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30 ottobre 2014

Le colpe dei tecnocrati

Nelle intenzioni, questo articolo doveva parlare della stupefacente capacità delle istituzioni dell’ Unione Europea di fare apparentemente di tutto per peggiorare la propria reputazione nei confronti dei suoi cittadini.
Josè Manuel Barroso

Le elezioni per il Parlamento dello scorso maggio, che hanno visto l'affermazione di partiti euroscettici in gran parte del continente, sarebbero dovute fungere da grande incentivo a Bruxelles al fine di sembrare più vicina alla gente comune. Invece sono arrivati una serie di scivoloni impressionanti e sconcertanti in questo senso. L’ultimo in ordine di tempo è rappresentato dalla reazione inferocita del Presidente uscente della Commissione, Josè Manuel Barroso, di fronte alla pubblicazione da parte del governo italiano della lettera (confidenziale) in cui si chiedono chiarimenti riguardo allo scostamento dell’ultima legge di stabilità con gli obbiettivi di bilancio fissati nella scorsa finanziaria. Il Primo Ministro Matteo Renzi ha teso un tranello all’Europa, sfidandola sul campo della trasparenza per poi eventualmente presentarla come l’ennesimo nemico del suo esecutivo riformista. Bruxelles ci è cascata. In pieno, oserei dire.

Già in altre circostanze comunque negli ultimi mesi la UE non ha dimostrato grande impegno per svestirsi di quell’immagine di regno di trattative oscure e accordi politici sottobanco che le viene additata dai suoi detrattori. Dapprima attraverso la fin troppo lunga trattativa per la nomina di Jean Claude Juncker come Presidente della Commissione, quando, teoricamente, la carica gli doveva essere conferita automaticamente in quanto candidato sostenuto dal partito di maggioranza del Parlamento. Poi è toccato decidere il nuovo Presidente del Consiglio Europeo. 
Tusk, Van Rompuy e Mogherini
La scelta è ricaduta su Donald Tusk, ex Primo Ministro polacco, fedele alleato della Germania e della Cancelliera Angela Merkel. Poco è importato, in barba ad una certa meritocrazia, che il signor Tusk non sappia una parola di francese e il suo inglese sia a dir poco stentato. Cosa dire inoltre della conclamata pressione da parte di Socialisti e Popolari sulla deputata lettone Iveta Grigule affinché lasciasse gli euroscettici di EFDD (Europe of Freedom and Direct Democracy, il gruppo a cui appartiene l’M5S tanto per intenderci), facendoli così perdere lo status (e i fondi) di gruppo a Strasburgo? Nigel Farage è andato su tutte le furie e, con i soliti toni coloriti, ha accusato il presidente dell’Eurocamera Schulz di essere “più adatto a presiedere il parlamento di una repubblica delle banane”. Anche le inedite audizioni dei candidati ai posti di membri della Commissione di fronte agli eurodeputati, che servivano a dimostrare l’impegno da parte della UE per ridurre il cosiddetto “deficit democratico”, si sono trasformate in una sorta di ridicola partita a scacchi tra PSE e PPE. Ciò è stato evidente soprattutto nel caso dell'ex ministro francese delle finanze di centro-sinistra Pierre Moscovici, che era stato indicato da Juncker come “Commissario Europeo per gli Affari Economici e per gli Affari Monetari”. Inizialmente Moscovici era stato rimandato dalla maggioranza di centro-destra come monito per la successiva audizione del falco finlandese Jyrki Katainen. Insomma, tutti giochi di palazzo. In Italia, senza troppe esitazioni, li definiremmo “inciuci da Prima Repubblica”.
Grillo e Farage

Tuttavia, rovistando in qualche volume sul tema, mi sono reso conto che la causa dell’attuale impopolarità del progetto d’integrazione europeo non è la insufficienza di quella che, in termini tecnici, viene definita accountability. Essa ci si è sempre stata. Anzi, è drasticamente diminuita nel tempo. Basti pensare che solo nel 1979, ben ventidue anni dopo l’atto costitutivo della CEE a Roma, si sono svolte le prime elezioni per il Parlamento Europeo. Prima il processo di integrazione era totalmente gestito dalle élite politiche continentali e i cittadini non avevano alcuna possibilità di esprimersi su di esso, se non indirettamente. Inoltre bisogna sottolineare che una fetta consistente dell’opinione pubblica continentale non è a conoscenza delle intricate dinamiche organizzative e decisionali della UE. Dubito fortemente che la casalinga di Voghera, l’operaio della Volkswagen di Wolfsburg e il coltivatore di vini della Borgogna (perdonate l’uso massivo di stereotipi) si siano interessati agli eventi descritti in precedenza. Quindi perché in questi ultimi anni la fiducia nei confronti delle istituzioni di Bruxelles è calata così vistosamente, anche in paesi fin dal principio considerati europeisti come il nostro?

Vladimir Putin
Per capirlo è necessario ricordare gli obbiettivi iniziali di questa incredibile avventura politica che va avanti da più di mezzo secolo. Perché ci siamo messi insieme? Solamente a causa del “ricatto” statunitense di non fornirci gli aiuti previsti dal Piano Marshall? No, non solo. Abbiamo unito le nostre forze per perseguire i due obbiettivi che hanno spinto tutti i piccoli stati nella storia moderna a federarsi: sicurezza e prosperità. Oggi, purtroppo, entrambi questi elementi nel nostro continente sono messi in discussione. Da una parte il terrorismo islamico, prima con Al Qaeda e ora con lo Stato Islamico, l’espansionismo russo sotto la guida del Presidente Putin e i flussi di immigrazione dal Nord Africa e dal Medio Oriente fanno sentire i cittadini europei vulnerabili ed indifesi, evocando paure che sembravano dimenticate. Dall’altra, l’aumento della disoccupazione, la mancanza di crescita sostanziale del PIL nei singoli stati membri e il progressivo sgretolamento dei sistemi di tutele sociali inibiscono le aspettative individuali di benessere economico. In poche parole, in Europa oggi ci si sente più insicuri e più (relativamente) poveri. L’ insoddisfazione e le ansie della popolazione si riversano dunque inevitabilmente sulle istituzioni nazionali e sovrannazionali, che vengono inquadrate come responsabili, o quanto meno passivi spettatori, di questi sviluppi. Ovviamente, non occorre essere degli abili statisti per cavalcare l’onda di questo malcontento ed aumentare il proprio consenso elettorale (vedi Salvini).


Tuttavia per riconquistare la sicurezza e la prosperità e, di conseguenza, i cuori dei propri cittadini, l’Unione Europea deve rappresentare un esempio virtuoso di apertura, trasparenza, democrazia, efficienza, competenza e coesione. Non è solo questione di forma e lo devono capire tutti, a partire dai tecnocrati chiusi nei loro confortevoli grattacieli. È piuttosto un mezzo per ridare slancio ad una costruzione che, altrimenti, rischia di cadere a pezzi.

29 ottobre 2014

Il magnifico mondo di Matteo Salvini - Quando il talento finisce nelle mani sbagliate

Dopo la manifestazione “Stopinvasione” di sabato scorso a Milano con chiari contenuti xenofobi e razzisti, tanto da includere la partecipazione di CasaPound e di altri gruppi neofascisti, ci sarebbero decine e decine di critiche/insulti da muovere a Matteo Salvini. Io invece ero quasi tentato di dargli del genio. Poi, ripresomi dalla momentanea sbandata, ho convenuto con me stesso che il genio, in ogni sfaccettatura, è decisamente tutt'altro, ma nonostante questo un osservatore/commentatore della politica ha il dovere di sapere riconoscere il talento, anche nelle sue manifestazioni più meschine, e non si può negare che Salvini non abbia questo tipo di talento politico.

