Durante
la Seconda guerra mondiale, nel periodo che intercorse tra
l’invasione della Polonia e la campagna di Francia, ci fu una pausa
nei combattimenti tra le diverse super potenze dell’epoca (il Regno
Unito, la Germania e per l’appunto la Francia). Questo momento di
sostanziale rilassatezza tra i belligeranti venne in seguito
etichettato dagli storiografi d’Oltralpe come drôle
de guerre e cioè la
“guerra strana”.
Quella
che si svolge in Siria probabilmente potrebbe ricadere sotto la
stessa identica etichetta della guerra combattuta oltre settant’anni
fa, se non fosse che a Damasco, Homs, Aleppo e molte altre città
piccole e grandi, bombe e pallottole continuano a fischiare senza
tregua. E
allora perché “guerra strana” per descrivere gli scontri che
oramai da tre lunghi anni martoriano la Siria e i suoi abitanti?
Poiché raramente – forse mai – si è visto un conflitto
alimentato da così tanti attori internazionali, al punto che
paradossalmente questi ultimi sembrano aver quasi rubato la scena a
quelli che dovrebbero essere i protagonisti, e cioè i siriani
stessi.
“Guerra
strana” perché i principali tra gli attori internazionali – la
repubblica d’Iran e la monarchia saudita – sopra menzionati,
sembrano aver deciso di testare per la prima volta (anche se la
guerra civile in Afghanistan, antecedente all’intervento americano
del 2001, potrebbe essere presa a riferimento come una sorta di
capostipite per questo nuovo tipo di conflitto) le rispettive
potenzialità e forze a disposizione, utilizzando la Siria come un
enorme campo da gioco e i siriani come incolpevoli comparse di questa
immane tragedia.
Per
gli amanti del gergo tecnico si chiamerebbero proxy
war quelle guerre nelle
quali due potenze – nel nostro caso regionali ma può trattarsi
anche di giganti, basti pensare ad USA e URSS durante la Guerra
fredda – passano alle maniere forti nel dietro le quinte, quando
ufficialmente e alla luce del sole dialogano o stringono trattati di
non proliferazione.
Mappa tratta da Limes |
Nel
caso siriano, ma come sempre accade nei corsi e ricorsi della storia
umana, gli interessi economici si intrecciano inestricabilmente con
le differenti visioni religiose. Ciò perché il regime di Bashar al
Asad non costituisce soltanto uno dei pochi alleati su cui può
contare il regime degli Ayatollah nella zona, ma poiché rappresenta
anche un ramo cadetto (quello alawita) del non particolarmente
robusto albero dello sciismo, a sua volta ramo minoritario dell’Islam. Ma se il ramo è nato corto, i frutti sono caduti
lontano. E così, propaggini e minoranze più o meno consistenti
(quando non vere e proprie maggioranze) dell’albero sciita si
possono ritrovare anche in Qatar, Bahrein, Kuwait, Iraq e nella
stesso regno degli al Saud. E se dal dato sull’appartenenza
religiosa si fa partire una linea che colleghi direttamente questi
paesi ai membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (organo nato
soprattutto dall’impulso di Arabia Saudita e Stati Uniti) si potrà
notare che parecchi nomi sono gli stessi per entrambi gli elenchi.
A ciò si aggiungano diversi altri punti a favore dell’Iran: una popolazione numerosa, giovane e istruita (fattore che però, come dimostrano le proteste del 2009, può anche costituire un problema di non poco conto), produzione e riserve di petrolio e gas naturale che temono pochi rivali, un nuovo presidente, Hassan Ruohani, su cui Obama ha scommesso tutte le sue residue speranze di scongiurare un ennesimo conflitto tra Israele e il mondo arabo e che ha saputo dare ossigeno ai negoziati sul nucleare iraniano, sbloccando così diversi miliardi sparsi in diversi conti esteri prima vincolati dalle sanzioni occidentali e necessari a far fiatare la sempre più asfittica economica di Teheran.
