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8 dicembre 2015

L'Italia degli intellettuali: i fondi per gli istituti culturali, le fondazioni, la politica

L’Italia è il paese delle Fondazioni. Spetta loro circa il 43 per cento del totale dei finanziamenti pubblici stanziati per gli enti culturali. Il restante 57 per cento si divide tra Istituzioni (23 per cento) e Centri, Accademie, Società, Giunte, Musei, Associazioni, Gabinetti, Atenei, Enti (con meno del 10 per cento ciascuno).
Le fondazioni sono enti costituiti per un determinato scopo. Hanno la peculiarità di avere un fondatore (in persona o tramite il proprio testamento) che destina il proprio patrimonio per alcune finalità filantropiche e non lucrative.
Per il triennio che comprende 2012, 2013 e 2014, intervallo di riferimento di quest’analisi, sono stati sovvenzionati dallo Stato 103 istituti culturali, di cui 46 fondazioni. Il budget totale ammonta a 5 milioni 430.000 euro, che per la maggior parte sono destinati ad attività di tipo politico.




La normativa

In Italia gli istituti culturali godono di particolari tutele per il loro valore artistico, in particolare per le attività che svolgono come centri di studio, approfondimento e promozione culturale. 

Essi sono pensati per offrire alla comunità un servizio importante di pluralismo. Un aspetto che accomuna tutti gli enti è quello di conservare e valorizzare il patrimonio archivistico e libraio, frutto di una donazione o esito di un lavoro di raccolta e collezione portato avanti negli anni.
Il settore è disciplinato dalla legge n.534 del 17 ottobre 1996 e da successive circolari che spiegano nel dettaglio i requisiti e le modalità per l’accesso ai contributi e le ulteriori concessioni oltre quelle ordinarie.  Per richiedere un contributo statale, gli istituti culturali devono essere in possesso della personalità giuridica, non avere finalità di lucro, promuovere attività di ricerca e elaborazione culturale che sia fruibile per tutti e disporre di un rilevante patrimonio bibliografico, archivistico, museale, cinematografico, musicale, audiovisivo, accessibile pubblico in forma continuativa.
Devono prevedere un programma triennale delle attività, organizzare convegni, mostre e altre manifestazioni di valore scientifico e culturale, disporre di una sede ed essere costituiti da almeno cinque anni.

La distribuzione delle risorse
Prendendo in considerazione i fondi elargiti tra il 2012 e il 2014, si nota che ben sette regioni non hanno un ente culturale beneficiario. Cinque regioni non hanno più di tre enti, mentre quelle più fiorenti sono Lazio, Toscana e Veneto. Il numero degli istituti per ogni regione si riflette anche sulla consistenza dei contributi assegnati, per cui le regioni che ricevono contributi più ingenti sono proprio Lazio, Toscana e Veneto.



Gli enti culturali sovvenzionati dallo Stato tra il 2012 e il 2014 si collocano: 40 al nord Italia, 52 al centro e 11 tra sud e isole. Come si può notare dai grafici di seguito, al sud, oltre ad esserci pochi istituti, la quantità di fondi attribuiti a ciascun istituto è per la maggioranza dei casi bassa (fino ai 30.000 euro).









Di cosa si occupano gli enti culturali sovvenzionati
La maggioranza delle fondazioni presenti in Italia si potrebbe considerare nella categoria “politica, diritto e società”. Si tratta per lo più di fondazioni che portano i nomi di politici della prima Repubblica, come la Fondazione Luigi Einaudi e l’Istituto Luigi Sturzo, e degli intellettuali che la Repubblica non l’hanno nemmeno vista nascere - Fondazione Istituto Gramsci Onlus - per citare solo alcuni degli enti culturali più pagati (190.000 euro).
Stando al dilagare del disaffezionamento verso la sfera pubblica e in particolare nei confronti della politica tout court, si potrebbe pensare che c’è bisogno di fare molto di più per rendere quel bagaglio di conoscenze e cultura avvicinabile e fruibile per tutti, al di là di qualche conferenza o della gestione di un archivio.

