Ex-Jugoslavia: quando la guerra si giocava in campo

Una delle mete obbligate, per chi visita Zagabria, è il Parco Maksimir, un enorme parco urbano, tra i primi europei per dimensioni ed età, con all’interno chilometri di percorsi e piste, boschi ed un paio di laghi. Proprio di fronte a questo luogo di pace ed armonia, appena dall’altro lato della strada omonima, sorge il Maksimir Stadion, lo stadio cittadino, tanto avveniristico all’apparenza quanto vetusto appena si superano i tornelli. I lavori di ristrutturazione erano infatti cominciati, ma non sono mai stati portati a termine, lasciando uno scudo di vetrate e specchi a copertura di acciaio e ferro rosso di ruggine. Per capire cosa sia stato a fermare i lavori, basta girare attorno alla curva e raggiungere il parcheggio retrostante, dove, all’ombra di alcuni alberi, è stata eretta una bronzea stele. Un soldato campeggia al centro, seguito da un esercito, e dalla lettera che ricorda i tifosi della Dinamo Zagabria che morirono nelle guerre Jugoslave. Che morirono, specificato, armi alla mano e per la Croazia. Perché le tifoserie più violente ed estreme, che negli anni ’80 avevano sempre più assimilato metodi e linguaggio degli hooligans inglesi, diventarono i cuori pulsanti delle guerre civili che distrussero i Balcani per tutti gli anni ’90. I derby sul campo tra squadre slovene, croate, serbe e bosniache si trasformarono in battaglie fratricide con morti, torture e distruzione. E il tutto cominciò proprio sul prato verde del Maksimir, come ricorda e orgogliosamente celebra la stele luccicante e sempre ornata da lumini e ghirlande di fiori, a testimonianza che la guerra in realtà non è mai finita. 

Un'immagine degli scontri del 13 maggio 1990
La fine degli anni ’80 si avvicina. Il mondo profuma di cambiamento. Il muro di Berlino cadrà tra pochi anni, sulla piazza Rossa a Mosca è appena atterrato un piccolo aeroplano bianco guidato da uno studente tedesco e Glasnost e Perestrojika diventano parole di uso quotidiano, grazie ad un occhialuto signore con una voglia sulla testa. Metà del mondo si sta trasformando, e l’altra metà guarda attenta. Ma nessuno osserva un piccolo stato, affacciato interamente sull’Adriatico, che progressivamente nel corso della storia ha perso importanza. La Jugoslavia, da ago della bilancia nello scontro tra USA e URSS, alla morte di Tito è solo un calderone di popoli diversi e bellicosi uniti forzatamente sotto lo stesso tetto e nel 1987 il tetto sta per scoppiare. Sloveni e Croati si staccano sempre di più dal governo centrale jugoserbo, mentre i primi moti nazionali scoppiano tra Macedonia e Montenegro. La situazione nel corso del tempo diventa sempre meno sostenibile, ed il primo ministro Markovic è costretto a concedere, o meglio a non impedire, le prime elezioni nazionali in Slovenia e Croazia. Soprattutto a Zagabria si liberarono le tensioni nazionaliste, dove stravinse l’HDZ, partito anti-comunista di destra con idee simili al governo ustascia di Pavelic, guidato dal molto discusso ex generale titino Franjo Tudman. Andando avanti veloce, i due stati proclamano unilateralmente l’indipendenza, ma mentre per la Slovenia le cose andarono in porto con relativa tranquillità, la Croazia venne trascinata da quel poco che rimaneva della Jugoslavia in una guerra civile sanguinosa lunga quattro anni. Ai morti croati e serbi si aggiungeranno quelli bosniaci, finchè nel 1996 la guerra finirà, anche se solo sul campo e non negli animi.

Zeljko Raznatovic, detto Arkan: dallo stadio alla guerra civile.
Il 13 maggio 1990, a poco più di una settimana dall’esito delle elezioni trionfali per l’HDZ, il campionato unito della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia offre come partita di cartello lo scontro tra la prima e la seconda in classifica. La Stella Rossa di Belgrado, già matematicamente campione, gioca in trasferta contro la Dinamo Zagabria, proprio al Maksimir Stadion, per l’occasione pieno in ogni ordine di posto. Con una sola eccezione: il secondo anello della curva ospiti. Il primo anello è occupato dagli ultras serbi, gli autoproclamatosi “Delije”, gli Eroi. Hanno già distrutto il treno che dalla capitale li ha portati a Zagabria e tutto ciò che hanno trovato lungo le vie dalla stazione allo stadio. Il loro capo è un signore di quasi quarant’anni con un passato vissuto tra carcere, risse, omicidi, rapine e lavoro per la polizia segreta jugoslava ed un futuro ancora tutto da scrivere: è Zeljko Raznatovic, passato alla storia come Arkan, comandante delle Tigri, reparto militare a reclutamento volontario che si macchiò di indicibili violenze e omicidi impossibili da contare. Arkan verrà poi incriminato dall’ONU per crimini contro l’umanità, tra cui genocidio e pulizia etnica, ma venne assassinato nel 2000 prima del processo, mentre sorseggiava un drink nella hall dell’Intercontinental Hotel a Belgrado. Al suo funerale, parteciparono numerose autorità ed oltre 20.000 persone. Per far capire quanto il calcio fosse importante nella vita di Arkan, al termine della guerra comprò una squadra, l’Obilic, che portò a vincere il campionato e a giocare la Champions. In più fu amico personale del nuovo allenatore del Milan Mihajlovic, a cui salvò i genitori dall’eccidio di Borovo Selo. Sinisa poi chiese, o almeno acconsentì, ai tifosi della Lazio, dove giocava, che esposero uno striscione in favore della Tigre. 

