Addentrarsi nella filosofia
dell’umorismo è già un viaggio pericoloso, figuriamoci nella sua geografia.
Tuttavia è curioso (e sarebbe interessante indagarne i motivi) che tre paesi
così vicini come la Norvegia, la Svezia e la Finlandia coltivino tre tipi così
diversi di umorismo letterario. In questo variegato microcosmo,
prendiamo per ora in esame il primo e più occidentale dei tre paesi, la schiena
e la testa di quel cane stilizzato che, quando esisteva ancora l’arcana materia
scolastica denominata “geografia”, ci facevano intravedere nella forma della
Scandinavia. Il norvegese Erlend Loe è quasi commovente nel suo tratteggiare,
sempre col sorriso e spesso con una sonora risata, le moderne nevrosi dei
giovani nordici, un po’ spaesati tra derive neonaziste, un ordine pubblico
quasi straniante e un’interiorità tormentata che pare opprimere un po’ tutti,
ma sempre – e paradossalmente – con una certa allegria.
Esilaranti a dir poco le irrazionali paure della voce narrante, inspiegabilmente (ma è poi così inspiegabile?) terrorizzato dal cambiamento e da quello che è il suo simbolo universale, sin da Eraclito: l’acqua. Quale peggior obbligo lavorativo per lui, dunque, che il dover scrivere una brochure sulla Finlandia, paese tra i più ricchi d’acqua al mondo? Il tutto, naturalmente, senza mai essere stato in Finlandia, e senza conoscere nulla di quel paese, tranne alcuni discutibili luoghi comuni sull’abuso di alcool e sulla depressione. Parte così una disperata ricerca di informazioni, compito arduo per il narratore, un vero campione nel procrastinare gli impegni (e soprattutto gli obblighi). In più pare singolarmente dotato nel finire irrimediabilmente a parlare di argomenti “acquatici” che lo fanno continuamente fuggire inorridito dal compito che gli è stato assegnato. Evita così di parlare di Jean Sibelius (compositore finlandese) solo perché la sua musica gli sembra “fluire” (verbo continuamente evocato con un’aura di terrore, nel tentativo di esorcizzarlo, in tutto il romanzo). Ecco un esempio dei contorti ragionamenti che colgono il protagonista mentre valuta se ascoltare la radio alla ricerca di informazioni: “è possibile che NRK Classica trasmetta Sibelius stasera, ma non conta, perché Sibelius non sono dati di fatto sulla Finlandia, Sibelius è acqua, Sibelius è un getto d’acqua ad alta pressione e trasmettere Sibelius equivale a riempire le case e gli appartamenti della gente di acqua […]” e così via, finendo per non accendere la radio.
Naturalmente non nomina nemmeno
le decine di migliaia di laghi finlandesi, per non parlare dei porti, dei
fiumi, della neve e di qualsiasi cosa abbia anche lontanamente a che fare con
l’acqua. Il tutto espresso in un lungo flusso di coscienza di più di duecento
pagine senza capitoli, in cui pare di assistere di persona ai periodici
attacchi di “idro-panico” che colgono il narratore e che costellano il libro
come leitmotiv contrassegnati dalla
presenza dell’acqua o del “fluimento”, condizione propria dell’acqua e quindi,
per traslato, di chiunque si trovi a subire, suo malgrado, i tanto temuti
cambiamenti.
Si tratta di una sorta di incontro con il bøig, l’entità invisibile, informe eppure ostacolante con cui anche l’eroe teatrale norvegese per eccellenza, Peer Gynt (protagonista dell’omonima opera di Henrik Ibsen, nella foto in una realizzazione cinematografica), deve scontrarsi. Si tratta di qualcosa che è dentro ognuno di noi, ma che viene proiettato all’esterno dall’insorgere di situazioni di instabilità, diventando un vero e proprio ostacolo fisico. “Fa’ il giro” dice il bøig a Peer Gynt, ma lui risponde “voglio andar dritto”, non riuscendo naturalmente nel proposito e venendo condannato ad andarsene per cinquant’anni in giro per il mondo, alla ricerca del suo vero io. Non a caso al suo ritorno in patria anche lui, come il narratore di Loe, teme di annegare nel mare in tempesta.
L’efficacia di questo romanzo sta innanzitutto nel fatto che (e il lettore se ne avvede subito, mentre il narratore evidentemente – e funzionalmente – no), sforzandosi di evitare il cambiamento, il protagonista vi si ritrova completamente immerso. In un certo senso, si ostina ad “andar dritto” incontro al suo bøig. Cercando di evitarlo, accelera il processo di mutamento che lo condurrà, con l’aiuto (forse un po’ scontato) di una figura femminile, a una nuova e più appagante condizione. Diremmo, con termini psicanalitici passati di moda, che ha superato le sue nevrosi ed è pronto ad aprirsi alla vita, se non fosse che il finale del romanzo rimane aperto a numerose interpretazioni, anche contrastanti. E non fosse che si tratta pur sempre di un romanzo, a cui probabilmente non ha alcun senso applicare categorie troppo “reali”.
Umorismo norvegese, dunque: di un
tipo tutto particolare, in cui le situazioni divertenti emergono quasi a sbalzo
da situazioni di difficoltà. Uno stile fresco, incalzante e rapido, quasi
ansiogeno, per una storia tutto sommato comune a molti, in cui nessuno stenterà
troppo a riconoscersi.
Alessio Venier
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