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30 novembre 2015

Marco Rubio: L'ispanico che sogna la casa bianca

Marco Rubio
Chi lo avrebbe mai detto che il partito repubblicano americano, conservatore e portavoce degli interessi della middle-classe bianca, avrebbe dovuto affidarsi ad un figlio di immigrati cubani per riconquistare la Casa Bianca dopo gli otto anni di amministrazione Obama? E invece sembra proprio che la storia sia prendendo questa direzione. La direzione di Marco Antonio Rubio, 44enne senatore per lo stato della Florida.

Se ne è già accorto l'establishment del Grand Old Party. Inizialmente il candidato forte del partito alle primarie doveva essere Jeb Bush, figlio di George H. W. e fratello minore di George W., entrambi ex presidenti. Ma Jeb non si è dimostrato finora all'altezza delle aspettative, fiacco nei dibattiti televisivi contro i suoi rivali e incapace di scrollarsi di dosso il pesantissimo fardello della guerra in Iraq. Così ora si punta tutto sul giovane Rubio, figlio di un barista e di un'addetta alle pulizie emigrati da Cuba nel 1956 (prima dell'avvento di Fidel Castro), il quale peraltro è stato lanciato nella sua carriera politica proprio da Jeb Bush, al tempo in cui governava la Florida. A dimostrazione di questa fiducia si è sparsa la voce che i ricchissimi Koch Brothers, magnati dell'industria petrolifera e tradizionali finanziatori dei repubblicani, lo vedano di buon occhio per la loro maxi-donazione da quasi un miliardo di dollari.

Gli elettori invece non sono ancora del tutto convinti. Nei sondaggi Rubio è piuttosto indietro rispetto all'istrionico businessman Donald Trump e all'ultra-conservatore neurochirurgo Ben Carson: due personaggi molto diversi tra loro ma entrambi esterni ai giochi di potere di Washington e quindi in grado di giocare la carta del populismo per conquistare il consenso della base repubblicana. Quando Trump offende la moderatrice del dibattito che lo mette in difficoltà dicendole che era in pieno ciclo mestruale o confonde Hezbollah con Hamas è solo Trump-being-Trump, ovvero lui stesso, al massimo della sua sfrontatezza. Quando Carson sostiene che se gli ebrei fossero stati armati contro Hitler l'olocausto sarebbe stato sventato oppure che le piramidi egiziane siano state costruite per conservare il grano lo si giustifica perché è un medico. Ma, at the end of the day, come direbbero dall'altra parte dell'oceano, gli elettori del partito dell'elefante davvero metterebbero il governo del proprio paese, la più grande potenza militare del mondo, nelle mani di uno di questi due individui?

Forse è decisamente meglio puntare sull'ispanico che, piano piano, è emerso nella contesa grazie ad un naturale talento oratorio e ad un innato carisma. Nel primo dibattito tra repubblicani di giugno ha subito dato sfoggio di personalità difendendosi dall'accusa di non aver abbastanza esperienza per diventare presidente. “Se ne facciamo unfatto di curriculum, la Clinton ha già vinto” ha risposto posatamente Rubio. Nel secondo confronto di fine ottobre Bush, che già arrancava negli opinion polls, lo aveva criticato per esserepoco presente in senato in questo periodo di campagna elettorale. Rubio ha replicato con stile, ricordando al suo mentore Jeb che quando John McCain si candidò per le primarie e poi le presidenziali nel 2008 nessuno si scandalizzava per le sue assenze in aula come senatore dell'Arizona. A novembre invece il marito di Jeanette, ex cheerleader della squadra locale di football, i Dolphins, e padre di quattro figli è stato preso di mira dal libertario Rand Paul, il quale asseriva che aumentare il budget per le spese militari non sia una mossa veramente conservatrice. Rubio si è ancora difeso in maniera brillante, definendo Paul un “devoto isolazionista” e sottolineando di volere una politica estera “muscolare” - una posizione molto in linea con il partito e con l'idem sentire dell'elettorato repubblicano.

Più in generale il senatore della Florida presenta proposte molto vicine al mainstream conservatore. In economia è fautore di una tipica ricetta liberista: riduzione della pressione fiscale, inferiore regolamentazione sulle aziende e limitazioni alle spese del governo federale (tranne evidentemente quando si tocca il capitolo difesa) costituiscono i suoi mantra. Sui temi etici si oppone all'aborto e al matrimonio gay. È inoltre fermamente scettico riguardo al fenomeno del cambiamento climatico, fino a mettere in discussione l'autorità di Papa Francesco, lui che è un fervente cattolico. Come gli altri candidati repubblicani è irremovibile sul diritto di possedere e acquistare liberamente armi da fuoco. Si mostra meno severo invece di alcuni suoi rivali sul Medicare di Obama, che riformerebbe ma non abolirebbe in toto. L'unico punto su cui Rubio si distingue nettamente da alcuni suoi contenders è l'immigrazione. Infatti nel 2013 ha fatto parte di una commissione bipartisan, la quale produsse un progetto di legge che permetteva agli immigrati clandestini un percorso verso l'ottenimento della cittadinanza. Durante questa campagna per le primarie ha corretto leggermente il tiro per non alienarsi simpatie tra gli elettori conservatori, chiarendo che il processo deve essere graduale e progressivo. Ma comunque le sue idee sono distanti anni luce da Donald Trump, il quale propone una irrealizzabile deportazione di massa e la costruzione di un enorme muro al confine con il Messico per impedire nuovi accessi irregolari.


mario rubio usa 2016

Grazie a questo mix di posizioni conservatrici sulle issues economiche e sociali e più aperte sull' immigrazione, Marco Rubio si presenta dunque come un candidato in grado di soddisfare l'elettorato conservatore, e, allo stesso tempo, fare breccia anche tra le minoranza etniche. Nel 2012 il repubblicano e mormone Mitt Romney pur ottenendo la sostanziale maggioranza del voto bianco, aveva comunque perso le presidenziali contro Barack Obama. Per vincere nel 2016, i repubblicani hanno quindi assoluto bisogno di racimolare qualche consenso al di fuori del proprio bacino di riferimento, per esempio tra gli ispanici e i millenials, ovvero chi è cresciuto negli anni 2000. Rubio è ispanico e giovane: un uomo ideale per portare a termine questa missione apparentemente impossibile.

