullah-Ghani, larghe intese in salsa afgana

Al primo turno delle presidenziali, svoltosi il 5 aprile, Ghani aveva raccolto poco più del 30% delle preferenze pur provenendo dall’etnia principale dell’Afghanistan, i pashtun, contro il 45% di Abdullah (che si era già presentato alle presidenziali del 2009 ma era stato pesantemente battuto da Karzai in un’elezione segnata, ancora una volta, da scandali e brogli). Abdullah aveva ottenuto molti voti in tutto il paese e soprattutto nelle aree storicamente più lontane da Kabul e dal Pashtunistan – un’area abitata prevalentemente da pashtun e che si estende fra l’Afghanistan meridionale e il Pakistan nord-occidentale – e per evitare problemi con le altre etnie, di recente aveva stretto molte alleanze con numerosi candidati pashtun. Ma nonostante il successo personale e gli accordi siglati da Abdullah, i risultati del ballottaggio del 14 giugno hanno visto Ghani scavalcare nettamente il suo rivale, imponendosi con il 56% e una differenza di circa un milione dei voti. Alcuni analisti hanno perciò fatto notare che in Afghanistan, de facto, la carica di Presidente è riservata ad un pashtun. 

Nel periodo che va da giugno a settembre i due candidati hanno continuato a litigare, ad accusarsi reciprocamente di brogli e ad evitare di trovare un accordo, mentre gli afghani, stanchi e delusi, stavano ad osservare la schermaglia, la comunità internazionale cercava di far sedere entrambi i contendenti ad uno stesso tavolo e l’ONU soprintendeva al riconteggio delle schede elettorali che avrebbe poi indicato in Ghani il vincitore.

Il passo fondamentale per giungere a questa nomina è stato l’accordo di condivisione del potere siglato fra Abdullah e Ghani stesso e fortemente voluto dall’amministrazione statunitense. Questo accordo ha dato vita ad un governo di unità nazionale creando l’inedito ruolo di Chief Executive Officer – tradotto in italiano con “amministrato delegato” – che da molti osservatori è stato paragonato a quello di un Primo ministro. Sempre secondo l’accordo, al governo Ghani potranno prendere parte anche il Chief Executive Officer e i suoi due vice; Abdullah avrà voce in capitolo nella nomina di due ministeri chiave come quello della sicurezza e dell’economia (incarico, quest’ultimo, ricoperto da Ghani nella breve esperienza del primo governo Karzai). Formalmente l’amministratore delegato avrà il compito di mettere in pratica le politiche del gabinetto del Presidente, rispondendo solo a lui del suo operato. 
Il problema principale resta però la cornice istituzionale nella quale dovrebbe collocarsi questa nuova figura. L’Afghanistan infatti non ha un Primo ministro vero e proprio dal 1996 ed è forte il timore che il paese si spacchi per l’incapacità di reggere il peso di due uomini forti al potere contemporaneamente, seppure per due cariche differenti. 
La situazione è ulteriormente complicata dalla tempistica e dalle modalità con cui si dovrebbe sancire la nascita di questo nuovo ruolo. Difatti, nell’accordo tra Abdullah e Ghani si specifica che la carica di Chief Executive Officer comincerà a “transitare” verso quella di Primo ministro tramite la convocazione, entro due anni, di una loya jirga1 costituzionale che avrà il compito di definire nei dettagli quali saranno i poteri e i limiti della nuova figura politica. L’iter istituzionale prevedrebbe poi una ratifica, sempre da parte della loya jirga, dei cambiamenti apportati alla Costituzione e infine le dimissioni del vecchio Parlamento, configurato ancora con le vecchie regole, e le indizioni di una tornata elettorale. “Il problema”, nota il giornalista Frud Bezhan2 di Radio Free Europe: “È che una loya jirga costituzionale può essere convocata solo in presenza di consigli distrettuali eletti”, una precondizione che non si è ancora verificata. Inoltre, il Presidente ha potere di nomina sui membri della loya jirga e, volendo pensar male, viene da chiedersi se Ghani, tramite questa prerogativa, saprà resistere alla tentazione di orientare le decisioni dell’assemblea in un senso a sé più favorevole. 
I primi segnali che giungono dalla cerimonia di insediamento di Ghani e che parlano di un Abdullah furioso (non gli sarebbe stato permesso di parlare durante l’evento e sono stati pubblicati i risultati delle elezioni violando gli accordi precedentemente siglati) non fanno ben sperare per il futuro di questa strana convivenza.

