#IntFe - Il sogno incompiuto degli Afroamericani al tempo di Obama

“C’è stato un momento in cui ho capito che era ora di andarmene, quando ho cominciato a vivere tutto sulla mia pelle, la mia pelle nera.” Gary Younge è un giornalista britannico ed è stato il corrispondente da New York del Guardian per 12 anni. A giugno ha pubblicato un lungo articolo di congedo dagli Stati Uniti e così ha voluto presentare se stesso e la sua esperienza al Teatro Comunale di Ferrara, prestato all’attualità per l’annuale appuntamento con il Festival  di Internazionale.


Younge è solo uno dei protagonisti dell’incontro “Il sogno incompiuto” a cui hanno preso parte anche Kristina Kay Robinson, scrittrice e visual artist originaria di New Orleans, Isabel Wilkerson, prima giornalista afroamericana a vincere il premio Pulizer e, in collegamento via Skype, l’attivista per i diritti dei migranti José Antonio Vargas. Interrogarsi oggi, in Europa, su cosa resta del sogno di Martin Luther King, a cui fa riferimento il titolo della conferenza, significa porsi delle domande su noi stessi, su quanto il colore della pelle definisca ancora chi siamo.

Colpisce la precarietà della vita degli afroamericani sebbene siano passati ormai tanti anni dalla fine della schiavitù e della segregazione razziale. Siamo di fronte a una “dieta quotidiana di morte nera”. Come ricorda Younge, i dati riguardo l’aspettativa di vita per un giovane afroamericano sono impressionanti, inferiori di almeno 10 anni rispetto a un coetaneo bianco. Differenti sono anche le cause di morte che, per il 65%, sono determinate da una maggiore incidenza di malattie e omicidi. Per non parlare della situazione nelle carceri, ogni giorno più affollate, e della concreta possibilità di essere uccisi. Rincara la dose Isabel Wilkerson: “Oggi accade ogni tre o quattro giorni che un cittadino americano dalla pelle nera venga ucciso da un altro cittadino americano. Siamo tutti testimoni oculari di tutto ciò.”

Da sinistra, Gary Younge, Kristina Kay Robinson, Isabel Wilkerson e la moderatrice, Monica Maggioni | Foto L'Estense
Eppure il sistema sociale statunitense non sembra essere permeabile al cambiamento e, a partire dall’assassinio di Micheal Brown a Ferguson ormai un anno fa, la tensione non ha fatto che crescere. Per capire le ragioni dell’instabilità sociale basti pensare a quante forme di segregazione sono ancora una realtà negli Stati Uniti. 
Il ricercatore dell’Università della Virgina, Dustin Cable ha costruito delle mappe delle principali città americane colmando le aree con dei puntini colorati: ad ogni colore corrisponde un gruppo etnico in base alla definizione dell’ultimo censimento. In questo modo appare chiaro come alcune città, Los Angeles, Sacramento, Philadelphia abbiano un tessuto socio-abitativo fortemente integrato. Le immagini più impressionanti sono, invece, quelle di Detroit, St. Louis o New Orleans letteralmente divise a metà tra aree bianche e aree nere. Non si tratta di confini labili, ma di vere e proprie linee di demarcazione che non si possono valicare. La stessa Robinson racconta che solo qualche giorno fa un uomo è stato ucciso nella sua città per aver “sconfinato” mentre tornava a casa dal lavoro.

La città di Detroit nello studio di Dustin Cable
La segregazione abitativa ha, prevedibilmente, forti conseguenze anche sulla fruizione dei servizi da parte della popolazione afroamericana: dai trasporti all’educazione, dal lavoro alla sanità fino a condizionare anche il linguaggio. Si creano delle vere e proprie isole che riducono sensibilmente le concrete possibilità per gli afroamericani di integrarsi con il resto della società.

Paradossale è osservare la permanenza di queste diseguaglianze negli Stati Uniti governati da ormai 7 anni da Barack Obama, primo presidente di colore del paese. Tuttavia, come saggiamente ribadisce Gary Younge, “è importante che i simboli non vengano confusi con la sostanza e ciò vale per Obama così come per Marthin Luther King.” L’elezione di Obama ha sì prodotto un sentimento quasi schizofrenico di felicità, come ricorda Kristina Kay Robison, ma ha portato anche molti suoi detrattori ad opporsi alla sua figura politica e a tutti i neri con più forza. “L’elezione di Obama, analizza Isabel Wilkerson, è stata interpretata come una minaccia e ha attecchito a livello psicologico soprattutto tra i bianchi più tradizionalisti o degli Stati storicamente repubblicani.”

Resta da chiedersi cosa accadrà poi, in particolare sulla strada verso le Presidenziali del prossimo anno. La consapevolezza di sé e del proprio ruolo nella storia americana è sempre più forte, tra gli afroamericani, e i 50 anni ormai passati da quel biennio, tra il 1964 e il 1965, che sembrava aver cambiato la loro storia è servito a rinvigorire il senso per le ingiustizie dell’ineguaglianza. Nel frattempo, come testimonia José Antonio Vargas, emergono nuove sfide per gli Stati Uniti: la crescita della comunità ispanica, la necessità di una riforma organica dell’immigrazione, il rapporto con sempre più persone di culture differenti sono sfide notevoli per un paese che non è stato ancora in grado di risolvere il “problema” dei neri. “Dobbiamo parlare anche di immigrazione, conclude Vargas, perché in fondo tutto si riduce alla forte incapacità di affrontare la propria storia.

Di fronte a questo obiettivo, non resta che un auspicio comune, quello di riscoprire l’empatia, la capacità di riconoscere se stessi nell’altro, per poter costruire ponti di dialogo. “Sogno un mondo in cui possa esistere un umanesimo internazionale militante, afferma Gary Younge, Mi rendo conto che è quasi un’utopia, ma vorrei che fosse possibile vedere Michael Brown esattamente come Aylan Kurdi, riscoprendo la capacità di riconoscere gli esseri umani.




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