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8 dicembre 2015

L'Italia degli intellettuali: i fondi per gli istituti culturali, le fondazioni, la politica

L’Italia è il paese delle Fondazioni. Spetta loro circa il 43 per cento del totale dei finanziamenti pubblici stanziati per gli enti culturali. Il restante 57 per cento si divide tra Istituzioni (23 per cento) e Centri, Accademie, Società, Giunte, Musei, Associazioni, Gabinetti, Atenei, Enti (con meno del 10 per cento ciascuno).
Le fondazioni sono enti costituiti per un determinato scopo. Hanno la peculiarità di avere un fondatore (in persona o tramite il proprio testamento) che destina il proprio patrimonio per alcune finalità filantropiche e non lucrative.
Per il triennio che comprende 2012, 2013 e 2014, intervallo di riferimento di quest’analisi, sono stati sovvenzionati dallo Stato 103 istituti culturali, di cui 46 fondazioni. Il budget totale ammonta a 5 milioni 430.000 euro, che per la maggior parte sono destinati ad attività di tipo politico.




La normativa

In Italia gli istituti culturali godono di particolari tutele per il loro valore artistico, in particolare per le attività che svolgono come centri di studio, approfondimento e promozione culturale. 

Essi sono pensati per offrire alla comunità un servizio importante di pluralismo. Un aspetto che accomuna tutti gli enti è quello di conservare e valorizzare il patrimonio archivistico e libraio, frutto di una donazione o esito di un lavoro di raccolta e collezione portato avanti negli anni.
Il settore è disciplinato dalla legge n.534 del 17 ottobre 1996 e da successive circolari che spiegano nel dettaglio i requisiti e le modalità per l’accesso ai contributi e le ulteriori concessioni oltre quelle ordinarie.  Per richiedere un contributo statale, gli istituti culturali devono essere in possesso della personalità giuridica, non avere finalità di lucro, promuovere attività di ricerca e elaborazione culturale che sia fruibile per tutti e disporre di un rilevante patrimonio bibliografico, archivistico, museale, cinematografico, musicale, audiovisivo, accessibile pubblico in forma continuativa.
Devono prevedere un programma triennale delle attività, organizzare convegni, mostre e altre manifestazioni di valore scientifico e culturale, disporre di una sede ed essere costituiti da almeno cinque anni.

La distribuzione delle risorse
Prendendo in considerazione i fondi elargiti tra il 2012 e il 2014, si nota che ben sette regioni non hanno un ente culturale beneficiario. Cinque regioni non hanno più di tre enti, mentre quelle più fiorenti sono Lazio, Toscana e Veneto. Il numero degli istituti per ogni regione si riflette anche sulla consistenza dei contributi assegnati, per cui le regioni che ricevono contributi più ingenti sono proprio Lazio, Toscana e Veneto.



Gli enti culturali sovvenzionati dallo Stato tra il 2012 e il 2014 si collocano: 40 al nord Italia, 52 al centro e 11 tra sud e isole. Come si può notare dai grafici di seguito, al sud, oltre ad esserci pochi istituti, la quantità di fondi attribuiti a ciascun istituto è per la maggioranza dei casi bassa (fino ai 30.000 euro).









Di cosa si occupano gli enti culturali sovvenzionati
La maggioranza delle fondazioni presenti in Italia si potrebbe considerare nella categoria “politica, diritto e società”. Si tratta per lo più di fondazioni che portano i nomi di politici della prima Repubblica, come la Fondazione Luigi Einaudi e l’Istituto Luigi Sturzo, e degli intellettuali che la Repubblica non l’hanno nemmeno vista nascere - Fondazione Istituto Gramsci Onlus - per citare solo alcuni degli enti culturali più pagati (190.000 euro).
Stando al dilagare del disaffezionamento verso la sfera pubblica e in particolare nei confronti della politica tout court, si potrebbe pensare che c’è bisogno di fare molto di più per rendere quel bagaglio di conoscenze e cultura avvicinabile e fruibile per tutti, al di là di qualche conferenza o della gestione di un archivio.

Martina Di Carlo

Raccolta differenziata nelle grandi città: impossibile farla funzionare?

Amministrare le grandi città non dev’essere un compito facile. Tanto più se si considera l’aspetto della raccolta dei rifiuti. Delle 15 città italiane più grandi nel 2011, che vanno dai 200.000 ai 500.000 abitanti, nessuna in quell’anno superava il 65% di raccolta differenziata. Per cui non sono finite nel novero dei “comuni ricicloni” di Legambiente, che con rapporti annuali monitora l’andamento della raccolta differenziata in Italia.



In alcune città le tasse per i rifiuti sono state molto salate, anche laddove la raccolta differenziata è ancora un miraggio. Se si considera l’anno 2011, i cittadini di Roma, Napoli, Bari, Palermo, Messina e soprattutto Catania hanno pagato il servizio della raccolta dei rifiuti fino a oltre 150 euro pro capite, in città che non differenziano nemmeno un quarto di tutta la produzione dei rifiuti.

Le grandi città che riciclano circa la un terzo dei rifiuti, come Milano e Bologna, hanno una tassazione intorno ai 180 euro a persona in un anno. I triestini riciclano un quinto della spazzatura pagando 144 euro ciascuno. Torino è la città in cui nel 2011 le tasse sono state più alte, anche se, tra le grandi città, è quella che ricicla di più dopo Verona. I comuni virtuosi, in cui si ricicla di più senza tasse troppo esose sono Padova, Firenze, Venezia, e Genova.

La gestione peggiore va attribuita alla città di Catania, che nel 2011 ha tassato con 163,39 euro ogni cittadino offrendo come servizio la sola raccolta dei rifiuti (in quell’anno solo il 6% della spazzatura è stata raccolto in maniera differenziata).

Il primo premio va invece alla città di Verona che, sempre nel 2011, ha superato il 50% di raccolta differenziata con una spesa per i cittadini pari a zero (stando ai dati attualmente disponibili), anche se probabilmente il Comune dovrà riscuotere dai cittadini una parte degli arretrati.

Per il prossimo report ci si augura di vedere almeno una delle grandi città tra i “comuni ricicloni”!

Martina Di Carlo




3 dicembre 2015

SundayUp - Snarky Puppy

“COME HO POTUTO IGNORARE L'ESISTENZA DI QUESTI IDOLI ASSOLUTI E DELLA LORO MUSICA PAZZESCA PER TUTTO QUESTO TEMPO?!?”

Questa la mia controllata reazione dopo aver ascoltato per la prima volta un brano degli Snarky Puppy.
Il gruppo viene fondato nel 2004 dal bassista e compositore Michael League, che riunisce alcuni studenti di musica della University of North Texas. Grazie a una gavetta estenuante e anche a costo di esibirsi gratis innumerevoli volte, i nostri si costruiscono un seguito sempre più vasto. Alla fine la perseveranza paga. Trasferitosi a Brooklyn, il gruppo si amplia fino a comprendere decine di musicisti, tutti poco più che trentenni, molti dei quali vanno e vengono in quanto impegnati come turnisti e compositori per un'infinità di altri artisti e band. Questo autentico collettivo è solito esibirsi con la seguente formazione: tre o quattro fiati, tre tastiere, tre chitarre, basso, batteria e percussioni. Genere? Sul loro sito campeggia la scritta: “Jazz + Funk + World + Soul + Pop”. Sono davvero in grado di suonare tutto questo? Sì, e anche molto altro: basta ascoltare un brano a caso per capire che le etichette stanno loro strettissime.
Snarky Puppy
Dopo dieci anni, otto album, un grammy e centinaia di concerti all'anno, cosa vuole di più dalla vita il signor League? Fare un disco con un'orchestra.