Inoltre Rubio sembra possedere le armi giuste per poter reggere un faccia a faccia contro la moglie di Bill ed eventualmente metterla in difficoltà. È preparato come un politico di professione (soprattutto in politica estera e sull'immigrazione) ma al contempo è una faccia pulita, senza scheletri nell'armadio. E la sua storia personale non è fatta di privilegi e di frequentazioni come facoltose come quella della Clinton. Ma bensì di duro lavoro e di ambizione, le chiavi del successo secondo il sogno americano. Perché se c'è qualcosa di più suggestivo del primo presidente donna è un presidente figlio di immigrati cubani con una sincera fede che tutto è ancora possibile negli Stati Uniti d'America. Anche sedersi sulla poltrona dello studio ovale se ti chiami Marco Rubio.

29 novembre 2015

SundayUp - Mashrou’ Leila, la voce araba dell’indie-pop contro i fanatismi

“Per molti siamo una band politicamente engagée, in verità scriviamo i testi delle nostre canzoni per parlare di quello che ci accade attorno. Non pensiamo a noi come una band con un’agenda politica, ma nel mondo Arabo ciò che scegli di trattare e ciò che decidi di tacere si traduce subito in un sentimento politico.” Così si presentano i Mashrou’ Leila, ovvero Haig Papazian al violino, Hamed Sinno alla voce, Hibrahim Badr al basso, Carl Gerges alla batterista e Firas Abou Fakher alla chitarra. Incontriamo la band indie-pop libanese a margine di uno dei concerti della tournée internazionale, jeans e t-shirt nere, occhiali tondi e dalla montatura grossa, risvoltini, potrebbero essere i componenti della band hipsterina della porta accanto, invece vengono da Beirut, Libano e fanno musica per raccontare la loro realtà, tra luci e ombre. 

mashrou leila


Sabato 28 novembre presentano il loro quarto album, Ibn El Leil, in un concerto a Londra, dopo un tour che ha portato il loro Arab indie-pop in giro per tutta l’Europa, il Medio Oriente e gli States. Eppure il “progetto per la notte”, come potremmo tradurre Mashrou’ Leila, è nato qualche anno fa da una jam session come mille altre all’American University della capitale libanese. “All’inizio non pensavamo a nulla di particolare, racconta Firas, sarebbe stato carino trovarsi una volta a settimana a suonare assieme, giusto per fare una pausa. Da un momento all’altro ci hanno chiamati ad aprire un concerto e non avevamo nemmeno un nome! Suonavamo di notte, ecco quindi Mashrou’ Leila”. Dalle jam improvvisate ne è passato di tempo e, grazie all’ingresso nella band di Sinno e della sua magnetica vocalità, il progetto è cresciuto musicalmente. Contemporaneamente sono cambiati gli argomenti dei testi. Se siete in cerca di una band pop che racconta in musica amori felici, tristi, disperati, meglio abbandonare qua la lettura.

Spesso definiti come la “voce delle primavere arabe”, ai Mashrou’ Leila questa definizione sta stretta. Eppure si parla di politica, del controllo della società, della convivenza tra religioni diverse, di omosessualità, di immigrazione. E tutto ciò in una lingua, l’Arabo-libanese, poco diffusa sulla scena musicale internazionale e verso un pubblico, quello di tutto il Medio Oriente, per cui molti di questi temi sono ancora oggi un tabù. 

Photo credit: Luca d'Agostino / Phocus Agency / Mittelfest Cividale del Friuli Facebook page
Il nuovo singolo, Maghawir -ovvero il nome che viene dato all’esercito-, è una risposta diretta ai, sempre più frequenti, attentati che hanno colpito la capitale libanese e le cui vittime sono state spesso compagnie di giovani in bar e locali. Partendo da alcuni fatti di cronaca, nasce un’ironica lista di “cose da fare nella notte di Beirut”, che si trasforma ben presto in una denuncia della facilità con cui si arriva ad episodi di violenza, della semplicità con cui è possibile ottenere un arma in Libano, dell’assurda morte di giovani mentre si trovano nella loro città a divertirsi. La scelta, poi, di una musica ballabile non fa che spingere a chiederci se la violenza stia diventando qualcosa di normale, se stia diventando un’altra cosa su cui possiamo ballare, un nuovo elemento del paesaggio notturno della città. 

Dicevamo, critiche alla società libanese, colpevole con la sua corruzione di tarpare le ali ai giovani, come viene cantato in Wa Nueid: “Digli che siamo ancora qui in piedi, digli che stiamo resistendo / Digli che abbiamo ancora occhi per vedere, digli che non abbiamo fame”. Ma anche un forte impegno, in prima persona per il cantante, nella battaglia per il riconoscimento dei diritti LGBT in Medio Oriente. (Sì, lo so che ho appena detto che non parlano d’amore, mi correggo non parlano d’amore convenzionale) La struggente Shim el-yasmine (Odora il gelsomino) racconta proprio, con dolcezza e sensibilità, una storia d’amore tra due uomini:

I would have liked to keep you near me
Introduce you to my parents, have you crown my heart
Cook your food, sweep your home
Spoil your kids, be your housewife

Smell the jasmine
And remember to forget me

Temi che hanno attratto ben presto le critiche degli ambienti più conservatori della società libanese tant’è che gli abitanti di Zouk Mikail, una cittadina vicina a Beirut, hanno veemente protestato contro un concerto della band. Un esempio tra molti. La reazione dei fan è arriva pronta sulla Rete, dove i cinque ragazzi libanesi hanno un ampio seguito: “I social media sono importanti per tutti, oggi. A noi piace mantenere un forte controllo creativo su tutto ciò che facciamo: ci occupiamo delle copertine degli album, delle fotografie, delle interviste. Per questo abbiamo deciso, ci raccontano, di usare i social in maniera molto diretta. Non sopportiamo quando ti accorgi subito che c’è la mano di un esperto di marketing dietro ad un profilo, per questo abbiamo scelto di gestire il più possibile i nostri account da soli personalmente.” Una scelta che li ha portati a farsi conoscere ben oltre i confini libanesi e a conquistare più di 300.000 followers su Facebook, migliaia di visualizzazioni dei video su YouTube e un tour internazionale sold out. 



