Un tecnocrate non può salvare l'Europa

“Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani”. Così scrivevano nel 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene, caposaldo del pensiero federalista europeo.
Oggi gli Stati Uniti d’Europa sembrano ancora una chimera e, dato ancor più interessante, a farsi baluardo dell’integrazione europea è un tecnocrate, il Presidente della BCE Mario Draghi che ha inaugurato il suo mandato con l’ormai celebre “do whatever it takes” per salvare l’Euro e in questi giorni torna protagonista ritoccando al ribasso il costo del denaro. Possibile, dunque, che le residue speranze di vedere la nascita di un’Europa federalista e democratica siano nelle mani di un banchiere? 


Alla luce dei fatti sembrerebbe proprio così e oggi i riflettori sono puntati sull’Italiano Mario Draghi, già Goverantore della Banca d’Italia, nonché allievo di Franco Modigliani e Robert Solow (entrambi premi Nobel per l’economia, ndr.) ai tempi  Massachusetts Institute of Technology, che
Il 7 Novembre ha tagliato a sorpresa i tassi di interesse dell’area euro di 25 punti base, abbassandoli dallo 0,5 allo 0,25%. Il provvedimento, reso urgente dalle previsioni dell’Eurostat di un calo verticale dell’inflazione passata dall’1,1% di Settembre allo 0,7% dell’ultima stima, ha avuto l’effetto immediato di far crollare l’euro e far respirare i mercati che hanno chiuso in positivo. Naturalmente, l’obiettivo di lungo periodo dovrebbe essere, oltre alla stabilizzazione dell’inflazione, quello di stimolare gli investimenti attraverso migliori condizioni per le esportazioni europee e un credito più favorevole dettato dalla ripercussione di questa riduzione sui tassi applicati dagli istituti finanziari, che tenderanno a scendere.

Al di là dei dati economici e del giudizio sulla manovra di Draghi, a rimbombare è il silenzio della classe politica europea che mostra ancora una volta la sua incapacità di vedere oltre il proprio naso nella risoluzione della crisi della zona euro. Da un lato, si registra il voto contrario della Bundesbank alla riduzione del Tasso Ufficiale di Riferimento e la stampa tedesca che tuona contro la mossa di Draghi, dicendo che così saranno penalizzati i risparmiatori. Dall’altro, la periferia dell’Europa che fatica a risollevarsi, sebbene le stime suggeriscano l’inizio della crescita a partire dal prossimo anno. In realtà, a ben vedere la riduzione del costo del denaro potrebbe finire per favorire maggiormente proprio quella Germania che oggi alza gli scudi, mentre da verificare sarebbero gli effettivi guadagni per i paesi più indietro come l’Italia.
Il colpo a sorpresa della BCE infatti, indebolendo l’euro, renderebbe più appetibili le esportazioni europee, con quelle tedesche in testa. D’altro canto, paesi come l’Italia, in cui l’export è comunque importante, potrebbero ottenere un guadagno minore dalla riduzione del tasso di interesse, dovuto al ritardo nelle riforme e ai problemi interni. Certo, un tasso di interesse minore, come anticipato, potrebbe sbloccare il credit crunch, ovvero il brusco calo dell’offerta di credito che si è verificato negli ultimi anni, ma il discorso rimane sempre lo stesso: le politiche monetarie rischiano di avere scarsa influenza se a ciò non fanno da contraltare riforme strutturali.

A questo proposito si parla spesso di austerità e crescita e di una loro possibile relazione inversa. Un’interessante riflessione è fornita da Lorenzo Bini Smaghi  che, partendo da un’analisi di Paul Krugman, conclude che “la via di uscita dall’austerità non passa dalla riduzione delle misure di austerità, ma da profonde riforme strutturali che aumentino il potenziale di crescita e creino spazi di manovra per un aggiustamento fiscale più graduale”. Ma allora l’allargamento della base monetaria, come mostra l’esperienza giapponese, è solo una delle medicine per questa Europa malata e l’ottimo lavoro di Draghi rischia di essere vanificato di fronte alle (non)scelte della classe politica europea.

Così l’Unione Europea resta vittima di un paradosso, come ha ricordato lo stesso Draghi. Un paradosso per cui sebbene l’area euro abbia ricostruito dei fondamentali tra i più solidi al mondo, i sacrifici rischiano di essere vanificati se non si pone l’accento sulle riforme strutturali e sulla volontà di uscire dalla rigidità teutonica per aprire la strada ad una completa integrazione europea che superi le frammentazioni del mercato bancario e dia una struttura politica democratica all’Unione.

Ma intanto, la Germania resta ferma nella convinzione dell’identità tra efficacia di una banca centrale e politica monetaria rigida, mentre dalle nostre parti il dibattito politico ha del grottesco e si parla di grazia a B. e primarie truccate. Ed appare sempre più chiaro che per realizzare i sogni del Manifesto di Ventotene un ottimo tecnocrate come Draghi non basta se la politica continua ad essere vittima del suo silenzio.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

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