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25 febbraio 2014

La provocazione elvetica


L’8 febbraio scorso la popolazione della Confederazione Svizzera si è espressa, con il risicato 50,3% dei consensi popolari, in favore di un’iniziativa di legge che restringe il flusso di persone con l’UE. Il referendum era stato promosso dall’UDC (Unione di Centro), partito populista e anti-europeista, con il concreto obbiettivo di costringere il governo federale a rivedere l’accordo di libera circolazione con Bruxelles e a rintrodurre le quote per i lavoratori stranieri. Nonostante l’opposizione di tanti settori della società civile svizzera, come i sindacati e le associazioni degli imprenditori, i sentimenti più ostili e refrattari all’immigrazione hanno prevalso, e sinceramente, credo che di questi tempi, prevarrebbero in molti altri ben meno prosperi contesti europei. Ha prevalso quindi il timore, la paura, la xenofobia e slogan come quelli che abbiamo tante volte sentito pronunciare dagli uomini dai modi burberi e adornati di dettagli verdi, del tipo “Via gli immigrati che ci rubano il lavoro!”
Ovviamente molti quotidiani del nostro paese si sono preoccupati delle ricadute che questo referendum potrebbe avere sui cittadini italiani che attualmente occupano un posto di lavoro in Svizzera (i cosiddetti “frontalieri”), prevalentemente nel confinante Canton Ticino. Proprio in questo territorio, a causa di una certa avversione per questi nostri connazionali, si è raggiunta una punta del 68% dei sì. Andrebbe tuttavia anche considerato e analizzato come questo voto popolare potrebbe modificare i rapporti bilaterali tra il governo di Ginevra e l’Unione Europea.
Inizialmente la reazione della UE pareva essere improntata alla linea dura. In sostanza gli elvetici si sono visti congelare i negoziati per l’accesso al grande mercato elettrico che è in procinto di essere sviluppato. Inoltre, data a questo punto l’incertezza riguardo alla firma da parte della Svizzera del trattato di libera circolazione verso la new entry Croazia, l’Unione Europea ha bloccato la trattativa sui programmi di ricerca (Horizon 2020) e sulla mobilità degli studenti (Erasmus). Infine anche le discussioni sull’elaborazione di un patto istituzionale complessivo sono state temporaneamente fermate. Tuttavia negli ultimi giorni sembra che in quel di Bruxelles abbiano intenzione di tornare sui propri passi, ammorbidendo la posizione e riaprendo il dialogo diplomatico con Ginevra sull’accordo bilaterale istituzionale già menzionato.
Perché questa marcia indietro dell’Unione Europea? Quali considerazioni stanno alla base di questo comportamento ondivago e oscillante? Quali ansie e quali dubbi suscita questo voto popolare?
La realtà è che l’Unione Europea difficilmente può prendere una posizione netta in questa faccenda, perché ci sono evidenti svantaggi in termini di immagine e di percezione collettiva delle istituzioni europee tanto nell’accondiscendere quanto nel condannare. Naturalmente, in prossimità di una tornata elettorale che si preannuncia quanto mai minacciosa per la stabilità e la natura stessa del progetto d’integrazione, la percezione e le opinioni che i cittadini dell’Unione nutrono nei confronti delle istituzioni europee contano e contano tanto.
Perciò pronunciarsi in maniera perentoria sul referendum svizzero è tanto complicato. Se si censura e, di conseguenza, punisce in maniera troppo severa questo moto di tradizionalismo e orgoglio nazionale intriso di becero ed ignorante populismo, si rafforza l’impressione di un’Unione Europea fredda e distante anni luce dai sentimenti di quelli che teoricamente dovrebbero essere i propri cittadini. Ancora una volta si porrebbe l’accento su principi fondanti e insindacabili nella costruzione europea che, tuttavia, sono sempre di più messi in discussione nel dibattito politico dei paesi della zona euro. Oltre a ciò si sminuirebbe la rilevanza di un referendum nazionale che costituisce l’espressione del popolo sovrano di uno stato. Si farebbe quindi il gioco della marea populista, quella che minaccia di invadere il Parlamento Europeo, quella che mette insieme una novella Giovanna d’Arco, una manciata di conservatori inglesi che vivono nel mito di Margareth Thatcher e forse pure un ex comico italiano con la fissazione del web.
D’altra parte però chiudere un occhio sulle rimostranze elvetiche significherebbe trascurare un valore pregnante, quello della libera circolazione, su cui si basa l’intera costruzione europea. Un mattone che ne sta alle fondamenta e che se viene levato potrebbe far crollare tutto. Inoltre qua c’è in ballo secondo me anche una questione di solidarietà interna e la necessità di estirpare sul nascere qualunque tipo nazionalismo e di rivalità tra stati membri per garantire e tutelare l’armonia in seno alla comunità.

Quindi forse è arrivato il momento per Bruxelles di lanciare un messaggio forte a costo anche che questo possa rivelarsi un tremendo boomerang. È arrivato il momento di osare, di rischiare, di fare la voce grossa, di scordarsi per un attimo di avere di fronte un paese che fa dei capitali che custodisce gelosamente una potente arma di ricatto. Ma mi sembra evidente che la cautezza e la moderazione (senza voler fare riferimento agli interessi economici) abbiano già preso il sopravvento nei grigi palazzi della commissione. Come sempre, mi sorgerebbe spontaneo dire, purtroppo.

Valerio Vignoli

23 febbraio 2014

SundayUp: Three Movements, pt. 3 - La sospirata conclusione estetico-musicale


THREE MOVEMENTS, III - un viaggio che per motivi di ordine pubblico ho diviso in tre, ma che andrebbe letto nel modo più circoscritto possibile.

I discorsi della settimana passata mi hanno portato alla mente altre questioni sulle quali vorrò soffermarmi. Come si può fedelmente descrivere tramite le arti una persona (Zidane/Montaigne) o un oggetto (la Sainte-Victoire)? In che rapporto sono il tempo entro il quale questo ritratto, nel senso di descrizione, viene effettuato e lo spazio nel quale si colloca ciò che viene rappresentato? C'è un nesso fra la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e il boom di assunzioni presso Foot Locker? Rifletto, mentre mi godo la sfrecciata sul RV che lungo e diritto dovrebbe portarmi a casa - almeno finché Mauro Moretti non diverrà il Baricco delle Infrastrutture e dei Trasporti - rifletto che questi problemi eraclitei hanno una qualche pertinenza anche nella pop music.

Prendi ad esempio gli Spacemen 3, un duo che fra '80 e '90 è riuscito in un connubio strano ma bello tra fare musica da chiesa e intitolare album “Taking Drugs to Make Music To Take Drugs To” (una di quelle situazioni da scout in cui abbiamo definitivamente perso Renzi, già da piccolino, temo [HO SCRITTO QUESTA COSA PRIMA DELLA FAMIGERATA FOTO IN CALZONCINI, LO GIURO]).
Tra demo, ep, album eccetera ho contato almeno 4 versioni di uno dei loro migliori pezzi, che racchiude buona parte della loro poetica: pezzi di due accordi, melodie dolci con strumenti un po' sporchi, droga e Gesù. Si intitola Walkin' With Jesus. Come potete sentire, le differenze, almeno nella maggioranza dei casi, non sono eccezionalmente evidenti: sono pezzi in evoluzione strutturale o semplicemente suonati con un differente arrangiamento o linea del cantato.


 

Ora, considerati sincronicamente, possiamo noi interpretarli alla stregua di versioni della stessa Sainte-Victoire, mantenendo le considerazioni di ontologia fatte a riguardo? Secondo me possiamo. Bisogna però pensare al brano come collocato in un qualche iperuranio di cui queste singole versioni (meglio: esecuzioni) sono manifestazioni fenomeniche che concorrono a esprimerlo e rappresentarlo.