Nel 2013 gli Snarky Puppy si trovano a Utrecht, nei Paesi Bassi, per registrare dal vivo l'eccezionale album We Like It Here: tra gli spettatori si trovano due dei manager dell'olandese Metropole Orkest, invitati da un amico del gruppo. Dopo il concerto, League impiega dieci minuti a mettersi d'accordo con loro per incidere un disco insieme all'orchestra e, un mese dopo, ne incontra il direttore, Jules Buckley. Gli dice di avere intenzione di scrivere musica nuova di zecca apposta per l'occasione, pur non avendo mai arrangiato brani per un ensemble così vasto (si parla di almeno sessanta musicisti). Buckley gli lascia carta bianca. Mentre è in tour con il gruppo, League scrive tutti gli spartiti. E Sylva prende forma. Ogni brano è la rappresentazione musicale di una foresta, visitata dal compositore (si va dalle montagne del Portogallo alle paludi della Louisiana fino alle sequoie della California) o frutto della sua immaginazione. Nell'aprile del 2014 gli Snarky Puppy e la Metropole si riuniscono a Dordrecht per eseguire l'intera opera dal vivo. Il 26 maggio 2015 il disco è uscito per la Impulse!, insieme a un DVD che documenta il concerto. È uno degli album più belli che io abbia ascoltato negli ultimi tempi.
La cover dell'album Sylva (2015)

I primi tre brani si susseguono senza pause. Introdotta dai violoncelli, in un'atmosfera pensierosa, Sintra sviluppa eleganti melodie sulle quali l'orchestra si schiude. Segue Flight che, come suggerisce il titolo, sembra spiccare il volo. Sulla spessa cornice delle percussioni e delle chitarre si incastrano Moog e flauti. Al solo di sax tenore segue un dialogo tra Fender Rhodes e Hammond. Dopo esserci librati per aria, Atchafalaya chiude il trittico riportandoci con i piedi per terra, anzi in acqua. Affondiamo in una palude, trascinati dalla potenza degli ottoni, tra un'allusione a So What, un solo di trombone che è un invito a ballare e una chitarra in odore di John Scofield.  Temi fragorosi e ritmi irresistibili sfumano, per poi interrompersi bruscamente. Il tempo è volato.
The Curtain è senza dubbio l'esperimento più ambizioso del disco. Succede di tutto. Da una trama strumentale che ricorda certi arrangiamenti di Pat Metheny spunta il flicorno, che s'impenna. Poi si precipita in groove minacciosi che sostengono il solo del basso, carico di effetti e, dopo una breve tregua, quello del sintetizzatore. Il pianoforte ci fa commuovere e, infine, l'orchestra riporta la quiete dopo continui cambi di atmosfera, tenuti insieme da curatissimi momenti di transizione fra una sezione e l'altra.
Gretel, nonostante la breve durata, si distingue per il sapiente uso di pause e dinamiche e per il lirismo delle melodie. L'orchestra è protagonista assoluta. Difficile, dopo tutto questo, pensare che il meglio debba ancora arrivare. E invece è la conclusiva The Clearing, a mio parere, il brano più riuscito. Misteriosi arpeggi di chitarra e un tappeto d'archi fanno da preludio a un crescendo sinuoso che culmina in un tema magnifico. Poi, per contrasto, il brano sfocia nel funk: sulla sezione ritmica si innestano clarinetti e tromboni, seguiti dai soli della chitarra e della tromba. Altri riff spettacolari vengono distribuiti fra tutti gli strumenti; infine, l'orchestra riprende il tema iniziale, ripetuto in un'ultima, indimenticabile esplosione di colori.
La formazione al completo.
Non è da tutti far scorrere con tanta naturalezza arrangiamenti così intricati. Ogni brano spicca per il grande equilibrio tra composizione e improvvisazione. I musicisti sanno sempre coinvolgere l'ascoltatore sul piano emotivo, cosa ancora più importante della loro perizia tecnica, che peraltro è assoluta. Questa è musica complessa ma non ostica, raffinata eppure mai fine a se stessa, colta e popolare insieme, e piena di melodie memorabili. Insomma, un vero spasso.


Se Sylva è il vostro punto di partenza per scoprire i precedenti lavori degli Snarky Puppy, buon ascolto. Da notare, infine, che il 12 febbraio 2016 uscirà il loro prossimo lavoro, Family Dinner Volume II, che vanta la partecipazione di un enorme numero di ospiti. Già il trailer promette meraviglie. Non perdete di vista questi ragazzi: difficilmente resterete delusi.

Lorenzo Pedretti

The Bottonomics - L’Italia che innova


Ricordo quando da bambino, per le strade del mio piccolo paese natio dell’entroterra pugliese, alla fine di Agosto era possibile percepire un odore acre, quasi nauseabondo, derivante dalla lavorazione artigianale e casalinga delle uve atte a produrre quel famoso nettare chiamato Primitivo. Ricordo che l’odore della fermentazione del mosto era forte e persistente per tutto il paesino e io mi aggiravo per le sue strade alla perenne ricerca di garage e cantine in cui tale processo avveniva. Ricordo che non riuscivo mai a capire chi fosse a produrlo, ma l’odore era persistente e, in alcuni punti, più intenso.

Ecco, questa è la stessa sensazione che la terra che tuttora mi ospita, l’Emilia-Romagna, mi fa percepire in un’altra veste. In questa terra ci sono imprese all’avanguardia, eccellenze di ogni tipo, che spaziano dalla meccanica di precisione della packaging valley bolognese e della motor valley modenese all’eccellenza nella ceramica nel reggiano, fino ad arrivare alla food valley nella provincia di Parma. E questo odore, questa volta non acre, ma di sicuro di qualcosa che è in egual modo in fermento, è l’odore dell’innovazione che tante piccole e medie imprese fanno percepire sul territorio; imprese di cui spesso i nomi sono sconosciuti, ma che sono al top dell’eccellenza mondiale per i loro prodotti.