Martina Di Carlo

Raccolta differenziata nelle grandi città: impossibile farla funzionare?

Amministrare le grandi città non dev’essere un compito facile. Tanto più se si considera l’aspetto della raccolta dei rifiuti. Delle 15 città italiane più grandi nel 2011, che vanno dai 200.000 ai 500.000 abitanti, nessuna in quell’anno superava il 65% di raccolta differenziata. Per cui non sono finite nel novero dei “comuni ricicloni” di Legambiente, che con rapporti annuali monitora l’andamento della raccolta differenziata in Italia.



In alcune città le tasse per i rifiuti sono state molto salate, anche laddove la raccolta differenziata è ancora un miraggio. Se si considera l’anno 2011, i cittadini di Roma, Napoli, Bari, Palermo, Messina e soprattutto Catania hanno pagato il servizio della raccolta dei rifiuti fino a oltre 150 euro pro capite, in città che non differenziano nemmeno un quarto di tutta la produzione dei rifiuti.

Le grandi città che riciclano circa la un terzo dei rifiuti, come Milano e Bologna, hanno una tassazione intorno ai 180 euro a persona in un anno. I triestini riciclano un quinto della spazzatura pagando 144 euro ciascuno. Torino è la città in cui nel 2011 le tasse sono state più alte, anche se, tra le grandi città, è quella che ricicla di più dopo Verona. I comuni virtuosi, in cui si ricicla di più senza tasse troppo esose sono Padova, Firenze, Venezia, e Genova.

La gestione peggiore va attribuita alla città di Catania, che nel 2011 ha tassato con 163,39 euro ogni cittadino offrendo come servizio la sola raccolta dei rifiuti (in quell’anno solo il 6% della spazzatura è stata raccolto in maniera differenziata).

Il primo premio va invece alla città di Verona che, sempre nel 2011, ha superato il 50% di raccolta differenziata con una spesa per i cittadini pari a zero (stando ai dati attualmente disponibili), anche se probabilmente il Comune dovrà riscuotere dai cittadini una parte degli arretrati.

Per il prossimo report ci si augura di vedere almeno una delle grandi città tra i “comuni ricicloni”!

Martina Di Carlo




3 dicembre 2015

SundayUp - Snarky Puppy

“COME HO POTUTO IGNORARE L'ESISTENZA DI QUESTI IDOLI ASSOLUTI E DELLA LORO MUSICA PAZZESCA PER TUTTO QUESTO TEMPO?!?”

Questa la mia controllata reazione dopo aver ascoltato per la prima volta un brano degli Snarky Puppy.
Il gruppo viene fondato nel 2004 dal bassista e compositore Michael League, che riunisce alcuni studenti di musica della University of North Texas. Grazie a una gavetta estenuante e anche a costo di esibirsi gratis innumerevoli volte, i nostri si costruiscono un seguito sempre più vasto. Alla fine la perseveranza paga. Trasferitosi a Brooklyn, il gruppo si amplia fino a comprendere decine di musicisti, tutti poco più che trentenni, molti dei quali vanno e vengono in quanto impegnati come turnisti e compositori per un'infinità di altri artisti e band. Questo autentico collettivo è solito esibirsi con la seguente formazione: tre o quattro fiati, tre tastiere, tre chitarre, basso, batteria e percussioni. Genere? Sul loro sito campeggia la scritta: “Jazz + Funk + World + Soul + Pop”. Sono davvero in grado di suonare tutto questo? Sì, e anche molto altro: basta ascoltare un brano a caso per capire che le etichette stanno loro strettissime.
Snarky Puppy
Dopo dieci anni, otto album, un grammy e centinaia di concerti all'anno, cosa vuole di più dalla vita il signor League? Fare un disco con un'orchestra.