Diventa segretario nel 2013, nel momento più basso della storia della Lega Nord, dopo i fasti del celodurismo bossiano e il goffo tentativo di darsi un'aura di serietà della Lega 2.0 di Maroni. Nella prima fase, sotto la guida del senatur, la Lega era riuscita a portare avanti l'assurda battaglia secessionista e una decisa connotazione populista e antisistemica nonostante dieci anni tra le file della maggioranza di governo. Questa era finì mestamente con il rinvio a giudizio del tesoriere Belsito, di Bossi e dei suoi figli per appropriazione indebita di fondi pubblici, con dimissioni collettive e uscita di scena del padre fondatore e guida spirituale. Dopo il senatur viene Roberto Maroni, che vincendo le elezioni regionali in Lombardia nel 2013 riesce a raggiungere l'obiettivo della Macroregione, un luogo che esiste solo nella testa dei leghisti e comprende appunto le regioni Piemonte, Lombardia e Veneto tutte e tre governate dai verdi e ipotetica via istituzionalizzata ad una secessione soft, che nei programmi elettorali dell'allora segretario significava trattenere il 75% delle tasse raccolte sul proprio territorio ed “avere con Roma un rapporto tale da ottenere tutto quello che chiediamo”. Prima ancora dell'annullamento dell'elezione di Cota, il progetto macroregione si esaurisce, poco dopo le elezioni, quando i dirigenti verdi si rendono conto che non hanno alcun piano per attuare questo assurdo progetto e che ci sono già fin troppe difficoltà a governare le singole regioni.
Se a questo aggiungiamo il deludente 4% e spicci ottenuto alle politiche 2013, capiamo quanto fosse complessa la situazione ereditata da Salvini nel dicembre 2013. Qui però inizia il suo capolavoro. In previsione delle europee di maggio 2014, quindi in meno di sei mesi, il neosegretario ha attuato un totale restyling al partito che gli ha permesso di arrivare al 6,15%, certamente non sensazionale ma considerevole se teniamo conto che ci si aspettava una prestazione sotto il 4% e zero seggi a Bruxelles.
Come già detto, dopo dieci anni al governo e il fallimento dell'aspirazione secessionista, ai quali va aggiunto l'emergere del Movimento 5 Stelle come maggiore forza populista italiana, la connotazione antisistemica e regionalista che ha caratterizzato i primi vent'anni di Lega Nord si era svuotata della sua forza innovatrice fino a rendere il partito poco più di una folkloristica rimpatriata tra razzisti attempati vestiti di verde
Come riconquistare l'elettore leghista medio che, statisticamente, è poco istruito, ha un lavoro umile quindi probabilmente sta soffrendo la crisi economica, ed è tendenzialmente di estrema destra e xenofobo? Semplicemente, dandogli un nemico da combattere. Tuttavia, questo nemico non poteva più essere “Roma ladrona” dal momento che anche l'elettore più ottuso si era accorto che il suo partito faceva ormai irrimediabilmente parte di essa, e ormai dei terun non interessava più niente a nessuno, serviva qualcosa di nuovo. Ed eccolo qua, il guizzo del fuoriclasse. La Lega ormai è grande, ha più di vent'anni e ha fatto esperienze importanti. È arrivato il momento di uscire dalla Padania ed affermarsi sul territorio nazionale. Per affermarsi a livello nazionale però occorrono nemici della nazione, quindi non vanno più bene le contrapposizioni Padania-Roma e padani-meridionali, ora siamo tutti fratelli, i nuovi nemici devono venire da fuori paese. Qual è il centro di potere sovranazionale al quale anche Roma è subordinata? Ovviamente Bruxelles, sede dell'Unione Europea. E cosa c'è più a sud del meridione come punto di partenza per i flussi migratori? L'Africa, of course. Salvini ha individuato le due principali preoccupazioni del padano medio, i soldi e la sicurezza, e gli ha fornito due comodi nemici, l'UE e gli immigrati. Uscire dall'Euro (“quando c'era la Lira stavamo tutti meglio”) e chiudere le frontiere a questa nuova specie di superimmigrati capaci di “stare tutto il giorno in piazza a non far niente e sporcare” e “rubare il lavoro agli italiani” contemporaneamente (sic!).
Questo vuole il leghista medio, non ha voglia di ascoltare noiosi approfondimenti economico-monetari, non sa cosa siano la BCE, lo spread o l'allineamento dei tassi di inflazione, quando c'era la Lira stavamo meglio, eravamo più ricchi e non c'era la crisi, quindi la ovvia soluzione del problema è l'uscita dall'Euro. Attorno a questo primo macrotema ruotano altri argomenti cari alla destra populista come la riconquista della sovranità nazionale, lo strapotere delle banche, la lotta alle tasse ma il tutto viene affrontato in maniera molto superficiale, come una chiacchierata al bar, non in chiave complottistico-massonica come fa ad esempio il Movimento 5 Stelle, viene semplicemente buttato lì nel mezzo di un comizio o di un post su Facebook, alimentato con luoghi comuni e frasi fatte ed elargito generosamente a persone rancorose in cerca di qualcuno da odiare.



Il secondo macrotema invece riguarda la sicurezza, ed anche qui il ragionamento è molto semplice. Da sempre nell'uomo è radicata un'irrazionale paura del diverso, il progresso della civiltà ed in particolare l'istruzione solitamente annullano questa paura, ma stiamo pur sempre parlando della Lega Nord, quindi cosa c'è di più confortante della possibilità di dare un nome e un volto ai mali che affliggono la società? Cosa c'è di più rassicurante della convinzione che se si verifica un furto la colpa è sicuramente di un maghrebino, se c'è uno stupro è opera di un rumeno, se non trovo lavoro è perché lo Stato preferisce darlo ai clandestini, se mi becco l'Ebola è colpa di un nero e se rischiamo attacchi terroristici da parte dell'ISIS è perché lasciamo che si costruiscano moschee sul suolo patrio? Su questo macrotema si sviluppa la più fantasiosa e permettetemi, spassosa, retorica leghista. Siamo ben oltre i classici slogan “padroni a casa nostra” o “ormai in Italia i clandestini siamo noi”, tramite un sapiente utilizzo dei social network si può assistere ad un vero e proprio fiorire di casi fittizi di Ebola nelle nostre città, fantomatiche leggi che obbligano gli italiani ad ospitare i clandestini (di solito sono proposte dalle acerrime nemiche Kyenge e Boldrini, ma negli ultimi anche Renzi si sarebbe adoperato), effrazioni alla legge da parte di immigrati che poi vengono graziati dalla giustizia, veri e propri reportage sulle lussuose strutture che ospitano i richiedenti asilo, sofisticati calcoli della quota giornaliera che lo Stato verserebbe direttamente nelle tasche degli immigrati e per finire il rito giornaliero del segretario che ogni giorno sul suo profilo Twitter riporta una notizia a caso commentando che è un'ingiustizia che nel luogo X succeda Y mentre le famiglie italiane non arrivano a fine mese.
In questo modo Matteo Salvini si è preso la Lega e ha ampliato il suo elettorato fino all'8,8% secondo le stime dell'atlante politico di Ilvo Diamanti di ottobre, che significa quarto partito italiano. Forse non è tutta farina del suo sacco, anzi, si potrebbe dire che sta seguendo goffamente il modello di Marine LePen in Francia e degli altri partiti euroscettici e xenofobi che alle ultime europee hanno ottenuto grandi consensi (e li hanno sfruttati male, litigando tra loro e presentandosi disuniti) e hanno tristemente riportato in Europa ventate di nazionalismo che fanno tanto prima guerra mondiale. Tuttavia è giovane e abbastanza carismatico, i talk show fanno a gara per averlo ed è molto attivo sui social network (63000 follower su Twitter), non è colto ma dimostra grande sicurezza, e si sa, agli italiani questo piace. Per questi motivi e non solo infatti è molto popolare tra i giovani e, sempre secondo l'atlante politico di cui sopra, è secondo solo a Renzi nell'indice di gradimento dei leader.

Distorcendo la realtà secondo il proprio interesse, alimentando la xenofobia e lucrando politicamente sulla crisi o sulle tragedie non si fa certo un buon servizio al proprio paese. La politica sarebbe un posto migliore senza Matteo Salvini, ma se c'è significa che ci sono persone che hanno bisogno di un Matteo Salvini in politica. E lui è veramente bravo a cercarle.