Nelle tracce risuonano riferimenti eclettici: tra jazz, elettro-pop, rock e tarab gli strumenti, il violino di Haig e la voce profonda di Sinno si fondono in un mix orecchiabile in cui la musica tradizionale araba è un’eco. Proprio la tradizione è stata oggetto di una campagna social lanciata dai Mashrou’ Leila: con #occupyArabpop hanno acquistato notorietà, ma sono riusciti a spiegare il senso delle loro scelte musicali. Tocca ancora a Firas spiegare in che senso: “Eravamo abbastanza ambiziosi per poter dire che era tempo di smettere di associare il Pop Arabo all’immagine della tipica super star araba, che canta la musica tipica, sempre con le stesse immagini, sempre con gli stessi video. Volevamo presentarci, una volta per tutte, come un’alternativa.” Un’alternativa che li ha portati a conquistare una fetta di pubblico in Europa, dove spesso il mondo arabo viene visto con sospetto e paura. Si presentano con la loro musica, uguale in tutto il mondo, e la loro voglia di suonare ciò che gli piace, raccontare le loro storie, lottare per le cause in cui credono. 




(Nel video di Lil Watan "occupano" visivamente la musica araba tradizionale che, nella forma della ballerina di danza del ventre, oscura la musica indipendente)

27 novembre 2015

The Corner - Maradona good, Pelè better, George Best

“Matt, credo di aver trovato un genio.” In realtà, è improbabile che questa frase sia mai stata detta, o scritta, da Bob Bishop. Bishop era un uomo di poche parole, sicuramente non solito a certe affermazioni esaltate, e mai si sarebbe permesso di scavalcare il suo diretto superiore, il capo osservatore Joe Armstrong, e parlare direttamente con “Matt”, sir Busby. Bishop era l’osservatore di riferimento per l’Irlanda del Nord, ed era abituato a calcare campi fangosi, spesso senza un filo d’erba, e vedere giocatori che mai avrebbero sfondato. Era abituato a viaggiare per ore nella nebbia nordirlandese e guardare sotto la pioggia fina delle isole britanniche partite giovanili e di dilettanti. Era abituato a vedere i giocatori che segnalava fare sì un provino con il Manchester United, da cui era pagato, ma mai sfondare realmente. Ma non questa volta. Questa volta gli era chiaro di aver trovato qualcosa di mai visto. Gli era chiaro, forse da subito, di aver trovato il meglio. Di aver trovato George Best. 


Partiamo dalle basi. A guardarlo non su un campo di calcio, Best non aveva nulla del campione che già albergava in lui. Era alto poco meno di un metro e sessanta, e pesava meno di cinquanta chili. Durante le ore di ginnastica a scuola gli era stato concesso di indossare un gilet, per nascondere le costole. Chi lo andava a vedere allenarsi con il Cregagh andava via dopo qualche minuto, scuotendo la testa. Anche gli emissari del Wolverhampton e del Glentoran, le due squadre per cui il Best bambino tifava, andarono via scuotendo la testa. Ma Bishop no. Nella partita che Bishop vide, Best segnò due reti, di cui il secondo dribblando tre avversari, unico quindicenne in due squadre di diciottenni. E così Bishop non se l’era lasciato sfuggire. Quella sera stessa, andò a parlare con i genitori nella piccola villetta a schiera del quartiere est di Belfast. Sir Matt Busby infatti da sempre aveva preteso di trovare giocatori forti sul campo ed educati fuori, con una solida famiglia alle spalle. E la famiglia Best superò quel test, e così Bishop informò il capo osservatore dei Red Devils, Joe Armstrong. Il 15enne George viene quindi spedito in Inghilterra, nella scura Manchester, dove rimane un solo giorno prima di scappare nuovamente a casa. Leggenda vuole che qualche giorno dopo alla porta di Dickie ed Anne Best si sia presentato Busby in persona, entrando da solo ed uscendo con George al fianco, armato di valigia e scarpini. Il padre, che stava tenendo un posto in tipografia per il figlio, viene convinto da una singola frase. “Signor Best, suo figlio non stamperà giornali. Ci finirà sopra.”

Bob Bishop e George Best, qualche anno dopo
(Fonte: bbc.co.uk)
Nei primissimi anni ’60, il Manchester United è una squadra in completa ricostruzione. E a demolire la squadra non è stata una retrocessione, o il calciomercato sfrenato, ma è stata una pista di atterraggio ghiacciata e dei depositi di carburante contro cui si è schiantato l’aereo della squadra, di ritorno da una trasferta a Belgrado di Coppa Campioni. In quello schianto del febbraio 1958 muoiono i Busby Babes, la squadra progettata dall’allenatore per vincere tutto in casa ed in Europa. Per la maggior parte, progettata pescando a piene mani adolescenti dai settori giovanili di tutte le isole britanniche. E di quei ragazzi, o quasi, ne muoiono otto, tra cui Duncan Edwards, che meriterebbe una storia a se e che sarebbe probabilmente diventato uno dei migliori giocatori della storia del calcio. Altri quattro subiscono ferite tali da non poter più scendere sul campo, e lo stesso Busby resta in ospedale per più di un anno, ricevendo per due volte l’estrema unzione. Quando viene finalmente dimesso, Busby trova davanti a se la desolazione. Il settore giovanile è completamente da ricostruire, ed dei due giocatori più rappresentativi sopravvissuti, Faulkes e Charlton, il primo ha perso così tanto peso da rendergli difficile correre e l’altro ha perso tutti i capelli per lo shock e, stando al fratello, dal giorno dell’incidente non ha più sorriso. Le stagioni si alternano, e la squadra scende sempre più giu. L’anno in cui il 15enne Best arriva a Manchester, i Red Devils arrivano settimi, mentre due anni dopo il campionato si conclude con il 19^ posto. 