Nel 2013 gli Snarky Puppy si trovano a Utrecht, nei Paesi Bassi, per registrare dal vivo l'eccezionale album We Like It Here: tra gli spettatori si trovano due dei manager dell'olandese Metropole Orkest, invitati da un amico del gruppo. Dopo il concerto, League impiega dieci minuti a mettersi d'accordo con loro per incidere un disco insieme all'orchestra e, un mese dopo, ne incontra il direttore, Jules Buckley. Gli dice di avere intenzione di scrivere musica nuova di zecca apposta per l'occasione, pur non avendo mai arrangiato brani per un ensemble così vasto (si parla di almeno sessanta musicisti). Buckley gli lascia carta bianca. Mentre è in tour con il gruppo, League scrive tutti gli spartiti. E Sylva prende forma. Ogni brano è la rappresentazione musicale di una foresta, visitata dal compositore (si va dalle montagne del Portogallo alle paludi della Louisiana fino alle sequoie della California) o frutto della sua immaginazione. Nell'aprile del 2014 gli Snarky Puppy e la Metropole si riuniscono a Dordrecht per eseguire l'intera opera dal vivo. Il 26 maggio 2015 il disco è uscito per la Impulse!, insieme a un DVD che documenta il concerto. È uno degli album più belli che io abbia ascoltato negli ultimi tempi.
La cover dell'album Sylva (2015)

I primi tre brani si susseguono senza pause. Introdotta dai violoncelli, in un'atmosfera pensierosa, Sintra sviluppa eleganti melodie sulle quali l'orchestra si schiude. Segue Flight che, come suggerisce il titolo, sembra spiccare il volo. Sulla spessa cornice delle percussioni e delle chitarre si incastrano Moog e flauti. Al solo di sax tenore segue un dialogo tra Fender Rhodes e Hammond. Dopo esserci librati per aria, Atchafalaya chiude il trittico riportandoci con i piedi per terra, anzi in acqua. Affondiamo in una palude, trascinati dalla potenza degli ottoni, tra un'allusione a So What, un solo di trombone che è un invito a ballare e una chitarra in odore di John Scofield.  Temi fragorosi e ritmi irresistibili sfumano, per poi interrompersi bruscamente. Il tempo è volato.
The Curtain è senza dubbio l'esperimento più ambizioso del disco. Succede di tutto. Da una trama strumentale che ricorda certi arrangiamenti di Pat Metheny spunta il flicorno, che s'impenna. Poi si precipita in groove minacciosi che sostengono il solo del basso, carico di effetti e, dopo una breve tregua, quello del sintetizzatore. Il pianoforte ci fa commuovere e, infine, l'orchestra riporta la quiete dopo continui cambi di atmosfera, tenuti insieme da curatissimi momenti di transizione fra una sezione e l'altra.
Gretel, nonostante la breve durata, si distingue per il sapiente uso di pause e dinamiche e per il lirismo delle melodie. L'orchestra è protagonista assoluta. Difficile, dopo tutto questo, pensare che il meglio debba ancora arrivare. E invece è la conclusiva The Clearing, a mio parere, il brano più riuscito. Misteriosi arpeggi di chitarra e un tappeto d'archi fanno da preludio a un crescendo sinuoso che culmina in un tema magnifico. Poi, per contrasto, il brano sfocia nel funk: sulla sezione ritmica si innestano clarinetti e tromboni, seguiti dai soli della chitarra e della tromba. Altri riff spettacolari vengono distribuiti fra tutti gli strumenti; infine, l'orchestra riprende il tema iniziale, ripetuto in un'ultima, indimenticabile esplosione di colori.
La formazione al completo.
Non è da tutti far scorrere con tanta naturalezza arrangiamenti così intricati. Ogni brano spicca per il grande equilibrio tra composizione e improvvisazione. I musicisti sanno sempre coinvolgere l'ascoltatore sul piano emotivo, cosa ancora più importante della loro perizia tecnica, che peraltro è assoluta. Questa è musica complessa ma non ostica, raffinata eppure mai fine a se stessa, colta e popolare insieme, e piena di melodie memorabili. Insomma, un vero spasso.


