Ho la sensazione che, comunque vada a
finire, le recenti primarie del Partito Democratico saranno ricordate come un
punto di svolta nella storia recente. Matteo Renzi ha preso circa il 68% dei
voti concorrendo non solo con gli altri candidati alla segreteria ma
soprattutto con la maggioranza dell'establishment del partito stesso. La
pluridecantata rottamazione sta per compiersi, c'è una nuova maggioranza nel
Congresso e anche la squadra di Sottosegretari è composta da giovani sotto i
trentacinque anni estranei ai quadri di partito.
Renzi ha stravinto nelle “zone rosse”
dove la tradizione ex comunista legata ai vecchi dirigenti è più radicata (più
del 70% il Emilia-Romagna, Toscana e Marche), ha ottenuto la maggioranza tra
gli iscritti ma soprattutto ha stravinto tra gli elettori non iscritti. Il 18%
di Gianni Cuperlo, il candidato di riferimento dei quadri dirigenziali, è
un'altra testimonianza dell'immagine negativa che questi hanno sugli elettori.
Sembrava dovesse essere una gara a due, ma in realtà questa era l'idea, molto
forzata, della parte che appoggiava il candidato triestino, rivelatosi già nel
confronto televisivo inadeguato e troppo simile allo stereotipo del vecchio
dirigente di partito (a questo aggiungerei che anche Kennedy avrebbe faticato
ad imporsi se fosse stato presentato come “l'uomo di D'Alema e di Bersani”).
Infine Pippo Civati, che ha recitato alla perfezione il ruolo di outsider,
raccogliendo un buon 14% grazie a una brillantissima prestazione nel confronto
televisivo e alle simpatie derivanti dalla sua figura di soggetto estraneo alle
correnti interne e coerente con le idee più a sinistra.
La vittoria di Renzi è arrivata
probabilmente con un anno di ritardo, ma la sua scalata è stata formidabile.
Fino a tre anni fa era quasi sconosciuto tra la gente comune. In questo periodo
è riuscito ad affermare la propria immagine di giovane leader in grado di
tirare fuori il paese dalla melma nella quale non è mai troppo stanco di
sguazzare, promettendo più o meno tutto, e senza avere chance reali di metterlo
in pratica. Adesso ha il compito di riformare il proprio partito, non solo
perché è il motivo per il quale è stato votato da milioni di persone, ma anche
perché attraverso questa sfida passa il suo futuro di premier. Il lavoro che lo
aspetta è imponente: la sua vittoria è stata schiacciante e questo gli
garantisce grande libertà di manovra e buone scorte di credibilità da giocarsi
nei tempi di magra, ma la mia sensazione è che mai come in queste primarie l'elettorato
sia stato polarizzato, la distanza tra i candidati ampia e le intenzioni di
voto future indecifrabili.
Consideriamo solo le primarie per la Segreteria: da
quando esistono sono servite soprattutto a confermare la vittoria di un
candidato che di fatto era già stato scelto dalla dirigenza, con sfidanti più o
meno accomodanti che si sono garantiti un po' di visibilità e una carica
d'onore per gli anni a venire (Bindi e Franceschini ringraziano). Come già
scritto su The
Bottom Up, si
trattava di un rito autocelebrativo e autoreferenziale. Questa volta
invece la situazione era diversa: come detto in apertura, si trattava della
sfida di un candidato alla maggioranza degli organi dirigenziali. (Il fatto che
questo sia l'unico dei tre maggiori partiti italiani dove questa sfida sia
possibile e regolata da votazioni democratiche deve essere, più che motivo
d'orgoglio per il partito in questione, motivo di imbarazzo per gli altri).