Fabrizio Mezzanotte

27 ottobre 2014

Non solo ISIS, l'altro lato della guerra al califfato

Se i mezzi a disposizione dell'ISIS ci hanno permesso, volenti o nolenti, di scoprire cosa loro hanno deciso di chiamare “giustizia”, non significa che siano i soli a fare della violenza il loro pane quotidiano. 
Per un attore come il Califfato la comunicazione è linfa vitale; sulla scia di Al Qaida, tutti gli attori terroristici, ma anche le semplici organizzazioni non governative per potersi affermare sullo spazio della politica internazionale hanno bisogno di occupare lo spazio delle news sui mass media. Una necessità spiegabile con un semplice teorema: se non appari, non esisti.
Ecco spiegati trailer in stile hollywoodiano, video in HD, precise regole di comportamento per i giornalisti che si vogliono occupare della questione, gadgets (carine le spille, no?) in vendita anche nella “democratica” Turchia, manciate di pagine Facebook e Twitter in tutte le lingue create ad hoc per diffondere il verbo di Al Baghdadi e le sue gesta: eroe antico, stratega e conquistatore, ma se privo di uno smartphone a rischio di sopravvivenza. 
Anche i video con le decapitazioni degli ostaggi occidentali (e non solo) fanno parte dello stesso orchestrato piano che vuole raccontare una stessa storia, dove europei ed americani hanno la parte degli antagonisti, gli orchi e gli stregoni che si oppongono con le loro bombe e la loro supposta superiorità culturale alla fioritura e affermazione dell'Islam, la grande religione del Profeta da troppo tempo relegata in una posizione subalterna. Nell'urgenza di affermare sé non c'è spazio per il rispetto per il nemico, che va quindi spaventato, terrorizzato e colpito nella sua emotività. L'ISIS, così, parla la nostra lingua, minaccia i nostri vicini e le nostre città, invade i nostri pensieri con la sua estrema e gratuita violenza.
È facile chiamare lo Stato Islamico malvagio, cattivo, crudele. È facile polarizzare anche questo conflitto costruito da Al Baghdadi stesso sulla frattura tra giusto e sbagliato, tra buoni e cattivi, tra bene e male: a parti invertite, viene spontaneo ricercare un alleato buono contro il condottiero cattivo e il suo esercito di bruti. La scelta è ricaduta, non senza un forte dibattito e qualche perplessità, sull'Iraq a guida sciita, sui curdi e, sebbene per ora solo ipoteticamente, su un fronte di opposizione pacifico siriano.
Fonte: bbc.co.uk
Tuttavia, Amnesty International in un rapporto pubblicato in questi giorni ha denunciato la condotta di guerra delle milizie Sciite, finanziate dal governo iracheno amico degli Stati Uniti, che stanno combattendo l'ISIS. Sapendo di godere del sostegno governativo, queste milizie hanno rapito e ucciso dozzine di civili musulmani sunniti negli ultimi mesi. Le indagini dell'organizzazione internazionale hanno portato alla luce una vera e propria “legge” della milizia che indica un preciso iter da seguire in caso di condanna: il soggetto viene incappucciato e poi ucciso con un solo colpo alla testa. I corpi, ormai senza vita, vengono poi lasciati nel luogo dell'esecuzione senza dar loro sepoltura né restituendoli alle famiglie. Per alcuni dei rapiti, era stato pagato anche un riscatto dai parenti che, in alcuni casi, ha raggiunto gli 80.000$, cifre che sono servite soltanto al finanziamento delle milizie stesse.


Fonte: huffingtonpost.co.uk
La diffusione di queste esecuzioni è difficile da definire perché le uniche testimonianze sono quelle di Amnesty. I rischi che corrono sul territorio giornalisti ed operatori umanitari sono altissimi. Basti pensare ai 17 giornalisti iracheni uccisi negli ultimi 10 mesi, mentre in Siria la guerra civile ha portato al rapimento di oltre 80 tra giornalisti, cameramen e fotoreporter internazionali e locali. Nonostante ciò. Donatella Rovera, AI's senior crisis response advisor, non ha dubbi: “Quelli che le milizie sciite stanno portando avanti sono crimini di guerra, puniti dal diritto internazionale, ma che in questa situazione vengono silenziosamente tollerati dal governo di Baghdad e non solo.”
Quello che è lecito chiedersi di fronte ad una tale esclalation di violenza su più fronti e solo parzialmente nota è cosa sappiamo davvero di ciò che succede? Sotto la bandiera dei diritti umani e della libertà, quanta altra libertà è lecito sacrificare? I diritti di chi si possono violare?
Se oggi le relazioni internazionali non si basano soltanto su economia, difesa e diplomazia, ma anche sulla gestione del flusso di informazioni, è un dovere porre la giusta attenzione al fatto che in ogni comunicazione c'è un detto e un non detto. Infatti, se da un lato il “talento” dell'ISIS lo conduce direttamente sulle nostre televisioni e sugli schermi dei nostri computer come una terribile minaccia, dall'altro il silenzio su quanto compie il fronte opposto non può essere incoraggiato, né giustificato in nome di una causa che, sappiamo, può cambiare come cambia verso una banderuola al vento. Se di pace, giustizia e diritti umani si vuole parlare, che non siano quelli dell'amico di turno, ma di tutti.

Angela Caporale

Calcio - Top e Flop dell'ottava giornata di Serie A

Questa è stata la giornata dei goleador dimenticati. Tantissimi marcatori di questo turno di Serie A non segnavano da tanto, o non avevano ancora mai segnato in questo campionato. Llorente, Higuain, Hamsik, Farnerud, Floccari, Acerbi, Biglia, Klose, Hallfredsson, Taider e Zukanovic. La giornata contemporaneamente più amata e più odiata dai Fantallenatori, a seconda di che parte stiano i giocatori (ad esempio, amata da me per il primo gol di Llorente ma molto, molto, molto odiata per la tripletta di Higuain.)

TOP

Francesco Acerbi (Parma – Sassuolo 1-3)
Fonte: tuttosport.com
944 giorni. Ecco quanto è passato tra questo gol di Francesco Acerbi in Serie A ed il precedente, segnato quando ancora vestiva la maglia del Chievo. E in mezzo, dopo una grande stagione a Verona, mezza stagione molto sottotono al Milan e mezza stagione di nuovo al Chievo. Poi il trasferimento al Sassuolo. Ah già. In tutto ciò, ha combattuto e vinto due volte un tumore al testicoli. La prima volta gli era stato diagnosticato proprio durante le visite mediche con il Sassuolo: operazione d’urgenza a Milano e ciclo di chemioterapia, per poi tirare un sospiro di sollievo ed indossare la maglia del Sassuolo in campionato. Fino a dicembre però, quando un test antidoping lo trova positivo alla gonadotropina corionica. Segno che il tumore è tornato, e Francesco deve combattere da un lato il tumore e dall’altro l’accusa di doping. E vince contro entrambi. Una bella storia di calcio e di vita. 

Antonio “Totò” Di Natale (Udinese – Atalanta 2-0)
Trentasette anni e non sentirli. Ok, magari la corsa non è quella di un tempo, ma nemmeno le qualità tecniche, la lucidità e la visione di gioco sono quelle di un tempo: infatti sono migliorate. Il gol segnato contro l’Atalanta è l’insieme di tutti questi tre elementi. Segue l’azione, interviene come un falco sulla palla persa, una rapida occhiata alla porta e il tiro, ad effetto, nell’angolino lontano da fuori area. Poi il resto della partita è un continuo monologo di tecnica e qualità, con degli stop antifisici e dribling nello stretto ad alto tasso tecnico. 198 gol in Serie A non sono uno scherzo per nessuno, e Totò ha detto di volere a tutti i costi raggiungere Baggio (205). Beh, se rimane sulla media degli ultimi anni (dal 2007 17, 12, 29, 28, 23, 23, 17 reti stagionali) non ci dovrebbero essere problemi. 
Fonte: lastampa.it

HH, ovvero Hamsik – Higuain, ovvero la strana coppia dimenticata (Napoli – Hellas Verona 6-2)
La stagione del Napoli, segnata da molti bassi e pochi alti, ha avuto in positivo due protagonisti: Dries Mertens e Josè Callejon. Gol e assist a raffica dai due esterni, mentre gli interni hanno avuto grosse difficoltà. Da un lato Michu e Zapata, comunque riserve, e dall’altro Marek Hamsik e Gonzalo Higuain, bandiere del Napoli delle scorse stagioni. E misteriosamente a secco quest’anno. Dopo sette giornate di voti sotto il sei, il duo della doppia H ha pensato bene di sbloccarsi di botto, con cinque gol in due, contro il povero Verona, di cui non è rimasto nulla dopo il tornado azzurro. Un po’ come la mia squadra di fantacalcio, sempre contro la coppia Higuain – Hamsik. 

FLOP

Il crollo di Sarri contro il vecchio Zeman (Empoli – Cagliari 0-4)
Fonte: empolicalcio.it

L’Empoli, reduce da quattro pareggi ed una vittoria, crolla miseramente contro Zemanlandia nel suo massimo splendore. Subisce quattro reti in quarantacinque minuti, senza che il mister dell’Empoli possa porre rimedio in qualsiasi modo. Addirittura, i gol arrivano in un quarto d’ora, tra il 31° e il 45°: Sau, Avelar (x2, punizione e rigore) e Ekdal marcano il vantaggio e la vittoria di Zeman, che ridà ossigeno al boemo. L’Empoli però appare del tutto annichilito, senza mai nemmeno dare l’impressione di potersi riprendere. Anche Sarri deve essere stupito della débacle dei suoi, tanto da non dare nemmeno indicazioni efficaci per chiudere gli evidenti spazi fino alla fine primo tempo, quando effettua due delle tre sostituzioni a sua disposizione. La partita poi si rimette in equilibrio, con il Cagliari che risparmia le forze per l’infrasettimanale e l’Empoli che non crede nella rimonta. Serve riprendersi al più presto, proprio perché tra poche ore i toscani affronteranno il Sassuolo, diretto avversario per la salvezza.