Se Sylva è il vostro punto di partenza per scoprire i precedenti lavori degli Snarky Puppy, buon ascolto. Da notare, infine, che il 12 febbraio 2016 uscirà il loro prossimo lavoro, Family Dinner Volume II, che vanta la partecipazione di un enorme numero di ospiti. Già il trailer promette meraviglie. Non perdete di vista questi ragazzi: difficilmente resterete delusi.

Lorenzo Pedretti

The Bottonomics - L’Italia che innova


Ricordo quando da bambino, per le strade del mio piccolo paese natio dell’entroterra pugliese, alla fine di Agosto era possibile percepire un odore acre, quasi nauseabondo, derivante dalla lavorazione artigianale e casalinga delle uve atte a produrre quel famoso nettare chiamato Primitivo. Ricordo che l’odore della fermentazione del mosto era forte e persistente per tutto il paesino e io mi aggiravo per le sue strade alla perenne ricerca di garage e cantine in cui tale processo avveniva. Ricordo che non riuscivo mai a capire chi fosse a produrlo, ma l’odore era persistente e, in alcuni punti, più intenso.

Ecco, questa è la stessa sensazione che la terra che tuttora mi ospita, l’Emilia-Romagna, mi fa percepire in un’altra veste. In questa terra ci sono imprese all’avanguardia, eccellenze di ogni tipo, che spaziano dalla meccanica di precisione della packaging valley bolognese e della motor valley modenese all’eccellenza nella ceramica nel reggiano, fino ad arrivare alla food valley nella provincia di Parma. E questo odore, questa volta non acre, ma di sicuro di qualcosa che è in egual modo in fermento, è l’odore dell’innovazione che tante piccole e medie imprese fanno percepire sul territorio; imprese di cui spesso i nomi sono sconosciuti, ma che sono al top dell’eccellenza mondiale per i loro prodotti.

Ho appena finito di partecipare alla due giorni intensiva che Il Sole 24 Ore ha organizzato qui a Bologna. Evento che, partendo dal capoluogo emiliano, si estenderà in tutte le regioni della penisola e che cercherà di mostrare gli esempi virtuosi dell’imprenditoria italiana, esempi che mostrano un paese dotato di un sistema in grado di innovare e fare impresa di elevata qualità. Premetto che questa regione “rossa” avrà anche una spiccata dote alla cooperazione nel suo DNA, ma quello che sta accadendo qui è di esempio per tutti: fondi pubblici e privati, in partenariato fra loro, vengono investiti per accelerare un microsistema (mica tanto micro!) fatto di piccole e medie imprese di qualità con l’obiettivo di rendere questa terra più fertile di quanto non lo sia stata finora. L’attenzione sta ricadendo su una rete di piccole entità, tra cui FabLab e altre forme di associazionismo produttivo che, sperse nel territorio e interconnesse fra loro, permettono ai talenti nascosti di questa terra di emergere; talenti formati non solo in una delle migliori università del mondo qual è appunto l’Alma Mater Studiorum, ma anche e soprattutto grazie ad un sistema di scuole tecniche che ha sempre lavorato a stretto contatto con le imprese. Il nuovo sistema sta creando un filo che cercherà di legare le imprese al territorio e ai propri cittadini, portando questi ultimi ad avere un ruolo centrale nel processo decisivo ed innovativo delle stesse. Questo modus operandi sta già richiamando imprese e attirando investimenti: ad esempio, la Philip Morris sta costruendo nel bolognese uno dei suoi ultimi stabilimenti che produrrà un nuovo prodotto a base di tabacco e la Lamborghini, contro ogni aspettativa, produrrà il suo nuovo suv a Sant’Agata Bolognese. E solo queste due imprese creeranno un migliaio di posti di lavoro, senza contare le esternalità positive che un sistema architettato in questo modo può generare non solo dal punto di vista occupazionale, ma anche e soprattutto dal punto di vista della creazione di nuove imprese.

