Medio Oriente: le colonie della discordia

Ogni tanto ci ricordiamo che in Medio Oriente esiste ancora una questione irrisolta chiamata “negoziati di pace” tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. E puntualmente, appena questi negoziati sembrano riprendere quota, puntualmente qualcosa, o qualcuno spunta fuori per spegnerli sul nascere. Attentati terroristici, dichiarazioni sconsiderate di questo o quel leader, la non incisività sul tema della comunità internazionale, ecc. ecc. Il vero “pomo della discordia” però è rappresentato dagli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est. 
 Tralasciando il questione circa la legittimità internazionale o meno dei Territori occupati, conquistati dallo stato ebraico a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967, la costruzione di nuovi complessi abitativi è l’arma che Israele usa ogni qual volta fiuta odore di minacce internazionali che inevitabilmente ricadono sulla politica interna: l’ultima era stata una rappresaglia contro l’ingresso dello stato di Palestina alle Nazioni Unite come stato osservatore non membro nel novembre 2012. Negli ultimi il giorni, il piano che doveva prevedere la costruzione di 24.000 alloggi nella zona E1, i quali nei piani dovevano sconfinare oltre la linea del 1967, hanno provocato la durissima reazione dell’ANP: due negoziatori, Saeb Erekat e Mohammed Shtaye, hanno rassegnato le proprie dimissioni per protestare contro il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Il leader del Likud ha deciso di far rientrare la crisi annullando il piano di insediamento, ma questo non impedisce che gli ennesimi nuvoloni si aggirino minacciosi sopra questo ultimo tentativo di mettere fine ad una questione drammatica e ad un conflitto che imperversa costantemente nell’area da più di 60 anni. 
I principali sponsor dei colloqui di pace, cioè gli Stati Uniti, mantengono una linea dura nei confronti di Gerusalemme: il Dipartimento di Stato americano si era dichiarato profondamente preoccupato per questo annuncio e attendeva spiegazioni da Israele. Si è spinto ancora più in la Jay Carney, il portavoce della Casa Bianca, definendo l’azione del governo Netanyahu illegittima. Se il progetto fosse andato in porto, questo avrebbe comportato con molta probabilità l’annullamento di qualsiasi futuro colloquio tra gli attori sulla base del motto “due popoli, due stati”. 
Le colonie ebraiche, e le minacce di edificare nuove abitazioni in Cisgiordania, sono l’emblema del fallimento del sionismo politico: il potere è sempre più in mano ai gruppi ultraortodossi e al nazionalismo religioso della destra israeliana, i quali non vogliono scendere a compromessi con i palestinesi, influenzano pesantemente l’operato di Netanyahu, il quale per altro non oppone nessuna resistenza alle pressioni dell’ultradestra, conscio del fatto che la vita del governo dipende molto dai loro voti alla Knesset. Il potere dei coloni religiosi è dovuto anche alle solite divisioni che puntualmente si ripropongono all’interno del fronte palestinese, dove Al Fatah e Hamas come sempre agiscono lungo direzioni diverse e spesso in disaccordo tra di loro. La situazione che si presenta alle conferenze internazionali è la solita: israeliani e palestinesi non sono disposti a fare concessioni e scendere a compromessi, uno dei due contendenti vuole la vittoria assoluta. Sempre il solito film, che ci accompagna dagli accordi di Oslo del 1993, quando la stabilizzazione dell’area sembrava una splendida utopia, tramutatasi poi nel solito muro contro muro che ci ha riportati nella vita reale. Il problema degli insediamenti e dei confini del ‘67 poi è sempre riassumibile nella frase di Shimon Peres : «non è che non ci sia luce in fondo al tunnel, è proprio che non troviamo il tunnel». Per il momento la situazione sembra essere tornata sotto controllo. Ma fino a quando?

Mattia Temporin

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