Durante questa
caotica e logorroica campagna elettorale mi è capitato più volte di sentire
Bersani vantarsi di essere l’unico, tra i contendenti principali alla vittoria,
a non aver il proprio nome inserito nel simbolo della lista che compare sulla
scheda elettorale. La domanda sorge spontanea. Perché deve essere motivo di vanto?
Che problema c’è nella forte identificazione
di un partito con il proprio leader (per di più nel caso del PD in cui è
stato eletto democraticamente attraverso le primarie)?
La realtà è che il
grande partito progressista italiano soffre di un’allergia. È allergico ai
leader. L’idiosincrasia nei confronti di una figura che accentri su di sé il
controllo del partito, che definisca l’indirizzo politico e che decida la
strategia da seguire durante la campagna elettorale, ha radici antiche ma si è
accentuata nel (in)consapevole tentativo di contrapporsi, con una collaudata gestione collegiale, al
personalismo e all’individualismo berlusconiano. Non stupisce, dunque, una
repulsione da parte degli stati maggiori del PD nei confronti di qualsiasi
personalità all’interno del partito che presenti una forte personalità.
Chiunque sia, costui viene percepito come una minaccia nei confronti di questa
peculiarità. Un corpo estraneo etichettabile come pericoloso e facilmente
accomunabile al nemico. Credo che vi sia chiaro il riferimento all’ostilità nei
confronti di Matteo Renzi da parte della quasi totalità delle figure di
riferimento all’interno del Partito Democratico.
Si può supporre
che l’ostentazione di questa avversione sia una sorta di garanzia agli elettori
di trasparenza e democrazia interna. Magari l’obiettivo è presentarsi come un
soggetto politico che mette le idee e i programmi davanti ad una bella faccia
convincente. Tutto ciò è lodevole. Non c’è che dire. Ma poi bisogna fare i
conti con la realtà. La realtà di una modalità di fare politica sempre più incentrata sulla personalità, sul carisma,
sulle capacità retoriche e sull’appeal mediatico del leader. Quel processo
definito come “americanizzazione della politica”. Ormai tutti i partiti, di destra e di sinistra,
anche nel contesto europeo sono alla costante e spasmodica ricerca di guide
forti, che suscitino empatia ed identificazione nell’elettore. La destra, più
avvezza a sfumature populiste, nel nostro paese ma un po’ in tutto il
continente, ha da tempo compreso la centralità di questo aspetto. Recentemente
però casi come quello di Blair in Gran Bretagna ma anche di Zapatero in Spagna
dimostrano, a mio avviso, come anche la sinistra si stia adeguando piano piano.
Tuttavia, mi sembra che nel PD l’allergia sia ancora
manifesta.
Il nodo è venuto
al pettine in questa tornata elettorale in cui l’avversione endemica per una
personalità capace, come si suole dire, di “bucare lo schermo”(di TV o computer
che sia) ha pagato ben poco. Il
risultato è stato lapidario: i grandi
demagoghi hanno vinto. Ha vinto chi ha saputo parlare alla cosiddetta
“pancia dell’elettorato”, seppure con promesse poco credibili da consumato
imbonitore o con schiamazzi inneggianti ad una rivoluzione vagamente
qualunquista. Sarebbe ora giunto il momento per il PD di capire che non c’è
nulla di degradante nel fare affidamento ad una personalità forte e di
scacciare, con l’aiuto magari di un po’ di sano cinismo e realismo,
quest’allergia.
Valerio Vignoli
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