Ho appena finito di partecipare alla due giorni intensiva che Il Sole 24 Ore ha organizzato qui a Bologna. Evento che, partendo dal capoluogo emiliano, si estenderà in tutte le regioni della penisola e che cercherà di mostrare gli esempi virtuosi dell’imprenditoria italiana, esempi che mostrano un paese dotato di un sistema in grado di innovare e fare impresa di elevata qualità. Premetto che questa regione “rossa” avrà anche una spiccata dote alla cooperazione nel suo DNA, ma quello che sta accadendo qui è di esempio per tutti: fondi pubblici e privati, in partenariato fra loro, vengono investiti per accelerare un microsistema (mica tanto micro!) fatto di piccole e medie imprese di qualità con l’obiettivo di rendere questa terra più fertile di quanto non lo sia stata finora. L’attenzione sta ricadendo su una rete di piccole entità, tra cui FabLab e altre forme di associazionismo produttivo che, sperse nel territorio e interconnesse fra loro, permettono ai talenti nascosti di questa terra di emergere; talenti formati non solo in una delle migliori università del mondo qual è appunto l’Alma Mater Studiorum, ma anche e soprattutto grazie ad un sistema di scuole tecniche che ha sempre lavorato a stretto contatto con le imprese. Il nuovo sistema sta creando un filo che cercherà di legare le imprese al territorio e ai propri cittadini, portando questi ultimi ad avere un ruolo centrale nel processo decisivo ed innovativo delle stesse. Questo modus operandi sta già richiamando imprese e attirando investimenti: ad esempio, la Philip Morris sta costruendo nel bolognese uno dei suoi ultimi stabilimenti che produrrà un nuovo prodotto a base di tabacco e la Lamborghini, contro ogni aspettativa, produrrà il suo nuovo suv a Sant’Agata Bolognese. E solo queste due imprese creeranno un migliaio di posti di lavoro, senza contare le esternalità positive che un sistema architettato in questo modo può generare non solo dal punto di vista occupazionale, ma anche e soprattutto dal punto di vista della creazione di nuove imprese.

Concludo con una riflessione. Spesso si parla di settore pubblico e privato come se fossero l’antitesi l’uno dell’altro e pensando che il primo sia sì più equo, ma meno efficiente del secondo. L’esempio qui riportato dell’Emilia-Romagna ci mostra come queste due entità possono coesistere e, anzi, devono coesistere al fine di affrontare le sfide che i cambiamenti tecnologici ed economici stanno imponendo alle società avanzate perché in Italia è poco sviluppato, e in alcune aree manca, un vero e proprio sistema di infrastrutture che consenta alla nuova economia digitale di poter crescere. Poi, alla fine, il futuro è incerto e nessuno può prevederlo, ma, come suggeriva il Prof. Romano Prodi in apertura all’evento targato Sole24ore, per poter sperare in una crescita futura “il Paese deve essere una squadra che opera e che fa”.



Niky Venza

2 dicembre 2015

I sogni imperiali di Putin e Erdogan

L’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte dell’aeronautica militare turca avvenuto una settima fa esatta, non solo ha scatenato polemiche e tensioni all’interno del caos siriano e mediorientale, alimentando ancora gli allarmi di chi vede un terzo conflitto mondiale ormai imminente, ma ha anche dato slancio al dibattito su chi vede in questo “incidente” il segnale definitivo di una volontà di potenza neo-imperiale da parte di due degli attori più vista nella partita del Medio Oriente. Due rivali, che per obiettivi in comune, vicinanza geografica e peso nel processo geopolitico non si sono mai amati a causa proprio della loro grandezza e dei loro ruoli diversi nello scacchiere mondiale.


Putin ed Ergogan | Fonte: primocanale.it
Questo avvenimento, con la conseguente presa di posizione di Putin, il quale ha immediatamente ordinato sanzioni contro il governo di Erdogan, e del presidente turco, il quale ha definito l’abbattimento del velivolo militare di Mosca “giusto” in quanto questo aveva ripetutamente sconfinato nel territorio nazionale nonostante i continui avvisi di tornare indietro, ha generato dibattiti e articoli nella stampa di settore. Due subito sono balzati alla mia attenzione: uno di Julia Ioffe su Foreign Policy del 25 novembre, intitolato simbolicamente “The Czarvs. The Sultan", ed un altro pubblicato invece su Foreign Affairs del 30 novembre, intitolato “Clash of Empires” e scritto da Akin Unver. In entrambi i pezzi si nota subito una connotazione di autorità e desiderio di dominio dei rispettivi Stati. La ragione non sta solo nella partita infuocata che le due parti stanno giocando, utilizzando i loro importanti mezzi nel campo dell’hard power, per il controllo e l’influenza da esercitare nella partita siriana e nelle decisioni da prendere riguardo i futuri assetti del Paese (semmai una Siria unita esisterà anche all’indomani di questo sanguinoso e tragico conflitto civile). Russia e Turchia in questo momento stanno giocando la partita su chi dovrà essere, in caso, la potenza regionale che deciderà le sorti del Medio Oriente intero nei prossimi anni, quella che sarà in grado maggiormente di influenzare ed indirizzare (in primis) a suo vantaggio i nuovi scenari e i nuovi attori.
Quando parliamo di Mosca ed Ankara, analizzandone la storia e le trasformazioni, vediamo come la parola “impero” abbia giocato un ruolo da protagonista nelle loro vicissitudini. La Sublime Porta e la Terza Roma, fino alla Prima Guerra Mondiale, si sono sfidate sia nella contesa di Territori che entrambi dichiaravano sotto la propria sfera di influenza, sia nella protezione del loro credo religioso. Tra i mille esempi che si potrebbero fare, ricordiamo gli innumerevoli conflitti che misero di fronte le nuove potenze tra il 1700 e il 1800: le sollevazioni dei fratelli slavi di fede cristiano-ortodossa furono usate dalla Famiglia Romanov come pretesto per intervenire tra i Dardanelli e i Balcani per strappare territori sotto il controllo ottomano. Dopo la dissoluzione del Sultanato proclamata nel 1924 da Atatürk, la rivalità con la Russia, nel frattempo evoluta sotto un’altra forma imperiale, quella sovietica, proseguì sia sotto la contesa di diversi territori e Stati di confine, sia sotto la rivalità da Guerra Fredda che mise di fronte un solido membro della NATO contro la seconda potenza mondiale.
Oggi questa nuova velleità imperiale dei due attori, desiderosi di uscire al più presto da una condizione che li vede classificati come solamente “potenze regionali”, è rappresentata perfettamente dalle ambizioni di due leader prima uniti da notevoli intrecci di natura economica, oltre che dal marcato autoritarismo in politica interna che li contraddistingue. Uno, Erdogan, ha cavalcato un nazionalismo islamico che ha via via sostituito i caratteri moderati (che molti osservatori e leader politici internazionali gli avevano etichettato) con un conservatorismo di fondo nei confronti del secolarismo, della libertà di stampa e delle minoranze etniche. L’Islam politico ha progressivamente sostituito il ruolo centrale delle Forze armate all’interno dello Stato turco, ponendosi come obiettivo una politica estera autonoma da qualsiasi interferenza esterna, e con la pretesa di mettersi alla testa di una vasta congregazione di Stati musulmani sunniti. L’altro, Putin, cresciuto nel KGB sovietico, ha sempre avuto come missione quella di cancellare l’onta della dissoluzione dell’URSS e del suo mondo comunista, riportando la Federazione russa al rango di potenza globale che le dovrebbe spettare. “Chiunque non abbia nostalgia dell’Unione Sovietica è senza cuore. Chiunque desideri che venga ristabilita non ha cervello”. Una frase che rappresenta al meglio il personaggio in questione. Dal controllo del governo centrale ripristinato a suon di cannoni e metodi non convenzionali in Cecenia all’inizio degli anni ’00, al progetto di riportare sotto la sfera di influenza del Cremlino buona parte delle ex repubbliche sovietiche, sia con le materie prime, sia usando il bastone (Georgia ed Ucraina).
putin erdogan russia turkey



L’abbattimento del caccia russo potrebbe essere inquadrato come la naturale conseguenza dovuta ad una rivalità che il conflitto siriano ha infiammato, con Russia e Turchia impegnate già a combattersi in qualche modo attraverso le “procure” dei loro alleati sul campo. Ora entrambe si sono spinte al di la della linea rossa, fino ad entrare in linea di collisione direttamente. Tutti stanno facendo gli scongiuri perché questo non crei una tensione fuori portata tra la Russia e la NATO, già esasperata dagli avvenimento nell’Ucraina orientale. Tensione inevitabile, quando i due leader sono portatori di una vocazione imperiale che ancora una volta li vede uno di fronte all’altro.