La brutta stagione dell’Atalanta (Udinese – Atalanta 2-0)
L’Atalanta è una delle realtà più interessanti nel panorama italiano, stabilmente in Serie A ormai da qualche anno. E Colantuono a Bergamo ha trovato la propria dimensione di allenatore, portando nelle grandi squadre tanti giocatori usciti dalle sue mani (Bonaventura, Peluso e Padoin tra gli altri). Ma quest’anno il giocattolo pare essersi rotto. Sette punti in otto giornate è un ritmo da salvezza risicata, se non da B. L’Atalanta ha ottenuto due vittorie ed un pareggio (di cui uno 0-0 alla prima giornata  e poi vittorie contro Cagliari e Parma, ultimo), mentre per il resto solo sconfitte. L’assenza di un giocatore dall’estrema duttilità (un nome su tutti, Bonaventura) e la assoluta carenza di gol dal pacchetto offensivo (Moralez, Bianchi e Denis sono ancora a zero marcature, mentre Boakye è a due) stanno mettendo seriamente in crisi le idee di Colantuono, che naviga in pessime acque.

Massimo Ferrero (Post partita di Sampdoria – Roma 0-0)
L’abbiamo capito: Massimo Ferrero è qui per dare una svegliata al calcio compassato e privo di fenomeni mediatici dall’addio di Mourinho. Ma un conto era la vivace intelligenza e ironia del portoghese, un altro è “Io gliel’ho detto a Moratti, caccia via quel filippino, che l’hai preso a fa”. Il “filippino” a cui si riferisce è Erik Thohir, magnate indonesiano attualmente presidente dell’Inter, reo, nella personale visione ferreriana della realtà, di aver cacciato Moratti. Non ci credete? Magari pensate sia una bufala? Ecco qua la versione integrale. 
Ah già, in più, in settimana, ha anche twittato “SEMO GENOVESI. E SAMPDORIANI ORGOGLIOSI DE ESSERE ITALIANI. SEMO BELLI BULLI E BALLAMO BENE CHI È PIÙ BELLO DE NOI E TRUCCATO.” E non contento ha aggiunto, testuale: "Buongiorno mia Sampdoria, buongiorno hai bellissimi angeli del fango il presidente vi augura una buona giornata”. H compresa.

Marco Pasquariello

24 ottobre 2014

Lo stato curdo: futuro prossimo del Medio Oriente?

La progressiva scomparsa dalla carta geografica di Siria ed Iraq, e il conseguente sgretolamento del sistema coloniale nato con l’accordo Sykes-Picot nel maggio 1916, stanno ponendo seri dubbi su che entità geopolitiche emergeranno dalle macerie di questi due stati martoriati da guerre civili, conflitti inter-religiosi e, ora, dalla comune avanzata di un avversario potente e spietato, con una originale e inquietante aspirazione di dominio universale: lo stato islamico.
Fonte: europaquotidiano.it
In Siria, il conflitto che oppone il governo autoritario di Bashar Al-Assad ad un numero considerevole ed eterogeneo di formazioni ribelli, ha posto fine de facto alla presenza di un governo centrale, consegnando il potere politico e militare nelle mani di diversi gruppi armati che organizzano il controllo sul territorio in basi ai diversi credi religiosi o ideologici. Si può dire di un default dello stato centrale anche in Iraq, il quale nonostante gli sforzi delle truppe regolari di Baghdad e della coalizione internazionale capitanata dagli USA, ha visto una buona fetta del suo territorio essere inglobata nel progetto di “califfato islamico” del leader dell’IS, Abu Bakr Al-Baghdadi.
Il collasso dell’autorità statale, e il processo di “libanizzazione” dei due paesi, più l’avanzata dei fondamentalisti islamici con la conseguente perdita di senso di qualsiasi linea di confine, hanno fatto si che altre questioni di carattere identitario e nazionale tornassero alla ribalta tra l’opinione pubblica internazionale. Tra questi quello più rilevante, per peso nelle strategie politico-militare e nella storia in generale, è quello dei curdi. Il Kurdistan, la nazione senza stato divisa tra Iraq, Siria, Turchia ed Iran, è una questione che nasce da lontano, dall’immediato primo dopo guerra, e ha trovato come risposta politiche assolutamente repressive da parte dei vari governi, i quali hanno tentato in tutti di modi annichilare e stroncare il sentimento identitario curdo e l’aspirazione di questi ultimi ad avere un proprio stato indipendente.
Una nazione e un popolo diviso, anche nel novero dello scacchiere internazionale: da una parte USA, Iran ed Israele che supportavano la resistenza curda contro i regimi autoritari di Hafez Al-Assad e Saddam Hussein, mentre bollavano come “organizzazione terrorista” quello che forse è tutt’ora il più celebre movimento indipendentista della zona, il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), impegnato per decenni in una guerriglia contro l’esercito e il governo della Turchia, ferrea alleata del blocco occidentale e membro della NATO.
Fonte: foreignpolicy.com
Con lo sgretolarsi del sistema statale post ottomano, i curdi hanno incominciato una personale opera di state building, soprattutto per quanto concerne il caso dell’Iraq. Nel 2003, con l’invasione americana del paese e la caduta di Saddam Hussein, nel nord del paese si è assistito al primo tentativo di creare un’entità autonoma curda, riconosciuta dalla comunità internazionale, che permettesse ai curdi iracheni di vivere in libertà, dopo le dure repressioni patite sotto il regime baathista. In questi mesi i combattenti curdi, i “Peshmerga”, si sono impegnati in una dura battaglia per proteggere la regione e la sua capitale, Erbil, dalla terrificante avanzata dell’IS, supportati anche dai raid aerei statunitensi e dal supporto in termini di denaro e armamenti da parte di paesi europei come l’Italia.
In Siria, con le proteste del 2011 contro l’autoritarismo di Damasco e l’inizio della guerra civile, i guerriglieri curdi hanno lottato strenuamente sia contro le truppe lealiste, sia contro le formazioni ribelli connotate da un marcato fanatismo islamico, come il fronte Al-Nusra, una cellula alqaidista attiva nell'area, oppure come quello che era il padre dell’IS, lo “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”. Gli ultimi giorni hanno visto i riflettori della comunità internazionale puntati sulla cittadina di Kobane, cittadina siriana distante meno di un chilometro dal confine turco, la quale è ormai ripetutamente sotto attacco da parte dei miliziani del Califfato ed è teatro di una resistenza eroica quanto disperata da parte dei combattenti curdi, in inferiorità in fatto di uomini e mezzi a disposizione. Quello che più scandalizzava e provocava una dura reazione da parte delle grandi potenze era la totale passività del grande vicino turco di fronte al massacro di Kobane: gli Stati Uniti in primis pensavano che un conflitto alle porte di Ankara inducesse il presidente della Turchia Erdogan ad intervenire, o con un intervento militare diretto contro lo Stato Islamico, o, e questa era l’ipotesi più realistica, concedendo il libero attraversamento del confine ai Peshmerga iracheni per andare a sostenere i compagni in armi a Kobane. Il mondo ha assistito alla iniziale presa di posizione turca, la quale considerava (e forse considera ancora adesso) gli estremisti islamici e i guerriglieri del Kurdistan come lo stesso nemico. Erdogan, nonostante il tentativo dei colloqui di pace che sta portando avanti da anni con il leader del PKK Abdullah Ocalan, non vuole assolutamente permettere che la resistenza di Kobane dia una nuova linfa alla resistenza curda in Anatolia e riaccenda una nuova sollevazione armata contro lo stato. Dopo giorni di indignazione e proteste, anche con la pressione determinante degli USA, i militari turchi hanno ricevuto ordine di lasciare libero transito ai curdi d’Iraq per andare a combattere nella città siriana. I militanti dell’IS continuano ad assediare la città e ad essere in superiorità, ma almeno gli effettivi tra i resistenti sono aumentati. 
Fonte: repubblica.it
Nonostante l’iniziale muro alzato su Kobane, la Turchia da tempo sta seriamente pensando all’idea che in un futuro dovrà convivere con uno stato curdo autonomo, se non formalmente indipendente. Nonostante le sollevazioni filo-curde dei giorni precedenti, con numerosi scontri con la polizia, Erdogan e l’esecutivo si sono impegnati in un processo di pace con i separatisti curdi che metta fine ad un conflitto pure decennale. Inoltre, nonostante la difesa dell’integrità territoriale dell’Iraq, la Turchia ha dovuto prendere atto che la realtà di una zona curda autonoma nell’ex dominio di Saddam è in pieno processo di sviluppo, ed è essenziale nella difesa del Medio Oriente contro il fanatismo islamico del Califfo Al-Baghdadi. Nonostante Erdogan continui a condannare l’invio di armi ai curdi come profondamente sbagliato, perché secondo lui foraggerebbe organizzazioni terroristiche, la difesa ad ogni costo di Kobane è indispensabile, anche per proteggere la stessa Turchia dalle orde del Califfato.
Nel caos medio orientale, e nella disgregazione di numerose entità statali, la possibilità di vedere lo sviluppo di uno stato-nazione nel Kurdistan non appare più come fantascienza. Le grandi potenze poi, dagli USA ad Israele, non guarderebbero con disprezzo alla creazione di una entità statale curda, considerando la sua classe dirigente come moderata e un efficace baluardo contro lo jihadismo internazionale. La battaglia contro lo Stato Islamico sarà lunga ed incerta fino alla fine, ma il Kurdistan potrebbe essere la prima novità di un Medio Oriente che ormai, volente o nolente, si sta lasciando alle spalle tutte le divisioni che erano state imposte dai vecchi padroni coloniali.