Concludo con una riflessione. Spesso si parla di settore pubblico e privato come se fossero l’antitesi l’uno dell’altro e pensando che il primo sia sì più equo, ma meno efficiente del secondo. L’esempio qui riportato dell’Emilia-Romagna ci mostra come queste due entità possono coesistere e, anzi, devono coesistere al fine di affrontare le sfide che i cambiamenti tecnologici ed economici stanno imponendo alle società avanzate perché in Italia è poco sviluppato, e in alcune aree manca, un vero e proprio sistema di infrastrutture che consenta alla nuova economia digitale di poter crescere. Poi, alla fine, il futuro è incerto e nessuno può prevederlo, ma, come suggeriva il Prof. Romano Prodi in apertura all’evento targato Sole24ore, per poter sperare in una crescita futura “il Paese deve essere una squadra che opera e che fa”.



Niky Venza

2 dicembre 2015

I sogni imperiali di Putin e Erdogan

L’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte dell’aeronautica militare turca avvenuto una settima fa esatta, non solo ha scatenato polemiche e tensioni all’interno del caos siriano e mediorientale, alimentando ancora gli allarmi di chi vede un terzo conflitto mondiale ormai imminente, ma ha anche dato slancio al dibattito su chi vede in questo “incidente” il segnale definitivo di una volontà di potenza neo-imperiale da parte di due degli attori più vista nella partita del Medio Oriente. Due rivali, che per obiettivi in comune, vicinanza geografica e peso nel processo geopolitico non si sono mai amati a causa proprio della loro grandezza e dei loro ruoli diversi nello scacchiere mondiale.


Putin ed Ergogan | Fonte: primocanale.it
Questo avvenimento, con la conseguente presa di posizione di Putin, il quale ha immediatamente ordinato sanzioni contro il governo di Erdogan, e del presidente turco, il quale ha definito l’abbattimento del velivolo militare di Mosca “giusto” in quanto questo aveva ripetutamente sconfinato nel territorio nazionale nonostante i continui avvisi di tornare indietro, ha generato dibattiti e articoli nella stampa di settore. Due subito sono balzati alla mia attenzione: uno di Julia Ioffe su Foreign Policy del 25 novembre, intitolato simbolicamente “The Czarvs. The Sultan", ed un altro pubblicato invece su Foreign Affairs del 30 novembre, intitolato “Clash of Empires” e scritto da Akin Unver. In entrambi i pezzi si nota subito una connotazione di autorità e desiderio di dominio dei rispettivi Stati. La ragione non sta solo nella partita infuocata che le due parti stanno giocando, utilizzando i loro importanti mezzi nel campo dell’hard power, per il controllo e l’influenza da esercitare nella partita siriana e nelle decisioni da prendere riguardo i futuri assetti del Paese (semmai una Siria unita esisterà anche all’indomani di questo sanguinoso e tragico conflitto civile). Russia e Turchia in questo momento stanno giocando la partita su chi dovrà essere, in caso, la potenza regionale che deciderà le sorti del Medio Oriente intero nei prossimi anni, quella che sarà in grado maggiormente di influenzare ed indirizzare (in primis) a suo vantaggio i nuovi scenari e i nuovi attori.
Quando parliamo di Mosca ed Ankara, analizzandone la storia e le trasformazioni, vediamo come la parola “impero” abbia giocato un ruolo da protagonista nelle loro vicissitudini. La Sublime Porta e la Terza Roma, fino alla Prima Guerra Mondiale, si sono sfidate sia nella contesa di Territori che entrambi dichiaravano sotto la propria sfera di influenza, sia nella protezione del loro credo religioso. Tra i mille esempi che si potrebbero fare, ricordiamo gli innumerevoli conflitti che misero di fronte le nuove potenze tra il 1700 e il 1800: le sollevazioni dei fratelli slavi di fede cristiano-ortodossa furono usate dalla Famiglia Romanov come pretesto per intervenire tra i Dardanelli e i Balcani per strappare territori sotto il controllo ottomano. Dopo la dissoluzione del Sultanato proclamata nel 1924 da Atatürk, la rivalità con la Russia, nel frattempo evoluta sotto un’altra forma imperiale, quella sovietica, proseguì sia sotto la contesa di diversi territori e Stati di confine, sia sotto la rivalità da Guerra Fredda che mise di fronte un solido membro della NATO contro la seconda potenza mondiale.
Oggi questa nuova velleità imperiale dei due attori, desiderosi di uscire al più presto da una condizione che li vede classificati come solamente “potenze regionali”, è rappresentata perfettamente dalle ambizioni di due leader prima uniti da notevoli intrecci di natura economica, oltre che dal marcato autoritarismo in politica interna che li contraddistingue. Uno, Erdogan, ha cavalcato un nazionalismo islamico che ha via via sostituito i caratteri moderati (che molti osservatori e leader politici internazionali gli avevano etichettato) con un conservatorismo di fondo nei confronti del secolarismo, della libertà di stampa e delle minoranze etniche. L’Islam politico ha progressivamente sostituito il ruolo centrale delle Forze armate all’interno dello Stato turco, ponendosi come obiettivo una politica estera autonoma da qualsiasi interferenza esterna, e con la pretesa di mettersi alla testa di una vasta congregazione di Stati musulmani sunniti. L’altro, Putin, cresciuto nel KGB sovietico, ha sempre avuto come missione quella di cancellare l’onta della dissoluzione dell’URSS e del suo mondo comunista, riportando la Federazione russa al rango di potenza globale che le dovrebbe spettare. “Chiunque non abbia nostalgia dell’Unione Sovietica è senza cuore. Chiunque desideri che venga ristabilita non ha cervello”. Una frase che rappresenta al meglio il personaggio in questione. Dal controllo del governo centrale ripristinato a suon di cannoni e metodi non convenzionali in Cecenia all’inizio degli anni ’00, al progetto di riportare sotto la sfera di influenza del Cremlino buona parte delle ex repubbliche sovietiche, sia con le materie prime, sia usando il bastone (Georgia ed Ucraina).
putin erdogan russia turkey