A ciò si aggiungano diversi altri punti a favore dell’Iran: una popolazione numerosa, giovane e istruita (fattore che però, come dimostrano le proteste del 2009, può anche costituire un problema di non poco conto), produzione e riserve di petrolio e gas naturale che temono pochi rivali, un nuovo presidente, Hassan Ruohani, su cui Obama ha scommesso tutte le sue residue speranze di scongiurare un ennesimo conflitto tra Israele e il mondo arabo e che ha saputo dare ossigeno ai negoziati sul nucleare iraniano, sbloccando così diversi miliardi sparsi in diversi conti esteri prima vincolati dalle sanzioni occidentali e necessari a far fiatare la sempre più asfittica economica di Teheran.
Messi in fila, questi elementi non possono illustrare l’intero quadro, ma almeno aiutano a cogliere alcune tra le cause del nervosismo di Riyad nei confronti di qualsiasi progetto iraniano che guardi a questa sorta di riedizione del “cortile di casa” in salsa mediorientale.
L’Arabia
Saudita, sfuggita al controllo (davvero mai esercitato?) di
Washington, suo principale sponsor internazionale, sembra oramai
appoggiare in toto
i ribelli islamisti in Siria che spesso si rifanno più o meno
esplicitamente ai gruppi qaedisti come il Fronte al Nusra e che,
sempre più violente e spietate, sono sfuggite a loro volta al
controllo del loro più importante finanziatore (nonché supposto
mentore religioso), scatenando così la reazione di un’ampia
coalizione di forze anti Asad “laiche”, come l’Esercito libero
siriano e altri gruppi moderati. Dettaglio questo, che tra l’altro
ha permesso ai lealisti di Asad di riconquistare molto del terreno
perso negli ultimi tre anni di guerra civile.
E se dal lato militare gli ostacoli non sembrano mancare, neanche sugli altri fronti la petrolmonarchia può dirsi tranquilla: le minoranze sciite delle province orientali e i primi vagiti di un’ancora acerba società civile costituiscono preoccupazioni minori per la casa regnante, ma rappresentano anche evidenti spie di un malcontento che richiede risposte nuove, soprattutto se l’Arabia Saudita vuole ottenere quello status di potenza regionale che aspira a rivestire.
E se dal lato militare gli ostacoli non sembrano mancare, neanche sugli altri fronti la petrolmonarchia può dirsi tranquilla: le minoranze sciite delle province orientali e i primi vagiti di un’ancora acerba società civile costituiscono preoccupazioni minori per la casa regnante, ma rappresentano anche evidenti spie di un malcontento che richiede risposte nuove, soprattutto se l’Arabia Saudita vuole ottenere quello status di potenza regionale che aspira a rivestire.
A tutto ciò si deve aggiungere il raffreddamento nei rapporti
con l’amministrazione Obama, meno propensa dei suoi predecessori a
concedere l’ennesima apertura ai venti di guerra provenienti da
Israele e che di certo vuole seguire con sempre maggior convinzione
il sentiero della diplomazia e dei negoziati per risolvere la
scottante grana del nucleare iraniano.
Ma ora il giocattolo sembra essersi rotto per entrambi i principali poli di influenza regionali, sfuggendo di conseguenza dalle mani dei suoi creatori e così, se da un lato abbiamo esplosioni di violenza sempre più incontrollabili e ampie, dall’altro il monstre irano-saudita-siriano ha generato tanti altri casi minori di “guerre strane”; in primis Libano e Iraq, anche se non molto lontano si agitano diverse altre zone turbolente, solo geograficamente distanti da Riyad o da Teheran come l’Afghanistan, la Palestina e l’Egitto.
Ma ora il giocattolo sembra essersi rotto per entrambi i principali poli di influenza regionali, sfuggendo di conseguenza dalle mani dei suoi creatori e così, se da un lato abbiamo esplosioni di violenza sempre più incontrollabili e ampie, dall’altro il monstre irano-saudita-siriano ha generato tanti altri casi minori di “guerre strane”; in primis Libano e Iraq, anche se non molto lontano si agitano diverse altre zone turbolente, solo geograficamente distanti da Riyad o da Teheran come l’Afghanistan, la Palestina e l’Egitto.
Marco Colombo
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