Mattia Temporin

23 ottobre 2014

Il sindacalista con il maglione a righe

Lo scorso 12 ottobre, oltre sei milioni di boliviani sono stati chiamati alle urne per votare il loro Presidente. Le elezioni boliviane sono da sempre oggetto di studi molto approfonditi, e a differenza di molti altri Paesi, come ad esempio l’Italia, vengono prese sul serio. 
Ci sono anche delle simpatiche particolarità: nel Paese, dal venerdì prima al lunedì dopo il voto si osserva un ‘periodo di riflessione’ di 72 ore, in cui oltre ad essere vietato ai candidati di apparire sui mezzi di comunicazione e fare comizi, è proibito il consumo e la vendita di alcool, portare armi da fuoco e coltelli, organizzare feste e riunioni. Il giorno delle elezioni è inoltre vietato circolare in auto e viaggiare in aereo (a meno che non si tratti di voli internazionali) e in autostrade.
19 ottobre 2014: con il 61% dei consensi, il leader e candidato del partito di sinistra “Movimento per il Socialismo” ha vinto le elezioni presidenziali in Bolivia per la terza volta consecutiva, sconfiggendo Samuel Doria Medina, esponente del partito di destra “Unità Democratica”. 

La schiacciante vittoria di Evo Morales ha una spiegazione molto semplice: ha vinto perché il suo governo è stato il migliore della agitata storia della Bolivia. La natura delle promesse è che queste rimangano tali nonostante i cambiamenti che avvengono, e in questo caso “migliore” significa che ha fatto realtà della grande promessa, tante volte non realizzata di ogni democrazia, e cioè garantire il benessere materiale e spirituale delle grandi maggioranze nazionali, di quella eterogenea massa plebea oppressa, sfruttata e umiliata per secoli. 
Non c'è alcuna esagerazione se si dice che Evo è lo spartiacque della storia boliviana; c'è una Bolivia prima del suo governo e un'altra, diversa e migliore, a partire dal suo arrivo al Palazzo Bruciato (sede del governo e del Capo del governo boliviani).
Juan Evo Morales Ayma, per tutti Evo Morales, è nato a Orinoca il 26 ottobre 1959, ed è il presidente della Bolivia dal 22 gennaio 2006. È il leader del movimento sindacale dei cocalero, i coltivatori di piante della coca di Perù e Bolivia. 
Quando il governo boliviano, dietro la spinta americana, tentò di spostare le coltivazioni della coca dalla Provincia di Chapare, da sempre territorio adepto a questo tipo di coltura, i cocaleros si riunirono, con scopi rivoluzionari, in vere e proprie organizzazioni sindacali, alla guida delle quali c’era lui, il sindacalista arrivato poi al potere: Morales. 
Come leader dei cocaleros venne eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati nel 1997, raggiungendo il 70% dei consensi nel Dipartimento di Cochabamba, dove c’erano le più importanti coltivazioni di coca. Alla fine del 2001, Morales venne rimosso dal suo seggio nel Congresso Nazionale con il pretesto di un’accusa di terrorismo legata ad agitazioni contro la politica antidroga del governo allora in carica. Molti pensano che dietro a tutto questo ci fosse la sapiente e lunga mano americana, fatto sta che l’espulsione dal Congresso fu dichiarata anticostituzionale. 
Il 27 giugno 2002 erano previste le elezioni presidenziali boliviane, e Morales presentò la sua candidatura come leader del MAS, il Movimento per il Socialismo, da lui stesso creato e fondato il 23 luglio 1987 a La Paz. Il Partito ha da sempre avuto l’obiettivo di rappresentare i diritti dei cocaleros e di opporsi ai governi borghesi che c’erano all’epoca della fondazione. 
Il programma fonda i suoi punti principali sull’uguaglianza delle etnie presenti in Bolivia, sulla lotta alla corruzione all’interno delle istituzioni statali, sull’integrazione della Bolivia nel mondo moderno, sul riconoscimento del sacrificio della nazione boliviana nei confronti dell'Europa e del mondo durante la colonizzazione, sull’integrazione del patrimonio culturale e alimentare originale con quello europeo, sulla lotta al neoliberismo e sul rispetto dei basilari diritti umani. I principi ispiratori sono molti, ma secondo Morales “il peggior nemico dell'umanità è il capitalismo statunitense. È esso che provoca sollevazioni come la nostra, una ribellione contro un sistema, contro un modello neoliberale, che è la rappresentazione di un capitalismo selvaggio. Se il mondo intero non riconosce questa realtà, che gli stati nazionali non si occupano nemmeno in misura minima di provvedere a salute, istruzione e nutrimento, allora ogni giorno i più fondamentali diritti umani sono violati.” 
Morales accettò di candidarsi come leader della sinistra nonostante le limitate risorse che il Movimento aveva, essendo sostanzialmente un partito minore. Ma la volontà, la tenacia e soprattutto una campagna elettorale a portata del cittadino lo portarono a sfiorare il 21% dei consensi, pochi in meno rispetto al partito che poi vinse le elezioni, e a sedersi all’opposizione. Il crescente malcontento popolare e le dimissioni forzate del Presidente in carica Sanchez de Lozada anticiparono le elezioni al dicembre 2005.  Il 22 dello stesso mese, con il 54% dei consensi, Morales divenne il nuovo Presidente della Bolivia e il primo indigeno a guidare lo Stato boliviano, e proprio per questo motivo fu soprannominato “el Indio”. 
Sin da subito sostenne la creazione di un'assemblea costituente in grado di trasformare il Paese. Ha proposto l'approvazione di una nuova legge sugli idrocarburi che garantisca il 50% dei relativi redditi alla Bolivia, ma il MAS si è mostrato incline alla completa nazionalizzazione del settore del gas e del petrolio. Morales ha così dovuto assumere una posizione a mezza via, e cioè da un lato sostenere la nazionalizzazione delle aziende del gas naturale, e dall’altro la cooperazione con stranieri in questo settore.
È stato più volte criticato, e forse a ragione (ma non per questo deve essere considerata una critica), di essere stato un fedele di Chavez, in particolare nell’appoggio al desiderio di quest’ultimo di formare il cosiddetto “Asse del Bene”, un accordo tra Cuba, Venezuela e Bolivia in totale disaccordo con l’Asse costituito da Washington e alleati, definito in contrapposizione “Asse del Male”. 
Nel marzo del 2006, quattro mesi dopo esser diventato Presidente, el Indio ha promesso l’aumento del 50% del salario minimo, attuato nel febbraio del 2009 quando passò da 440 a 670 boliviani, la moneta corrente. Il governo Morales viene comunque accusato da più parti di aver realizzato una tipica politica populista, fatta di elargizioni di denaro pubblico alla popolazione, senza una reale politica, e senza un reale scopo di miglioramento o una sostanziale modifica strutturale dei servizi. Tale politica populista è accompagnata da un'intensa campagna pubblicitaria sui media nazionali, pubblici e privati. Per l'opposizione è controverso anche che la pensione di 200 boliviani mensili sia stata assegnata non più a 65, ma a 60 anni di età, dimenticando, però, che il popolo boliviano ha una vita media di 65 anni. La pensione, perciò, prima della vittoria di Morales, nella gran parte dei casi, non veniva goduta dai lavoratori, perché non vivevano abbastanza a lungo.
Il 1° maggio 2006, il presidente emanò un decreto che imponeva la nazionalizzazione di tutte le riserve di gas naturale, pronunciando le medesime parole: “lo stato riprende la proprietà, il possesso e il totale e assoluto controllo degli idrocarburi.”
El Indio mantenne quindi la sua promessa elettorale fatta durante le varie guerre del gas.
Lo scopo dichiarato della nazionalizzazione è quello di usare la ricchezza costituita dagli idrocarburi per sostenere le politiche sociali, ma secondo molti analisti la nazionalizzazione degli idrocarburi non ha dato gli effetti sperati. Gli analisti però, a volte, sbagliano. 
La presidenza Morales ha portato a significativi miglioramenti in quasi tutti gli ambiti di vita boliviani, e questo può essere visto grazie alla combinazione di risultati economici molto significativi che gli hanno fornito le condizioni necessarie per costruire l'egemonia politica che ieri ha reso possibile la sua trascinante vittoria. Il PIL è passato da 9.525 milioni di dollari del 2005 a 30.381 nel 2013, e il PIL pro capite è balzato da 1.010 a 2.800 dollari negli stessi anni. La chiave di questa crescita senza precedenti nella storia boliviana si trova proprio nella nazionalizzazione degli idrocarburi che, come è già stato detto, è stata criticata e disprezzata in diverse parti del mondo. 
Se nel passato la distribuzione della rendita del gas e del petrolio lasciava nelle mani delle multinazionali almeno l'82 per cento di quanto prodotto, mentre lo Stato incassava solo il restante 18 per cento, con Morales questa relazione si è rovesciata. Non sorprende quindi che un paese che aveva cronici e pesanti deficit nei conti fiscali abbia terminato l'anno 2013 con 14.430 milioni di dollari in riserve internazionali (contro i 1.714 milioni di cui disponeva nel 2005). 
Con il risultato del 19 ottobre, Evo rimarrà nel Palazzo Bruciato fino al 2020, momento in cui il suo progetto di rifondazione avrà oltrepassato il punto di non ritorno. Alcuni dirigenti del suo partito non hanno nascosto il suo desiderio di cambiare la costituzione per poter essere rieletto in modo indefinito, come ha fatto l’ex presidente venezuelano Hugo Chavez. 
Come abbiamo visto, la politica perseguita da Morales in questi anni è sempre stata rivoluzionaria, mutevole, ma mai ferma e conservatrice. Le cose belle della vita non sono le nostre certezze, ma i nostri cambiamenti, ma una certezza di Morales, l’unica cosa che è rimasta immobile, è il maglione a righe che indossa quotidianamente, un maglione tradizionale di lana d'alpaca che si chiama chompa. E’ un abito considerato elegante dagli indigeni boliviani, e fin dal suo primo viaggio diplomatico è diventato il suo simbolo ed è diventato di moda in tutta la Bolivia. 
Molti direbbero che l’abito non fa il monaco, ma io preferisco vederla in modo diverso, e cioè che non bisogna mai giudicare un libro dalla sua copertina, anche se un maglione chompa fa sempre un indio.

