Giornalista per scelta, antimafioso per carattere.

La storia di Mario Francese, un cronista di razza che profetizzò l’ascesa di Riina.


Durante il ventennio fascista Mussolini inviò in Sicilia, col fine di stroncare sul nascere l’organizzazione mafiosa, il “Prefetto di ferro” Cesare Mori, il quale fece spedire al confino boss del calibro di Don Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Il Duce infatti temeva un ulteriore radicamento delle famiglie che avrebbe potuto portare alla formazione di un vera e propria istituzione parastatale.
Nel 1943 gli Alleati, per poter sbarcare nell’Isola, chiesero ed ottennero l’aiuto della mafia. Visti questi precedenti storici, all’avvento della Repubblica, con la stesura della Costituzione e con il riconoscimento della libertà di espressione, ci si sarebbe aspettati una presa di coscienza sul radicamento del fenomeno mafioso, ma non fu così. I giornalisti del Mezzogiorno anzi, si allinearono, dopo la strage di Portella della Ginestra del 1947, alla tesi minimalista dell’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba, il quale, forse per incompetenza forse per complicità, affermò che il grave eccidio era semplicemente frutto di una lotta tra contadini.Un primo riconoscimento del fenomeno mafioso si ebbe con la strage di Ciaculli del 1963 e con la creazione della Commissione parlamentare antimafia.

Mario Francese
Mario Francese, impiegato all’ufficio stampa della Regione Siciliana, intuì che quella strage era sintomo dell’affermazione di Cosa Nostra nell’isola, e perciò accantonò il suo lavoro e cominciò a collaborare con “Il Giornale di Sicilia”, compiendo una scelta difficile e criticata.
Francese col passare degli anni divenne testimone di tutte le vicende di mafia: dal processo di Bari contro i corleonesi nel 1969, al processo, nel 1971, contro l’allora fidanzata di Totò Riina, Ninetta Bagarella (alla quale il giornalista riuscì a strappare un’intervista) fino allo scandalo della diga Garcia. Il giornalista descrisse minuziosamente le somme di denaro pagate dai prestanome dei corleonesi ai proprietari dei terreni che circondavano la zona da destinare alla costruzione della diga (2 miliardi) e il prezzo pagato dal comune di Contessa Entellina per comprare gli stessi appezzamenti (17 miliardi). Fu proprio questo articolo che fece saltare i nervi all’irascibile capo dei capi, ferito dal “ficcanaso” negli affari e negli affetti.
Mario Francese era ossessionato dai corleonesi. Si era creato una cerchia di confidenti provenienti dai mercati rionali, dai sobborghi e dalle taverne di Palermo, col solo fine di ricostruire accuratamente, nei suoi articoli, i movimenti della compagine mafiosa che da lì a poco avrebbe conquistato il controllo dell’intera provincia. Aveva centrato il bersaglio, profetizzando la frattura all’interno di Cosa Nostra e l’imminente ascesa dei corleonesi, e per questa sua geniale intuizione, oltre che per la sua estrema dedizione al lavoro, venne trucidato da Leoluca Bagarella la sera del 26 gennaio 1979.

I suoi colleghi del giornale lo ricordano così: “Mario era un uomo buono, solare, un cronista di razza; il suo unico metro era la ricerca della notizia; se aveva una colpa era quella di scrivere tutto quello che sapeva”.
Mario Francese non fu solo un giornalista. Egli volle andare oltre la notizia per far comprendere cos’è la mafia, come si muove, da chi è composta e che scopi persegue.
Un eroe civile che ha contribuito, grazie alle sue testimonianze, a far luce sulla struttura interna di Cosa Nostra; un uomo con la “U” maiuscola, vittima di una terra che non ha saputo ricambiare l’amore che egli nutriva per essa.


Salvatore Pillitteri




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