Questo però pone un problema abbastanza grosso: se parliamo di esecuzioni, dobbiamo considerare ogni fottuta esecuzione dal vivo di questo pezzo, ogni lurido live drogatissimo e fumoso dei Spacemen 3 come pari alle versioni registrate, in quanto comunque si tratta di manifestazioni particolari e spaziotemporalmente determinate del pezzo 'in astratto'? La risposta è, tendenzialmente, , almeno fintantoché in questi live non si è stuprata la struttura e le caratteristiche fondanti del pezzo in questione, come è invece facile immaginare che sia accaduto.


  

Qua però sopraggiunge un'altra rottura di cazzo (feel like Gregory Bateson on this one, parlo di rotture di cazzo all'interno di una grandissima rottura di cazzo tramite l'atto di rompere il cazzo): quali sono i criteri definitori per dire che si tratta di quel pezzo e non di un altro o di una versione modificata di esso? Forse la corrispondenza esatta di ogni parte di ogni strumento, tanto che se uno se le passasse contemporaneamente si sentirebbero solo piccole differenze di timbro/intensità/volume? Difficile, basterebbe pochissimo per uscire dal seminato. E se al posto, mettiamo, della seconda chitarra ci fosse una parte di tastiera? O se la parte di chitarra acustica fosse eseguita, tale e quale, però da una elettrica con suono pulito? Se entriamo in questo tipo di differenze credo che non se ne esca più. Tuttavia una banale consuetudine di finalità generalmente pratica (o di finalità malvagia, se la intendiamo come SIAE) dovrebbe darci una grossa mano in questo: lo spartito. Quel pezzo di carta che fa bestemmiare molte giovani bands un po' ignoranti di notazione musicale e che farà fare i soldi finché camperanno i figli dei loro figli a gerontocrati da cui Cirino Pomicino potrebbe andare a lezione, tipo Gino Paoli o i Righeira, dovrebbe anche fungere, in questo nostro problema di estetica musicale, da caposaldo, da punto di riferimento. 
Sonic Boom, in un momento kafkiano.

Ora, purtroppo sono a mia volta così vergognosamente ignorante di musica colta da non potervi raccontare un sacco di storie interessanti  riguardo gli spartiti ma ad esempio ricordo Riccardo Rossi raccontare da Rosario Fiorello alla radio una storia romanzatissima di come il giro di basso di Another One Bites the Dust, rubato nell'indifferenza generale da parte di John Deacon agli Chic del recentemente resuscitato Nile Rodgers di Good Times era stato a sua volta preso da un pezzo di carta salvato miracolosamente in qualche cucina tardottocentesca dove usavano il retro di vecchi spartiti di nonsopiùche compositore per farci la lista della spesa. 

Probabilmente non c'è niente di vero, come nei pezzi di cronaca giudiziaria di Travaglio, ma il punto è che le varie esecuzioni di musica classica o di operistica possono differire piuttostamente fra di loro senza che la cosa desti scandalo e anzi, suppongo, l'interesse di andarsi a sentire sempre gli stessi concerti od opere durante l'arco della vita risieda in questo, oltre che essere l'unico vero segno tangibile per riconoscere un barone universitario. 
O meglio, l'opera è una storia a sé per quanto riguarda la parte registica, su Rai5 una mattina ho visto una Madama Butterfly che pareva un mashup fra Puccini e gli 883 versione Viaggio al centro del mondo.



(in ogni caso: nella classica per motivi storico-editoriali, 
non penso esista il problema che invece si pone con forza nella pop music, cioè il fatto che 'la versione su disco' spesso è una sola e perciò è senz'altro preminente rispetto a qualsiasi altra esecuzione live, registrata o meno. Nella classica per come la so io abbiamo lo spartito nell'iperuranio e un milione di esecuzioni tutte sullo stesso piano, anche se pare che lo spettatore medio sia affezionato alla sua versione presente sul disco che gli aveva regalato suo padre che per due soldi al mercato comprò nel 1909. Ma queste idiosincrasie non ci tangono.

Piuttosto, un secondo problema sempre più pressante nell'era del digitale e di
ProTools è il fatto che spesso la versione-su-disco è editata e prodotta in maniera talmente diversa e più sofisticata delle esecuzioni live, che la distanza fra essa e quest'ultime è sempre più ampiaIl pezzo registrato in studio è una cristallizzazione di un momento particolare della vita di quel pezzo o la quantità di 'finzione' che le tecnologie consentono è tale da cambiare radicalmente la sua natura? Ma ha senso parlare di finzione? L'editing e la produzione nella musica corrispondono al montaggio delle pellicole, per come ne abbiamo parlato per Zidane.)

Sonic Boom (seduto) e Jason Pierce, che dai '90 in poi suona come Spiritualized.

Ad esempio, mi chiedo: lo stesso concerto di Mozart suonato un quarto di tono sopra all'originale in due differenti occasioni è lo stesso concerto? Diremmo di sì, forse. E se i toni fossero molti di più, che so, 3 o 4? Il timbro cambierebbe e la differenza sarebbe sì saliente per i nostri sensi, pur mantendosi invariati i rapporti matematici fra le note. E Bob Dylan che canta Like a Rolling Stone mezzo tono sotto perché a 70 anni nun je la fa più sta cantando la stessa cosa che cantava nelle tournées del '68? A tal proposito, è stato per me interessantissimo notare come almeno una delle versioni di Walkin With Jesus disponibili non sia accordata secondo le frequenze a cui facciamo corrispondere le note normalmente, per capirci, il La è quella cosa che risuona nell'aria a 440 Hz (o, se siete Goebbles o un seguace di New Age, 432 Hz ).*

*seguirà parentesi tecnica molto interessante - credeteci.
A queste domande, una risposta non credo che vi sia, a meno di avere un solido background estetico-ontologico o un'offerta di dottorato in filosofia della musica per l'università della Nuova Zelanda, dove fanno anche paper accademici di sociolinguistica sui Flight of the Conchords. A me non rimane che ringraziarvi e sperare di avervi rovinato ogni piacere di ascoltare la musica o guardare i quadri in santa pace senza farvi domande di dubbia utilità e sicuro fastidio.

Filippo Batisti  
@disoderlinesss

(per la parte III sono debitore in maniera diretta al nostro Alessio Venier e in maniera indirettissima a Caterina Moruzzi)




(Three Movements si conclude qua. Potete recuperare le altre parti qui e qui. Penso di avere abusato della pazienza di chiunque a tal punto che postare la settimana prossima una conclusione o simili possa indirizzare me e voi a nient'altro che lo sfacelo, perciò la settimana prossima regalerò soltanto una postilla tecnica, forse più interessante di qualsiasi altra cosa finora detta .

Ora infine vi beccate J. Pierce da solo che
la butta in vacca nel pieno stile brit-gospel del suo progetto successivo, Spiritualized. Riconoscerete anche la melodia vocali infiorettata tipica dei dischi di Spiritualized, se li avete presente un minimo. Insomma, si tratta dello stesso brano dell'84 o no?)





21 febbraio 2014

A Kiev non c'è più un posto sicuro dove stare - Abbiamo una primavera ucraina?