1 dicembre 2015

Papa Francesco in Africa: no alla violenza in nome di Dio

“La mia visita intende attirare l'attenzione verso l'Africa nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste. Il mondo guarda all'Africa come al continente della speranza”. Con queste parole Papa Francesco ha lodato l'Africa durante il discorso tenuto in Uganda il 27 novembre - alla presenza del presidente ugandese Yoweri Museveni - appena arrivato nel Paese dopo i primi due giorni passati in Kenya. Parole che esprimono perfettamente la volontà di Francesco di lanciare un messaggio ben chiaro, quello di non dimenticare l'Africa, che si inserisce all'interno di tanti altri contesti: dalla salvaguardia dell'ambiente alla pace, dall'attenzione ai poveri fino alla lotta al terrorismo. E proprio quest'ultimo aspetto preoccupava non poco gli addetti alla sicurezza del Pontefice alla luce degli ultimi attentati di Parigi ma anche a quelli successivi in Mali e in Tunisia, ma Francesco non si è lasciato fermare e ha messo in primo piano, come sempre, la volontà di incontrare la gente e in questa occasione l'Africa

Bergoglio durante il viaggio africano | Fonte: freerepublic.com

COP21. Ma andiamo con ordine. Il viaggio apostolico ha visto Bergoglio far visita in primis al Kenya, dove si è fermato il 25 e il 26 novembre e dove ha incontrato le autorità, il corpo diplomatico e i religiosi. Nella capitale Nairobi, uno dei momenti più importanti è stato l'intervento nella sede ONU, dove Francesco ha posto l'accento sulla Conferenza sul Clima di Parigi (COP21), che da ieri fino all'11 dicembre vedrà 150 leader mondiali discutere sulle misure da adottare per salvaguardare l'ambiente e i cambiamenti climatici. Queste le considerazioni del Pontefice: L'incontro di Parigi porti a concludere un accordo globale e trasformatore per la riduzione dell'impatto dei cambiamenti climatici, la lotta contro la povertà e il rispetto della dignità umana. Questo incontro è un passo importante nel processo di sviluppo di un nuovo sistema energetico che dipenda al minimo da combustibili fossili, punti all'efficienza energetica e si basi sull'uso di energia a basso o nullo contenuto di carbonio”. Che ha poi continuato: “Siamo di fronte al grande impegno politico ed economico di reimpostare e correggere le disfunzioni del modello di sviluppo attuale”. Ma c'è stato spazio anche per ribadire l'ormai celebre “no alla cultura dello scarto”, oltre che all'esclusione sociale, alla schiavitù, al traffico di organi e  persone e alla prostituzione, che “alimentano l'instabilità politica, la criminalità organizzata e il terrorismo. L'attenzione politica deve essere al di sopra di qualsiasi interesse commerciale o politico”

NO ALLA VIOLENZA IN NOME DI DIO. A Nairobi Francesco è stato protagonista del consueto incontro ecumenico ed interreligioso con i rappresentanti delle altri confessioni religiose. Ed è stata questa l'occasione per ribadire, ancora una volta, che "Il nostro Dio è il dio della pace, il suo santo nome non deve mai essere usato per giustificare l'odio e la violenza". Ricordando "i barbari attacchi al Westgate Mall, al Garissa University College e a Mandera" - perpetrati da Al Shabaab – Francesco ha sottolineato come "in una società democratica e pluralistica come questa  la cooperazione tra leader religiosi e le loro comunità diviene un importante servizio al bene comune". Senza dimenticare in questo senso il Concilio Vaticano II: "Nel cinquantesimo della chiusura del Concilio Vaticano II nel quale la Chiesa cattolica si è impegnata nel dialogo ecumenico e interreligioso al servizio della comprensione e della amicizia, intendo riaffermare questo impegno, che nasce dalla convinzione dell'universalità dell'amore di Dio e della salvezza che Egli offre a tutti".

I VALORI AFRICANI. Nel Campus dell'Università di Nairobi, Francesco ha celebrato la S. Messa nella quale ha ricordato l'importanza della famiglia sottolineando come “la salute di qualsiasi società dipende dalla salute delle famiglie”. Aggiungendo: “I grandi valori della tradizione africana, la saggezza e la verità della Parola di Dio e il generoso idealismo della vostra giovinezza vi guidino nell’impegno di formare una società che sia sempre più giusta, inclusiva e rispettosa della dignità umana. Vi stiano sempre a cuore le necessità dei poveri; rigettate tutto ciò che conduce al pregiudizio e alla discriminazione, perché queste cose non sono di Dio”. 

LA VISITA ALLA BIDONVILLE DI KANGEMI. Il soggiorno in Kenya si è conclusa con l'incontro con i giovani allo stadio Kasarani, nel corso del quale il Papa ha parlato a braccio della corruzione: “C'è in politica e in tutte le istituzioni, anche in Vaticano (riferendosi in particolare a Vatileaks II, ndr)”. Prima però Bergoglio aveva visitato la bidonville di Kangemi, la baraccopoli dove vive la maggior parte della popolazione in condizioni di povertà assoluta. Qui Francesco ha ribadito che “ogni essere umano è più importante del dio denaro ed è un valore che non si quota in borsa” e che “non si può in alcun modo ignorare la terribile ingiustizia dell'emarginazione urbana. Queste sono ferite provocate dalle minoranze che concentrano il potere, la ricchezza e sperperano egoisticamente mentre la crescente maggioranza deve rifugiarsi in periferie abbandonate, inquinate, scartate”

Nella bidonville Kenyota | Fonte: paeseitaliapress.it

ATTENZIONE AI MIGRANTI. Nel prima citato discorso all'arrivo in Uganda Francesco ha anche ricordato l'attualità dei popoli di migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà: “Il nostro mondo, segnato da guerre, violenze e diverse forme di ingiustizie, è testimone di un movimento migratorio di popoli senza precedenti. Il modo in cui affrontiamo tale fenomeno è una prova della nostra umanità”. Francesco ha anche dato un monito al mondo della politica: “E' necessario assicurare con criteri di trasparenza il buon governo, uno sviluppo umano integrale, un'ampia partecipazione alla vita pubblica della Nazione, così come una saggia ed equa distribuzione delle risorse”. Appello lanciato a distanza di poco tempo dall'approvazione del Parlamento ugandese di una norma piuttosto controversa sulle ONG, secondo le quali verrà soppressa ogni forma di manifestazione di dissenso contro il governo. Bergoglio ha inoltre incontrato il Presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, con p. Lombardi – direttore della Sala Stampa Vaticana – che ha detto: “Il Sud Sudan è un Paese con un grande bisogno di pace, quindi il Papa ha voluto dare incoraggiamento”