Giacomo Bianchi

22 ottobre 2014

Indipendenza Catalogna: verso le elezioni anticipate o ennesimo nulla di fatto?

Il 29 settembre il tribunale costituzionale di Madrid ha sospeso per cinque mesi, in attesa di un giudizio sulla legittimità o meno della consultazione, il decreto per indire il referendum sull’indipendenza catalana. In risposta a questa decisione il presidente della Catalogna, Artur Mas, ha deciso di cancellare il referendum e ha trovato una soluzione alternativa. 
Fonte: internazionale.it
Ciò che avrà luogo sarà una sorta di “consultazione dei cittadini”, il cui risultato non sarà definitivo ma avrà il merito di rendere nota la volontà dei catalani. Il trucco sta nel fatto che la consultazione trova il suo fondamento in quadri giuridici preesistenti e non nel decreto, sospeso, sul referendum. 
Alla consultazione potranno partecipare i cittadini con più di 16 anni di età, con documento di identità valido, residenti in Catalogna. I catalani che sul documento d’identità hanno la residenza in Catalogna, ma vivono in altre parti della Spagna, potranno votare solo se si troveranno in Catalogna il 9 novembre, giorno della consultazione. Rimangono quindi esclusi i catalani con residenza in altre parti dello stato. Il risultato sarà reso noto il 10 novembre. I votanti dovranno rispondere a due domande: “Vuoi che la Catalogna sia uno stato?” E in caso di risposta affermativa, “Vuoi che la Catalogna sia uno stato indipendente?”. Il Governo conta sulla partecipazione di 20000 volontari che custodiranno le 6000 urne dislocate in tutto il paese.
Il premier spagnolo Rajoy ha accolto con soddisfazione la notizia della rinuncia al Referendum e ha dichiarato di vedere la decisione di Mas come un’opportunità per iniziare un nuovo cammino all’insegna del dialogo e delle decisioni condivise. La proposta di Mas tuttavia ha generato scontento tra i partiti indipendentisti catalani. La Sinistra Repubblicana di Catalogna (ERC) è particolarmente critica su questa nuova forma di consultazione, ne lamenta la mancanza di garanzie legali e spinge per elezioni anticipate. ERC, attraverso una posizione decisamente radicale, sostiene che l’unica soluzione ai problemi economici e sociali catalani sia la proclamazione dell’indipendenza il prima possibile e che l’espediente di Mas sia solo una perdita di tempo. ECR inoltre, in caso di elezioni, non vuole più far parte della lista congiunta con Convergenza e Unione (CiU, la coalizione di cui Mas è il leader), a meno che il nuovo Parlamento non proclami l’indipendenza immediatamente e che il candidato della coalizione sia una persona indipendente. 
Fonte: internazionale.it
CiU propende invece, anche in caso di elezioni anticipate, per il dialogo con lo Stato spagnolo e per la ricandidatura di Artur Mas come leader della coalizione. Mas vorrebbe trovare un accordo con i repubblicani perché in caso di elezioni vi sarebbero benefici per entrambi i partiti. Tuttavia la situazione è complicata non solo sul piano programmatico ma anche su quello strettamente politico: in caso di un patto tra il partito di Mas e ERC, Convergenza dovrebbe rompere con l’UDC (Unione democratica di Catalogna), suo alleato storico. Tra UDC e repubblicani ci sono reciproca diffidenza e differenza di vedute. Il leader di Unione, Joseph Lleida, ha inoltre dichiarato di rifiutare la possibilità di una dichiarazione unilaterale di indipendenza. A suo avviso, l’unico modo per cui la Catalogna possa essere uno stato indipendente riconosciuto dalla comunità internazionale è che ci sia un processo di transizione affiancato dal dialogo con lo Stato spagnolo e l’Unione Europea. Si dice inoltre aperto al dialogo con Convergenza anche per capire se la maggioranza preferisca mantenere la vecchia coalizione o formarne una nuova con i repubblicani. La scena politica catalana è quindi piena di beghe interne.
 Riusciranno i partiti indipendentisti a superarle e a raggiungere unitariamente il loro obiettivo? Josè Aznar, ex premier spagnolo, una volta disse: “È più facile che si rompa la Catalogna piuttosto che la Spagna”. Staremo a vedere chi riuscirà a rimanere in piedi questa volta. 

Sabrina Mansutti

Calcio - Top e Flop della 7^ di Serie A

In questa settima giornata di campionato ci sono stati tantissimi gol stupendi. Troppi per entrare in classifica, e così diversi da rendermi impossibile scegliere tra loro. Quindi vi inserisco qui i link ai vari gol di POGBA, OBIANG, SAU, DYBALA, BERTOLACCI, sperando di farvi cosa gradita. 

TOP


Giancarlo Gonzalez (Palermo – Cesena 2-1)
Fonte: zimbio.com
Ai più attenti, calcisticamente parlando, questo nome ricorderà qualcosa. E non qualcosa di bello. Giancarlo infatti è pedina fondamentale della Nazionale del Costa Rica, che ha sconfitto l’Italia agli ultimi Mondiali ed ha sorpreso il mondo, giungendo fino ai quarti. Ebbene, Giancarlo, dopo Alajuelense, Valerenga (in Norvegia) e Columbus Crew (USA) si è trasferito in Sicilia, sponda Palermo. Appena arrivato, si becca una distorsione al ginocchio che lo tiene fuori dal campo per un mesetto buono. Poi arriva finalmente l’esordio in Serie A, contro il Cesena. L’esordio si avvia verso un tranquillo e meritato 6.5 per abilità in chiusura e capacità di inserimento sui calci da fermo, quando al 91’, proprio su calcio d’angolo, batte di testa Leali e porta i rosanero sul definitivo 2-1. La prima volta (in Serie A) non si scorda mai. 

Keisuke Honda (Hellas Verona – Milan 1-3)
Straripante inizio di stagione del giapponese, che ha totalizzato sei reti in sette partite. Ed in questa giornata ha segnato la sua prima doppietta con la maglia del Milan, con due azioni personali molto belle. Finora pochissimi giapponesi si erano distinti per reti segnate in Serie A. L’ultimo fu Morimoto del Catania, mentre prima troviamo Nakata e Nakamura. Di tutt’altro livello fu la storia  di Kojiro Hyuga, più conosciuto come Mark Lenders, che tutti ricordiamo approdare alla Reggiana in prestito dalla Juventus. Ma quella era la Serie C1, erano altri tempi, ed in definitiva era un cartone (Holly e Benji, per chi non avesse colto la citazione). Honda invece è un calciatore vero, nonostante tutto il parlare della stagione scorsa, vissuta tra pochi alti e molti bassi. Pare che ora con Inzaghi in panchina sia tutta un’altra storia.

