SundayUp - Dargen D'Amico, "D'IO" (2015)


Corre l’anno 2012. Mentre cerco timidamente di approcciare il mondo dell’hip hop, il mio coinquilino del tempo mi consiglia di ascoltare un disco. L’album si chiama Di vizi di forma virtù; l’eclettico rapper/songwriter che lo canta è Dargen D’Amico, alias JD, alias Corvo D’Argento; e io m’innamoro subito di pezzi come “SMS alla Madonna” ed “Ex contadino”.
Pur viaggiatore profano nel sacro territorio che è il rap, riconosco che lo stile di Dargen è qualcosa di unico. Le parole gli escono di bocca in un flusso ritmato eppure omogeneo, incastrate le une alle altre in giochi di prestigio e calembour che a volte ricordano più Giuseppe Peveri ovvero Dente che Marracash. Il flow che lo contraddistingue fin da piccolo (appena esordiente, a 14 ani, vince un contest di freestyle nel programma radio One Two One Two) e l’abilità come mc (è considerato uno dei rapper più veloci e tecnici della scena italiana) lo rendono un esponente di tutto rispetto della scena hip hop nazionale, nonostante la sua originalità lo abbia sempre mantenuto ai margini del grande mainstream dove imperversano colleghi come i Club Dogo, con i quali inizia tra l’altro la sua carriera all’interno della crew milanese Sacre Scuole.

Ma l’aspetto della sua poetica che più mi piace è il fatto che, pur rientrando a pieno titolo nella scena rap, le sue canzoni sono quasi tutte lontane anni luce dalla retorica ghetto/vita da strada/don’t fuck with me/droga e figa che caratterizza troppa parte della musica di genere. Al contrario, la sua cifra stilistica è costituita da temi essenzialmente intimisti, a metà tra il self-questioning, l’autocritica, il flusso di coscienza e certi voli pindarici che vano ad abbracciare l’uomo nella sua interezza, il cosmo intero, Dio. Lui stesso definisce il suo stile “cantautorap”, a metà tra l’hip hop, il cantautorato, l’elettronica e il progressive; tra le sue principali influenze cita spesso Lucio Dalla ed Enzo Jannacci, decisamente fuori dall’orizzonte canonico del rapper medio.


L’esordio come mc risale al 1999, con le già citate Sacre Scuole. Negli anni seguenti fonda un’etichetta, la Giada Mesi, per la quale fa uscire gran parte dei suoi lavori. Nel tempo lancia sul mercato cinque album, mentre la cura per gli arrangiamenti elettronici e le caratteristiche liriche dei suoi testi diventano sempre più tratti distintivi della sua personalità artistica. Conta una quantità impressionante di collaborazioni bizzarramente assortite, tra le quali ricordiamo Two Fingerz, Club Dogo, Crookers, Fabri Fibra, Alborosie, Bugo, Marracash, Max Pezzali (sì, QUEL Max Pezzali), Fedez, Malika Ayane, J-Ax, i Perturbazione ed Enrico Ruggeri (sì, QUELL’Enrico Ruggeri).
Il suo eclettismo si manifesta anche attraverso l’originalità della sua produzione, inaudita in un contesto hip hop che in Italia si è appiattito sul rap da strada da una parte e sul trash da classifica dall’altra. Il suo quarto disco, Nostalgia istantanea, è composto da sole due tracce lunghe rispettivamente 18 minuti (il lato A, che reca incisa la title track) e 20 minuti (il lato B, Variazioni sul tema Nostalgia Istantanea). I due brani sono in realtà un flusso ininterrotto di parole ed immagini scaturite dalla riccioluta testa del nostro nei momenti appena precedenti e seguenti il sonno. Il risultato è un flusso di coscienza su basi elettroniche quasi ambient, un ininterrotto tuffo speleologico nel mondo privato di D’Amico. Decisamente non Drop it like it’s hot.

Date queste premesse si può capire come, pur non essendo un grande fan dell’hip hop, fossi molto emozionato mentre il mondo si preparava a ricevere l’ultimo capolavoro di JD, D’IO, uscito via Universal il 3 febbraio 2015.