L’esordio di Best con la maglia rossa di Manchester arriva nel settembre del 1963 contro il West Bromwich Albion. In quella squadra Faulkes gioca al centro della difesa e Charlton attaccante, insieme allo scozzese Denis Law. Tra i pali c’è Harry Gregg, che nell’inferno ghiacciato di Monaco si è lanciato più volte tra le lamiere in fiamme per salvare altri passeggeri. Best, che si alterna tra prima squadra e settore giovanile, gioca come numero 11. I gol a fine stagione saranno quattro, compresa una doppietta al ritorno contro il WBA. La squadra è trascinata dai 30 gol di Law (Pallone d’Oro a fine anno) al secondo posto in campionato, ma non riesce a vincere nessun titolo. Il 1965 riporta il titolo a Manchester, e Best è protagonista e titolare in quella squadra, e da lì non perderà più il posto. Ma il campionato, a Busby soprattutto, non interessa così tanto. L’obiettivo che lui desiderava ardentemente, l’obiettivo per cui erano morti otto ragazzi tra le fiamme bavaresi, l’obiettivo che quasi era costato la sua stessa vita: la Coppa dei Campioni. Ed il 1966 è l’anno del grande ritorno nella competizione europea. Ai quarti di Finale, i Red Devils si trovano di fronte i bicampioni e finalisti nella stagione precedente del Benfica, guidati dal futuro pallone d’Oro Eusebio. L’andata è tesissima, e la sfida di Manchester termina 3 a 2. Al ritorno, nell’Estadio da Luz gremito in ogni ordine di posto, si accende George Best. Segna i primi due gol del roboante 5 a 1 finale, il primo di testa ed il secondo mostrando al mondo tutta la sua classe.

Best e sir Matt Busby
(Fonte: irishmirror.ie)
Alla fine però lo United si fermerà in semifinale, contro il Partizan Belgrado, che a sua volta perderà la finale contro il Real Madrid. In campionato arriva quarto, vedendosi sbarrate le porte della nuova avventura europea, che verrà vinta dal Celtic, prima volta per una squadra britannica. Ma dopo aver dominato la First Division del 1967, Best ha di nuovo l’opportunità di misurarsi contro i più grandi. E dal confronto esce vincitore. In semifinale arrivano Manchester United e Real Madrid. L’incontro di andata si gioca in Inghilterra, ed il nordirlandese è il protagonista indiscusso. Il sette bianco su campo rosso che indossa quella sera entra nella leggenda. Il gol che permette allo United di andarsela a giocare a Madrid con più tranquillità è suo.  

Ma a Madrid la partita è una battaglia. A fine primo tempo, il Real è avanti per 3 a 1, e l’unico gol inglese l’ha segnato Zoco nella propria porta. Davanti a una cifra stimata di 125mila spettatori, quel numero 7 si riaccende. Al 73 serve di testa l’assist per Sadler, del momentaneo 3 a 2. All’80, dopo aver ricevuto palla sulla fascia, salta in dribbling il diretto avversario e corre orizzontalmente verso la porta. Invece di tirare o crossare alto, pesca con la coda dell’occhio una maglia rossa che accorre, e la serve. E’ Faulkes, che calcia con tutta la forza possibile. Calcia come se a colpire quel pallone non ci fosse solo lui, ma ci fossero anche Whelan, Taylor, Pegg, Jones, Colman, Byrne, Bent e Duncan Edwards. Calcia come se potesse cambiare il destino, un destino di sangue, di fuoco e di gloria negata. Ed il pallone entra. 3 a 3. Lo United è in finale. 

E lo United vincerà quella finale, contro il Benfica di Eusebio, per 4 a 1, di cui tre gol nei supplementari. Bobby Charlton segna una doppietta, legando ancora di più indissolubilmente questi Busby babes con quei Busby Babes. Best segna il primo gol dei supplementari, surclassando l’ultimo difensore portoghese ed appoggiando il pallone in rete a porta vuota dopo aver saltato il portiere. Quando l’arbitro Concetto Lo Bello, da molti ritenuto il miglior arbitro italiano di sempre, fischia la fine della partita, tutti i giocatori abbracciano Busby, in lacrime, libero dall’autoinflitta pena decennale di aver causato lui la morte di quei otto ragazzi. E’ la prima squadra inglese a vincere la Coppa dei Campioni. Ed è anche l’ultima stagione di George “Simply the” Best.

"Nella mia vita i soldi li ho spesi per alcool, donne e macchine veloci. Tutti gli altri li ho sprecati."
George Best, Siv Hederby e una Jaguar E-Type
(Fonte: manchestereveningnews.co.uk)
Perché l’esplosione del 1968 lo travolge. Il suo anno migliore, tra Coppa e Pallone d’Oro, diventa anche l’ultimo. E’ un simbolo, anzi, è il simbolo. Viene soprannominato il Quinto Beatle, dopo che si presenta al ritorno dalla prima trasferta contro il Benfica nel 1966 con un enorme sombrero, che rifiuta di togliersi anche in aereo. Dei festeggiamenti per la vittoria non ricorda nulla. Ha già conosciuto quella che sarà la sua reale compagna di vita, nonostante frequenti migliaia di donne, tra cui due miss Mondo: la bottiglia. Ed è proprio la sera in cui vince la Coppa Campioni che si celebra il matrimonio. Il declino sarà molto rapido, ed inesorabile. Si moltiplicano gli aneddoti fuori dal campo più che le prodezze. Nel 1971, quando Busby non è più allenatore, ma dirigente, perde il treno per raggiungere la squadra allo Stamford Bridge di Londra. Promette di arrivare con il treno successivo, cosa che farà, ma allo stadio non si presenta. In realtà passa il weekend con l’attrice Sinead Cusack, futura moglie di Jeremy Irons. Il nuovo allenatore, O’Farrell, vorrebbe cacciarlo dalla squadra più volte, ma solo Busby riesce a placare gli animi. Intanto, come succede spesso quando si uniscono giovani, tanti soldi ed una fama ingestibile, Best comincia a frequentare le compagnie sbagliate. Torna a casa ogni giorno all'alba dopo aver passato la notte di locale in locale, alle volte anche da solo. L’ultima partita con il Manchester United la gioca il primo gennaio del 1974, e da quel momento comincerà a girovagare per il mondo. A 28 anni è già un giocatore finito, anche se dovunque andrà lascerà il segno, sul campo e fuori. Si sposerà due volte, divorziando entrambe, non sono quantificabili le donne che sedusse o frequentò, ma avrà relazioni più o meno stabili con decine di miss e due Miss Mondo, Marjorie Wallace e Mary Stavin. Proprio a quando soggiornava in un albergo con la bellissima svedese è riferita una delle frasi più famose su di lui, forse poco credibile, ma riferita dallo stesso Best. Un cameriere, entrando nella stanza per servire alla coppia l’ennesima bottiglia di champagne e vedendo la donna stesa sul letto coperto di dollari, disse a Best. “Quand’è che ha cominciato ad andarti veramente male?”