APERTURA DELLA PORTA SANTA A BANGUI. Il 28 novembre Francesco ha celebrato nella mattinata la S. Messa per i Martiri dell'Uganda, per poi incontrare nel pomeriggio i giovani e successivamente i vescovi e i religiosi. Il 29 novembre ha poi avuto luogo il trasferimento nella Repubblica Centraficana, ultima tappa del viaggio apostolico di Bergoglio, fermatosi fino al 30 novembre. Anche qui il Papa ha incontrato giovani, religiosi, autorità politiche e religiose ma il momento sicuramente più importante è stata l'apertura della Porta Santa presso la cattedrale di Bangui, che ha di fatto anticipato l'apertura del Giubileo della Misericordia previsto a partire dal prossimo 8 dicembre. Queste le parole del Pontefice: "L'anno santo della misericordia viene in anticipo in questa terra che soffre da anni per l'odio, l'incomprensione, la mancanza di pace. Bangui diviene la capitale spirituale della preghiera per la misericordia; tutti noi chiediamo misericordia, riconciliazione, perdono, per Bangui, per tutta la Repubblica centrafricana e per tutti i Paesi, chiediamo pace, amore e perdono tutti insieme, con questa preghiera cominciamo l'Anno santo in questa capitale spirituale del mondo oggi". Che ha poi aggiunto nella sua omelia pronunciata a braccio: "A tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo, io lancio un appello: deponete questi strumenti di morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell'amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace"

Papa Francesco mentre apre la Porta Santa a Bangui | Fonte: ecodibergamo.it

INCONTRO CON LA COMUNITA' MUSULMANA. Prima di ripartire in direzione Vaticano Francesco è stato protagonista di un altro incontro significativo e simbolico: la visita  alla Comunità Musulmana nella Moschea centrale di Koudoukou a Bangui. In un periodo storico di forte tensione nei confronti della religione islamica a causa degli attentati di Parigi (da quelli alla redazione di Charlie Hebdo di gennaio fino ai recenti eventi) Francesco ha voluto concretamente essere un operatore di pace e di dialogo rifiutando ogni forma di fondamentalismo religioso: "Nessuna violenza in nome di Dio. Chi dice di credere in Dio dev'essere anche un uomo o una donna di pace. Insieme diciamo 'No' all'odio, alla vendetta, alla violenza, in particolare a quella che è perpetrata in nome di una religione o di Dio, perché Dio è pace, salam". 



Sul volo di ritorno Francesco ha infine espresso alcuni pensieri sul continente africano: "L'Africa è vittima: è sempre stata sfruttata dalle altre potenze, dall'Africa gli schiavi venduti in America, poi le potenze che cercano solo le sue grandi ricchezze, non pensano a dignità persone, a dare lavoro. L'Africa è martire dello sfruttamento e non capiscono che questa forma di sviluppo fa male all'umanità". 

Giuliano Martino

30 novembre 2015

Marco Rubio: L'ispanico che sogna la casa bianca

Marco Rubio
Chi lo avrebbe mai detto che il partito repubblicano americano, conservatore e portavoce degli interessi della middle-classe bianca, avrebbe dovuto affidarsi ad un figlio di immigrati cubani per riconquistare la Casa Bianca dopo gli otto anni di amministrazione Obama? E invece sembra proprio che la storia sia prendendo questa direzione. La direzione di Marco Antonio Rubio, 44enne senatore per lo stato della Florida.

Se ne è già accorto l'establishment del Grand Old Party. Inizialmente il candidato forte del partito alle primarie doveva essere Jeb Bush, figlio di George H. W. e fratello minore di George W., entrambi ex presidenti. Ma Jeb non si è dimostrato finora all'altezza delle aspettative, fiacco nei dibattiti televisivi contro i suoi rivali e incapace di scrollarsi di dosso il pesantissimo fardello della guerra in Iraq. Così ora si punta tutto sul giovane Rubio, figlio di un barista e di un'addetta alle pulizie emigrati da Cuba nel 1956 (prima dell'avvento di Fidel Castro), il quale peraltro è stato lanciato nella sua carriera politica proprio da Jeb Bush, al tempo in cui governava la Florida. A dimostrazione di questa fiducia si è sparsa la voce che i ricchissimi Koch Brothers, magnati dell'industria petrolifera e tradizionali finanziatori dei repubblicani, lo vedano di buon occhio per la loro maxi-donazione da quasi un miliardo di dollari.

Gli elettori invece non sono ancora del tutto convinti. Nei sondaggi Rubio è piuttosto indietro rispetto all'istrionico businessman Donald Trump e all'ultra-conservatore neurochirurgo Ben Carson: due personaggi molto diversi tra loro ma entrambi esterni ai giochi di potere di Washington e quindi in grado di giocare la carta del populismo per conquistare il consenso della base repubblicana. Quando Trump offende la moderatrice del dibattito che lo mette in difficoltà dicendole che era in pieno ciclo mestruale o confonde Hezbollah con Hamas è solo Trump-being-Trump, ovvero lui stesso, al massimo della sua sfrontatezza. Quando Carson sostiene che se gli ebrei fossero stati armati contro Hitler l'olocausto sarebbe stato sventato oppure che le piramidi egiziane siano state costruite per conservare il grano lo si giustifica perché è un medico. Ma, at the end of the day, come direbbero dall'altra parte dell'oceano, gli elettori del partito dell'elefante davvero metterebbero il governo del proprio paese, la più grande potenza militare del mondo, nelle mani di uno di questi due individui?

Forse è decisamente meglio puntare sull'ispanico che, piano piano, è emerso nella contesa grazie ad un naturale talento oratorio e ad un innato carisma. Nel primo dibattito tra repubblicani di giugno ha subito dato sfoggio di personalità difendendosi dall'accusa di non aver abbastanza esperienza per diventare presidente. “Se ne facciamo unfatto di curriculum, la Clinton ha già vinto” ha risposto posatamente Rubio. Nel secondo confronto di fine ottobre Bush, che già arrancava negli opinion polls, lo aveva criticato per esserepoco presente in senato in questo periodo di campagna elettorale. Rubio ha replicato con stile, ricordando al suo mentore Jeb che quando John McCain si candidò per le primarie e poi le presidenziali nel 2008 nessuno si scandalizzava per le sue assenze in aula come senatore dell'Arizona. A novembre invece il marito di Jeanette, ex cheerleader della squadra locale di football, i Dolphins, e padre di quattro figli è stato preso di mira dal libertario Rand Paul, il quale asseriva che aumentare il budget per le spese militari non sia una mossa veramente conservatrice. Rubio si è ancora difeso in maniera brillante, definendo Paul un “devoto isolazionista” e sottolineando di volere una politica estera “muscolare” - una posizione molto in linea con il partito e con l'idem sentire dell'elettorato repubblicano.

