La grande occasione del cavaliere riluttante


Questo articolo si intitola “La grande occasione” ma avrebbe potuto chiamarsi anche “La grande scusante” o “La grande paura”. Occasioni sacrificate da una visione politica che appare il più delle volte stentata, prigioniera di vecchie logiche, alle quali ci si aggrappa ancora oggi disperatamente, senza rendersi conto dell’incalcolabile danno che viene prodotto, della frustrazione che aumenta, della delusione montante. Chi avrebbe potuto replicare coi fatti alle entusiasmanti parole pronunciate poco tempo fa si è ritrovato incapace di agire, attaccato su tutti i fronti, accusato paradossalmente di essere sia un guerrafondaio sia un irresoluto. D’altra parte la gravità della situazione attuale in Siria e in Iraq ha scompaginato le parti in campo, confondendo ancora di più le situazioni e costringendo amici e nemici – o comunque alleati ma con posizioni molto diverse fra loro – a sedere allo stesso tavolo e a parlarsi (forse) dopo anni di insulti o peggio.
La forte preoccupazione creata dall’avanzata dell’Isis e le pressioni degli USA per evitare di ritrovarsi da soli ad affrontare questa nuova minaccia hanno spinto i leader occidentali a riunirsi in Galles il 4 e 5 settembre. Era da tempo che Barack Obama e il suo Segretario di Stato John Kerry premevano per una soluzione congiunta al problema e la parola “coalizione” era aleggiata più di una volta nei loro discorsi. Una parola che, fin dai tempi dell’invasione dell’Iraq nel 2003, aveva creato parecchi problemi, in special modo dentro la NATO. Oggi, con l’Isis che avanza quasi ovunque in Iraq, Baghdad che assomiglia sempre di più a Saigon nel 1975 e una crisi che rischia di allargarsi ad altri paesi della regione, nessuno pare aver più voglia di stare a guardare in che modo si etichetterà questo nuovo capitolo della War on terror.
E così, come il nuovo espansionismo della Russia ha dato un nuovo senso all’esistenza della NATO (o meglio: le ha permesso di riscoprire il suo senso originario), allo stesso modo l’Isis ha costretto Obama a ritornare in Iraq e a rispolverare una “Coalizione dei volenterosi” (ma guai a chiamarla così!) in salsa democratica. Ne faranno parte i maggiori contribuenti della NATO e cioè (oltre ovviamente a Stati Uniti e Gran Bretagna), anche Francia, Germania, Danimarca, Polonia, Turchia e Canada; ma non sarà una task force per i soli appartenenti all’Alleanza atlantica, dato che contribuirà anche un paese, l’Australia, extra NATO. Sostegno e poco più (l’Arabia saudita promette le sue basi militari per addestrare l’opposizione siriana) è stato offerto da altre dieci nazioni arabe.

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E qui si presenta la prima grande occasione mancata. Due importanti personaggi che avrebbero avuto molto da dire sulla “questione terrorismo” non sono stati invitati: Russia e Iran. Ancora troppo forte la storica inimicizia con gli USA, troppo recenti le schermaglie per l’Ucraina (e la Siria) e le molte sanzioni che colpiscono duramente entrambi i paesi. Impossibile quindi che tutti questi attori potessero dialogare liberamente e allearsi alla luce del sole contro il nemico comune. Questo nonostante da tempo sia Mosca che Teheran stiano fornendo ufficialmente assistenza militare di svariato tipo a Baghdad.
La minaccia terroristica, come dicevamo, ha ricompattato il fronte, ha imposto il serrate le fila. L’Isis rappresenta per tutti un problema. Così come in passato lo erano stati Saddam Hussein durante l’invasione del Kuwait o Al Qaeda e i talebani dopo l’11 settembre. Volenti o nolenti, alleati ed (ex?) nemici, con la minaccia o per interesse tutti si schierarono a fianco degli Stati Uniti.
Ma Barack Obama non è George Bush, John Kerry non è Donald Rumsfeld e il 2014 non è il 2003. E quindi niente boots on the ground, niente truppe sul terreno, niente grandi numeri o striscioni un po’ troppo ottimistici.
Senza contare che tutti questi “no” rendono le tirate d’orecchio di Obama (che vorrebbe una spesa militare al 2% del PIL per tutti i paesi NATO) ai vari leader UE un po’ incoerenti. E questo perché Obama non vuole una guerra in Iraq oggi così come non la voleva nel 2003, perché Obama non è nato per scatenare grandi conflitti (al massimo per condurre piccole operazioni di breve durata come ad Abbottabad o in Libia nel 2011). Perché Obama sognava di legare i suoi mandati a grandi riforme socio-economiche, e non di entrare nelle città nemiche appena espugnate su un cavallo bianco alla testa di un esercito vittorioso.