Il disco consta di 13 tracce nel più puro stile D’Amico, ma con una marcia in più. Questa volta c’è un soffio mistico, quasi profetico, che gonfia tutto il disco. Già la prima traccia, La mia generazione, è un canto di amore e disperazione per un popolo anagrafico perso e senza riferimenti, con “amori e lavori che durano weekend e weekend che durano una vita”. Anche Amo Milano è una canzone d’amore, amore per un posto che “sembra una città ma è Milano”, metropoli europea piena di difetti e forse proprio per questo così affascinante.
Poi arriva La lobby dei semafori. È un pezzo strampalato in cui Dargen tira fuori un po’ di quella lingua sciolta per cui è famoso, asservendola a un testo paracomplottista che ipotizza una lobby al comando delle luci semaforiche del mondo. E poi, proprio alla fine della canzone, ci sono quei 50 secondi di delirio parlato che finisce per paragonare lo stesso Dargen a un semaforo lampeggiante, un ribelle contro la scena musicale italiana. A metà tra boh e wow.
È il momento di Crassi, un j’accuse contro la politica corrotta che spicca come una mosca bianca nella produzione del rapper milanese, sempre lontano da argomenti di attualità. Ci si chiede cosa passa per la testa dei figli di Craxi quando chiedono una strada con il nome del padre: “anche mio padre”, canta JD, “era un poco di buono, un fantasista di dubbia moralità; ma non mi verrebbe mai in mente il bisogno di fargli intitolare la via di una città”. E qui sorge il dubbio che il nostro in realtà abbia qualcosa di irrisolto con il padre (chi non ce l’ha, in fondo), perché anche nel pezzo successivo, Amico immaginario, se la prende con il genitore: “avevo già sentito uomini inutili come mio padre parlare di Dio”.
La mia donna è un capolavoro di incastro ritmico: se si ascolta con attenzione il sintetizzatore che fa da sottofondo all’inizio e per buona parte del pezzo, e poi si tenta di piazzarci sopra il flow di Dargen, sembra impossibile che le due cose stiano bene insieme. Poi però, ascoltando il brano nel suo complesso, tutto gira armoniosamente, come quelle ruote dentate di dimensioni e forme diverse che, grazie ai miracoli delle fasi e della geometria, girano incastrandosi perfettamente l’una nell’altra. Tra l’altro JD coglie anche l’occasione per reiterare il suo amore per Dalla, cantando “poi le mostro sottovoce che qui sotto, sotto sotto io non sono ancora morto, lei mi dice poveretto il tuo morto dallo al gabinetto”.

Dalla traccia 8 alla 13 l’afflato mistico di Dargen si sfoga liberamente. A parte Lunedì chiuso, il sestetto di brani è la parte del disco in cui il rapper milanese può sciogliere i lacci al suo occhio interiore e lasciarlo correre lungo tutta la linea del tempo dell’evoluzione umana (Parenti, nella quale cerca di spiegare “che siamo tutti parenti/se il primo uomo è stato uno/ siamo parenti, siamo fratelli di ognuno”), oppure negli spazi siderali a considerare tutto l’universo, rispetto a cui, nonostante le nostre manie di grandezza, non siamo che ridicoli atomi (L’universo non muore mai). Ma i brani più sorprendenti sono probabilmente i due di chiusura, Modigliani (uno dei singoli estratti dal disco) ed Essere non è da me.
Il primo, con la sua base struggente e una melodia vocale che ti culla fino al sonno tra le lacrime, è una vera poesia ispirata alla vita di Amedeo Modigliani, qui simbolo dell’artista consumato dalla sua vocazione e morto in povertà, solo per essere poi rivalutato e infine osannato a posteriori, ancora in tempo per tutti tranne che per lui.
Ma Essere non è da me è la vera chicca, un riassunto di tutto ciò che è stato ed è Dargen D’Amico. Come lui stesso dice: “È un brano figlio di D'iO, è un dialogo (o monologo, a seconda delle credenze religiose) con la luna - intesa sì come satellite ma altrettanto come l'Una e cioè sinonimo dell'Uno, e quindi dell'Universale, di Dio, la Summa”. Corredato di un video disarmante nella sua semplicità, nel suo farci sentire come se fossimo davvero di fianco a Dargen nei suoi mille giri per il mondo e al tempo stesso soli con lui nella sua testa, mentre ripensa a quello che è stato e tira le somme, Essere non è da me è forse l’apice della produzione artistica di questo artista alieno, bizzarro, caleidoscopico.



Alcuni penseranno che Dargen abbia sviluppato un complesso di Dio piuttosto importante; basti pensare alle volte che la divinità viene evocata o addirittura confusa con la voce narrante nei suoi pezzi, al titolo del suo ultimo disco, o anche solo all’incipit della citazione precedente. La cosa è verosimile, non lo nego.
Sta di fatto, però, che quest’uomo spicca come un diamante nel fango all’interno del panorama hip hop italiano – ma anche in quello musicale tout court – per originalità, intraprendenza, indipendenza, talento e capacità di scrittura. Ha fondato un’etichetta, ha inventato almeno un genere musicale, ha sfornato sei dischi di qualità sorprendente – e tutto questo flirtando sapientemente con le major, giostrando con abilità tra il pop commerciale e l’avanguardia più sperimentale, mettendo insieme riferimenti colti, classici della musica italiana e parti di pura elettronica. Se dovete ascoltare dell’hip hop italiano oggi, ascoltate Dargen. Se dovete ascoltare della musica italiana oggi, ascoltate Dargen. Se proprio vi fanno schifo entrambi, se vi piacciono i Motörhead o Shakira, se non ascoltate musica per niente – ascoltate comunque Dargen, e non ve ne pentirete.

Giovanni Ruggeri

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