Questo
è uno di quei libri di cui, francamente, mi stupisco si parli così
poco. E visto che scrivo queste righe a fine anno, tradizionale tempo
di bilanci, posso spingermi ad affermare che sia il miglior libro che
ho letto in questi ultimi dodici mesi. Affermazione pericolosa, lo
so, perché a rigore mancano ancora una manciata di ore, che
potrebbero farmi scoprire un nuovo capolavoro e ribaltare la
classifica a sorpresa. Ma ho buone ragioni per credere che non
succederà: questo libro mi si è presentato in modo troppo casuale
per credere che fosse solo
un caso, se mi si concede il gioco di parole. E, soprattutto, non
credo che mi metterò a leggere qualcosa da qui all’anno nuovo.
Venendo
al romanzo (naturalmente non è una grammatica!), si tratta di un
compunto girare attorno a un colpo di scena che si sa che deve
accadere, ma non sappiamo né come, né quando, né dove. Quando infine
ce lo troviamo davanti, ci sorprendiamo a pensare “e tu da dove sei
sbucato?”, come se avessimo seguito un percorso ad angoli retti
girando attorno agli isolati di una città, e ci fossimo imbattuti,
all’ultima svolta, in un conoscente. Come spesso accade, il colpo
di scena è relativo e non risolve alcunché, perché il proverbiale
“succo” del romanzo è situato nel percorso che a quella
rivelazione ha portato.
Il
protagonista viene ritrovato privo di sensi su un molo di Trieste,
nel tempestoso settembre del 1943. Non ricorda nulla, nemmeno come
fare ad articolare suoni comprensibili: possiede solo una casacca da
marinaio con la scritta “Sampo Karjalainen” e un fazzoletto con
le iniziali “S.K.”. Il medico di una nave militare tedesca, un
finlandese emigrato in Germania, ritiene (dal nome) che si tratti di
un suo connazionale, lo prende in simpatia e gli fa iniziare
un’estenuante percorso che lo condurrà a riapprendere da capo la
complicatissima lingua finlandese e a ritornare in quella che crede
essere la sua patria. In una Finlandia assediata dai Russi, il
marinaio ha tempo di riflettere sull’atrocità della sua
situazione: privo di memoria, e riuscendo con fatica a comunicare a
causa della difficoltà della lingua, si troverà in un assurdo limbo
tra i vivi e i morti. Perché, pare accennare l’autore, non c’è
molta differenza tra un uomo morto e un uomo sano privato della sua
memoria.
Belle,
bellissime le riflessioni del protagonista su questioni linguistiche,
che aprono insospettabili finestre sulla sua stessa anima: ne è un
esempio la sua predilezione, tra i quindici casi della lingua
finlandese, per l’abessivo,
il caso che traduce il complemento
di privazione: dal
momento che “in generale sono più le cose che ci mancano di quelle
che abbiamo”, “tutte le parole belle di questo mondo andrebbero
declinate all’abessivo”.
La
tragica vicenda del marinaio protagonista è un esempio del dramma in
cui si può trovare l’uomo che, metaforicamente o realmente, si
trovi privato della sua identità, perché questo è
un romanzo sull’identità: crisi d’identità, assenza d’identità,
creazione dell’identità. Il tutto veicolato, con un’intuizione a
mio avviso notevole, dall’elemento linguistico: quanto del nostro
essere come siamo dipende dalla lingua che ascoltiamo fin da neonati?
E quanto di quello che siamo si può ricostruire, una volta che ogni
cosa è scomparsa? Cos’è che rende un uomo se stesso? La domanda è
di portata universale e, in quanto tale, senza una risposta univoca.
Leggete, meditate, datevi la vostra risposta.
Alessio Venier
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