L’erba cattiva non muore mai
Nonostante gli Stati Uniti abbiano speso circa 7,6 miliardi di dollari per sradicare le coltivazioni di oppio dal territorio afgano gli sforzi della comunità internazionale nella lotta al narcotraffico sembrano essere smentiti dai risultati osservabili sul campo. Se il raccolto di papavero del 2013 aveva già registrato un record (209mila ettari coltivati contro i 154mila del 2012 e i 193mila del 2007, un’altra annata che aveva toccato livelli mai raggiunti prima), il 2014 non è stato da meno, arrivando a sfiorare i 224mila ettari di estensione. L’oppio, con i suoi 3 miliardi di ricavi nel 2013, finanzia il narcotraffico e la guerriglia talebana, generando così un circolo vizioso che alimenta altri grandi mali del paese: la corruzione e il conflitto.
Non bisogna poi dimenticare che, anche se le principali rotte della droga conducono all’estero (soprattutto verso Russia, Iran, Europa ma, grazie al porto pakistano di Karachi, perfino verso l’Africa centrale e il Sud-est asiatico), è presente una quota di consumo interno non indifferente. Difatti si stima che almeno 1,3 milioni di afgani siano consumatori abituali di droga, in forte crescita rispetto agli anni passati.

Come la pensa il Mullah Omar
Mai del tutto domati e sempre pronti a colpire, gli insorgenti (etichetta sotto la quale trova spazio un ampio ventaglio di
gruppi armati: le milizie talebane, la rete Haqqani, i Tehrik-i-Taliban pakistani, elementi di Al-qaeda e altri ancora) hanno di recente assestato alcuni gravi colpi alle forze di sicurezza internazionali e afgane. Col progressivo ridursi della presenza militare straniera – da sempre obbiettivo privilegiato della guerriglia – gli insurgents locali hanno dovuto ripiegare sugli attacchi green on blue, ovverosia attentati rivolti al personale USA o ISAF impegnato ad addestrare le forze di polizia o dell’esercito afgano. Il caso più grave ha riguardato il vice-comandante del Combined Security Transition Command, il generale dell’Us Army Harold Greene, lo scorso 5 agosto, ucciso da un membro dell’ANP (Afghan National Police) mentre visitava Camp Qargha, a Kabul. 
Simili attacchi a volte sono condotti contro quelli che dovrebbero essere i propri commilitoni da infiltrati degli insurgents o da aspiranti tali (recentemente un kamikaze è quasi riuscito ad uccidere il comandante della polizia di Kabul, facendosi esplodere a poca distanza dal suo ufficio; lo stesso comandante si è dimesso poche settimane dopo l’attentato, per il deteriorarsi della sicurezza nella capitale). 
Com’è noto ISAF e Stati Uniti stanno abbandonando le loro basi nel paese; nel farlo cedono tutti i poteri e le responsabilità alle forze locali (meno di un mese fa le truppe britanniche e statunitensi hanno lasciato le grandi basi dell’Helmand, una delle regioni più delicate dal punto di vista della presenza talebana e dell’oppio, che proprio nell’Helmand vede produrre la metà del raccolto dell’intero paese3). 

Questa decisione però, se ha comportato la necessità per le forze afgane di riorientare il proprio ruolo in senso più proattivo, ha significato anche un inevitabile aumento del 90% delle perdite tra i membri delle ANSF (Afghan National Security Forces), molto numerose e più presenti del passato sul territorio e nelle operazioni militari. Unitamente ad altri fattori, correlati alla scarsità di nuove leve e di quadri superiori ben addestrati, tutto ciò produce continue defezioni che minano le già precarie forze armate afgane.
Se la crisi politica incombente dovesse tramutarsi in realtà, nessuno può prevedere quale sarebbe il destino dell’esercito e della polizia, che oggi contano su ben 352mila uomini. Lo scenario più fosco prefigura una loro frantumazione su linee etniche, una dispersione dell’equipaggiamento e dell’addestramento (forniti in larga parte dagli alleati occidentali) e un ritorno alla guerra civile che devastò l’Afghanistan per quasi un decennio. Insomma, uno scenario molto simile a quanto sta accadendo in Iraq con le milizie dell’ISIS.
Non bisogna dimenticare neppure che l’azione degli insorgenti continua ad abbattersi come una scure oscurantista anche sulla popolazione, come ad esempio nella provincia di Nangarhar dove, come atto di ritorsione per l’arresto di due loro militanti, i talebani hanno fatto chiudere 28 fra scuole ed istituti educativi, costringendo così 20mila studenti a rimanere a casa. O come nella provincia di Paktika quando, meno di un mese fa, un kamikaze a bordo di una moto si è fatto esplodere durante una partita di pallavolo, uccidendo più di cinquanta persone e ferendone una sessantina