Più in generale il senatore della Florida presenta proposte molto vicine al mainstream conservatore. In economia è fautore di una tipica ricetta liberista: riduzione della pressione fiscale, inferiore regolamentazione sulle aziende e limitazioni alle spese del governo federale (tranne evidentemente quando si tocca il capitolo difesa) costituiscono i suoi mantra. Sui temi etici si oppone all'aborto e al matrimonio gay. È inoltre fermamente scettico riguardo al fenomeno del cambiamento climatico, fino a mettere in discussione l'autorità di Papa Francesco, lui che è un fervente cattolico. Come gli altri candidati repubblicani è irremovibile sul diritto di possedere e acquistare liberamente armi da fuoco. Si mostra meno severo invece di alcuni suoi rivali sul Medicare di Obama, che riformerebbe ma non abolirebbe in toto. L'unico punto su cui Rubio si distingue nettamente da alcuni suoi contenders è l'immigrazione. Infatti nel 2013 ha fatto parte di una commissione bipartisan, la quale produsse un progetto di legge che permetteva agli immigrati clandestini un percorso verso l'ottenimento della cittadinanza. Durante questa campagna per le primarie ha corretto leggermente il tiro per non alienarsi simpatie tra gli elettori conservatori, chiarendo che il processo deve essere graduale e progressivo. Ma comunque le sue idee sono distanti anni luce da Donald Trump, il quale propone una irrealizzabile deportazione di massa e la costruzione di un enorme muro al confine con il Messico per impedire nuovi accessi irregolari.


mario rubio usa 2016

Grazie a questo mix di posizioni conservatrici sulle issues economiche e sociali e più aperte sull' immigrazione, Marco Rubio si presenta dunque come un candidato in grado di soddisfare l'elettorato conservatore, e, allo stesso tempo, fare breccia anche tra le minoranza etniche. Nel 2012 il repubblicano e mormone Mitt Romney pur ottenendo la sostanziale maggioranza del voto bianco, aveva comunque perso le presidenziali contro Barack Obama. Per vincere nel 2016, i repubblicani hanno quindi assoluto bisogno di racimolare qualche consenso al di fuori del proprio bacino di riferimento, per esempio tra gli ispanici e i millenials, ovvero chi è cresciuto negli anni 2000. Rubio è ispanico e giovane: un uomo ideale per portare a termine questa missione apparentemente impossibile.

Inoltre Rubio sembra possedere le armi giuste per poter reggere un faccia a faccia contro la moglie di Bill ed eventualmente metterla in difficoltà. È preparato come un politico di professione (soprattutto in politica estera e sull'immigrazione) ma al contempo è una faccia pulita, senza scheletri nell'armadio. E la sua storia personale non è fatta di privilegi e di frequentazioni come facoltose come quella della Clinton. Ma bensì di duro lavoro e di ambizione, le chiavi del successo secondo il sogno americano. Perché se c'è qualcosa di più suggestivo del primo presidente donna è un presidente figlio di immigrati cubani con una sincera fede che tutto è ancora possibile negli Stati Uniti d'America. Anche sedersi sulla poltrona dello studio ovale se ti chiami Marco Rubio.

29 novembre 2015

SundayUp - Mashrou’ Leila, la voce araba dell’indie-pop contro i fanatismi

“Per molti siamo una band politicamente engagée, in verità scriviamo i testi delle nostre canzoni per parlare di quello che ci accade attorno. Non pensiamo a noi come una band con un’agenda politica, ma nel mondo Arabo ciò che scegli di trattare e ciò che decidi di tacere si traduce subito in un sentimento politico.” Così si presentano i Mashrou’ Leila, ovvero Haig Papazian al violino, Hamed Sinno alla voce, Hibrahim Badr al basso, Carl Gerges alla batterista e Firas Abou Fakher alla chitarra. Incontriamo la band indie-pop libanese a margine di uno dei concerti della tournée internazionale, jeans e t-shirt nere, occhiali tondi e dalla montatura grossa, risvoltini, potrebbero essere i componenti della band hipsterina della porta accanto, invece vengono da Beirut, Libano e fanno musica per raccontare la loro realtà, tra luci e ombre. 

mashrou leila


Sabato 28 novembre presentano il loro quarto album, Ibn El Leil, in un concerto a Londra, dopo un tour che ha portato il loro Arab indie-pop in giro per tutta l’Europa, il Medio Oriente e gli States. Eppure il “progetto per la notte”, come potremmo tradurre Mashrou’ Leila, è nato qualche anno fa da una jam session come mille altre all’American University della capitale libanese. “All’inizio non pensavamo a nulla di particolare, racconta Firas, sarebbe stato carino trovarsi una volta a settimana a suonare assieme, giusto per fare una pausa. Da un momento all’altro ci hanno chiamati ad aprire un concerto e non avevamo nemmeno un nome! Suonavamo di notte, ecco quindi Mashrou’ Leila”. Dalle jam improvvisate ne è passato di tempo e, grazie all’ingresso nella band di Sinno e della sua magnetica vocalità, il progetto è cresciuto musicalmente. Contemporaneamente sono cambiati gli argomenti dei testi. Se siete in cerca di una band pop che racconta in musica amori felici, tristi, disperati, meglio abbandonare qua la lettura.

Spesso definiti come la “voce delle primavere arabe”, ai Mashrou’ Leila questa definizione sta stretta. Eppure si parla di politica, del controllo della società, della convivenza tra religioni diverse, di omosessualità, di immigrazione. E tutto ciò in una lingua, l’Arabo-libanese, poco diffusa sulla scena musicale internazionale e verso un pubblico, quello di tutto il Medio Oriente, per cui molti di questi temi sono ancora oggi un tabù. 

Photo credit: Luca d'Agostino / Phocus Agency / Mittelfest Cividale del Friuli Facebook page
Il nuovo singolo, Maghawir -ovvero il nome che viene dato all’esercito-, è una risposta diretta ai, sempre più frequenti, attentati che hanno colpito la capitale libanese e le cui vittime sono state spesso compagnie di giovani in bar e locali. Partendo da alcuni fatti di cronaca, nasce un’ironica lista di “cose da fare nella notte di Beirut”, che si trasforma ben presto in una denuncia della facilità con cui si arriva ad episodi di violenza, della semplicità con cui è possibile ottenere un arma in Libano, dell’assurda morte di giovani mentre si trovano nella loro città a divertirsi. La scelta, poi, di una musica ballabile non fa che spingere a chiederci se la violenza stia diventando qualcosa di normale, se stia diventando un’altra cosa su cui possiamo ballare, un nuovo elemento del paesaggio notturno della città. 

Dicevamo, critiche alla società libanese, colpevole con la sua corruzione di tarpare le ali ai giovani, come viene cantato in Wa Nueid: “Digli che siamo ancora qui in piedi, digli che stiamo resistendo / Digli che abbiamo ancora occhi per vedere, digli che non abbiamo fame”. Ma anche un forte impegno, in prima persona per il cantante, nella battaglia per il riconoscimento dei diritti LGBT in Medio Oriente. (Sì, lo so che ho appena detto che non parlano d’amore, mi correggo non parlano d’amore convenzionale) La struggente Shim el-yasmine (Odora il gelsomino) racconta proprio, con dolcezza e sensibilità, una storia d’amore tra due uomini:

I would have liked to keep you near me
Introduce you to my parents, have you crown my heart
Cook your food, sweep your home
Spoil your kids, be your housewife

Smell the jasmine
And remember to forget me

Temi che hanno attratto ben presto le critiche degli ambienti più conservatori della società libanese tant’è che gli abitanti di Zouk Mikail, una cittadina vicina a Beirut, hanno veemente protestato contro un concerto della band. Un esempio tra molti. La reazione dei fan è arriva pronta sulla Rete, dove i cinque ragazzi libanesi hanno un ampio seguito: “I social media sono importanti per tutti, oggi. A noi piace mantenere un forte controllo creativo su tutto ciò che facciamo: ci occupiamo delle copertine degli album, delle fotografie, delle interviste. Per questo abbiamo deciso, ci raccontano, di usare i social in maniera molto diretta. Non sopportiamo quando ti accorgi subito che c’è la mano di un esperto di marketing dietro ad un profilo, per questo abbiamo scelto di gestire il più possibile i nostri account da soli personalmente.” Una scelta che li ha portati a farsi conoscere ben oltre i confini libanesi e a conquistare più di 300.000 followers su Facebook, migliaia di visualizzazioni dei video su YouTube e un tour internazionale sold out. 