George Best e Mary Stavin. Difficile dire che gli andasse male, eh?
(Fonte: dailymail.co.uk)
George Best è morto dieci anni fa, il 25 novembre, per le complicazioni dovute all'eccesso di alcool e forse di droghe. Il corteo funebre era composto da 25mila persone. Cinque giorni prima di morire, Best fece pubblicare una sua foto dal letto d’ospedale dal News Of The World, con scritto “Non morite come me.” Probabilmente, almeno per chi scrive, la sua frase più importante non fu questa, o le precedenti, ma fu quella che pronunciò quando già si era accorto che era troppo tardi per tornare indietro, che era stato grande ma sarebbe potuto essere grandissimo. Rotterdam, 1976. Olanda – Irlanda del Nord 2 a 2. Best, all’ultima partita con la Nazionale, salta tutta la difesa orange, ma invece di puntare la porta si gira e va verso il centrocampo. Si para davanti a Johan Cruijff, che inutilmente cerca di rubargli palla. Best lo supera con un tunnel e butta la palla in fallo laterale, poi dice: “Johan, tu sei il più grande, ma solo perché io non ho più tempo.”

26 novembre 2015

SundayUp - Il pianista del Bataclan: la musica quando la città brucia

piano bataclan paris
Un'immagine del pianista che, dopo gli attentati di Parigi, ha suonato "Imagine" fuori dal Bataclan | cultora.it
Fotografie come questa hanno fatto il giro del mondo appena qualche giorno fa. Un pianista (italiano, per la cronaca) che suona Imagine a pochi metri dal Teatro Bataclan, la sala concerti dove hanno perso la vita 87 persone nel corso degli attentati di Parigi. 
La domanda che forse tutti noi musicisti ci siamo posti, almeno una volta nella vita, è: “ma davvero pensiamo che suonare una canzone per la strada possa fermare una guerra?”. Il ragionamento naturalmente si può estendere a tutte le forme di arte, quel particolare gruppo di attività umane senza alcuno scopo pratico, e in quanto tali vulnerabili agli attacchi di chiunque si professi “pragmatico” (il solito trito ritornello: “con la cultura non si mangia”).
Nessuno dubita che anche in guerra un medico debba continuare a fare il suo lavoro, oppure un impiegato, o un idraulico. Ma un musicista? È giusto suonare quando la città brucia? Ha senso? Sì, sembrano rispondere i musicisti del Titanic. Ma forse la questione è più complessa. 

Mi associo al compositore Pierre Boulez quando dice “io penso che, alla fine dei conti, non sarà una poesia a impedire che dei bambini vengano bruciati”. E non sarà certo una canzone a fermare una guerra. Una sola sicuramente no, ma nemmeno diecimila canzoni. Questo perché l’arte si muove su un piano completamente diverso dalla realtà. Non è la realtà, e, piaccia o no, non ha influenza su di essa. Trovo che sia un atteggiamento buonista pensare di cambiare il mondo con la bellezza. L’arte è completamente e meravigliosamente inutile: è questo che ci rende perplessi. L’arte non serve a niente: si può mangiare, bere, dormire, tutto senza ombra di arte nella propria vita. 
Però (e questo “però” è grosso come una casa) è esattamente questo che rende l’arte quello che è. La sua inutilità pratica. Non so cosa sia passato per la mente del primo cavernicolo che ha deciso di dipingere un bisonte sulla parete della caverna, ma sicuramente questo non ha cambiato la realtà. Prima o dopo averlo dipinto il bisonte è stato ugualmente difficile da catturare, anche se piace credere di no. Ed eccoci al punto: cos’è cambiato tra prima e dopo? Se il cacciatore dipinge per propiziarsi la caccia non è il bisonte che muta, ma lui stesso. La pittura lo influenza nella misura in cui lui ci crede, tanto che catturare il bisonte gli sembra più facile. E questo è precisamente il punto: l’arte non serve a nulla finché non ci crediamo. 

Sia chiaro, non c’è nulla di giusto o sbagliato nel crederci o meno, è una scelta. Ma se si crede nel valore dell’arte allora l’arte avrà davvero quel valore. Funziona un po’ come una scatola idealmente priva di peso: peserà tanto quanto le cose che decidiamo di metterci dentro. 
E dunque, che diavolo fa il musicista quando la città brucia? Se non suona un organo idraulico forse farebbe meglio a farsi da parte, almeno sul momento. Il problema però si pone sul dopo, e qui trascrivo il resto della citazione di Boulez a cui ho accennato sopra: “io penso che, alla fine dei conti, non sarà una poesia a impedire che dei bambini vengano bruciati. E tuttavia, se una testimonianza sopravviverà, sarà appunto quella poesia”. Forse, e dico forse, una volta che tutto è bruciato e bisognerà ripartire, sarà utile che qualcuno ricordi cosa è successo, per provare, se possibile, ad evitare che si ripeta. E, a mio parere, questo dovrebbe essere il fine (se così si può dire) dell’arte: cercare di impedire che sia necessario ogni volta ripartire da zero. Fornire una sorta di “salva con nome” per poter ripartire da dove si era rimasti, o almeno da poco più indietro. 