Ogni riferimento a cose e persone realmente esistenti è puramente casuale
E questa rappresenta un’altra grande occasione. Anche se purtroppo in parte sprecata, Barack Obama ha personificato questa grande occasione. O almeno ha tentato di incarnarla. Per questo la sua politica estera a tanti è apparsa esitante, incerta, persino contraddittoria a tratti. Ma del resto egli sapeva a quale eredità avrebbe dovuto far fronte dal momento in cui si è candidato per la presidenza degli Stati Uniti. La risposta ufficiale a tale eredità è stata soprattutto l’immagine di un disimpegno il più rapido possibile, come a voler chiudere in fretta con quel passato così ingombrante e gravoso da sopportare. L’amministrazione Obama è poi coincisa con una sequela di sostituzioni politiche “sfortunate”, cioè il classico caso della persona giusta, nel momento giusto ma al posto sbagliato. Parliamo di ‘Abd Allah, che succede sul trono degli Al Sa’ud e, paradossalmente, è uno dei figli del fondatore del Regno (a distanza di sessant’anni dalla morte di quest’ultimo)1. Invece in Iran, Hassan Rohani viene nominato Presidente, prendendo il posto del conservatore Mahmud Ahmadinejad.
Grandi e piccole, note e meno note, più o meno controllate non sono molte le organizzazioni terroristiche “sfuggite” alle attenzioni dell’Arabia saudita. Purché fossero riconducibili alla galassia sunnita e disponibili ad espandere la predicazione del movimento wahhabita, tanto caro agli Al Sa’ud. Il regno è famoso anche per aver dato i natali allo stesso bin Laden, figlio di un costruttore di origini yemenite molto vicino alla casa regnante saudita. Ma ora, con l’Isis resosi indipendente economicamente da Riyad, il giochino degli Al Sa’ud pare essersi rotto, proprio fra le mani di chi l’aveva così tenacemente voluto e così costantemente alimentato nel corso degli anni. Molto tardi ci si è resi conto che continuare a foraggiare queste formazioni avrebbe comportato un serio rischio per la stabilità del regno e per la stessa dinastia saudita, fino a giungere ai recenti avvertimenti lanciati da ‘Abd Allah ai paesi occidentali, i quali sarebbero i prossimi obbiettivi dell’Isis.
Contemporaneamente, a diversi km di distanza, le elezioni di Hassan Rohani, un moderato, sono coincise con il periodo di massima distensione nei rapporti Iran-Stati Uniti dai tempi della rivoluzione del 1979. Un elemento, questo, che ha aiutato sicuramente tutti gli attori presenti al tavolo delle trattative per il nucleare iraniano. Ma anche quest’occasione di dialogo e di distensione è stata percepita molto negativamente sia a Washington che a Teheran (per tacere dell’aperta ostilità con cui Riyad ha accolto l’improvviso riavvicinamento fra i due paesi, intimorita all’idea di vedersi scippare dall’Iran il titolo di prima potenza regionale). 

John Kerry con Mohammad Razif, ministro degli Esteri iraniano.
I guerrafondai di ogni nazionalità, la criticità della situazione ormai incancrenita, le pressioni dei Repubblicani statunitensi e della comunità internazionale che oggi si aspetta una risposta decisa, definitiva, quando per anni e fino a ieri si è rimasti a guardare il bubbone crescere e infettarsi: questi sono stati i veri ostacoli di molte delle occasioni fin qui elencate. Ma è forse nato ieri il terrorismo? E i governi dittatoriali? E la povertà e l’analfabetismo? Ci si stupisce e ci si indigna se tanti giovani sono attratti dal richiamo delle armi dimenticando che quello è l’unico suono che abbiano mai sentito in tutti questi anni. Se gli occidentali sono visti (un altro dei tanti stereotipi errati che circondano le narrazioni riguardanti il Medio Oriente) solamente come coloro che sfruttano per i loro oscuri giochi geopolitici e poi abbandonano il campo, ci si illude sperando che elezioni, presidenti, ponti, ospedali e strade resisteranno al nubifragio. Il nation building in Afghanistan Bush non lo volle (seppe) neanche fare. Meglio lasciare il paese ai soliti signori della guerra, come venne fatto dodici anni prima terminata l’invasione sovietica, per poter intanto cominciare a pensare all’Iraq e a Saddam.
Quasi tre anni fa ci furono le Primavere arabe, un’altra grande occasione. Ma, ancora una volta, in troppe “stanze dei bottoni” non venne considerata quella “giusta”. Chi faceva la rivoluzione erano giovani delle grandi città, privi di potere reale, e pochi intellettuali e pensatori. Chi volevano mandare a casa erano cricche corrotte e alleate fra di loro. Chi poteva prenderne il posto erano personalità politico-religiose perseguitate per anni dalle cricche, personalità con alle spalle enormi masse rurali, analfabeti, poveri, corrompibili facilmente, impaurite dal caos e dall’anarchia (un copione per certi versi simile a quanto accadde in Italia nel 1922).
Quella che poteva rappresentare un’enorme occasione per democratizzare la regione (sia chiaro, con tempi e modalità molto diversi fra loro: si veda ad esempio l’involuzione dell’Egitto o i grandi passi avanti compiuti dalla Tunisia) è stata vista come un pericolo alla stabilità interna dei paesi coinvolti e dell’intera regione. I giovani cittadini e gli intellettuali sono stati applauditi prima e dimenticati poi, troppo forti gli interessi in gioco, troppa la paura che alla dittatura seguisse il caos o, peggio ancora, un governo eccessivamente radicale dal punto di vista religioso.

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Oggi, molte delle occasioni che abbiamo fin qui visto sono ancora sul tappeto. È insomma ancora possibile invertire la rotta, imboccare una nuova strada. L’Isis non è un nemico che accomuna solo i popoli occidentali ma anche quelli del mondo arabo, sperare di sconfiggerlo solamente con la potenza delle armi è un’illusione e gli eventi afgani stanno lì a ricordarcelo. L’Iran in questa partita potrebbe costituire un importante alleato, il che aiuterebbe al contempo ad allontanargli di dosso l’immagine di “Stato-paria” e a favorirne lo sviluppo politico ed economico, alleggerendo così le tensioni in un punto chiave della regione. La democratizzazione di questi paesi e di quelli attraversati dalle Primavere arabe non giungerà presto né facilmente ma perseguire vecchie strade (come il sostegno acritico ai governi militari, gli interventi militari o il costante terrore per l’Islam) non accelererà sicuramente il processo e non aiuterà l’Occidente a ripulire la propria immagine agli occhi del mondo arabo.

Marco Colombo

1 Va però precisato che ‘Abd Allah divenne re nel 2005, dunque tre anni prima che Obama venisse eletto. 



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