Nelle tracce risuonano riferimenti eclettici: tra jazz, elettro-pop, rock e tarab gli strumenti, il violino di Haig e la voce profonda di Sinno si fondono in un mix orecchiabile in cui la musica tradizionale araba è un’eco. Proprio la tradizione è stata oggetto di una campagna social lanciata dai Mashrou’ Leila: con #occupyArabpop hanno acquistato notorietà, ma sono riusciti a spiegare il senso delle loro scelte musicali. Tocca ancora a Firas spiegare in che senso: “Eravamo abbastanza ambiziosi per poter dire che era tempo di smettere di associare il Pop Arabo all’immagine della tipica super star araba, che canta la musica tipica, sempre con le stesse immagini, sempre con gli stessi video. Volevamo presentarci, una volta per tutte, come un’alternativa.” Un’alternativa che li ha portati a conquistare una fetta di pubblico in Europa, dove spesso il mondo arabo viene visto con sospetto e paura. Si presentano con la loro musica, uguale in tutto il mondo, e la loro voglia di suonare ciò che gli piace, raccontare le loro storie, lottare per le cause in cui credono. 




(Nel video di Lil Watan "occupano" visivamente la musica araba tradizionale che, nella forma della ballerina di danza del ventre, oscura la musica indipendente)

27 novembre 2015

The Corner - Maradona good, Pelè better, George Best

“Matt, credo di aver trovato un genio.” In realtà, è improbabile che questa frase sia mai stata detta, o scritta, da Bob Bishop. Bishop era un uomo di poche parole, sicuramente non solito a certe affermazioni esaltate, e mai si sarebbe permesso di scavalcare il suo diretto superiore, il capo osservatore Joe Armstrong, e parlare direttamente con “Matt”, sir Busby. Bishop era l’osservatore di riferimento per l’Irlanda del Nord, ed era abituato a calcare campi fangosi, spesso senza un filo d’erba, e vedere giocatori che mai avrebbero sfondato. Era abituato a viaggiare per ore nella nebbia nordirlandese e guardare sotto la pioggia fina delle isole britanniche partite giovanili e di dilettanti. Era abituato a vedere i giocatori che segnalava fare sì un provino con il Manchester United, da cui era pagato, ma mai sfondare realmente. Ma non questa volta. Questa volta gli era chiaro di aver trovato qualcosa di mai visto. Gli era chiaro, forse da subito, di aver trovato il meglio. Di aver trovato George Best. 


Partiamo dalle basi. A guardarlo non su un campo di calcio, Best non aveva nulla del campione che già albergava in lui. Era alto poco meno di un metro e sessanta, e pesava meno di cinquanta chili. Durante le ore di ginnastica a scuola gli era stato concesso di indossare un gilet, per nascondere le costole. Chi lo andava a vedere allenarsi con il Cregagh andava via dopo qualche minuto, scuotendo la testa. Anche gli emissari del Wolverhampton e del Glentoran, le due squadre per cui il Best bambino tifava, andarono via scuotendo la testa. Ma Bishop no. Nella partita che Bishop vide, Best segnò due reti, di cui il secondo dribblando tre avversari, unico quindicenne in due squadre di diciottenni. E così Bishop non se l’era lasciato sfuggire. Quella sera stessa, andò a parlare con i genitori nella piccola villetta a schiera del quartiere est di Belfast. Sir Matt Busby infatti da sempre aveva preteso di trovare giocatori forti sul campo ed educati fuori, con una solida famiglia alle spalle. E la famiglia Best superò quel test, e così Bishop informò il capo osservatore dei Red Devils, Joe Armstrong. Il 15enne George viene quindi spedito in Inghilterra, nella scura Manchester, dove rimane un solo giorno prima di scappare nuovamente a casa. Leggenda vuole che qualche giorno dopo alla porta di Dickie ed Anne Best si sia presentato Busby in persona, entrando da solo ed uscendo con George al fianco, armato di valigia e scarpini. Il padre, che stava tenendo un posto in tipografia per il figlio, viene convinto da una singola frase. “Signor Best, suo figlio non stamperà giornali. Ci finirà sopra.”

Bob Bishop e George Best, qualche anno dopo
(Fonte: bbc.co.uk)
Nei primissimi anni ’60, il Manchester United è una squadra in completa ricostruzione. E a demolire la squadra non è stata una retrocessione, o il calciomercato sfrenato, ma è stata una pista di atterraggio ghiacciata e dei depositi di carburante contro cui si è schiantato l’aereo della squadra, di ritorno da una trasferta a Belgrado di Coppa Campioni. In quello schianto del febbraio 1958 muoiono i Busby Babes, la squadra progettata dall’allenatore per vincere tutto in casa ed in Europa. Per la maggior parte, progettata pescando a piene mani adolescenti dai settori giovanili di tutte le isole britanniche. E di quei ragazzi, o quasi, ne muoiono otto, tra cui Duncan Edwards, che meriterebbe una storia a se e che sarebbe probabilmente diventato uno dei migliori giocatori della storia del calcio. Altri quattro subiscono ferite tali da non poter più scendere sul campo, e lo stesso Busby resta in ospedale per più di un anno, ricevendo per due volte l’estrema unzione. Quando viene finalmente dimesso, Busby trova davanti a se la desolazione. Il settore giovanile è completamente da ricostruire, ed dei due giocatori più rappresentativi sopravvissuti, Faulkes e Charlton, il primo ha perso così tanto peso da rendergli difficile correre e l’altro ha perso tutti i capelli per lo shock e, stando al fratello, dal giorno dell’incidente non ha più sorriso. Le stagioni si alternano, e la squadra scende sempre più giu. L’anno in cui il 15enne Best arriva a Manchester, i Red Devils arrivano settimi, mentre due anni dopo il campionato si conclude con il 19^ posto. 