L’uomo non è fatto solo di mangiare, bere e dormire. Si può vivere così, certo, ma a questo punto non ci sarebbe molta differenza tra una persona e un animale. Noi siamo animali, non lo nego, ma ci sarà pur una ragione se siamo diventati la specie dominante? Se ci fossimo limitati alle semplici funzioni vitali con tutta probabilità non saremmo arrivati dove siamo. È quindi profondamente stupido rifiutare tutte le sovrastrutture apparentemente inutili che rendono l’uomo quello che è: e l’arte sta al primo posto. Forse, più dei cromosomi, ci rende umani l’andare a teatro, il cantare sotto la doccia, lo scrivere poesie. E l’arte, insieme a chi fa arte, è la custode di tutto quello che è umano ma al tempo stesso non animale. 

Il mio può sembrare un discorso altrettanto buonista di quelli che ho rifiutato nei primi paragrafi, ma credo ci sia una sostanziale differenza: io parto dal presupposto piuttosto pragmatico che sia conveniente sfruttare al massimo le competenze dell’uomo. Si può mettere un fisico teorico a guidare un autobus, ma sarà indubbiamente uno spreco di risorse. Una volta finita la guerra il fisico teorico deve essere in grado di riprendere il lavoro dove l’aveva lasciato, per impedire che l’uomo ricada indietro nella barbarie o che semplicemente perda tempo a riconquistare conoscenze che aveva già ma che nel frattempo si sono perdute. 
E così dovrebbe fare l’artista quando la città è bruciata: testimoniare quel che è accaduto e impedire che accada di nuovo, continuando a fornire alla società quel che di meglio ha da offrire, sia la Nona sinfonia, la Divina Commedia oppure una canzone di John Lennon nel luogo di un attentato, per impedire che le avversità del momento ci facciano ricadere nello scivolosissimo baratro della barbarie e ci riportino a uno stadio per fuggire dal quale abbiamo sacrificato millenni di storia e miliardi di vite. 


The Bottonomics - Le pecore di ieri sono i Gigabyte del domani: due parole sulla Net Neutrality

Immaginate di vivere in un piccolo villaggio del passato, di quelli al di fuori della civiltà, dove vi dovete spaccare la schiena per tirare avanti. Nonostante le difficoltà siete però riusciti a consolidare la vostra comunità, garantendone la sopravvivenza, e la vostra esistenza si può dipanare nella tranquilla quotidianità del duro lavoro.  Un tarlo però vi assilla: le pecore del vostro vicino, che sono più delle vostre, mangiano troppa di quella che è l’erba di tutti. Che fare? La comunità ne risentirà a lungo andare, ma il buon vicino sta solo provvedendo alla propria sopravvivenza e a quella del suo bestiame. 

Passiamo ora ai giorni nostri, solo per scoprire che non è cambiato nulla, lo stesso identico problema di prima ci affligge. Solo che non si parla più di pecore ma di gigabyte, e il tutto ricade sotto il nome di “net neutrality”.


Internet rappresenta senza dubbio il più grande common della storia dell’umanità: esso fornisce la capacità di interagire continuamente, muovendo un enorme numero di informazioni in tempo quasi reale. Proprio per questo sono state ideate incredibili innovazioni, il tutto in un ambiente tutto sommato poco regolamentato dall’alto. Tuttavia anche in questo caso, come nel nostro villaggio, ci si sta progressivamente scontrando con un limite: la capacità delle infrastrutture fisiche della Rete di caricare dati non è infinita, e sono richiesti enormi investimenti per migliorarla, provenienti in buona parte da capitali privati. Ecco quindi riproporsi la famosa “Tragedy of the commons” in salsa 2.0.
La questione è salita agli onori delle cronache nel Febbraio di quest’anno, quando la Commissione Federale per le Comunicazioni americana ha deliberato in merito, seguita dal Consiglio Europeo dello scorso 27 Ottobre. In generale è stata descritta come un grande contrasto tra i provider (ISP), che vorrebbero segmentare la Rete con delle “corsie preferenziali”, e gli attivisti, che vedono in questo provvedimento un attentato alla libertà di informazione. La situazione è però più complessa di quanto sembri.

In realtà i provider sono in guerra con i giganti della Rete (Google, Netflix, Facebook, …), non con il singolo internauta, che è paragonabile piuttosto a una vittima fortuita. Gli ISP accusano queste corporation di trarre degli incredibili profitti tramite la movimentazione di una gigantesca quantità di dati sulla Rete, senza contribuire al suo miglioramento. Con il sistema delle corsie preferenziali a pagamento i loro contenuti viaggerebbero più veloci, la Rete sarebbe più leggera e ci sarebbero più fondi da investire. Senza contare che in via di principio è giusto che i più grandi paghino di più.
Le corporation, spaventate dal dover pagare ogni provider, rispondono con l’etica. Secondo loro la continua segmentazione della Rete porterà a un futuro dove alcuni servizi saranno disponibili solo tramite certi ISP. In tal modo Internet perderebbe così la sua funzione primaria di permettere di comunicare liberamente con tutti. Certo, bisogna anche dire questi giganti sono in una posizione da cui possono trarre un profitto comunque vada. Qualora i provider la spuntassero, le corporation potrebbero, semplicemente pagando, rendere la vita impossibile ai concorrenti più piccoli  e alle start up. In caso contrario, si troverebbero comunque in una posizione “politicamente” dominante rispetto ai provider sulle tematiche della gestione di Internet ( e non dovrebbero sganciare un soldo).

