Forse non molti sanno cosa sia il
congresso di Parma sul neorealismo.
Dal 3 al 5 dicembre del 1953
confluirono a Parma critici, cineasti e registi per discutere un tema
all'ordine del giorno in ambito cinematografico: che fine farà il
neorealismo? Si arrivò persino a mettere in dubbio l'esistenza
stessa del movimento, il quale non ha mai avuto un manifesto che
potesse definire le proprie caratteristiche e attestarne l'esistenza
stessa. Già qualche mese prima si era tenuto a Perugia un primo
congresso durante il quale erano state affrontate le medesime
problematiche. Ciò che è certo è l'impossibilità di definire la
data di nascita e di morte del neorealismo, poiché non si sta
parlando della vita di una persona inscrivibile all'interno di un
determinato e preciso lasso di tempo. In questo senso è infatti più
corretto parlare di “tendenza” neorealista, e non di movimento,
poiché quest'ultimo può essere soggetto ad un manifesto o ad un
programma che ne fissi gli elementi portanti. Eppure leggendo un
manuale di storia del cinema capita spesso imbattersi nella data di
morte del neorealismo, in genere fissata tra il 1953 e il 1956. Una
tendenza in quando tale dovrebbe essere fluida e in continua
evoluzione, e al suo interno dovrebbero riscontrarsi diversità
fondamentali tra le varie opere e artisti che ne fanno
convenzionalmente parte.
Dal 4 al 6 dicembre, a sessant'anni dal
congresso di Parma e dall'affievolirsi del fenomeno, la città stessa
ospiterà il convegno internazionale di studi “Parma 1953-2013:
sessant'anni di neorealismo”. La prima volta a volere l'evento fu
Cesare Zavattini, oggi è il Dipartimento di Lettere, Arti, Storia e
Società dell'Università di Parma, il Comune e la Barilla. L'idea è
quella di riprendere in mano la discussione su questa tendenza, su
come essa abbia influenzato la nostra cultura in fatto di cinema ma
anche sociale, dal momento in cui essa stessa vede la luce in un
momento di crisi postbellica e noi stessi oggi ci troviamo ad
attraversare un'altra grave crisi economica.
Contemporaneamente il cinema D'Azeglio
sta ospitando la rassegna cinematografica “Il neorealismo
italiano”, accompagnata da diversi incontri di rilevanza nazionale.
Il Bandito (1946)
è stato il quarto incontro all'interno della rassegna. Si tratta di
un film “diverso” dai classici del neorealismo (quando dico
classici penso a Roma città aperta,
Ladri di biciclette,
Paisà, La terra
trema...). Il regista, Antonio
Lattuada, realizza infatti un'opera tripartita: la prima parte è
ispirata ai caratteri del neorealismo e narra le vicende di due
reduci di guerra che tornano in Italia dopo l'alleanza e devono
ritrovare le loro famiglie. Nella parte centrale emerge invece il
fascino che per Lattuada dovevano avere i film noir americani, alla
Scarface, infatti ci
troviamo coinvolti nella storia di uno dei due protagonisti,
interpretato dal bellissimo Amedeo Nazzari (il divo del cinema de Le
notti di Cabiria) che si
nasconde a casa di Lidia, una Anna Magnani in veste di femme fatale,
dopo aver compiuto un omicidio. Verrà poi inserito nella banda
criminale gestita dalla donna stessa e inizierà a compiere una serie
di atti criminosi, arrivando però spesso a destinare il bottino ai
più bisognosi. La parte finale è orientata verso il genere
melodrammatico per via di diversi incontri casuali ma fatali che il
destino lo porterà a fare. Nel film è presente anche l'attrice
Carla del Poggio, che diventerà poi la moglie di Lattuada.
È
interessante vedere come un film del genere possa essere considerato
neorealista ma abbia ben poco delle caratteristiche principali di
questo genere: gli attori sono professionisti, le inquadrature sono
spettacolari, vi è un magistrale uso del bianco e nero ad opera di
Aldo Tonti (aveva curato anche la fotografia di Ossessione
di Visconti), e non si concentra
sui particolari di vita quotidiana, bensì narra una storia dalla
struttura molto hollywoodiana. In più strappa sincere risate in
diversi momenti. Visione consigliatissima per farsi un'idea di cosa
può anche essere
il neorealismo.
Roberta Cristofori
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