Se la crisi politica incombente dovesse tramutarsi in realtà, nessuno può prevedere quale sarebbe il destino dell’esercito e della polizia, che oggi contano su ben 352mila uomini. Lo scenario più fosco prefigura una loro frantumazione su linee etniche, una dispersione dell’equipaggiamento e dell’addestramento (forniti in larga parte dagli alleati occidentali) e un ritorno alla guerra civile che devastò l’Afghanistan per quasi un decennio. Insomma, uno scenario molto simile a quanto sta accadendo in Iraq con le milizie dell’ISIS.
Non bisogna dimenticare neppure che l’azione degli insorgenti continua ad abbattersi come una scure oscurantista anche sulla popolazione, come ad esempio nella provincia di Nangarhar dove, come atto di ritorsione per l’arresto di due loro militanti, i talebani hanno fatto chiudere 28 fra scuole ed istituti educativi, costringendo così 20mila studenti a rimanere a casa. O come nella provincia di Paktika quando, meno di un mese fa, un kamikaze a bordo di una moto si è fatto esplodere durante una partita di pallavolo, uccidendo più di cinquanta persone e ferendone una sessantina


La realtà è che questa è una guerra che nessuno dei due contendenti può sperare di vincere con le armi, sul campo. I talebani non sono abbastanza armati e addestrati, un confronto diretto con ISAF li vedrà sempre sconfitti e inoltre non hanno l’appoggio di tutta la popolazione afgana. Però sono combattenti esperti, conoscono bene il territorio in cui si muovono e sono foraggiati dal Pakistan e da molti Stati del Golfo. Nello schieramento opposto, la coalizione internazionale e le forze di sicurezza locali sono poco motivate, frammentate lungo linee etnico-tribali, afflitte dalla diserzione cronica, spesso corrotte e infiltrate dai terroristi ma sono anche numericamente superiori e dotate di quella potenza militare che agli insurgents è sempre mancata. Una situazione di sostanziale stallo nella quale nessuno dei due contendenti sembra in grado di prevalere.
Fino ad oggi, dopo più di dieci anni dall’inizio dell’invasione statunitense dell’Afghanistan, il solo ricorso alle armi non pare abbia fatto emergere una fazione la cui vittoria sia chiara e incontestabile. Del resto, però, la strada dei colloqui di pace tentata dagli USA e dall’iperattivo Qatar (e sempre osteggiata da Karzai e da alcune fazioni degli insurgents), finora non sembra abbia portato a risultati apprezzabili. Ghani e Abdullah vorranno unirsi a quel percorso? E se sì, quali condizioni porranno ai rappresentanti del Mullah Omar e dell’amministrazione statunitense? 

Re
solute Support, BSA e AfPak
Subito dopo la sua elezione, il nuovo Presidente dell’Afghanistan – chiunque esso fosse stato – sapeva già di avere un importante impegno ad attenderlo. Infatti uno scottante documento attendeva la sua firma.
È già da parecchi anni che si parla apertamente della necessità di prolungare la missione ISAF anche oltre la scadenza di fine 2014 che la NATO e gli USA si erano precedentemente dati. Questo nonostante il fatto che gli alleati e l’opinione pubblica siano stanchi di una guerra a bassa intensità che non pare sul punto di concludersi. Al contempo il governo e le forze armate afghane, come già detto sopra, difficilmente riuscirebbero a mantenere l’ordine nel paese (basti pensare che le sole ANA e ANP costano 4 miliardi all’anno e che il governo afgano riesce a contribuire a tale cifra con appena 500 milioni) senza l’appoggio delle truppe occidentali. Per questo motivo, da gennaio 2015, entrerà in funzione la nuova missione della NATO, Resolute Support, che dovrà sostituire ISAF e che comprenderà personale tanto statunitense quanto europeo (per l’Italia, un recente rapporto del Centro Studi Internazionali, parla di un contingente di 800-1.000 uomini).