“Non ci sono più luoghi sicuri nel centro di Kiev”. Questa è stata l’espressione usata dall’inviato in Ucraina de “La Repubblica” Lombardozzi per descrivere come la contesa tra il presidente ucraino Victor Janukovich e i dimostranti anti-governativi e filo-europeisti sia ormai letteralmente scivolata dal campo delle proteste pacifiche allo scontro armato vero e proprio. Alla tregua imposta dalle due fazioni contendenti non credeva praticamente nessuno; perfino i leader moderati dell’opposizione, tra i quali l’ex pugile Vitali Klitschko, avevano avvertito e affermano in queste ore caldissime della battaglia di Kiev, che “è molto difficile tenere sotto controllo la situazione”. 



Infatti nel cuore di Kiev è in atto da giorni un reale stato di guerra: cecchini sui tetti (militari, ma anche esponenti nazionalisti?), cadaveri di entrambi gli schieramenti disposti lungo i marciapiedi, molotov, assalti ai centri del potere, occupazione di palazzi governativi e prese in ostaggio di forze di polizia. Manca solo la legge marziale? Forse quella non tarderà ad arrivare, visto che Janukovich ha sostituito il capo di stato maggiore, probabilmente per via della pressione fatta dall'esercito per ristabilire al più presto l’ordine e la sicurezza; per il momento i servizi di sicurezza hanno annunciato l’avvio a tappeto di vere e proprie operazioni di anti-terrorismo. 

Nel marasma della situazione ucraina sembra si inserisca, come da qualche anno a questa parte, la quasi incapacità dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di giocare un ruolo effettivamente attivo nella risoluzione della crisi. L’amministrazione Obama considera effettivamente sanzioni, come bloccare i visti di ingresso negli USA a venti soggetti in vista dell’amministrazione ucraina? Per quanto riguarda la lontananza dell’Europa da Kiev, mi sembra che come sempre l’Unione reciti la parte del soggetto che fa tanto rumore per nulla, perché tanto nessuno la prende come una minaccia seria. Ancora una volta sembra che in tutto ciò la parte del leone la stia facendo la Russia di Vladimir Putin, deciso ad ogni costo ad evitare che il governo ucraino si allontani dalla sfera di influenza politico-economica di Mosca. Il governo di Mosca difende a denti stretti l’operato dello storico alleato Janukovich, il quale proprio con la rinuncia ad un accordo economico con l’UE in virtù di un rafforzamento della partnership con la Russia ha scatenato l’ondata di proteste dell’opposizione, la quale chiede un allontanamento netto dalla morsa dell’antico dominatore russo a favore di un processo di integrazione in Europa e di una società più libera e democratica. 

Secondo Putin, quello in atto è un vero e proprio tentativo di colpo di stato attuato dalle frange estreme del nazionalismo ucraino, e i media russi sotto controllo del governo stanno scatenando una vera e propria battaglia contro le proteste in corso. Putin non è disposto a tollerare le eventuali dimissioni del presidente ucraino, e probabilmente teme che l’instaurazione di un governo europeista, con la conseguente vittoria delle opposizioni, crei una sorta di effetto domino facendo rinascere un focolaio di proteste proprio nella stessa Russia, dove nel 2012 Putin uscì indenne dalle proteste di piazza contro la sua candidatura alle presidenziali e alla successiva rielezione. Sembra però che nell’escalation delle violenze degli ultimi giorni la parte moderata dei movimenti filo-europeisti abbia perso letteralmente il controllo della situazioni: gli scontri di piazza e gli assalti ai palazzi del potere sono ormai in mano a vere e proprie formazioni paramilitari dell’estrema destra ucraina, decise a rinunciare a qualsiasi tentativo di dialogo e tregua e pronte ad ottenere le dimissioni del governo e del presidente a suon di armi. 

Probabilmente, in questo momento della protesta, il paragone può risultare giustamente scomodo, ma si vedono alcune analogie con le “primavere arabe”: inizio scandito da proteste di massa pacifiche seguito poi da una radicalizzazione dello scontro, dove le forze moderate vengono messe in ombra a scapito delle frange nazionaliste ed estreme, armate e meglio organizzate, le quali cavalcano con slogan populistici la rabbia popolare, divenendo uno degli attori principali nel conflitto. Tutto ciò, come hanno fatto vedere gli ultimi eventi, ha portato ad una sorta di fallimento ideologico delle rivolte mediorientali. Sarà così anche per la “primavera ucraina”?

Mattia Temporin

19 febbraio 2014

Che Europa senza Europei a guidarla?

Cosa succede se all'interno del Parlamento Europeo prevale una maggioranza di forze anti-europeiste? Sembra un paradosso, ma a poco più di tre mesi dalle prossime elezioni (europee, che per la cronaca si terranno, in Italia, probabilmente il 25 maggio prossimo) non solo liste e candidati sono avvolti nel mistero, per non parlare dell'assenza, sui media ma non solo, di programmi, ma a guardare i sondaggi è sempre più probabile che alcune delle forze anti-politiche, anti-sistema, anti-europeiste che sono emerse negli ultimi anni in tutta Europa conquisteranno un buon numero di seggi.
Fonte: lettera23.it
Secondo una recente indagine di Tecné, in Italia, il distacco tra Partito Democratico (potenzialmente primo partito con il 29,6% delle preferenze) e il rivale storico, Forza Italia, è particolarmente ridotto, ma la novità è il fatto che tra i due contendenti si è inserito il MoVimento 5 Stelle che non ha mai fatto segreto, anzi, delle sue tendenze anti-europeiste. La forza di democratizzazione dal basso che i Cinque Stelle vogliono portare a Bruxelles passa attraverso un referendum sulla permanenza dell'Euro e su un maggiore coinvolgimento dei cittadini, “L'Europa sarà politica o non sarà. Sarà partecipativa o non sarà. (…) Quest'Europa così invocata e così assente -queste le parole del leader Beppe Grillo sul suo blog con la consueta enfasi- si è trasformata in una moderna dittatura che usa i cerimoniali democratici per legittimare se stessa.” Europearie e altri strumenti referendari per fare sentire la propria voce anche se ciò potrebbe portare ad alcuni passi indietro rispetto al presente sulla strada dell'integrazione: questa in pillole la ricetta dei Cinque Stelle.
Fonte: lepoint.fr
Ma non è l'unica forza che “remando contro” pare ottenere un certo seguito, in Francia, il Front National di Marine Le Pen non sembra veder diminuire il suo livello di gradimento. Secondo un sondaggio realizzato da TSN Sofre per Le Monde e Canal+, un terzo dei francesi condivide le idee dal partito di estrema destra i cui pilastri del programma sono l'uscita dall'Euro e la “priorità nazionale”. Anche l'immagine della Le Pen è in via di normalizzazione e sembra conquistare sempre più francesi: tra i suoi pregi la capacità di tenere unita la sua fazione e la comprensione dei veri problemi quotidiani della Francia, anche se è soltanto una minoranza a condividere le soluzioni che propone.
Fonte: theguardian.com
In vista delle elezioni europee in particolare, il FN vede concretizzarsi la possibilità di raggiungere un risultato storico: secondo alcuni recenti sondaggi, il 23 % dei francesi rivolgerà le sue preferenze a Madame Le Pen che, così, staccherà l'UMP, indebolito dalle fratture interne, e il partito socialista che soffre la debolezza della presidenza Hollande. Questo risultato è frutto, da un lato, della crisi del sistema politico e dei partiti tradizionali che non è un'esclusiva italiana, dall'altro, dell'attenta opera di “de-demonizzazione” del partito ad opera della Le Pen con la finalità di rinforzare i lati anti-politici del proprio movimento a scapito di una chiara definizione “di parte” all'interno dello spettro tradizionale. L'obiettivo è dare voce a quella maggioranza silenziosa di cittadini più umili alle prese con i reali effetti della crisi che non trova rappresentanza e risposte dai partiti tradizionali, visti come distanti ed occupati in dispute di palazzo piuttosto che a fare il bene del Paese. (Familiare, no?).
Forte di questo ipotetico scenario di successo elettorale, Marine Le Pen sta valutando la creazione di un partito euro-scettico al Parlamento Europeo con lo scopo esplicito della “rottura dall'interno” e puntando quindi all'indebolimento dell'istituzione. Il partito che dovrebbe chiamarsi Alleanza Europea per la Libertà, oggi raccoglierebbe l'adesione del Pw di Geert Wilders, il Partito per la Libertà olandese, di estrema destra e populista, ma anche della Lega Nord che, in contesto europeo, riesce sempre a lasciare un qualche segno.
Fonte: presseurope.eu
Molti sostengono che la forza retorica di movimenti anti-sistema come il Front National non abbia poi effetti concreti e che, una volta alle prese con l'amministrazione e la gestione concreta dei propri programmi, si normalizzeranno entrando nel gioco politico “tradizionale”. Trasformare l'efficace retorica elettorale dell'anti-politica in un'efficiente modalità di governo è un processo che ha visto fallire anche figure illustri ed è plausibile considerare il successo del FN e di altri partiti affini come effimero, tuttavia il rischio di un Parlamento Europeo anti-europeista è sempre più concreto così come la conseguente paralisi istituzionale. Cosa possiamo aspettarci, quindi, da un'Europa che rinnega se stessa? Quale futuro per un'istituzione che ha vissuto e vive grazie all'entusiasmo e alla forza propositiva dei sostenitori dell'integrazione? Che ne sarà del sogno ispiratore di Spinelli, Adenauer, Monnet, Schuman, De Gasperi di un'Europa forte, pacifica, unita e solidale? Che Europa possiamo immaginare senza degli Europei a guidarla?