Gli attivisti si ritrovano, loro malgrado, a condividere l’opinione delle corporation. I provider, potendo decidere i contenuti “prioritari”, potrebbero mettere un pedaggio per accedervi. Chi non può, o non vuole, pagare questo balzello sarebbe quindi escluso da certi servizi e non potrebbe comunicare con i network che invece offrono questi servizi. Come ha detto Tim Berners Lee,  uno dei progettisti di Internet, non si tratta di avere Internet gratis, ma di far sì che la Rete resti tale, e quindi pienamente interconnessa. Per farvi un’idea più chiara, invito tutti a dare un’occhiata a questo video preso dal loro sito

Ultimi vengono i liberisti, contrari all’idea di una net neutrality mantenuta artificialmente contro le spinte del mercato. Nella loro ipotesi, non c’è rischio di esclusione: il cliente potrà accedere alle "corsie preferenziali" tra i diversi pacchetti offerti dai provider, progettati per venire incontro alle preferenze di ognuno. Non sarebbe nell’interesse dei provider escludere alcuni utenti, perché perderebbero dei profitti. Più o meno la stessa cosa è accaduta con gli abbonamenti flat, discriminatori ma paradossalmente utili per favorire la diffusione di Internet (qui il ragionamento completo).

La questione ha dunque un certo peso, e i governi stanno deliberando a proposito. Gli Stati Uniti sono più vicini alla concezione di una net neutrality “integrale”, l’Unione Europea si è dimostrata possibilista verso una segmentazione della Rete. Vista l’enorme quantità di reazioni (ad esempio qui, quo e qua), ne sentiremo ancora parlare. 

Roberto Mantero






      

25 novembre 2015

25 novembre: tra retorica e stereotipi parliamo di violenza di genere


end violence against women, 25 Novembre
Fonte: wikigender.org

Il 25 Novembre 1999 l’Assemblea della Nazioni Unite ha istituito con la risoluzione 54/134   la giornata Contro la violenza sulle donne, un’iniziativa nata per invitare i governi, le istituzioni sovranazionali e le ONG ad organizzare eventi per sensibilizzare l’opinione pubblica su una delle violenze più diffuse, che supera i confini degli stati, delle regioni del mondo così come delle classi sociali e che va a toccare indiscriminatamente le donne in quanto tali, ricche o povere, occidentali o del sud del mondo, madri, lavoratrici, figlie e fidanzate. 

Amnesty International, Stop violence against women
Fonte: cesie.org

Come ogni anno il 25 Novembre tornano in auge le polemiche di chi non accetta la retorica di trattare un tema così importante un solo giorno all’anno, critiche sicuramente fondate ma che non tengono in considerazione quanto, in effetti, viene organizzato da tante organizzazioni in tutto il mondo in vista di questa ricorrenza. Al di là delle polemiche, infatti, ci sono tantissime organizzazioni che lavorano tutto l’anno sul tema della discriminazione di genere affrontandolo da diversi punti di vista per trovare soluzioni ad un fenomeno quanto mai complesso e per questo di difficile soluzione.
La giornata del 25 Novembre vuole anche ricordare, infatti, quanto il concetto di violenza di genere sia variegato e spesso di difficile definizione da parte delle stesse donne. La giornata di sensibilizzazione è un evento importante perché porta a riflettere, anno dopo anno, sullo stato delle violazioni contro le donne, di quanto si è fatto e di ciò che bisogna ancora fare.
In questa giornata, solo in Italia, sono diversi gli eventi organizzati per parlare e raccontare storie di donne che hanno subito violenza, per ricordare le vite di chi non c’è più ma anche per rimarcare l’idea che la violenza di genere non è solo quella che si tramuta in omicidio. La violenza contro le donne riguarda anche la minaccia verbale, il ricatto, le intimidazioni, le umiliazioni e gli insulti, tutte violazioni che rientrano nell’ambito della violenza psicologica. C’è poi la violenza economica, tipica dei nuclei famigliari, in cui alla donna viene vietato di lavorare, di avere una propria autonomia economica e alla quale vengono estorte firme su conti bancari o atti pubblici, lo stalking infine è un altro tipo di violenza che le donne subiscono in particolar modo nel mondo del lavoro e che riguarda l’aspetto del controllo, del pedinamento e della persecuzione, violenza contro le donne è anche il non raggiungimento delle pari opportunità nel mondo del lavoro in cui le donne spesso non vengono giudicate allo stesso livello degli uomini poiché associate alla cura e al mantenimento dei figli.

A Milano, nel cortine della Facoltà di Scienze Politiche, è stato organizzato un FleshMob che ha visto la partecipazione di tante organizzazioni della società civile impegnate sul tema della discriminazione e della violenza contro le donne. I due centri di ricerca DIReCT e GENDERS di Milano, insieme ad Emergency, Terre des Hommes, Libera, Fermati Otello e We World hanno voluto celebrare questa giornata leggendo dei passi da testi come Io sono Malala di Malala Yousafzai la giovane premio Nobel per la Pace che racconta la sua storia di discriminazione, in quanto donna, ed il divieto di studiare inflitto dagli estremisti islamici nella sua regione in Pakistan. Un passaggio interessante e molto attuale è quello di John Stuart Mill, filosofo ed economista britannico della prima metà del XIX secolo, che collegava quel suo modello di liberismo moderato in economica all’esigenza di sanare la sperequazione dei diritti di proprietà e quindi del dispotismo anche attraverso l’emancipazione femminile. L’impegno di Mill nel promuovere l’estensione dei diritti economici e politici alle donne si è espresso pienamente nell’opera L’asservimento delle donne nel quale il filosofo si chiede quali siano le ragioni alla base della storica sottomissione del genere femminile a quello maschile.
Se dunque, come racconta Mill, è la forza fisica che ha reso in passato la donna succube dell’uomo in tutte le sfere della società, oggi più che mai è necessario liberarsi dallo stereotipo della sudditanza, dell’inferiorità, dai luoghi comuni che portano ancora oggi alla disuguaglianza di genere che, purtroppo, sfocia spesso nella violenza fisica contro le donne.