Lo striscione dedicato ad Arkan apparso all'Olimpico
Raznatovic e i suoi ultras (che presto confluiranno nelle Tigri) fronteggiano la curva croata, controllata dai Bad Blue Boys, che nei giorni precedenti alla partita hanno oliato i giusti ingranaggi e hanno fatto entrare e nascosto nello stadio sacchi di pietre e taniche di combustibile. La partita non è nemmeno iniziata, che si accende la violenza. I Delije scalano la tribuna ed invadono il settore vuoto sopra di loro, cominciando a distruggere le recinzioni, i cartelloni pubblicitari ed i seggiolini. La polizia, in netta inferiorità numerica e male armata, lascia fare. E i federali rimangono immobili anche quando un piccolo gruppetto di tifosi croati attacca la curva ospiti per difendere l’onore patrio, finendo però per essere aggredito in massa e picchiato selvaggiamente. Questa fu la scintilla che innescò il Maksimir. I Bad Blue Boys attaccarono in massa, sia correndo lungo le scalinate che abbattendo le recinzioni e scemando sul terreno di gioco. La polizia jugoslava intervenne solo in quel momento, puntando compatta sugli ultras croati. Pochi croati riuscirono a raggiungere la curva, dove però si impossessarono degli striscioni della Stella Rossa e dei Delije. La gran parte della curva di casa rivolse la propria furia contro la Milicija. Proprio nel momento in cui la polveriera esplodeva, le squadre entrarono in campo.


Grandi giocatori componevano le due squadre. La Stella Rossa schierava in campo campioni del calibro di Dejan Savicevic, ribattezzato “Genio” con la magia rossonera di Milano, Darko Pancev e Dragan Stojkovic. Non per niente la Crvena Zvezda avrebbe vinto la Coppa dei Campioni l’anno successivo, in finale a Bari contro l’Olympique Marsiglia. Di fronte aveva una squadra giovane ma molto talentuosa, con due punte di diamante, entrambe 21enni: il primo è la punta, Davor Suker, che segnerà praticamente ovunque, andando a giocare per il Siviglia, il Real Madrid, l’Arsenal e il West Ham. Il secondo è il numero 10, già capitano della squadra, che all’inizio della guerra lascerà la Croazia per costruirsi una carriera più che decennale al Milan, insieme al “nemico” Savicevic: è Zvonimir “Zorro” Boban. Ma di quei grandi campioni, nessuno quel giorno calcò il rettangolo verde del Maksimir per giocare.

La partita venne immediatamente sospesa, e mentre gli ultras croati combattevano contro la polizia, pali di ferro contro manganelli e seggiolini divelti contro lacrimogeni, e i Delije si difendevano dagli attacchi al riparo sulla curva, i calciatori rientrarono di corsa negli spogliatoi. Tutti, tranne alcuni giocatori della Dinamo, con Boban in testa. La polizia infatti aveva arginato la marea dei Bad Blue Boys, ignorando gli Eroi di Raznatovic ed accanendosi sui giovani croati con odio nazionalista. Boban e i suoi, croati in pectore come i manganellati, attaccano alle spalle la milicija federale. Si scatena una grande rissa confusa, difficile da seguire nei particolari. Ma una scena salta all’occhio. In mezzo al nero delle divise delle forze di polizia corre una maglia blu con un numero dieci sulle spalle, che punta proprio un poliziotto. Dopo un paio di battute, condite da odio e rabbia, il poliziotto si allontana, ma Boban lo insegue e con una ginocchiata gli frattura la mascella, per poi scappare tra le fila dei Bad Blue Boys. 



Gli scontri dallo stadio esplodono nelle vie adiacenti. I Delije rimangono confinati nello stadio, mentre la polizia prova a rendere sicure le vie tra il Maksimir e la stazione. Arkan riesce a salire su un treno solamente alle 23, ben cinque ore dopo il lancio del primo seggiolino. Gli incidenti causano oltre 100 feriti, in gran parte tra le forze dell’ordine e tra gli ultras della Dinamo, mentre le televisioni croate sparano in ogni casa le immagini degli scontri per ore. La partita non verrà mai recuperata, e la ruota della guerra è ormai in movimento. La prima partita della stagione successiva, ultima della Jugoslavia unita, vede di nuovo di fronte una squadra croata ed una serba, e nemmeno Partizan Belgrado – Hajduk Spalato arriva al fischio finale. E pochi giorni dopo il fischio finale della stagione, il 25 giugno del 1991, Croazia e Slovenia si dichiarano indipendenti, scatenando la reazione militare di Milosevic e di quello che presto sarà il suo braccio destro, naturalmente armato, Arkan. Ed è da quella partita, dall’odio scatenato e dalla rabbia repressa improvvisamente lasciata libera, dall’orgoglio nazionale e dai soprusi, che nacque la guerra. Proprio la Tigre dichiarerà, nel 1994, al giornale Serbia Unita: “Dopo quella partita, ho previsto la guerra.”

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