Suppongo che l’ex primo ministro britannico Tony Blair non
sia molto attratto dagli sviluppi della politica italiana e dalle vicende del
Partito Democratico, in preda ai soliti psicodrammi e alle immancabili convulsioni
autolesioniste da fase pre-congressuale. D’altronde da quando ha lasciato il
civico 10 di Downing Street è piuttosto indaffarato a costruirsi una fortuna
come consulente per alcune multinazionali come la JP Morgan, come relatore alle
conferenze (il cachet si aggirerebbe a 250.000 sterline ad intervento) e con
fruttuosi investimenti immobiliari. Sì, non se la passa proprio male,
diciamocelo. Aveva ventilato poco tempo fa un ritorno sulla scena politica ma,
viene spontaneo chiedersi, chi glielo fa fare?
Invece in Italia c’è qualcuno attratto da lui. È ovviamente
il vulcanico e onnipresente sindaco di Firenze Matteo Renzi, che, ormai mi
sembra lapalissiano, si candiderà alla segreteria del partito. Fin dalle
primarie scorse non ha mai nascosto la sua ammirazione per il leader laburista,
che per ben 10 anni ha guidato la Gran Bretagna, e per il progetto del New
Labour. Da allora si sono susseguite frequenti dichiarazioni in cui ha ribadito
d’ispirarsi a lui e, ultimamente, quasi a voler lanciare la sua corsa al posto
che fu di Bersani, ha affermato di voler “trasformare il Partito Democratico
nello stesso modo in cui Blair ha trasformato il suo partito nel 1997”. In
Italia l’ex primo ministro britannico è noto ai più per la sciagurata campagna militare
contro Saddam insieme al presidente-cowboy George W. Bush, fondata sulla
fantomatica presenza di armi nucleari mai reperite e costata un numero ingente
ed insensato di caduti. Non un grande viatico per riscuotere la benevolenza e
l’approvazione del popolo della sinistra italiana e del suo establishment (a
dir poco scettici nei confronti della figura di Renzi e delle sue ambizioni
riformiste) che, da sempre, fanno del pacifismo e dell’opposizione alle
operazioni militari senza se e senza ma un loro manifesto. Allora perché fare
riferimento all’esperienza Blairiana? È un mero tentativo di scimmiottare uno
statista che ha segnato la storia recente delle relazioni internazionali o c’è
di più? È plausibile una “mutazione genetica” (come la chiamò a suo tempo
Scalfari) del Partito Democratico speculare a quella avvenuta a metà degli anni
novanta al di là della manica ai Laburisti o, essenzialmente, la sua evocazione
è l’ennesima riprova di una conoscenza superficiale da parte della nostra
classe dirigente dei fenomeni politici che si verificano al di fuori del nostro
orticello (assai poco fertile)?
Comincerei dalle differenze. Quando il sindaco di Firenze
accenna al New Labour principalmente, leggendo tra le righe (ma neanche troppo),
manda un messaggio volutamente intimidatorio al sindacato di riferimento, la
CGIL (la Camusso non so se lo coglie, visto che fa parte a pieno titolo della
suddetta classe dirigente). Il messaggio contiene l’avvertimento che il PD non
sarà più soggetto ad alcun tipo di pressione dell’organizzazione sindacale
nella formulazione delle sue politiche. Lo stesso fece Blair ma la distinzione
dei due casi risiede nella genesi del Partito Laburista. Infatti esso nasce come
diretta emanazione del sindacato che, per questa ragione, fino a vent’anni fa
ne condizionava totalmente le scelte e
le posizioni. A ciò mi sentirei di aggiungere che lo sfilacciamento dei rapporti
tra il pronipote del PCI e la CGIL è già iniziato da un pezzo.
Forse, tuttavia, ciò che mi preme di più sottolineare è il
mastodontico gap in termini di spessore intellettuale che sussiste tra il
progetto dell’intraprendente Matteo e quello del New Labour. Il secondo reifica
in uno scenario politico (che non poteva essere altro che quello di Westminster)
la “terza via” teorizzata da Anthony Giddens, uno dei massimi sociologi
contemporanei. Una via che superi tanto il paradigma economico socialista
quanto quello neoliberista, entrambi limitati e inadeguati per affrontare le
complesse sfide della contemporaneità, per plasmare un nuovo soggetto. Ora, con
tutta la stima e l’empatia che nutro per il sindaco di Firenze, non mi pare di
intravvedere un’architettura concettuale altrettanto solida e articolata nelle
sue proposte per rivoltare il PD come un guanto.
Inoltre la nostra situazione economica e quella della Gran
Bretagna di metà anni ’90 sono diametralmente opposte. Blair, dopo quasi vent’anni
di (vere) privatizzazioni e di smantellamento del Welfare State da parte dei
governi conservatori, si era ritrovato una strada spianata per ricominciare ad
investire risorse nei sevizi pubblici e, in particolare, nell’istruzione. Stritolati
come siamo in una morsa composta dalla combinazione di un abnorme debito
pubblico e degli assurdi e controproducenti vincoli imposti dal “Patto di
Stabilità”, è impensabile immaginare un
consistente incremento della spesa da parte di un governo italiano in un futuro
prossimo venturo. Promettere ciò significherebbe sottoscrivere la propria
condanna all’incoerenza e all’irresponsabilità e nessuno francamente ne sente
il bisogno.
La seconda riguarda invece la serissima volontà di apportare
modifiche al nostro assetto istituzionale. Il leader Laburista ha infatti
dimezzato il numero dei componenti della Camera dei Lord e avviato il processo
di devoluzione di autonomia nei confronti delle regioni di Scozia, Irlanda del
Nord e Galles. Teoricamente, lo stadio finale di questo processo doveva essere
la creazione di una seconda camera rappresentativa dei singoli territori; il
senato federale e il superamento del bicameralismo perfetto suggerito da Renzi.
La terza è quella che più preoccupa “l’apparato” del PD e
molti devoti ed integralisti elettori di sinistra, ovvero l’intenzione di
spingere il partito verso il centro. L’obiettivo è quello di accaparrarsi nuovi
voti all’interno di inesplorati segmenti della società, necessari a governare il
paese in questo conflitto politico bipolare. Proprio come fece Tony nel 1997,
prosciugando i bacini d’utenza dei Conservatori e costringendoli a
radicalizzarsi e, conseguentemente, marginalizzarsi.
Mentre l’esperimento del New Labour è stato dichiarato
definitivamente concluso in Gran Bretagna nel 2010 con l’insediamento di Ed
Milliband alla direzione del partito, ora potrebbe rinascere in Italia. Oppure
come Berlusconi è stato un liberista un po’ sui generis, che si è
premurosamente preoccupato di consegnarci un debito pubblico ipertrofizzato,
anche Renzi sarà una versione maccheronica di Tony Blair? Chi vivrà vedrà.
Nessun commento:
Posta un commento