L’abbattimento del caccia russo potrebbe essere inquadrato come la naturale conseguenza dovuta ad una rivalità che il conflitto siriano ha infiammato, con Russia e Turchia impegnate già a combattersi in qualche modo attraverso le “procure” dei loro alleati sul campo. Ora entrambe si sono spinte al di la della linea rossa, fino ad entrare in linea di collisione direttamente. Tutti stanno facendo gli scongiuri perché questo non crei una tensione fuori portata tra la Russia e la NATO, già esasperata dagli avvenimento nell’Ucraina orientale. Tensione inevitabile, quando i due leader sono portatori di una vocazione imperiale che ancora una volta li vede uno di fronte all’altro.

1 dicembre 2015

Papa Francesco in Africa: no alla violenza in nome di Dio

“La mia visita intende attirare l'attenzione verso l'Africa nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste. Il mondo guarda all'Africa come al continente della speranza”. Con queste parole Papa Francesco ha lodato l'Africa durante il discorso tenuto in Uganda il 27 novembre - alla presenza del presidente ugandese Yoweri Museveni - appena arrivato nel Paese dopo i primi due giorni passati in Kenya. Parole che esprimono perfettamente la volontà di Francesco di lanciare un messaggio ben chiaro, quello di non dimenticare l'Africa, che si inserisce all'interno di tanti altri contesti: dalla salvaguardia dell'ambiente alla pace, dall'attenzione ai poveri fino alla lotta al terrorismo. E proprio quest'ultimo aspetto preoccupava non poco gli addetti alla sicurezza del Pontefice alla luce degli ultimi attentati di Parigi ma anche a quelli successivi in Mali e in Tunisia, ma Francesco non si è lasciato fermare e ha messo in primo piano, come sempre, la volontà di incontrare la gente e in questa occasione l'Africa