Angela Caporale

16 febbraio 2014

SundayUp: Three Movements, pt. 2 - il sermone onto-estetico-musicale


THREE MOVEMENTS, II- un viaggio che per motivi di decenza ho dovuto dividere in tre parti, ma che andrebbe letto nel modo più fluido possibile.

Cos'abbiamo imparato la volta scorsa

Niente, a quanto pare, visto che siamo di nuovo qui.
A parte questo, abbiamo visto come si può descrivere (o
descrivere secondo l'arte, cioè ritrarre) una persona (Zidane, nel caso di persona altra o, nel caso di se stessi, Montaigne) dispiegando il ritratto nel tempo ma, in qualche maniera, in modo unitario.


Questi discorsi mi portano alla mente anche altro, sempre a metà fra arti visive e pop music. Paul Cézanne ha dipinto più volte lo stesso soggetto, in particolare un paesaggio, la montagna Sainte-Victoire. Precisamente, l'ha dipinta almeno una trentina di volte. Non mi interessa il modo in cui l'ha fatto, cioè la tecnica, né le singole differenze fra le varie versioni, che una sia più arancione o l'altra più blu. La domanda è, prima di tutto: perché? Was he scared? / Was he bored? Non erano certamente prove per una supposta versione finale, magari sincretica di tutte le altre (è persino difficile concepire qualcosa del genere, un po' come il fatto che Renzi sia a capo di un partito di sinistra). Né, a mio parere – qui le mie lacune in storia dell'arte potrebbe tornare a galla clamorosamente- l'ha fatto per sperimentare sulla stessa veduta in differenti condizioni ambientali – più luce, più ombre, angolazioni diverse eccetera. Il motivo è bensì sfidare il principio di rappresentazione e il concetto di mimesi nell'arte pittorica. Mi spiego: si fa pittura mimetica quando si cerca di imitare (o, anche se i due concetti non coincidono, di rappresentare oggettivamente) la realtà. Quei disegni iperrealistici che vanno forte su 9GAG, talmente ben fatti da sembrare fotografie, sono un caso peculiare e moderno della cosa, ma pienamente esemplificativo.


Un esempio par excellence di tecnica rappresentativa è quella della prospettiva geometrica, che si definisce rozzamente come “dare conto della terza dimensione, sive la profondità, sulle due dimensioni dell'immagine, al fine di essere più fedeli alla realtà, visto che noi nella terza dimensione ci sguazziamo di continuo, a meno che non viviate in Flatlandia”. Come il grande storico dell'arte e della scienza Erwin Panofsky ha fatto notare, il successo di questa tecnica di rappresentazione è storicamente determinato (leggi: una lunga serie di raccomandazioni e magheggi dei poteri forti) e non è quindi da ritenersi costitutivamente migliore di altre quanto a “vicinanza” alla realtà. Perché? Perché noi, se attiviamo quel poco di autoanalisi che ancora non ci hanno tolto, non esperiamo la realtà in quella maniera. Voglio dire, il nostro guardare non è il guardare secondo la prospettiva geometrica, come se guardassimo le cose e il mondo tutto da un punticino isolato (e privilegiato) rispetto al resto, tipo Google Maps. Il modo in cui usiamo il senso della vista, in cui facciamo esperienza delle cose tramite esso, semmai assomiglia di più a Street View: a trecentosessanta gradi, deformato sfericamente agli angoli – una vista che si 'sporca le mani' con tutto ciò che è altro. (come peraltro ben sapeva Federico Duca di Montefeltro, aka se chiudete l'occhio sinistro improvvisamente vi troverete a vedervi il naso a destra, e viceversa; pensa un po' vedersi il naso normalmente, è tipo le colonne d'Ercole della visione binoculare). 


Cézanne, secondo il filosofo Merleau-Ponty (uno spesso misconosciuto ma che la sapeva certamente lunga, morto prematuramente di coccolone perché mentre leggeva la Diottrica di Cartesio), come anche più avanti Paul Klee e altri, tentava di dar conto di questa faccenda, con la sua pittura. E, date queste premesse, la scelta di rappresentare diverse volte la veduta della Sainte-Victoire, è estremamente significativa, perché scegliere di ritrarre lo stesso 'oggetto' più volte (senza mai farlo “uguale”) vuol dire voler mostrare che non esiste un 'oggetto' passivo rispetto al processo di conoscenza da parte di un 'soggetto'. È un'opposizione vecchia e sbagliata, dice Merlot Merleau-Ponty. La cosa è invece in questi termini: il soggetto si sporca sempre le mani (o in questo caso gli occhi) con quello con cui ha a che fare e ne è a sua volta influenzato. L'esperienza percipiente è per sua natura ambigua e double face, come quell'orrenda canotta sportiva che avevate da piccoli. La Sainte-Victorie ti guarda, mentre la guardi, essa non è passiva alla tua visione (vale lo stesso per i vestiti brutti ma economici: ti guardano, ti tentano e nel buio ti incatenano).



È per questo che ha senso dipingerla più e più volte: io non sarò mai lo stesso e lei non sarà mai la stessa. La raccolta di Sainte-Victoires può essere intesa come una somma parziale che concorre a comporre un ritratto di un oggetto solo: nessuna sarà mai lontanamente esaustiva considerata singolarmente, ma neppure dipingendone una al giorno potrò mai raggiungere una totalità finita (nel senso di conclusa) di che cosa “è” la Sainte-Victoire. A questo proposito, trovo una forte analogia fra una delle versione di Cézanne della montagna e una inquadratura del ritratto del 21mo secolo di Zidane o un singolo saggio degli Essais montaignani.  


Riposatevi in questa settimana d'attesa, perché il pezzo conclusivo sarà bello pregno (la pop music che ho promesso alla prima riga arriverà lì). Qui, una foto della Sainte-Victoire. Qui, di nuovo, la prima parte di Three Movements.