Lazio, ovvero come ribaltare una stagione in tre partite (Fiorentina – Lazio 0-2)
Tre punti nelle prime quattro partite, e nove punti nelle ultime tre. La Lazio (e Pioli con lei) è il simbolo di “come cambiare prima che sia troppo tardi". Nelle prime partite la squadra biancoceleste non è mai sembrata capace di giocare 90’ ad alto livello, o comunque di superare avversarie considerate pari livello negli scontri diretti. Pioli ha cercato di cambiare il meno possibile, preferendo mantenere il modulo della scorsa stagione (4-3-3) pur essendo costretto a cambiare uomini. Klose infatti, nonostante il grande Mondiale, non ha ancora segnato e Keita, fenomeno della scorsa stagione, è sparito dai radar della “titolarità”. Ma i risultati non sono stati dalla sua, e tranne un bugiardo 3-0 contro il Cesena sono arrivate solo sconfitte. Spazio quindi alla rivoluzione, in primis del modulo. 4-2-3-1, con Djordjevic unica punta. E il nuovo acquisto non ha per nulla deluso nel nuovo ruolo di unico perno d’attacco, raggiungendo la ragguardevole cifra di 5 reti in tre partite, compresa una tripletta con il Palermo. La Lazio ha imboccato la via giusta, ora non serve altro che continuare così. 

FLOP

Rafael Marques – Rafael Marquez (Hellas Verona – Milan 1-3)
Fonte: espndeportes.com
La differenza grafica è minima. Basta una lettera diversa, s/z, ad indicare due vite completamente diverse. L’uno è brasiliano, al Verona dal 2013, ed ha vestito tante maglie diverse, ma tutte in Brasile. L’altro è il Gran Capitan, immagine del Messico Calcistico, campione in ogni campionato in cui ha giocato e all’ennesima esperienza fuori dal suo paese d’origine. Eppure, in questa giornata di campionato, sono accomunati da una cosa in più, oltre che dal vestire la maglia dell’Hellas e dall’avere dodici lettere uguali tra nome e cognome. Prendono lo stesso voto sulla maggior parte dei siti e quotidiani sportivi, che sia 5, 4 o 4.5. Infatti la sconfitta della squadra scaligera passa proprio per i loro piedi. Non riescono a fermare la straripante voglia del Milan di vincere, e quando ci provano, prima fanno autogol (Marques) e poi si fanno buttare fuori (Marquez). Ecco, sono accomunati ancora da una cosa: dal dover assolutamente dimenticare questa serata. 

Nemanja Vidic (Inter -  Napoli 2-2)
Ancora una volta, la difesa dell'Inter é alla berlina. A differenza però delle altre occasioni, in cui ad essere sotto accusa erano le prestazioni di tutto il pacchetto arretrata, la deludente prova contro il Napoli ha un volto ed un nome: Nemanja Vidic. L'acquisto di grido della prima campagna acquisti con targa indonesiana sta dimostrando tutti i limiti imposti dall'età, uniti ad una certa dose di imprecisione e incuria. In occasione del primo gol partenopeo, serve candidamente a Callejon il pallone di testa, e lo spagnolo, grato del regalino insacca. Sul secondo invece prima tiene in gioco poi lascia andare ancora Callejon, che, ancor più grato, segna la doppietta personale. La velocità non è più quella di un tempo, e si sapeva, ma il serbo è arrivato – nella speranza che non sia stato comprato solamente per acquietare i tifosi – per dare una sistemazione, soprattutto mentale, al reparto difensivo. Per il primo periodo questa sistemazione è sembrata funzionare, ma nelle ultime giornate la difesa interista subisce un gol dopo l’altro. 

Il Pandoro di Corini  (Roma - Chievo 3-0)
Eugenio "Genio" Corini é sempre stato definito un allenatore in campo. E l'intelligenza tattica che lo ha sempre contraddistinto sul rettangolo verde lo ha portato a dirigere dalla panchina. Ma la sua carriera da allenatore presenta un dato curioso. Non ha mai allenato per una stagione intera. Nelle prime esperienze é sempre subentrato a stagione in corso ed é sempre stato esonerato nello stesso anno calcistico. Alla guida del Chievo per la prima volta (sempre da subentrato) é arrivato a fine stagione, salvo poi dimettersi. L'anno successivo é stato richiamato a stagione in corso ed ha portato di nuovo a termine il compito, ma con la volontà di rimanere e di guidare la squadra fin dalla prima giornata, e magari fino all'ultima. Il sogno é durato sette giornate, in cui si segnala una vittoria (Napoli), un pareggio e cinque sconfitte. E così Campedelli ha deciso per l’esonero. Chissà quando (non se) tornerà ad allenare, ovviamente come subentrato. 
Fonte: calciobetter.com


Marco Pasquariello

17 ottobre 2014

Mos Maiorum: cacciatori di uomini illegali

Straniero, io penso che noi siamo un animale domestico, 
ed ammetto pure l’esistenza della caccia agli uomini

Platone, Sofista


E’ ripartita la caccia all’uomo. Questa volta prende il nome di Mos maiorum l’immensa operazione di polizia voluta da 25 paesi dell’area Schengen per combattere l’immigrazione “clandestina”. Ventimila poliziotti saranno impegnati a “identificare, fermare ed espellere” il più alto numero possibile di uomini e donne sprovvisti di quel maledetto foglio di carta. Questa operazione nasce come un’attività di “prevenzione, repressione e analisi” di un fenomeno sempre meno leggibile. La macchina “sovrana” europea vuole sapere per far fronte ad un vero e proprio vuoto di conoscenza reale del problema. “Dove e a che ora sono stati intercettati i clandestini. Eventualmente su quali mezzi di trasporto si trovavano. Quali nazionalità dichiarano. L’età, il sesso e quando è attraverso quale frontiera sono entrati in Europa». E ancora: «Bisogna specificare se i clandestini hanno esibito documenti falsi-falsificati di viaggio poi sequestrati. O se hanno chiesto asilo». 
Stando a quanto si legge nel documento, gli obiettivi dell'operazione sono principalmente due: combattere le organizzazioni criminali che favoriscono l'immigrazione clandestina e ottenere informazioni sulle principali rotte migratorie. Fin dal principio, quindi, il documento associa in un unico binomio i concetti di immigrazione e criminalità, così da alimentare e offrire un terreno fertile alle politiche xenofobe che i singoli paesi dell'area Schengen stanno mettendo in atto.
Nella pratica Mos maiorum sarà una vera e propria “caccia al migrante illegale” istituzionalizzata. Verranno quindi sguinzagliati ventimila poliziotti per “controllare le principali rotte dell’immigrazione irregolare” e ridimensionare l’allarme clandestini. Tutti verranno schedati. 
Come fa qualcuno ad essere illegale? Ecco che di fronte alla deriva xenofoba che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutta Europa dobbiamo rivendicare, come un urlo di battaglia, che nessuno è illegale. 
Appunto “Nessuno è illegale”, è molto più di uno slogan diffusosi con la campagna Kein mensh ist illegal, un’iniziativa di alto profilo dell’attivismo sui confini e sulle migrazioni. Dalla metà degli anni 70 quando i “boat people” dal Vietnam sono apparsi come per magia sull’orizzonte globale, è emersa una nuova figura sullo sfondo di profonde trasformazioni delle politiche di asilo e migratorie: il migrante illegale. Ecco che assistiamo all’illegalizzazione, se mi si passa il termine un po’ cacofonico, del migrante. È dunque facile vedere come questo “processo di illegalizzazione del migrante” altro non è che una violenta operazione di confinamento, tra inclusione ed esclusione, del soggetto migrante. Assistiamo ad una formidabile produzione legale di soggetti illegali. Ecco che il migrante “illegale” viene inventato dalle burocrazie statali e codificato nei rispettivi sistemi giuridici.
Ciò che caratterizza questa figura prodotta dal potere politico è il fatto che l’etichetta di illegalità si estende alla sua soggettività incarnata, ovvero alla sua persona, e non fa riferimento solamente a ciò che i sistemi giuridici tendono appunto ad etichettare come illegali, ovvero specifici atti o condotte. 
La sfida è dunque non solo quella di contestare l’etichetta di illegalità attraverso la reazione ai pregiudizi, talvolta microscopici, che l’attraversano, ma anche quella di svelare e mettere radicalmente in discussione i meccanismi legali che hanno prodotto la figura del migrante illegale.
Quel che sorprende, almeno a mio avviso, è vedere come dietro il velo istituzionale di questa “grande operazione di prevenzione” si celi lo spettro inquietante del potere cinegetico, ovvero della caccia all’uomo.
Fin dall’alba dei tempi l’uomo si è sempre dilettato nella caccia di altri uomini; dalla caccia al “bue bipede” nella Grecia antica a quella degli schiavi fuggiaschi nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti, passando per i pellerossa e i neri, fino ad arrivare alla caccia degli ebrei e degli immigrati. Insomma il potere ha fin dalle sue origini intessuto un legame strettissimo con la caccia. Le cacce all’uomo non sono dunque una novità ma hanno accompagnato la storia e le trasformazioni del potere politico. Oggi quel potere è andato progressivamente razionalizzandosi fissandosi negli apparati polizieschi moderni; la polizia, scrive Chamayou nel suo splendido libro Cacce all’uomo. Storia e filosofia del potere cinegetico, costituisce «l’istituzione venatoria, il braccio cacciatore dello Stato, incaricato per suo conto di braccare, arrestare e imprigionare». Corpi in movimento, elusivi e sfuggenti, piuttosto che soggetti di diritto: questi sono i “bersagli” della polizia. E non stupirà allora leggere in Balzac che «l’uomo della polizia prova tutte le emozioni del cacciatore».

