Una piccola premessa: il
seguente articolo è stato scritto in tempi non proprio “recenti”, tuttavia riteniamo
sia una riflessione ancora oggi molto attuale per cui… lo si pubblica.
Chi
pensava che l’Italia avesse raggiunto il punto più basso dal quale continuare a
scendere avrebbe significato scavare e chi, ottimista, sperava nelle elezioni
per imprimere una svolta positiva all’andamento del paese avrà dovuto
certamente ricredersi alla luce dei più recenti avvenimenti. Lo scenario emerso
dalle urne è nient’affatto incoraggiante: cittadini sfiduciati, un paese
frammentato, politici incapaci di proporre soluzioni vincenti. A ben riflettere,
il panorama attuale non si presenta molto diverso
da quello degli ultimi anni. Tuttavia, in quest'occasione più che in altre,
sarebbe servito un segnale positivo che potesse essere considerato tale anche e
soprattutto a livello internazionale.
Ma così non è stato, allora che fare?
Guardare avanti, ovviamente. E alla ricerca di un’improbabile via d’uscita dall’empasse è chiamato il Partito Democratico,
impegnato in un ossessivo corteggiamento verso il M5S, con il quale un’ipotetica
unione difficilmente si risolverebbe in qualcosa di funzionante e duraturo. Che
la situazione sia faticosamente gestibile e i margini di manovra piuttosto
limitati non si può negare, ma è altrettanto indiscutibile che nulla sia stato
fatto al fine di evitare che tali circostanze si verificassero. Dalla caduta
del governo Berlusconi, e poi per tutta la durata dell’esecutivo tecnico, il Pd
avrebbe potuto (e dovuto) approfittare di un contesto che, per quanto delicato,
risultava ad esso vantaggioso in termini di consensi elettorali.
Sembrava
avesse imboccato la strada giusta indicendo per novembre le primarie, una
modalità partecipativa di selezione del leader che gli ha garantito un’ampia
visibilità mediatica e l’opportunità di mobilitare la propria base. Nonostante
l’idea vincente e il discreto successo nel portare alle urne i propri simpatizzanti,
il partito è riuscito a non sfruttare appieno le potenzialità dell’evento,
facendo nuovamente emergere lo spettro della conflittualità interna che da
sempre caratterizza il centro-sinistra. Matteo Renzi -fra i principali
promotori delle primarie e unico reale sfidante di Bersani- è stato apertamente
contrastato dai suoi colleghi di partito, gli stessi che si definiscono
“progressisti”, ma che di rinnovamento ed evoluzione non vogliono proprio
sentir parlare. La politica di ostilità promossa dai quadri dirigenti ha
portato all’elezione di un candidato la cui capacità comunicativa era nota,
proprio in virtù della sua annosa permanenza sul panorama politico italiano.
I
fatti hanno dimostrato quanto sbagliate siano state anche le successive mosse
strategiche della coalizione di sinistra, che si è resa protagonista di una
delle peggiori campagne elettorali della storia. Se ciò non bastasse, ad
accrescere la delusione per i fallimentari esiti elettorali v’è l’atteggiamento
recidivo del Partito Democratico, che non risulta molto migliore rispetto a quello
dimostrato in occasione delle politiche del 2006: anche all’epoca la situazione
di partenza era sbilanciata a favore del centro-sinistra; anche all’epoca quest’ultimo
vanificò il vantaggio di cui godeva peccando di superficialità nell’elaborazione
della strategia elettorale, che si rivelò inadeguata a rispondere alla ben più
aggressiva campagna degli avversari.
A quanto pare i democratici non vogliono
proprio trarre insegnamenti dalla loro storia. Chissà, magari riusciranno a diventare un modello per qualcun altro: “Pd, le dieci cose da non fare per essere
un partito di successo”.
Mascia Mazzanti
Nessun commento:
Posta un commento