Putin e la posta in gioco in Medio Oriente



Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu
L’interventismo di Vladimir Putin in Siria ha lanciato un guanto di sfida non indifferente sia agli Stati Uniti che ai suoi alleati europei presenti nella coalizione internazionale per contrastare l’IS. Al supporto economico e militare che la Russia ha sempre effettuato nei confronti di Bashar Al-Assad è seguito l’invio nell’ultimo mese di istruttori e soldati, e l’avvio di una campagna di supporto aereo, nella quale l’aviazione del Cremlino ha cominciato a bombardare sia le postazioni e le parti del paese occupate dal Califfato di Abu Bakhr Al Baghdadi, sia ad affiancare le forze dell’esercito lealista in azioni di riconquista di territori in mano agli altri gruppi ribelli. L’ultima notizia riportata riguarda i bombardamenti russi effettuati nella città di Aleppo, contesa tra le forze di Damasco e numerose sigle anti-governative sin dal 2012, per favorire la presa della città, per la quale stanno collaborando anche gruppi operativi di Hezbollah e dell’esercito iraniano.

Nonostante le difficoltà patite di un esercito governativo sempre più stremato, Putin continua a sostenere che il sostegno alla famiglia Assad sia di vitale importanza per impedire che ciò che rimane della Siria cada definitivamente nelle mani dello Stato Islamico, diventando così una centrale da cui organizzare atti di terrorismo internazionale. La carta che in questo momento il Capo del Cremlino ha in mano è quella migliore, soprattutto perché i cosiddetti settori moderati dell’Esercito Libero Siriano, sostenuto dagli Stati Uniti in primis, sono ormai scomparsi quasi del tutto dal contesto del conflitto civile, perché male armati ed addestrati. Il Cremlino quindi sta presentando il Capo dello Stato siriano come il punto da cui partire per guidare un processo di transizione politica nella quale la Russia e l’Iran dovrebbero ricoprire il ruolo di maggiore importanza. Putin potrebbe giocare altre due carte in questo caso: o limitarsi alla creazione di uno Stato alawita nel sud del paese, supportato dalle armate russe a difesa di Tartus, unico sbocco russo nel Mediterraneo, o decidere di obbligare Assad a lasciare il potere, sostituendolo con un altro esponente del suo clan che sia gradito anche agli USA e all’Europa, anche se in questo momento sembrano mancare alternative valide su quel versante.

Ma le ragioni per la quale Putin non molla di un centimetro la sua posizione sulla Siria sono anche altre: non solo vuole evitare un altro smacco simile a quello della Maidan ucraina che avverrebbe in caso di una deposizione dell’alleato, ma principalmente Mosca è decisa a lanciare una sfida definitiva riguardo gli equilibri politici e le alleanze che hanno permeato l’universo mediorientale. Putin infatti sembra intenzionato a diventare un interlocutore affidabile anche per quelli che sono sempre i fedeli alleati di Washington nella regione. Prima è stato il turno di Israele, dove l’incontro di settembre tra Putin e Nethanyahu è servito ad evitare pericolosi incroci di fuoco tra le truppe dello stato ebraico e quelle russe. Poi è arrivato il turno dell’Arabia Saudita, con il volo in Russia effettuato dal suo ministro della difesa per discutere sempre di un’eventuale via d’uscita dalla crisi siriana che possa accontentare tutti, nonostante la propensione anti-Assad continui a permeare le linee guida della monarchia del Golfo nei confronti di Damasco. Quello che ha in mente Putin è allontanare Obama dai suoi alleati più stretti, riempiendo il vuoto di una politica statunitense che guarda molto più all’Asia orientale che al Medio Oriente.

Putin sta vincendo la partita? E’ presto per dirlo, perché le incognite sono molte. Come è già stato accennato, nonostante i mezzi messi a disposizione, i russi non sono ancora riusciti a dare quella spinta che vorrebbero per incanalare le forze governative verso vittorie decisive. Ma soprattutto sono due i maggiori rischi che si presentano al momento per Putin: il primo è che il pericolo di un nuovo Afghanistan si palesi per le forze militari russe, con le conseguenze che possiamo immaginare. Il secondo motivo di timore è che Mosca si possa lasciare coinvolgere in una guerra tra sciiti e sunniti. Nonostante il colloquio con i rappresentanti di Ryadh, la forte rivalità tra i sauditi e l’alleato Teheran, rappresenta un grosso punto interrogativo per il Cremlino, determinato a non farsi tirare in ballo in uno scontro intraconfessionale che potrebbe avere ripercussioni anche per quanto riguarda molte zone nevralgiche come il Caucaso settentrionale.

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