Ma quali uomini sono “l’oggetto” della caccia? Il potere deve produrre uomini cacciabili, prede. Dunque, quali uomini? La caccia ha bisogno di tracciare confini tra gli esseri umani per sapere chi può essere cacciato e chi no. Gli “uomini cacciabili” abitano proprio quei confini: dagli “schiavi per natura” evocati da Aristotele fino ai migranti illegali bersagli delle politiche razziste le più becere.
Come non vedere, oggi, quello spettro della caccia all’uomo dietro la “straordinaria operazione europea anti-clandestini” che porterà ventimila poliziotti ad “identificare, fermare ed espellere” il maggior numero di persone illegali presenti sul suolo europeo?
La sottrazione dall’ordine e dalla legalità rende il soggetto migrante, costruito in quanto illegale, vulnerabile. Abbiamo visto come la produzione legale di soggetti illegali ci consente di svelare lo strettissimo legame che corre tra la sottrazione dalla legge e la caccia all’uomo e come questo pone il migrante “illegale” al centro dei rapporti predatori interumani.
Non dimentichiamoci però che la storia che intreccia potere e caccia è anche, e soprattutto, la storia delle lotte di resistenza contro assoggettamento e dominazione. E allora, attenzione a che le prede non diventino cacciatori rovesciando il rapporto predatorio.

Davide Cattarossi

16 ottobre 2014

Gaza - Effetti collaterali di un conflitto senza fine

Martedì 26 agosto 2014 è stata annunciata al Cairo la tregua conclusiva dell’operazione militare "Bordo protettivo" che ha posto nuovamente la parola fine al, ricorrente, conflitto mediorientale che vede come attori la Striscia di Gaza e le milizie di Hamas da una parte e lo Stato Israeliano con il suo esercito dall’altra. 
Il conflitto, che ha determinato la morte di 2131 palestinesi, di cui 500 bambini secondo le agenzie ONU e un centinaio di soldati israeliani, si è oramai concluso, o perlomeno così sembra. Le ostilità persistono e con esse le difficoltà per i gazawi di ricominciare a costruirsi una vita. Perché vivere tra le macerie è una lotta continua, crescere orfani di padre o di madre e con la rabbia e la consapevolezza che una bomba ti ha portato via la persona a te più cara è inaccettabile. La gioia di essere in vita e il desiderio di giocare non sono durati che qualche ora a seguito dell’annuncio della tregua. Poi la consapevolezza della distruzione ha ripreso il sopravvento. 
Ancora oggi la disperazione non ha fine, perché in quei pochi centri ospedalieri rimasti continuano a morire i feriti, e il conto dei sopravvissuti si fa, di giorno in giorno, meno ampio. I servizi igienici e i medicinali scarseggiano, mentre la mancanza di fonti d’approvvigionamento dell’acqua rende la situazione ancora più complessa e difficoltosa da ristabilire. I prigionieri, che hanno raggiunto oramai i 7000 uomini, muoiono nelle celle, fuori dal raggio di interesse dei grandi media, senza l’interesse generale di nessuno, come uomini soli, nati cittadini di serie B.
Parlando con un amico gazawo, Awni Fahrat, ho chiesto lui cosa rimane al palestinese oggi, quale sia il suo futuro. Lapidario, afferma: “per il momento non v’è futuro, le macerie non ci consentono di vedere al di là del cemento distrutto. Ringraziamo il supporto e gli aiuti dei molti volontari occidentali, ma noi vogliamo riprenderci le nostre vite, vogliamo tornare ad essere noi stessi i produttori delle risorse di cui abbiamo bisogno. Ma siamo forti, vogliamo vivere, vogliamo riprenderci la nostra libertà e non smetteremo mai di sognare che un giorno potremo farcela”. L’obiettivo del premier israeliano Nethanyau, ovvero distruggere i tunnel che collegano illegalmente Gaza con il resto del mondo, è stato raggiunto, tuttavia rifugiati e sfollati hanno raggiunto numeri esorbitanti tanto che molte scuole dell’Unrwa sono state adibite a centri d’accoglienza a tempo indeterminato. 
Nel frattempo, data l’inaccessibilità all’Egitto via terra, molti palestinesi hanno provato a prendere il largo, ad emigrare, per sfuggire alla disperazione della guerra e del post guerra, per cercare speranza dall’altra parte del Mediterraneo, un mare dove già moltissimi di loro hanno trovato la morte. Le imposizioni dettate dagli israeliani circa il limite del passaggio al mare non sono state ancora rimosse e i palestinesi continuano ad essere costretti a restare entro le tre miglia, troppo poco constatato il fatto che vi sono più di 3 milioni di bocche da sfamare nella striscia. A seguito della guerra, una porzione della Striscia di Gaza è diventata territorio israeliano e questo ha determinato la perdita di campi da coltivare e quindi di risorse alimentari. I gazawi non hanno di che lavarsi e bere e questo provoca un naturale incremento delle malattie. 
Vivere a Gaza oggi è come vivere in una prigione, una prigione a cielo aperto, una prigione dove ogni singolo diritto umano viene negato. Fortunatamente la giustizia di tanto in tanto ha l'opportunità di seguire il suo corso e infatti le violenze perpetrate da Israele hanno portato, il 25 settembre, all’apertura della sessione speciale del tribunale Russell sulla Palestina che ha esaminato gli attacchi israeliani contro i civili e le infrastrutture attraverso la raccolta di informazioni e dichiarazioni di esperti che erano sul posto al momento del conflitto quali il giornalista britannico Paul Mason, del Channel 4 News ‚il Direttore del Raji Sourani, i chirurghi Mads Gilbert e Mohammed Abou-Arab, il giornalista Martin LeJeune e Ashraf Mashharawi; ma anche  organizzazioni quali Human Right Watch oppure Amnesty International che hanno trovato prove di crimini contro l’umanità,  Anche organizzazioni internazionali come l'Unicef sono state coinvolte, considerato che durante l’offensiva più di 500 bambini ha trovato la morte, e ancora il ministero della saluta di Gaza che parla di  10.918 feriti, tra cui 3.312 bambini e 2.120 donne e, per finire, altre agenzie ONU attive sul territorio, le quali hanno dichiarato che 244 scuole sono state bombardate e che una è stata utilizzata come base militare. Il tribunale, tuttavia, non ha le capacità e i mezzi di punire lo Stato israeliano, ma potrà soltanto presentare dei report, avviare delle indagini, raccogliere testimonianze circa l’esistenza di crimini contro l’umanità perpetrati da Israele, con la speranza che gli Stati occidentali e non nelle future relazioni con esso ne terranno conto. 
Mi sembra opportuno sottolineare i recenti sviluppi circa le posizioni europee su Israele; Il 2 ottobre il governo di unità palestinese ha annunciato l’approvazione di un piano di finanziamento che prevede lo stanziamento di 4 miliardi di dollari per coprire i danni dell’attacco israeliano della scorsa estate, ma non vi è alcuna certezza e garanzia che questo denaro raggiunga le coste gazawe. Mentre il 3 ottobre 2014, la Svezia ha annunciato la volontà di riconoscere uno Stato Palestinese, e lo stesso giorno è stata emessa una dura condanna contro Israele per i nuovi insediamenti a Gerusalemme Est: "Il futuro delle relazioni tra l'Unione europea e Israele dipenderà dall'impegno di quest'ultimo per una pace duratura e la soluzione dei due Stati". 
Saranno i primi passi verso una maggiore apertura nei confronti della Palestina? Forse da parte del vecchio continente sì, ma, come sostenuto da Noam Chomsky, “finché gli Stati Uniti forniranno il necessario appoggio militare, economico, diplomatico e ideologico, ci sono tutte le ragioni di aspettarsi che la politica sionista israeliana e la colonizzazione della Palestina, proceduta principalmente in base al principio pragmatico della tranquilla creazione dei fatti compiuti, perdurerà.” 

Silvia Lazzari