L’esordio di Best con la maglia rossa di Manchester arriva nel settembre del 1963 contro il West Bromwich Albion. In quella squadra Faulkes gioca al centro della difesa e Charlton attaccante, insieme allo scozzese Denis Law. Tra i pali c’è Harry Gregg, che nell’inferno ghiacciato di Monaco si è lanciato più volte tra le lamiere in fiamme per salvare altri passeggeri. Best, che si alterna tra prima squadra e settore giovanile, gioca come numero 11. I gol a fine stagione saranno quattro, compresa una doppietta al ritorno contro il WBA. La squadra è trascinata dai 30 gol di Law (Pallone d’Oro a fine anno) al secondo posto in campionato, ma non riesce a vincere nessun titolo. Il 1965 riporta il titolo a Manchester, e Best è protagonista e titolare in quella squadra, e da lì non perderà più il posto. Ma il campionato, a Busby soprattutto, non interessa così tanto. L’obiettivo che lui desiderava ardentemente, l’obiettivo per cui erano morti otto ragazzi tra le fiamme bavaresi, l’obiettivo che quasi era costato la sua stessa vita: la Coppa dei Campioni. Ed il 1966 è l’anno del grande ritorno nella competizione europea. Ai quarti di Finale, i Red Devils si trovano di fronte i bicampioni e finalisti nella stagione precedente del Benfica, guidati dal futuro pallone d’Oro Eusebio. L’andata è tesissima, e la sfida di Manchester termina 3 a 2. Al ritorno, nell’Estadio da Luz gremito in ogni ordine di posto, si accende George Best. Segna i primi due gol del roboante 5 a 1 finale, il primo di testa ed il secondo mostrando al mondo tutta la sua classe.

Best e sir Matt Busby
(Fonte: irishmirror.ie)
Alla fine però lo United si fermerà in semifinale, contro il Partizan Belgrado, che a sua volta perderà la finale contro il Real Madrid. In campionato arriva quarto, vedendosi sbarrate le porte della nuova avventura europea, che verrà vinta dal Celtic, prima volta per una squadra britannica. Ma dopo aver dominato la First Division del 1967, Best ha di nuovo l’opportunità di misurarsi contro i più grandi. E dal confronto esce vincitore. In semifinale arrivano Manchester United e Real Madrid. L’incontro di andata si gioca in Inghilterra, ed il nordirlandese è il protagonista indiscusso. Il sette bianco su campo rosso che indossa quella sera entra nella leggenda. Il gol che permette allo United di andarsela a giocare a Madrid con più tranquillità è suo.  

Ma a Madrid la partita è una battaglia. A fine primo tempo, il Real è avanti per 3 a 1, e l’unico gol inglese l’ha segnato Zoco nella propria porta. Davanti a una cifra stimata di 125mila spettatori, quel numero 7 si riaccende. Al 73 serve di testa l’assist per Sadler, del momentaneo 3 a 2. All’80, dopo aver ricevuto palla sulla fascia, salta in dribbling il diretto avversario e corre orizzontalmente verso la porta. Invece di tirare o crossare alto, pesca con la coda dell’occhio una maglia rossa che accorre, e la serve. E’ Faulkes, che calcia con tutta la forza possibile. Calcia come se a colpire quel pallone non ci fosse solo lui, ma ci fossero anche Whelan, Taylor, Pegg, Jones, Colman, Byrne, Bent e Duncan Edwards. Calcia come se potesse cambiare il destino, un destino di sangue, di fuoco e di gloria negata. Ed il pallone entra. 3 a 3. Lo United è in finale. 

E lo United vincerà quella finale, contro il Benfica di Eusebio, per 4 a 1, di cui tre gol nei supplementari. Bobby Charlton segna una doppietta, legando ancora di più indissolubilmente questi Busby babes con quei Busby Babes. Best segna il primo gol dei supplementari, surclassando l’ultimo difensore portoghese ed appoggiando il pallone in rete a porta vuota dopo aver saltato il portiere. Quando l’arbitro Concetto Lo Bello, da molti ritenuto il miglior arbitro italiano di sempre, fischia la fine della partita, tutti i giocatori abbracciano Busby, in lacrime, libero dall’autoinflitta pena decennale di aver causato lui la morte di quei otto ragazzi. E’ la prima squadra inglese a vincere la Coppa dei Campioni. Ed è anche l’ultima stagione di George “Simply the” Best.

"Nella mia vita i soldi li ho spesi per alcool, donne e macchine veloci. Tutti gli altri li ho sprecati."
George Best, Siv Hederby e una Jaguar E-Type
(Fonte: manchestereveningnews.co.uk)
Perché l’esplosione del 1968 lo travolge. Il suo anno migliore, tra Coppa e Pallone d’Oro, diventa anche l’ultimo. E’ un simbolo, anzi, è il simbolo. Viene soprannominato il Quinto Beatle, dopo che si presenta al ritorno dalla prima trasferta contro il Benfica nel 1966 con un enorme sombrero, che rifiuta di togliersi anche in aereo. Dei festeggiamenti per la vittoria non ricorda nulla. Ha già conosciuto quella che sarà la sua reale compagna di vita, nonostante frequenti migliaia di donne, tra cui due miss Mondo: la bottiglia. Ed è proprio la sera in cui vince la Coppa Campioni che si celebra il matrimonio. Il declino sarà molto rapido, ed inesorabile. Si moltiplicano gli aneddoti fuori dal campo più che le prodezze. Nel 1971, quando Busby non è più allenatore, ma dirigente, perde il treno per raggiungere la squadra allo Stamford Bridge di Londra. Promette di arrivare con il treno successivo, cosa che farà, ma allo stadio non si presenta. In realtà passa il weekend con l’attrice Sinead Cusack, futura moglie di Jeremy Irons. Il nuovo allenatore, O’Farrell, vorrebbe cacciarlo dalla squadra più volte, ma solo Busby riesce a placare gli animi. Intanto, come succede spesso quando si uniscono giovani, tanti soldi ed una fama ingestibile, Best comincia a frequentare le compagnie sbagliate. Torna a casa ogni giorno all'alba dopo aver passato la notte di locale in locale, alle volte anche da solo. L’ultima partita con il Manchester United la gioca il primo gennaio del 1974, e da quel momento comincerà a girovagare per il mondo. A 28 anni è già un giocatore finito, anche se dovunque andrà lascerà il segno, sul campo e fuori. Si sposerà due volte, divorziando entrambe, non sono quantificabili le donne che sedusse o frequentò, ma avrà relazioni più o meno stabili con decine di miss e due Miss Mondo, Marjorie Wallace e Mary Stavin. Proprio a quando soggiornava in un albergo con la bellissima svedese è riferita una delle frasi più famose su di lui, forse poco credibile, ma riferita dallo stesso Best. Un cameriere, entrando nella stanza per servire alla coppia l’ennesima bottiglia di champagne e vedendo la donna stesa sul letto coperto di dollari, disse a Best. “Quand’è che ha cominciato ad andarti veramente male?”

George Best e Mary Stavin. Difficile dire che gli andasse male, eh?
(Fonte: dailymail.co.uk)
George Best è morto dieci anni fa, il 25 novembre, per le complicazioni dovute all'eccesso di alcool e forse di droghe. Il corteo funebre era composto da 25mila persone. Cinque giorni prima di morire, Best fece pubblicare una sua foto dal letto d’ospedale dal News Of The World, con scritto “Non morite come me.” Probabilmente, almeno per chi scrive, la sua frase più importante non fu questa, o le precedenti, ma fu quella che pronunciò quando già si era accorto che era troppo tardi per tornare indietro, che era stato grande ma sarebbe potuto essere grandissimo. Rotterdam, 1976. Olanda – Irlanda del Nord 2 a 2. Best, all’ultima partita con la Nazionale, salta tutta la difesa orange, ma invece di puntare la porta si gira e va verso il centrocampo. Si para davanti a Johan Cruijff, che inutilmente cerca di rubargli palla. Best lo supera con un tunnel e butta la palla in fallo laterale, poi dice: “Johan, tu sei il più grande, ma solo perché io non ho più tempo.”