L’Iraq
non ha mai avuto una storia facile alle sue spalle né un cammino
agevole di fronte a sé: paese ricchissimo di risorse ma, come per
molti altri territori nati dalla spartizione coloniale del XX secolo,
privo di un’idea di nazione e tantomeno di una storia comune che
fungesse da collante alle diverse anime presenti nell’area e
artificialmente affratellate dentro confini tracciati col righello:
curdi a nord-est, sunniti al centro e sciiti ad ovest. Diversità di
fondo che non impedirono alle varie comunità nazionali, tenute
assieme e guidate da Saddam Hussein (un sunnita) per più di
vent’anni, di essere schierate di volta in volta contro i “nemici”
dell’Iraq, come accadde per l’Iran sciita degli Ayatollah (guerra
del 1980-1988) o per il Kuwait sunnita (prima guerra del Golfo,
1990-1991).
Al
contrario di quanto fu fatto in Italia dopo la Seconda guerra
mondiale, con la caduta del dittatore Saddam (nel 2003) non si tentò
di limitare il ritorno al potere del classico “uomo forte”
rafforzando il potere legislativo a scapito del capo dell’esecutivo
e così oggi l’Iraq si ritrova seduto sullo scranno più alto e
importante Nuri al Maliki, uscito vittorioso dalle elezioni del 2006,
appartenente alla minoranza sciita e desideroso di rilanciare il
proprio paese agli occhi degli investitori internazionali, questo
nonostante le recrudescenze negli attacchi terroristici e la
corruzione dilagante ad ogni livello (tanto da essere collocato
dall’indice di percezione della corruzione di Transparency
International al settimo posto e quindi tra i paesi più corrotti almondo.
Ma,
come al solito, è necessario fare uno sforzo in più per comprendere
la realtà della regione, le sue dinamiche e per non appiattirsi su
facili riduzionismi nel tentativo di dividere i buoni dai cattivi, il
bianco dal nero. Se
nel 2011 infatti le proteste scoppiate sull’onda della Primavera
araba avevano
visto un netto coinvolgimento sia della capitale sia delle province
sciite meridionali, oggi nella provincia occidentale di Al Anbar, a
contrastare i gruppi terroristi sono soprattutto le milizie sunnite
locali, che si rifanno alle linee tribali di quelle zone. Si
tratterebbe forse di timidi segnali di una specie di patriottismo
“all’irachena”? In realtà tutto potrebbe spiegarsi col
convincimento, da parte delle comunità locali, che il governo di
Baghdad per il momento sia il male minore rispetto ai jihadisti,
mentre le proteste di due anni fa - nelle quali folta era la
rappresentanza dell’élite intellettuale irachena - erano motivate
dalla consapevolezza che solo un’effettiva rappresentanza della
comunità sunnita negli organi di governo del paese poteva evitare
un’evoluzione ben peggiore.
Parlando
di Al Anbar è impossibile non ricordare che questa provincia si
trova proprio al confine con la Siria, da sempre affetto da una
notevole porosità nei confronti del regime di Damasco; regime che,
nel corso del dopo-Saddam, non è stato immune dal sospetto di
fungere da finanziatore occulto per alcune formazioni di ex baatisti che periodicamente compivano (e probabilmente tuttora compiono)
attentati volti a destabilizzare il paese.
Nuri Al Maliki con Obama |
Con
lo scoppio della guerra civile in Siria tutto è cambiato: Al-qaeda
in Iraq, un gruppo fondamentalista locale che aveva visto la propria
forza e la propria importanza ridursi nel tempo, ha assunto il nuovo
nome di "Stato islamico in Iraq e nel Levante" (spesso abbreviato con
la sigla inglese di ISIS)
ed ha cominciato a sconfinare in terra siriana fino ad assumere
sempre più importanza in larghe parti del territorio siriano
dominato dai ribelli ostili al governo di Damasco. Ad ulteriore
riprova di come i confini, tracciati dai colonizzatori, in queste
zone siano poco più che linee tirate sulla carta, tra dicembre 2013
e gennaio 2014 l’ISIS è arrivato a conquistare alcuni quartieri
delle due principali città di Al Anbar: Falluja (teatro nel 2004 di
una dura battaglia durante la quale si è perfino parlato di alcun iattacchi condotti con il fosforo bianco) e Ramadi (dove appunto l’ISIS ha incontrato la resistenza delle
locali milizie tribali a cui si accennava poco sopra nell’articolo).
Stretto
fra la necessità di reprimere la rivolta e di evitare al contempo di
fomentare ulteriori sentimenti avversi al proprio governo (rischiando
così di spingere le milizie tribali tra le braccia dei terroristi),
al Maliki ha per ora cercato di limitare le azioni militari di terra.
Gli Stati Uniti (pur non facendo mancare i dubbi sull’attuale
Primo ministro iracheno, ritenuto troppo amichevole nei confronti di
quell’Iran che Bush figlio non aveva esitato ad inserire
nell’elenco degli “Stati canaglia") non sono stati a guardare e
hanno nel frattempo rimesso mano al portafogli e gli aiuti militari
all’Iraq sono affluiti verso Baghdad, mentre il Congresso
autorizzava la vendita di elicotteri Apache e di caccia F-16 che
potrebbero essere utilizzati per reprimere nuove insurrezioni.
Milizie dell'ISIS |
Ancora
una volta, tramite l’esempio dell’Iraq, ci accorgiamo di come sia
difficile (oggi più di ieri) contenere una guerra all’interno dei
confini del paese nel quale essa è scoppiata. Non è nemmeno da
escludere che questi eventi rientrino in una più ampia strategia del
regime di Assad di traslare le rivolte popolari iniziate nel suo
paese ad un livello regionale, continuando ad esercitare parte di
quel controllo e di quella influenza che deteneva sui gruppi
terroristi utilizzati in Iraq dopo l’invasione americana del 2003.
Il
conflitto in Siria ha agito come una tanica di benzina gettata su di
un incendio che stava (forse) avviandosi verso la sua estinzione. I
problemi dell’Iraq ovviamente erano già molti e complessi ben
prima dei moti di piazza del 2011 ad Homs, Damasco, Aleppo… ma è
evidente come le rivendicazioni insoddisfatte dell’elettorato
iracheno sunnita, il più generale fallimento della democratizzazione
irachena, l’incapacità di giungere ad una risoluzione della
tragedia siriana e il continuo trascinarsi di questo stesso conflitto
siano tutti fattori che hanno permesso agli elementi più abili e
abituati a muoversi in tali frangenti a sfruttare questa situazione a
proprio vantaggio e ad esacerbare ulteriormente le violenze della
zona.
Marco Colombo
(qui la prima parte sulla Siria)
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