Altro elemento nuovo: mai come oggi si è avuta la sensazione che non tanto gli
sfidanti ma soprattutto il loro elettorato di fiducia fosse tanto avverso al
vincitore. La sfida più grande di Matteo Renzi come Segretario non sarà tanto
quella di proporre una classe dirigente che possa fare meglio di quella che
l'ha preceduta, sarebbe fin troppo facile, ma quella di evitare o quantomeno
tamponare la fuga di quella parte della sinistra che pare essergli
inesorabilmente avversa. Nel caso di un suo fallimento, scommetterei forte su
una scissione nel PD tra l'ala più centrista e quella più “de sinistra”.
Domenica ho votato il sindaco di
Firenze, così come lo avevo scelto un anno fa come candidato premier. Seguo le
sue vicende da qualche anno, sono un sostenitore dell'idea di una sinistra più
liberale, più third way, e su di lui ho investito buona parte della fiducia
nella politica che mi rimane, che non è poca, ma nemmeno tanta. Proprio per
questo eviterò con cura di fare ragionamenti da tifoso e sarò il suo primo
critico. Quello che non mi convince di quella parte di sinistra a lui così
fieramente avversa è la visione aprioristica e la superficialità delle loro
analisi. Dire che Renzi è democristiano e che è il nuovo Berlusconi perché è di
fede cattolica e ha buone capacità dialettiche è una banalizzazione degna del
peggior grillino. Anche l'immagine secondo la quale Renzi in realtà non è di
sinistra è abbastanza priva di fondamento. Soprattutto perché l'affermazione si
appoggia non tanto sulle tematiche politiche quanto sul personaggio, sulla
facciata. Se prendiamo i tre candidati alle primarie, l'unico a potersi
definire più a sinistra degli altri è Civati. Tra Renzi e Cuperlo non c'è
particolare distanza ideologica, le uniche differenze riguardano temi come
liberalizzazioni in economia e nel mercato del lavoro e riforma/modernizzazione
della Costituzione (appoggiata tra l'altro dai maggiori politologi del paese).
Si tratta di politiche di buonsenso, che non vogliono stravolgere gli equilibri
costituzionali o sociali ma solamente adattare l'impianto legislativo ad un
contesto globale e globalizzato troppo diverso dagli anni in cui la Carta
Costituzionale è stata scritta. La difesa oltranzista dello status quo
costituzionale è una battaglia miope e fanatica, che certifica una certa
distanza dal mondo reale. Ed è proprio quella parte di sinistra che porta
avanti queste battaglie che non ha esitato a bollare il sindaco fiorentino come
nemico pubblico numero uno, simbolo dell'inevitabile processo di modernizzazione
e di riforma che farà le sue maggiori vittime proprio tra le loro file. Essere
carismatici, saper attrarre elettori anche da fuori della propria parte
politica non è una colpa, è un requisito fondamentale per poter guidare
efficacemente un paese, ed è proprio quello che è mancato alla sinistra negli
ultimi vent'anni.
Cadere nella demagogia, come ha fatto Renzi in certi momenti
del confronto televisivo, è invece una strategia che può garantire qualche
manciata di voti in più (non troppi: ci sarà sempre qualcuno più demagogo di
lui) ma fa perdere il distacco con la realtà: per questo c'è bisogno che il PD
si identifichi nel suo Segretario e lo faccia mantenendo anche un approccio
critico. Se invece c'è ancora qualcuno affezionato a quella sinistra elitaria,
incapace di trasmettere empatia agli elettori e sempre più distaccata dal paese
reale, che vede il sindaco di Firenze come il male assoluto e aspetta solo un
suo passo falso per riprendersi il partito, si ricordi che quando si è stati
surclassati per vent'anni da Berlusconi e dal berlusconismo, quando è stato
fatto fuori per ben due volte e dalla sua stessa parte politica quel Romano
Prodi che è stato l'unico in grado di battere B., quando si sono persi i voti
delle parti sociali meno abbienti a favore dei populismi e ci si è costruiti
un'immagine grigia e perdente Renzi non c'era ancora, loro si.
Fabrizio Mezzanotte
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