La “Merkel del nord” vince le elezioni in Norvegia: ecco le ragioni della virata a destra.

BERGEN - Le montagne di Bergen, ad est della Norvegia, offrono le viste mozzafiato di una città a picco sul mare, ma quando il cielo è limpido l’orizzonte è sporcato dalle petroliere che spuntano dietro l’azzuro dell’oceano. Quando invece raggiungi “la porta d’ingresso ai fiordi della Norvegia” (così è soprannominata Bergen) in aereo, mentre stai atterrando puoi vedere enormi cerchi disegnati sul mare, sono gli allevamenti di pesce. Petrolio e pesce, i pilastri dell’economia di uno tra i paesi più ricchi al mondo, dove lo scorso weekend si sono tenute le elezioni politiche che hanno decretato la “storica vittoria” del centro-destra, come l’ha definita la neo-premier Erna Solberg, nata e cresciuta a Bergen.
La coalizione conservatrice ha ottenuto 96 seggi sui 169 totali che formano l’unica camera del Parlamento norvegese, lo Storting, eletto ogni 4 anni con sistema proporzionale. In realtà il Partito Laburista continua ad essere il primo partito norvegese con il 30,8% dei suffragi, seguito appunto dal Partito Conservatore (26,8%) e dal Partito del Progresso (16,3%). Essere il primo partito però non è sufficiente e il nuovo governo, nel regno della social-democrazia, dovrebbe essere formato da Partito Conservatore, Partito del Progresso e due partiti minori (Cristiano-democratici e Liberali). Dunque, se l’accordo verrà raggiunto, un azionista della nuova compagine governativa sarà quel Partito del Progresso, formazione anti-immigrazione assurta ai (dis)onori delle cronache quando dopo la strage di Oslo del 22 luglio 2011, Breivik, l’attentatore, dichiarò la sua affinità con le idee di questo partito di destra. Ora, detta così la cosa spaventa e tutti i giornali italiani hanno colto la palla al balzo sottolineando il fatto che la Norvegia si sia spostata fortemente verso una destra nazionalista e razzista. A ben vedere, però, il Partito del Progresso ha perso consensi rispetto alle elezioni del 2009, quando si era affermato come seconda formazione con il 22,9% dei suffragi, mentre oggi la grande novità è l’Høyre della neo-premier Erna Solberg che passa dal 17,2% del 2009 al 26,8%, guadagnando quasi trecento mila voti.

A dire il vero, un qualche nazionalismo esiste da queste parti, ma forse è da accostare più alla loyalty anglosassone verso le istituzioni, che ad una becera retorica razzista. Certo, c’è in Norvegia, così come in tutta la Scandinavia, la volontà di tenersi stretto il welfare state e non concederlo ai primi arrivati. Ad esempio la Finlandia, che vanta uno dei migliori sistemi scolastici al mondo, sta valutando l’ipotesi di far pagare chi si trasferisce solo per studiare, per poi rimborsare gli studi nel caso in cui il soggetto continui a soggiornare per lavoro al termine degli studi. Ma ciò non sembra troppo da biasimare: sappiamo tutti cosa è successo in Europa e in particolare nella nostra Penisola dove il welfare state è qualcosa di non più sostenibile a seguito degli sprechi degli anni del boom. Che poi, leggere certi titoli terrorizzati in Italia, dove fino all’altro giorno avevamo la Lega al governo, fa un po’ sorridere. Ma questo è un altro paio di maniche.

Dunque, perché questa strabiliante vittoria della “Merkel del Nord”, così come è stata ribattezzata la Solberg? Le ragioni sono prettamente economiche. Nell’ultimo ventennio, il petrolio è diventato il baricentro dell’economia norvegese, togliendo spazio alla diversificazione. Se la Norvegia era il paese più ricco al mondo, in un sistema di economia diversificata, oggi continua ad essere ricca, ma dipende esclusivamente dal petrolio. Per cui viene da chiedersi quanto questo modello di sviluppo sia sostenibile. Da qui deriva la volontà di cambiare dell’elettorato norvegese, che come è naturale teme la fine del benessere.
Collegato a ciò c’è il disagio della grande impresa, penalizzata dalle politiche ambientali del Partito Laburista, che mi è capitato di sentir definire “ideologiche” da parte di esponenti dell’imprenditoria norvegese. Si sa che le aziende sono sempre contrarie alle politiche ambientali (se dico Ilva vi viene in mente niente?), ma forse l’economia della pesca merita una riflessione meno superficiale. Si tratta di un settore fortemente intensivo in capitale, in cui i costi di produzione sono altissimi e il processo produttivo è molto lungo (per il salmone occorrono 3 anni), ma dove soprattutto c’è una grande incertezza (ciclicamente molte imprese falliscono). In questo contesto, i governi laburisti hanno introdotto stringenti norme che impediscono alle imprese del settore di fondersi per ridurre i costi (la quota di mercato non può essere troppo alta) e il costo delle licenze è diventato negli ultimi anni insostenibile. Se a ciò si somma un costo del lavoro sempre più alto, con le grandi imprese norvegesi che stanno iniziando a delocalizzare la lavorazione del pesce da surgelare in Cina, si capisce il malcontento verso le politiche laburiste. Inoltre, uno dei punti del programma elettorale della Solberg è proprio la volontà di liberalizzare il settore delle licenze, rendendolo più flessibile e meno oneroso per le imprese.

Di sicuro la situazione non è così tragica come talvolta viene dipinta dagli ambienti imprenditoriali norvegesi: questo paese continua ad avere uno tra gli standard di vita più alti del mondo, il debito pubblico non sanno neanche cosa sia e, per quanto riguarda l’esportazione di pesce, questo porta alle imprese norvegesi 40 miliardi di euro all’anno (dati del 2012). Però un dato emerge da questa tornata elettorale e non è tanto l’affermazione del partito di estrema destra, che, come si è visto, ha ridotto il suo elettorato; quanto più c’è una tangibile richiesta dell’imprenditoria norvegese delle politiche liberali, promosse dal Partito Conservatore. Infine, non dimentichiamoci che in Norvegia vige un sistema elettorale proporzionale puro dove il Partito Laburista, sebbene mantenga la maggioranza relativa dei voti, è costretto all’opposizione.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

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