Originariamente tale missione non doveva più prevedere una funzione “combat” per gli occidentali, ovverosia di ingaggio diretto col nemico sul territorio. Resolute Support, infatti, come si evince già dal nome, aveva il compito di proseguire l’addestramento delle forze armate locali; l’attività bellica doveva limitarsi a dare la caccia agli elementi di Al Qaeda rimasti in Afghanistan; un compito, quest’ultimo, simile a quello che aveva dato il via all’Operazione Enduring Freedom nel 2001. Questi per l’appunto i piani originari. Il 2014 è però stato un anno impegnativo per la politica interna ed estera dell’amministrazione Obama: l’avanzata vittoriosa dell’ISIS in Iraq e Siria e di Putin in Ucraina, le controrivoluzioni la dove era passata la Primavera araba. Le cose non sono andate meglio in casa, dove i repubblicani hanno conquistato entrambi i rami del congresso con le elezioni di midterm dello scorso novembre. Il Pentagono, del resto, non ha mai nascosto troppo accuratamente le sue antipatie per un Presidente considerato troppo morbido con i nemici della nazione. Ci è voluto quindi molto poco a modificare i compiti attribuiti alle truppe di Resolute Support. Ciò significa che, da gennaio 2015 e fino a dicembre 2016 (il termine di RS è stato fissato nel 2017), i 9.800 militari statunitensi che rimarranno in Afghanistan riprenderanno ad affiancare in prima linea le truppe locali, per qualsiasi tipo di combattimento.E questo ci riporta all’importante documento che attendeva la firma del nuovo Presidente dell’Afghanistan. Ghani non si è fatto attendere e, il 30 settembre 2014, appena un giorno dopo il suo insediamento, ha siglato l’accordo bilaterale di sicurezza (Bilateral Security Agreement, BSA) che permetterà alle truppe statunitensi di rimanere nel paese anche dopo il 2014. Il 23 novembre anche la Camera bassa (la wolesi jirga) ha ratificato tali accordi4 mentre un secondo accordo è stato siglato con le forze della NATO. Il BSA è servito a dare una copertura legale all’intera operazione: la parte più controversa riguarda la copertura legale dei soldati occidentali che compiano un reato su territorio afghano a danno di cittadini afghani e che, proprio in base all’accordo firmato da Ghani, saranno giudicati dai paesi di provenienza e non da un tribunale locale. Sempre grazie al BSA saranno riconfermati gli aiuti economici (16 miliardi di dollari all’anno fino al 2017) da parte dei donatori esteri, volti a rafforzare l’assistenza militare e la ricostruzione del paese.
Infine il Pakistan, nel quale parte dell’establishment politico, militare e religioso è di fatto molto vicino ai talebani, che come sempre cerca di influenzare la politica interna afgana. Molti analisti vedono nell’elezioni di Ashraf Ghani l’ombra lunga di Islamabad e del suo potente servizio segreto, l’ISS. Ciò in spregio alla Costituzione del 2004 che, nelle intenzioni dei suoi redattori, doveva creare candidature imparziali e ripartite equamente fra le diverse etnie che compongono il paese. 


Ghani che, come già detto, è di etnia pashtun come del resto oltre il 15% della popolazione pakistane (una cifra che ne fa il secondo gruppo etnico del paese e il primo in diverse province, soprattutto quelle nelle vicinanze al confine con l’Afghanistan), potrebbe rappresentare la migliore garanzia per Islamabad: la sua influenza sull’instabile vicino rimarrà inalterata.
Ghani, ha già compiuto la sua prima visita ufficiale nelle vesti di neo Presidente: il 14 novembre si è recato sia dal Primo ministro Nawaz Sharif sia dal capo dell’esercito pakistano Raheel Sharif, col quale ha parlato di migliorare la cooperazione militare. Il giorno prima si erano invece incontrati i ministri delle finanze dei due paesi per aumentare il volume degli scambi commerciali nell’area5. Ma gli altri vecchi alleati dell’ISS, i talebani, cosa faranno quando anche Resolute Support terminerà e la loro campagna militare dovesse avere successo? Considerato che un’ampia regione del Pakistan nord orientale – in particolare le cosiddette FATA (Federally Administered Tribal Areas) – è stata ormai sottratta al potere centrale, cosa impedirebbe a quella zona che oggi viene denominata AfPak per la sua sorprendente omogeneità, di staccarsi rispettivamente da Kabul e da Islamabad e di divenire a tutti gli effetti il tanto agognato Pasthunistan?

Marco Colombo

1 Una grande assemblea dei rappresentanti dell’intero popolo afgano con la quale si prendono le decisioni più importanti per il paese (come ad esempio la nomina di un nuovo Capo di Stato, oppure l’approvazione della Costituzione o la sua modifica).
2 Internazionale 1070, 26/9/2014, p. 30.
3 Internazionale del 31 ottobre 2014, n. 1075, pag. 33.
4 Internazionale del 28 novembre 2014, n. 1079, pag. 21.
5 Internazionale del 21 novembre 2014, n. 1078, pag. 31.

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