Bergoglio durante il viaggio africano | Fonte: freerepublic.com

COP21. Ma andiamo con ordine. Il viaggio apostolico ha visto Bergoglio far visita in primis al Kenya, dove si è fermato il 25 e il 26 novembre e dove ha incontrato le autorità, il corpo diplomatico e i religiosi. Nella capitale Nairobi, uno dei momenti più importanti è stato l'intervento nella sede ONU, dove Francesco ha posto l'accento sulla Conferenza sul Clima di Parigi (COP21), che da ieri fino all'11 dicembre vedrà 150 leader mondiali discutere sulle misure da adottare per salvaguardare l'ambiente e i cambiamenti climatici. Queste le considerazioni del Pontefice: L'incontro di Parigi porti a concludere un accordo globale e trasformatore per la riduzione dell'impatto dei cambiamenti climatici, la lotta contro la povertà e il rispetto della dignità umana. Questo incontro è un passo importante nel processo di sviluppo di un nuovo sistema energetico che dipenda al minimo da combustibili fossili, punti all'efficienza energetica e si basi sull'uso di energia a basso o nullo contenuto di carbonio”. Che ha poi continuato: “Siamo di fronte al grande impegno politico ed economico di reimpostare e correggere le disfunzioni del modello di sviluppo attuale”. Ma c'è stato spazio anche per ribadire l'ormai celebre “no alla cultura dello scarto”, oltre che all'esclusione sociale, alla schiavitù, al traffico di organi e  persone e alla prostituzione, che “alimentano l'instabilità politica, la criminalità organizzata e il terrorismo. L'attenzione politica deve essere al di sopra di qualsiasi interesse commerciale o politico”

NO ALLA VIOLENZA IN NOME DI DIO. A Nairobi Francesco è stato protagonista del consueto incontro ecumenico ed interreligioso con i rappresentanti delle altri confessioni religiose. Ed è stata questa l'occasione per ribadire, ancora una volta, che "Il nostro Dio è il dio della pace, il suo santo nome non deve mai essere usato per giustificare l'odio e la violenza". Ricordando "i barbari attacchi al Westgate Mall, al Garissa University College e a Mandera" - perpetrati da Al Shabaab – Francesco ha sottolineato come "in una società democratica e pluralistica come questa  la cooperazione tra leader religiosi e le loro comunità diviene un importante servizio al bene comune". Senza dimenticare in questo senso il Concilio Vaticano II: "Nel cinquantesimo della chiusura del Concilio Vaticano II nel quale la Chiesa cattolica si è impegnata nel dialogo ecumenico e interreligioso al servizio della comprensione e della amicizia, intendo riaffermare questo impegno, che nasce dalla convinzione dell'universalità dell'amore di Dio e della salvezza che Egli offre a tutti".

I VALORI AFRICANI. Nel Campus dell'Università di Nairobi, Francesco ha celebrato la S. Messa nella quale ha ricordato l'importanza della famiglia sottolineando come “la salute di qualsiasi società dipende dalla salute delle famiglie”. Aggiungendo: “I grandi valori della tradizione africana, la saggezza e la verità della Parola di Dio e il generoso idealismo della vostra giovinezza vi guidino nell’impegno di formare una società che sia sempre più giusta, inclusiva e rispettosa della dignità umana. Vi stiano sempre a cuore le necessità dei poveri; rigettate tutto ciò che conduce al pregiudizio e alla discriminazione, perché queste cose non sono di Dio”. 

LA VISITA ALLA BIDONVILLE DI KANGEMI. Il soggiorno in Kenya si è conclusa con l'incontro con i giovani allo stadio Kasarani, nel corso del quale il Papa ha parlato a braccio della corruzione: “C'è in politica e in tutte le istituzioni, anche in Vaticano (riferendosi in particolare a Vatileaks II, ndr)”. Prima però Bergoglio aveva visitato la bidonville di Kangemi, la baraccopoli dove vive la maggior parte della popolazione in condizioni di povertà assoluta. Qui Francesco ha ribadito che “ogni essere umano è più importante del dio denaro ed è un valore che non si quota in borsa” e che “non si può in alcun modo ignorare la terribile ingiustizia dell'emarginazione urbana. Queste sono ferite provocate dalle minoranze che concentrano il potere, la ricchezza e sperperano egoisticamente mentre la crescente maggioranza deve rifugiarsi in periferie abbandonate, inquinate, scartate”