Filippo Batisti  
@disorderlinesss

15 febbraio 2014

Un paese che non funziona

Se dovessi riassumere l'ultima settimana politica ad un amico che è stato su un'isola deserta, gli direi che ho una notizia buona e due cattive. Quella cattiva è che con il terzo premier non uscito come capo della coalizione vincente alle elezioni in due anni e mezzo il sistema di governo italiano può essere dichiarato ufficialmente inefficiente. Quella buona è che il nuovo premier è l'unico uomo con la credibilità e il polso per riformare questo sistema malato. La seconda cattiva però è che la manovra da Prima Repubblica che lo ha portato al Governo può essergli costata una buona parte di quella credibilità.

È difficile mantenere un approccio distaccato alla questione: l'Italia è un popolo di tifosi, e Matteo Renzi è il classico personaggio che è o amato, o odiato. È sbagliato, sbagliatissimo, ma è così. Ma la manovra che ha permesso la staffetta con Enrico Letta ha fatto tentennare molti sostenitori del Sindaco di Firenze. Se ti presenti come l'uomo nuovo, estraneo all'attuale classe dirigente e ai disastri che ha fatto, fautore di una politica più chiara, più moderna e più europea non puoi completare la tua salita al potere con un trucco da vecchia DC. La coerenza in politica è sopravvalutata (la gente ha la memoria troppo corta) e quel po' di morale che rimaneva, se c'era, è stata fatta a brandelli da vent'anni di berlusconismo. Per questo ho sempre girato un po' alla larga dai giudizi assoluti sull'uomo Matteo Renzi, ho preferito guardare al politico. Il politico Matteo Renzi aveva un piano, neanche troppo velato, che da Sindaco lo avrebbe portato ad essere prima Segretario del Partito Democratico e poi Premier. Tutto stava procedendo secondo questo piano, era assolutamente prevedibile che lui sarebbe stato il prossimo Capo del Governo, forte di un consenso trasversale e anche un po', perdonatemi, post-ideologico. Per arrivare a Palazzo Chigi però bisogna vincere le elezioni, e per vincere le elezioni bisogna fare una nuova legge elettorale siccome quella vigente è stata dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Corte dopo otto (!) anni dalla sua attuazione, ed è a questo punto che salta qualcosa nel piano perfetto. La riforma della legge elettorale è sul tavolo della politica italiana da almeno 2-3 anni, cioè da quando la crisi economica ha finalmente messo fine alla bugia berlusconiana. Come si sa in quei vent'anni tutto andava benissimo, l'apparenza veniva anni luce prima della sostanza e non c'era nulla di cui preoccuparsi, nemmeno nulla di cui informarsi (la nostra economia va a gonfie vele, siamo tutti ricchissimi, quindi chissenefrega della politica) pertanto anche una legge elettorale definita “una porcata” persino dal suo steso autore andava benissimo. 


Una volta finito il lungo sogno questa classe politica, espressione di un popolo che evidentemente se si trova in questa misera condizione qualche responsabilità ce l'ha, si è dimostrata incapace di formulare una nuova legge elettorale accettabile dal momento che ogni partito segue i propri interessi e non c'è né il modo né una forte volontà di arrivare in fondo. E nemmeno l'umiltà di ascoltare i massimi esperti in materia, i maggiori politologi italiani che ormai da anni sostengono invano il semplice ma estremamente efficace maggioritario a doppio turno, il sistema francese per intenderci. Renzi, va detto, dal primo giorno da Segretario del PD ha provato a superare questo ostacolo che sembrava insormontabile. E va anche detto che fino ad allora Letta non pareva essersi adoperato molto per questa legge che avrebbe messo il paese nelle condizioni di tornare a votare e lui di essere messo da parte. Come risaputo, il PD da solo non ha i numeri per fare questa riforma e comunque è giusto che una legge così importante sia condivisa anche dagli altri partiti. I primi tentativi di dialogo Renzi ha provato a farli, illuso, col Movimento 5 Stelle. La lista con le tre proposte magari non era il massimo ma il leader Beppe Grillo con la solita assenza di senso di responsabilità non ha esitato a rifiutare qualsiasi tipo di collaborazione, dal momento che ogni fallimento dei partiti tradizionali è linfa vitale per il suo movimento.

A quel punto l'unico altro interlocutore possibile era il Cavaliere. Andare a trattare un argomento così importante con il condannato Silvio Berlusconi non è una prospettiva allettante né tanto meno la strategia che ti fa fare un figurone, ma era l'unico interlocutore possibile e non è colpa di Renzi se gli elettori e i dirigenti di Forza Italia continuano a riconoscere quell'uomo come loro leader. L'ipotesi di legge che ne è uscita, l'Italicum, si può considerare solo di poco migliore del Porcellum, mantiene un premio di maggioranza spropositato e prevede un doppio turno nel caso (quasi scontato in questo periodo storico) che non si raggiunga il 37%. Questo doppio turno sicuramente garantisce maggiore approvazione ma è ancora configurato per le coalizioni, quindi lascia in balia dei ricatti dei partiti minori e non esprime un leader condiviso ma solo una coalizione vincente. È curioso come, di tutte le critiche che si potevano muovere, i contrari a prescindere a questa legge abbiano insistito quasi unicamente sulle preferenze, ripudiate a furor di popolo una ventina di anni orsono proprio da molti di quelli che in questi anni sono stati incapaci di attuare questa riforma e che ora vedono le preferenze come ultimo baluardo della democrazia. Oltre a questo, il risultato di una contrattazione politica con Berlusconi non poteva che essere mediocre, il resto è stato fatto dalle faide interne al Partito Democratico, l'unico partito dove anche se stravinci le primarie devi comunque rendere conto ad una vecchia dirigenza che non si stanca mai di fare danni al suo stesso partito, e dalle centinaia di emendamenti che hanno di fatto bloccato la proposta di legge in Parlamento, molti dei quali tra l'altro presentati dagli stessi parlamentari PD che dovranno votare la fiducia al nuovo premier.


Ma anche questa ulteriore prova di inefficienza istituzionale è insufficiente a giustificare la scelta di Matteo Renzi di aggirare, almeno per ora, le urne. Non più di dieci giorni fa ha proclamato platealmente l'intenzione di non fare le scarpe a Enrico Letta, ha rinnegato un'altra volta le larghe intese e garantito massima collaborazione al Governo. D'accordo che la gente ha la memoria corta, ma non fino a questo punto. Inoltre non c'è nemmeno stato un evento che giustificasse una crisi di Governo, ma solo una scelta dall'alto. In questo modo si alimenta la sfiducia e si scatenano i populismi. Ancora una volta il M5S riceve un generosissimo regalo da sinistra. E anche il Presidente della Repubblica Napolitano non esce benissimo da questa storia, tra l'altro nella settimana in cui sono emerse curiose teorie complottistiche che hanno coinvolto proprio il PdR. Cose divertentissime alle quali è difficile pensare che qualcuno possa credere, ma così è. In un contesto dove due delle tre principali forze politiche sono di marcato stampo populista, la sfiducia è coltivata con cura e metodo, e il popolo italiano, si sa, ama farsi imbonire dai grandi oratori e capipopolo. Tolto questo, Napolitano paga la scelta di avere creduto nel governo Letta. Non aveva altra scelta quando è stato tirato per la giacca alla rielezione come PdR dopo che aveva detto di no in tutti modi possibili. Ci ha messo la faccia con grande senso di responsabilità per salvare una classe dirigente ridicola, ma avrebbe dovuto porre obiettivi specifici e termini definiti a quell'aborto di maggioranza che si era creata. So che nei paesi moderni e civili come la Germania le larghe intese sono la normalità e funzionano benissimo, ma dobbiamo ammettere a noi stessi che l'Italia in questo momento non è un paese né moderno né civile. L'unica cosa degna di nota che è riuscito a fare Enrico Letta è stata quella di liberarsi dal ricatto di Berlusconi, riuscendo a comporre una maggioranza anche senza FI, ma proprio perché riuscito a liberarsi della zavorra aveva il dovere di andare fino in fondo con le riforme, mentre si è contraddistinto solo per un immobilismo quasi imbarazzante e per le figuracce dei suoi ministri. Non lo rimpiangeremo. Purtroppo però, la maggioranza che Renzi va ad ereditare è la stessa del suo predecessore, quella con Alfano e con le spoglie di Scelta Civica. Difficile lavorare bene con questi collaboratori. Anche la maggioranza dei parlamentari PD che dovranno dargli la fiducia non appartengono alla sua corrente. In un partito come questo significa compromessi, veti incrociati, accordi segreti. Tutto ciò comporta poca libertà di manovra per il Sindaco di Firenze, che non avrà vita facile a proporre riforme e rinnovamenti ad una maggioranza che è parsa interessata soprattutto all'autoconservazione e che con questa staffetta avrà perso molta di quella forza politica che un grande consenso popolare gli garantiva.

