Mi è già capitato di soffermarmi sul
complicato rapporto del Partito Democratico con i suoi leader negli
ultimi dodici mesi e mi sembra giunto il
momento di chiudere questo ideale cerchio.
L'occasione è particolarmente propizia
visto che nelle ultime settimane si sono aperti accesi dibattiti
interni al partito riguardo ad una presunta gestione eccessivamente
accentratrice e personalistica del segretario e presidente del
consiglio Matteo Renzi. L'ex sindaco di Firenze è accusato di
bonapartismo dalla corrente minoritaria (che fino a pochi mesi fa era
maggioritaria) del PD che fa capo allo sconfitto delle primarie
Gianni Cuperlo e a all'ex viceministro dell'economia Stefano Fassina.
Anche l'altro perdente nella corsa alla poltrona di segretario Civati
non ha lesinato critiche da questo punto di vista e si trova in una
posizione di aperto dissenso con la strada intrapresa dalla
direzione. Sostanzialmente il decisionismo renziano turba e
infastidisce molte personalità di spicco all'interno del partito,
contrariate dal dovere accettare a scatola chiusa le riforme
elaborate dal suo staff (come nel caso del Job Act) o negoziate con
forze politiche ostili (come la riforma elettorale). Alcuni invocano
la necessità di maggiore dialogo e dialettica interna su temi così
rilevanti. Inoltre questa fazione contestatrice (quella che
fondamentalmente è uscita con le ossa rotte dalla sfida delle
primarie) è ancora piuttosto ancorata ai paradigmi in materia di
politica economica, di mercato del lavoro, di strategia e
comunicazione che hanno contraddistinto la visione politica del PD
negli ultimi tempi. In poche parole tutto ciò che Renzi vuole
rottamare. Insomma una certa parte del partito disapprova
veementemente tanto il metodo quanto la sostanza di questo nuovo
corso all'insegna di umorismo toscano e presentazioni in Power
Point.
A tal proposito da qualche giorno è
tornato in ballo un dilemma che mi sembrava essere stato
fortunatamente seppellito dal corso degli eventi: “È giusto che la
stessa persona possa ricoprire la carica di segretario del PD e
premier contemporaneamente?”. Se ne è sentito parlare fin troppo
all’alba delle primarie e questo quesito all’epoca ha dato adito
ad elucubrazioni contorte e platealmente marginali di cui di certo
non ha beneficiato la reputazione del partito agli occhi
dell’opinione pubblica. Naturalmente la domanda è pertinente con
il tema del rapporto partito-leader. La concentrazione delle due
figure attribuisce un’autorevolezza e spazio di manovra notevole a
Matteo Renzi.
Mi pareva appunto che la coincidenza
quasi fortuita delle due cariche nella medesima persona avesse quanto
meno fugato questi dubbi. L’opinabile avvicendamento tra
democratici ha permesso di superare le assurde incomprensioni che
avevano segnato l’ultima fase dell’esecutivo targato Letta.
Ma come vanno le cose nel resto dei
maggiori partiti dei paesi europei? Esiste questa divisione dei ruoli
tra capo di partito e capo di governo (o candidato premier)? Per
esempio in Gran Bretagna, sia nel caso dei laburisti che nel caso dei
conservatori, non esiste e il leader del partito coincide con il
primo ministro o con la figura istituzionalizzata nel sistema
politico britannico del primo ministro ombra. Lo stesso discorso vale
per la Spagna sia nei Popolari che nei Socialisti. In Germania invece
i due partiti si distinguono in questo senso con l’accentramento
formalizzato nel caso della CDU della Merkel e sporadico per i
socialdemocratici. In Francia in entrambi i partiti principali,
ovvero il PS e l’UMP non c’è corrispondenza e, forse non a caso,
si rintraccia un’estrema frammentazione interna e un elevato numero
di correnti. Dunque il quadro è piuttosto variegato in questo senso.
Tuttavia, personalmente trovo la
distinzione inutile e foriera di confusioni e divergenze. In un certo
senso penso che il caso britannico sia illuminante per razionalità e
buon senso nel rapporto tra il leader e il suo partito. L’andamento
ha un qualcosa di ciclico. Inizialmente c’è una elezione, le cui
modalità sono variate nel tempo verso la maggiore inclusione ma non
sono ancora sfociate nello strumento delle primarie. Successivamente
il leader trascina il partito e si crea coesione intorno alla sua
figura. Ovviamente le elezioni sono il turning point della
situazione. La sconfitta può portare, ma non necessariamente come è
avvenuto nel caso del centrosinistra italiano, all’elezione di un
nuovo leader, la vittoria d’altro canto porta con sé fedeltà e
devozione. Da quel momento il partito si plasma a immagine e
somiglianza del premier. Fatalmente però la popolarità del primo
ministro è destinata a scendere. Alle volte è talmente bassa,
durante il periodo in carica, che il partito si può vedere costretto
a destituire il primo ministro in carica come è successo a Blair
rimpiazzato da Brown. Oppure come nel caso della Thatcher la
sostituzione è causata da insanabili contrasti interni. Spesso alla
fine delle lunghe esperienze di governo c’è un allontanamento dei
leader per evitare di condizionare la nuova fase e i nuovi volti del
partito.
Mi sembra un modello di rapporto
partito-leader sensato ed efficiente. Molto lontano dal caos
imperante all’ interno al PD. Alla base di questo caos, diciamolo
senza ulteriori giri di parole ed evitando di nasconderci dietro
esigenze organizzative, c’è sempre la solita allergia nei
confronti del leader. Ci sono sempre la voglia di presentarsi come
differenti dagli antagonisti, ambizioni di potere individuali e
fratture generazionali e ideologiche ardue da conciliare. Tutti
fattori che sembrano ostacoli alla costruzione di un partito di
governo serio e affidabile negli anni a venire.
Valerio Vignoli
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