Nella bidonville Kenyota | Fonte: paeseitaliapress.it

ATTENZIONE AI MIGRANTI. Nel prima citato discorso all'arrivo in Uganda Francesco ha anche ricordato l'attualità dei popoli di migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà: “Il nostro mondo, segnato da guerre, violenze e diverse forme di ingiustizie, è testimone di un movimento migratorio di popoli senza precedenti. Il modo in cui affrontiamo tale fenomeno è una prova della nostra umanità”. Francesco ha anche dato un monito al mondo della politica: “E' necessario assicurare con criteri di trasparenza il buon governo, uno sviluppo umano integrale, un'ampia partecipazione alla vita pubblica della Nazione, così come una saggia ed equa distribuzione delle risorse”. Appello lanciato a distanza di poco tempo dall'approvazione del Parlamento ugandese di una norma piuttosto controversa sulle ONG, secondo le quali verrà soppressa ogni forma di manifestazione di dissenso contro il governo. Bergoglio ha inoltre incontrato il Presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, con p. Lombardi – direttore della Sala Stampa Vaticana – che ha detto: “Il Sud Sudan è un Paese con un grande bisogno di pace, quindi il Papa ha voluto dare incoraggiamento”

APERTURA DELLA PORTA SANTA A BANGUI. Il 28 novembre Francesco ha celebrato nella mattinata la S. Messa per i Martiri dell'Uganda, per poi incontrare nel pomeriggio i giovani e successivamente i vescovi e i religiosi. Il 29 novembre ha poi avuto luogo il trasferimento nella Repubblica Centraficana, ultima tappa del viaggio apostolico di Bergoglio, fermatosi fino al 30 novembre. Anche qui il Papa ha incontrato giovani, religiosi, autorità politiche e religiose ma il momento sicuramente più importante è stata l'apertura della Porta Santa presso la cattedrale di Bangui, che ha di fatto anticipato l'apertura del Giubileo della Misericordia previsto a partire dal prossimo 8 dicembre. Queste le parole del Pontefice: "L'anno santo della misericordia viene in anticipo in questa terra che soffre da anni per l'odio, l'incomprensione, la mancanza di pace. Bangui diviene la capitale spirituale della preghiera per la misericordia; tutti noi chiediamo misericordia, riconciliazione, perdono, per Bangui, per tutta la Repubblica centrafricana e per tutti i Paesi, chiediamo pace, amore e perdono tutti insieme, con questa preghiera cominciamo l'Anno santo in questa capitale spirituale del mondo oggi". Che ha poi aggiunto nella sua omelia pronunciata a braccio: "A tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo, io lancio un appello: deponete questi strumenti di morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell'amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace"

Papa Francesco mentre apre la Porta Santa a Bangui | Fonte: ecodibergamo.it

INCONTRO CON LA COMUNITA' MUSULMANA. Prima di ripartire in direzione Vaticano Francesco è stato protagonista di un altro incontro significativo e simbolico: la visita  alla Comunità Musulmana nella Moschea centrale di Koudoukou a Bangui. In un periodo storico di forte tensione nei confronti della religione islamica a causa degli attentati di Parigi (da quelli alla redazione di Charlie Hebdo di gennaio fino ai recenti eventi) Francesco ha voluto concretamente essere un operatore di pace e di dialogo rifiutando ogni forma di fondamentalismo religioso: "Nessuna violenza in nome di Dio. Chi dice di credere in Dio dev'essere anche un uomo o una donna di pace. Insieme diciamo 'No' all'odio, alla vendetta, alla violenza, in particolare a quella che è perpetrata in nome di una religione o di Dio, perché Dio è pace, salam". 



Sul volo di ritorno Francesco ha infine espresso alcuni pensieri sul continente africano: "L'Africa è vittima: è sempre stata sfruttata dalle altre potenze, dall'Africa gli schiavi venduti in America, poi le potenze che cercano solo le sue grandi ricchezze, non pensano a dignità persone, a dare lavoro. L'Africa è martire dello sfruttamento e non capiscono che questa forma di sviluppo fa male all'umanità". 

Giuliano Martino