Qualche giorno fa Panebianco faceva notare come in questa stagione di larghe intese il sacrificio della rappresentanza a favore della governabilità abbia prodotto un effetto inverso, dal momento che la sfiducia nelle istituzioni prodotta dall'assenza di rappresentanza ha portato solo ostacoli alla governabilità. Questa sfiducia però è la base del programma dei vari partiti come Movimento Cinque Stelle in primis, poi Forza Italia che nonostante anni e anni di maggioranza ha sempre saputo mantenere il carattere populista delle minoranze, Lega Nord, Sinistra Ecologia e Libertà. Dovrebbe essere l'opposizione la prima a promuovere riforme e innovamenti, e la maggioranza dovrebbe avere come priorità l'interesse del paese, a costo di essere la prima a sacrificarsi. In Italia questo non succede. In Italia le opposizioni non hanno nessun interesse a cambiare le cose poiché è molto più conveniente incanalare verso di se la rabbia e il malcontento. Renzi vorrebbe farlo ma questa volta l'ambizione e la fretta gli hanno fatto fare un brutto errore, uno di quegli errori che rischi di pagare caro e che fanno crescere ulteriormente la sfiducia di cui sopra.


Ora, la cosa più importante da fare è trovare un sistema di governo efficiente. Non si tratta solo di una nuova legge elettorale, questa staffetta ha dimostrato che è necessaria una riforma della Costituzione, che il bicameralismo perfetto più che una garanzia è diventato una zavorra, che si dovrebbe almeno discutere di semi-presidenzialismo, dal momento che di fatto stiamo andando verso quella direzione. Sono molto scettico, l'Italia è un paese irrimediabilmente conservatore, alcuni lo sono per convenienza, altri per attitudine. Quelli per convenienza sono quelli che perderebbero consensi se le cose iniziassero a migliorare. Quelli per attitudine ad esempio si lamentano, giustamente, del modo in cui Matteo Renzi è diventato premier, ma sono gli stessi che “la nostra Costituzione è la più bella del mondo e non si tocca”, sono gli eterni indignati contrari a prescindere ad ogni rinnovamento. In mezzo a tutto questo il nuovo Governo nasce con ambizioni altissime e obiettivi smisurati, ma anche con il sospetto che il suo leader non abbia saputo aspettare il suo momento naturale ma abbia imprudentemente forzato la situazione apparendo, ahinoi, troppo simile ai suoi predecessori.


Fabrizio Mezzanotte

9 febbraio 2014

SundayUp: Three Movements 1, il pippone onto-estetico-musicale


THREE MOVEMENTS, I - un viaggio che per motivi di decenza ho dovuto dividere in tre parti, ma che andrebbe letto nel modo più continuo possibile. 

Se tutto fosse andato per il verso giusto, (questo sarebbe un gran incipit per qualsiasi cosa, tipo un libro di John Fante così come un tweet di Gianni Riotta) la settimana scorsa avreste dovuto beccarvi una amorevole guida per temi della discografia Mogwai, di cui è recentemente uscito il controversamente brutto Rave Tapes. Invece, mi sono ammalato e come sempre quando sono sotto effetto di paracetamolo mi è venuta in mente una combinazione di temi in una serie di rimandi analogici che manco Rimbaud una concatenazione di voci a caso di Wiki. E i Mogwai c'entrano sempre, anche se più come pretesto. Nel 2006 hanno composto una colonna sonora per un film-documentario (la definizione è problematica e fra poco capiremo perché) per Douglas Gordon, glasvegiano come loro, e Philippe Parreno. Il film non l'avete visto nelle sale, per la sua natura sperimentale e, non secondariamente, per questioni di chauvinismo e poca tempestività storica, dal momento che è dedicato interamente a Zinédine Zidane.

L'idea si riassume in un paio di righe: prendiamo Zidane, al tempo nelle fila del Real Madrid, prendiamo uno sbanderno di telecamere HD, superzoom tuttecose, gliele puntiamo addosso per tutti i 90 minuti di una partita a caso e vediamo cosa ne esce. Nel frattempo, un po' di parlato in sottofondo e un po' di Mogwai per le parti salienti. Innanzitutto, l'album musicale che ne è uscito rientra in una zona grigissima che spazia fra il non-molesto e il trascurabile. Penso che di 8 tracce si possano tirare fuori un paio di pezzi veri (al contrario del recentissimo Les Revenants, che è una colonna sonora di una serie Tv francese, molto ben integrata con le immagini e anche da sola ha piena dignità e regala godimento). Il film, dicevamo, nella sua interezza non è una visione particolarmente piacevole o illuminante: il parlato non è significativo, le immagini non rivelano niente di che sul gioco del calcio, pur partendo da un'idea non banale, né apparentemente regalano particolare piacere estetico intese per se stesse.
La chiave per arrivare al valore della cosa sta invece nel sottotitolo e nei contenuti extra, che uno è spinto a consultare proprio per l'insoddisfazione che deriva dalla visione del film da solo. “ZIDANE – a 21st century portrait(sì, c'è tutto, anche se non in italiano), un ritratto del ventunesimo secolo, fatto cioè con la telecamere in HD invece che in olio su tela. Tutta la faccenda acquista improvvisa luce quando cominci a intendere questo film come un ritratto (e qui entro nel terreno minato dell'allegoria, vi prego di seguirmi). Bisogna intendere la telecamera puntata su Zidane (e non sul pallone, come in qualsiasi altra ripresa sportiva), insieme al montaggio di tutte le riprese, come le pennellate del ritrattista sulla tela. Certo, il montaggio è un'astrazione dal punto di vista temporale: il fluire delle immagini non rappresenta il continuum dello scorrere delle cose, come invece sarebbe stato con un unico piano sequenza, ma ciò è dato dalla natura del risultato finale - natura che trovo in ogni caso ambigua, dato che il risultato della pittura è inevitabilmente statico (il ritaglio di tela su cui sono fissati i colori), ma in fin dei conti pure la totalità della pellicola è tale, nonostante il “ritratto del 21mo secolo” di Douglas e Parreno sia per l'appunto un ritratto in movimento, un ritratto composto in modo paritetico da tutti i minuti di ripresa montati che dal primo all'ultimo concorrono a costituire e anzi costituiscono il risultato finale. 

(da segnalare che, con ironia storica non indifferente, la partita di Zidane in realtà non dura 90' perché a un certo punto, in un'azione confusa e non interpretabile dalle riprese delle camere personalizzate, Zinedine si fa espellere, abbandonando il campo prima del tempo).


Come puoi ritrarre un uomo nel XXI secolo? Coi pennelli potresti, ma l'hanno già fatto in molti prima e forse meglio di te. Il mezzo 'moderno' in questo caso è la ripresa, nella sua più alta espressione tecnica, l'HD e per giunta in gran numero (17 telecamere). Otterrai il caso paradossale in cui la pennellata corrisponde al ritratto finito, al pari però della pennellata successiva (il tutto, lo ripeto, al netto della finzione che è il montaggio, per quanto l'atteggiamento del regista sia stato piuttosto neutro da questo punto di vista, non ci sono troppe “costruzioni” nelle immagini). Tutto molto bello, per usare una massima di derivazione calcistica, ma questa conclusione a cui siamo arrivati mi ricorda un episodio bellissimo della storia della cultura europea che se non fai Filosofia all'università non ti capiterà di conoscere altrimenti – e forse neppure in quel caso – cioè Michel Eyquem de Montaigne, semplicemente Montaigne.


Per farla brevissima, questo signore di media nobiltà perigordina, vivo fra Cinque e Seicento, ha scritto un'unica cosa in vita sua, la sua vita raccolta in Essais, cioè saggi, di argomento, lunghezza e profondità molto varia. Spazia dai racconti dei suoi calcoli renali (per tacer delle disfunzioni erettili) all'apologia dello scetticismo cristiano mascheranto da difesa della teologia tradizionale. È una lettura molto istruttiva perché non ha molti filtri, anche quando si viaggia su altitudini mica da ridere. Non credo sia un caso che M. non si proclami mai philosophe. Comunque, se volete leggere un bel libro divulgativo, andate qui. Ma la cosa veramente interessante è la consustanzialità fra la sua persona  (un po' come succede col vostro profilo facebook (no.)) e la sua opera: dentro quel libro c'è Montaigne, Montaigne è quel libro, del quale per una strana piega degli eventi si trova a essere anche l'autore, come direbbe Woody Allen. 

Gli Essais sono un ritratto in movimento, mutuando l'espressione di Starobinski, però su carta: prova ne è fatto che nella versione che possiamo leggere oggi sono indicate le modificazioni e integrazioni apportate da Montaigne nel corso degli anni durante le tre edizioni che l'opera ha conosciuto, contrassegnate da delle (a) ,(b) e (c) all'interno del testo. Non si tratta di 'semplici' revisioni, che sono fisiologiche per qualsiasi testo, dalla Commedia fino alla vostra lurida laurea triennale; si tratta piuttosto, con linguaggio di informatica popolare odierna, di updates apportate dall'autore per aggiornare il suo ritratto, per stare dietro allo (e dare conto di) scorrere del tempo: l'opera è fatta della stessa materia di cui è fatto il suo autore, l'autore cambia nel tempo, l'autore deve cambiare l'opera progressivamente ai cambiamenti che avvengono in lui perché gli sia fedele


Una sorta di ritratto di Dorian Grey che invece che invecchiare per conto suo viene continuamente ripennellato dal suo stesso creatore, che contemporaneamente ne è l'oggetto: più o meno la stessa cosa che succede per Zidane, ma nell'arco temporale di (quasi) una partita di calcio, invece che di una vita intera. Insomma, il film di Douglas e Parreno dovrebbe essere inteso come un ritratto, nel senso di dipinto, di cui è stato srotolato il DNA, per così dire: se il film fosse compresso in un istante sarebbe esattamente un quadro, se un quadro potesse dispiegarsi assomiglierebbe alle riprese montate di Zidane – un ritratto del 21mo secolo. 


(Three Movements continua la settimana prossima con la seconda parte, dove le cose si complicheranno chiamando in causa Cézanne e Google Street View)

8 febbraio 2014

Sochi o non Sochi: il dilemma olimpico tra universalità e discriminazione

Non sono molti gli appuntamenti che possono raccogliere l'attenzione della maggiore parte della popolazione globale, ma in questa sparuta cerchia la parte del leone la fanno sicuramente le Olimpiadi: evento sportivo per eccellenza, ma al contempo media events e ghiotta occasione per i Paesi ospitanti di “photoshoppare” la propria immagine internazionale traendone lustro ed ammirazione.
Tuttavia capita che il programma si inceppi e, se Londra ha tratto un forte beneficio economico e d'immagine dall'organizzazione dei Giochi nel 2012 (la campagna virale avviata dal British Council The GREAT Campaign”, per esempio, è ancora attiva), non si può dire lo stesso di Pechino 2008. L'olimpiade cinese ha, da un lato, mostrato l'incredibile efficienza, precisione, spettacolarità dell'apparato organizzativo, dall'altro ha attirato l'attenzione di molteplici Ong internazionali che si occupano di diritti umani e che ne hanno denunciato le violazioni.
Fonte: giornalettismo.com
 In queste settimane tocca a Sochi, città di villeggiatura situata sul mar Nero che ha la peculiarità di essere adatta sia al turismo balneare estivo che a quello sciistico invernale, richiamare su di sé, sulla Russia e sul suo discusso Presidente Vladimir Putin i riflettori dei media, delle organizzazioni internazionali, del pubblico globale. (Sebbene le Olimpiadi invernali per ovvie ragioni climatiche interessano un numero di Stati inferiore rispetto a quelle estive.) A questa edizione dei Giochi parteciperanno in tutto 88 delegazioni nazionali, il numero più alto di sempre e la delegazione più numerosa è quella degli Stati Uniti (230 atleti) seguita dalla delegazione Russa che gioca in casa e punta ad un ricco bottino nel medagliere.
Putin e il Comitato Olimpico russo hanno cominciato da mesi a promuovere l'evento, ma anche uno stile di vita più sano, come? Promuovendo di sostituire i 30 rubli di un biglietto della metropolitana con 30 squat. Sì, 30 piegamenti da eseguire a regola d'arte in cambio di un viaggio gratis. La simpatica iniziativa, promossa attraverso un video, è diventata presto virale, chissà se poi in molti si sono effettivamente dilettati con l'esperienza.

L'attenzione internazionale ha, tuttavia, portato alla ribalta non soltanto esempi di gamification di successo, ma soprattutto ha permesso ad un fronte compatto e trasversale di denunciare e protestare contro le politiche e l'atteggiamento omofobo della Russia dell'ex agente del Kgb. Essere parte della comunità LGBT in maniera manifesta potrebbe mettere a rischio alcuni dei diritti fondamentali di ciascun uomo, dalla libertà di manifestazione e di espressione del proprio pensiero ai molteplici limiti imposti all'organizzazione: il quadro che emerge dai rapporti di Amnesty International così come di Human Rights Watch è quello di un Paese non libero.
Sono molti gli attivisti e gli Stati che hanno preso posizione contro questa politica esplicitamente anti-gay e non c'è occasione migliore dei Giochi Olimpici per lanciare campagne e attività di protesta finalizzate alla sensibilizzazione e alla coinvolgimento del maggior numero di attori possibili in un'attività di advocacy efficace nei confronti del governo russo.
Abbiamo, quindi, lo spot promosso dal Canadian Institute of Diversity and Inclusion che, sulle note di “Don't you want me, baby?” degli Human Lague, mostra due atleti di Bob intenti a scendere in pista: “I Giochi Olimpici sono sempre stati un po' gay. Lottiamo per mantenerli così.”

Fonte: whitelines.com
Oppure la scelta della tuta della delegazione tedesca, decisamente più variopinta del solito, molto arcobaleno (simbolo della comunità LGBT)

La Cerimonia di apertura è stata disertata da molti Capi di Stato e di Governo (ma non da Enrico Letta che ha partecipato con entusiasmo da vero tifoso), ma farà discutere la scelta della Novergia di farsi rappresentare durante l'inaugurazione dei Giochi Paralimpici dal Ministro della Sanità che raggiungerà Sochi insieme alla famiglia. Perché discutere? Il titolare del dicastero, Bent Hoie, omosessuale dichiarato, sarà accompagnato da suo marito, così il Paese scandinavo ha deciso di rispondere esplicitamente e in maniera polemica alle dichiarazioni del sindaco di Sochi che ha garantito l'”assenza di gay” nella città.
Fonte: whitelines.com
Segni di protesta sono comparsi anche sulle piste: il primo gesto è stato quello di Cheryl Maas, atleta di snowboard olandese che, dopo la sua prova, ha mostrato alle telecamere il suo guanto arcobaleno con un unicorno, un chiaro esempio di quella “propaganda gay” che in Russia è perseguibile legalmente.

La forza (ma anche i limiti organizzativi: @SochiProblems) della Russia e del suo leader, che ha dimostrato ancora una volta la sua dimestichezza con il pericolo e con i nemici feroci, sono evidenti, ma queste Olimpiadi Invernali hanno l'opportunità di diventare ambasciatrici dello Sport in senso più ampio rispetto al semplice agonismo, promuovendo attivamente quei valori e quei principi di uguaglianza, sana competizione e confronto raccolti nella Olympic Charter che proibisce, tra l'altro, ogni forma di discriminazione, rivolgendosi non solo agli atleti, ma ad una comunità umana pressoché globale. 

Angela Caporale

Su TBU abbiamo già parlato di discriminazione ed omofobia QUI
Per chi volesse saperne di più sui rapporti tra Olimpiadi russe e geopolitica,la rivista Limes ha dedicato un numero all'argomento.

7 febbraio 2014

SundayUp: Artefiera for dummies (e non per tutti i portafogli)

Per capire l'arte bisogna aprire la mente, ma soprattutto il portafoglio. Il costo del biglietto per entrare ad Arte Fiera infatti è di 20 euro, prezzo che indubbiamente non aiuta ad avvicinare i classici indecisi, quelli del “ma ne varrà veramente la pena?”. Ormai la fiera è finita da una settimana, ma vi consiglio, per l'anno prossimo, di portarvi dietro la CartaGiovani, perché in questo modo entrerete gratis. E perché, al di là delle provocazioni, ne vale veramente la pena. Talmente tanto che io i 20 euro li ho spesi tondi tondi (argh!).



Per apprezzare tra le gallerie non è necessario essere esperti d'arte – questo vale ovviamente per ogni mostra d'arte contemporanea – ma è invece necessario svestirsi di tutti i pregiudizi legati al lavoro dell'artista, della serie “vabbè ma quello lo so fare anch'io”. Fatto ciò, potete iniziare a girovagare con qualche speranza di trovare le opere quantomeno interessanti. Se invece non potete soffrire la cripticità degli artisti d'oggi, nel marasma di gente, installazioni e dipinti, troverete pane per i vostri denti: Picasso, De Chirico, Boldini, Fattori, Schiele, ma anche fotografi come Nan Goldin e Cartier-Bresson. E se non vi interessa nemmeno questo, probabilmente rientrate in quella vasta categoria di persone che non va ad ArteFiera per vedere, ma per farsi vedere. Artisti, collezionisti, compratori e poser si aggirano inesorabili per i corridoi delle gallerie, e non ci vuole molto a riconoscerli: si pavoneggiano armati di iPhone, pronti a scattarsi una selfie quando meno te lo aspetti.





La bellezza dell'arte contemporanea sta nello stupore di chi osserva. Una delle Gallerie nelle quali si stringevano più persone era quella degli TTOZOI (Pino Rossi & Stefano Forgione), “Muffe su tela”. Il nome deriva dal termine “spermatozoidi”; si tratta di due artisti di Avellino che nei loro lavori si uniscono alla tela per dar vita ad un'opera d'arte. Volendo inserirli all'interno di un movimento, li si potrebbe definire Informali: con pochi elementi realizzano il gesto pittorico. TTOZOI non utilizzano semplicemente prodotti naturali, bensì è la natura vera e propria ad entrare a far parte della loro arte, diventando così protagonista attiva dell'opera: partono ricoprendo la tela con ingredienti, come l'acqua, colorati con pigmenti naturali, per poi riporla all'interno di una teca di plexiglass per due settimane. In questo lasso di tempo si forma la muffa, che viene fissata con svariati strati di resine trasparenti. Rossi e Forgione sono i primi al mondo ad aver tentato una tecnica simile. 



Concettualmente sul versante opposto si situa la Galleria Forni di Bologna, i cui artisti sono veri maestri del dipinto iperrealista. Andrea Baruffi, Paolo Quaresima, Doriano Scazzosi, Tommaso Ottieri, sono solo alcuni degli artisti ancora legati al mondo dell'arte figurativa: paesaggi maestosi e nature morte sono i principali soggetti da ammirare. La Galleria Contini invece ospita il maestro Fernando Botero con le sue donne “cicciottelle” e Julio Larraz, artista cubano attivo dagli anni '70. Ilaria Margutti invece, rappresentata dalla Galleria Art Forum, inserisce la tecnica del ricamo nei suoi dipinti: pendono fili rossi dalle spalle di una donna con gli occhi chiusi, dai capelli mossi e fluenti (Come occhi si apriranno, 2014). Sempre per la stessa Galleria, Peter Demetz realizza sculture in legno inserite all'interno di cornici lignee, che osservate da lontano danno l'impressione di essere dei dipinti, ma da vicino invece si rivelano essere delle strutture tridimensionali. Non si può non sorridere di fronte alle opere di Blue and Joy, progetto fondato da Fabio La Fauci e Daniele Sigalot nel 2005. La loro arte è comunicazione pura, giganteschi fogli di alluminio su cui vengono scritte delle lettere destinate a “Success” e “Art”, nella speranza che i due, prima o poi, le leggano.


C'è poi la fotografia. L'ormai celebre serie Los Intocables di Erik Ravelo era presente con alcune delle fotografie realizzate per Fabrica, che vogliono denunciare le violazioni dei diritti infantili. Pedofili, trafficanti di organi, soldati, turisti sessuali e tanti altri soggetti, con il viso voltato verso il muro, portano sulle spalle dei bambini crocefissi. Di tutt'altro genere la fotografia di Maurizio Galimberti. “Mi piace pensare di essere un musicista, mi piace pensare che le Polaroid sono delle note musicali che io suono nello spazio”, è la citazione del fotografo riportata sul muro di cartongesso all'interno di una Galleria. Egli ha fatto della Polaroid il suo mezzo espressivo e attraverso mosaici di questo stesso strumento ha messo a punto degli originali e meravigliosi ritratti e paesaggi.

Questi sono solo alcuni dei tantissimi artisti che hanno riempito i padiglioni della fiera di Bologna la scorsa settimana. I loro lavori si possono ovviamente ammirare recandosi presso le gallerie, oppure nei vari eventi in cui sono proposti. Il consiglio è quello di tornare ad Arte Fiera l'anno prossimo, con la CartaGiovani in tasca e un panino in borsa, a meno che voi non vogliate pagare un calice di spumante 10 euro. Forse non nutrirete il vostro stomaco, ma la vostra mente sì.

Roberta Cristofori