Il 25 Novembre è, dunque, una giornata importante e non solo un appuntamento retorico perché è più che mai fondamentale dedicare un momento per tornare a pensare a quanta strada ancora c’è da fare per tessere una nuova narrazione sulla questione delle donne e della violenza.
Oggi il Parlamento Europeo dibatte sul tema dell’eliminazione della violenza contro le donne sottolineando l’importanza dell’approvazione della legge sulle violenze domestiche e quelle a sfondo sessuale e sottolinea la necessità di armonizzare la normativa a difesa della donna in tutta l’Unione. I dati europei non sono ancora positivi ed in particolar modo nel dibattito parlamentare si fa riferimento alla Convenzione di Istanbul del 2011, adottata dal Consiglio d’Europa, un Trattato che rappresenta ancora oggi il primo quadro giuridico internazionale vincolante per la protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza e discriminazione ma che, ad oggi, solo 12 paesi membri hanno ratificato. La strada è quindi ancora lunga ed è giusto che ci si continui a parlare di violenza di genere come una questione dirimente nell’ambito dei diritti dell’uomo, una questione sulle donne ma che non deve rimanere una prerogativa del mondo femminile. La violenza contro le donne, in tutte le sue forme, è più che mai una questione universale che interessa il genere umano maschile e femminile e che può essere risolta solo attraverso un’azione unica di uomini e donne, come quella che oggi ha visto  tanti uomini partecipare insieme alle donne agli eventi della giornata contro la violenza di genere indossando il colore rosso, un colore neutro che richiama all’unità dell’azione per debellare la discriminazione di genere in tutte le sue forme.


Vincenzo De Luca ovvero i dilemmi del locale


"Se c'è una persona che può sconfiggere l'ISIS, quella è Vincenzo De Luca".
Questa battuta, trovata sui social nei giorni immediatamente successivi al dramma di Parigi, nella sua assurdità coglie in pieno l'improbabile quanto tragica staffetta occorsa recentemente sulle prime pagine dei quotidiani.
Ricorderete infatti il fulmine a ciel sereno di un paio di settimane fa: il neo-eletto Presidente della Regione Campania indagato per concussione. Secondo le ipotesi della Procura di Roma, infatti, De Luca avrebbe avallato la nomina ad un'importante carica dirigenziale nella sanità locale di Guglielmo Manna, marito della giudice Anna Scognamiglio, colei da cui dipendeva l'applicazione della famosa Legge Severino proprio riguardo a De Luca.
Il governatore campano ha prontamente smentito ogni coinvolgimento - peraltro la nomina in questione non è mai stata concessa. Ma in attesa che la giustizia accerti eventuali reati, abbiamo registrato l'ennesima irruzione della politica campana sulla scena nazionale.
Al centro di questa trama, Vincenzo De Luca, cui da mesi i media dedicano una copertura incessante e tendenzialmente negativa.


vincenzo de luca


Ma chi è davvero Vincenzo De Luca? La macchietta egocentrica proposta dalle imitazioni di Crozza (mai divertenti quanto l'originale), lo sceriffo con metodi e compagnie discutibili o il Sindaco di successo amato dai salernitani?

Lo abbiamo chiesto a Giovanni Diamanti, classe 1989, consulente politico e managing partner di Quorum, la giovane società torinese che ha curato gli ultimi mesi di campagna elettorale di De Luca. Molto più di un osservatore privilegiato, dunque, bensì uno degli artefici dell'elezione dell'attuale governatore.


I media hanno dipinto De Luca in decine di modi diversi, per quello che riguarda noi posso solo dire che è stato un candidato con cui abbiamo avuto un ottimo rapporto professionale. Ma il punto fondamentale è: chi è per i campani Vincenzo De Luca? De Luca è anzitutto un Sindaco, un amministratore locale: un uomo del territorio, che conosce il territorio, che l'ha cambiato. Un Sindaco apprezzatissimo, quasi adorato dai salernitani. Una persona competente, riconosciuta come vicina ai cittadini, ai problemi della gente comune. È un uomo duro, deciso, che non usa mezzi termini e non ama i compromessi. Al contempo è anche ironico e risulta molto efficace sia nel contatto diretto, che nelle interviste televisive. Indubbiamente la narrazione mediatica e alcune inchieste hanno rischiato di intaccare la sua credibilità sui temi della trasparenza e dell'onestà, tuttavia come spesso ripete anche il Governatore, lui è uno che nella sua vita, la camorra l'ha combattuta".

Suona il telefono di casa Quorum: c'è da occuparsi della campagna elettorale di Vincenzo De Luca. Da dove si comincia?

Nonostante la nostra giovane età, qui a Quorum siamo consulenti "vecchia scuola": si parte anzitutto dall'analisi del contesto, dai dati. Abbiamo iniziato a lavorare con Vincenzo De Luca a due mesi dal voto, molto tempo dopo l'inizio della campagna elettorale, fino ad allora seguita da uno staff prevalentemente locale. Abbiamo cominciato così, nel più classico dei modi: con una serie di ricerche per capire quale fosse il punto di partenza, quali fossero i punti di forza e debolezza dei vari attori in campo, le potenzialità, e più in generale il clima d'opinione in Campania. Sono i numeri e i dati oggettivi che devono guidare le campagne elettorali, non è più il tempo dei guru. I numeri sono serviti a concentrare gli sforzi dove era più utile, senza disperdere inutilmente energie. Ad esempio, le proiezioni dei sondaggi in voti assoluti ci hanno mostrato che la via da seguire non era il recupero elettorale nelle zone in cui eravamo più deboli, come la Provincia di Caserta, ma che dovevamo invece concentrarci nel rafforzare il vantaggio a Salerno. Era la via più semplice, e soprattutto era la via più remunerativa in termini di consenso.

Entriamo nella war room del Sindaco: come si vincono le elezioni "A testa alta"?

Quando siamo entrati noi nella war room di De Luca, i muri erano rivestiti da una campagna di affissioni iniziata mesi prima, con un claim molto duro: 'Mai più ultimi'. Un riferimento chiaro ai pessimi risultati dell'amministrazione Caldoro, che cercava di innescare una voglia di rivincita nei campani. Dopo i primi sondaggi effettuati, che evidenziavano un apprezzamento del Governatore uscente di centrodestra piuttosto modesto, abbiamo fatto un lavoro di analisi e approfondimento della percezione dei campani nei confronti di alcuni possibili messaggi attraverso una serie di focus group. Da queste ricerche emergeva la necessità di un messaggio positivo, di orgoglio: era arrivato il momento di una fase due, e 'A testa alta' ha rappresentato la prosecuzione in positivo del lavoro fatto precedentemente con 'Mai più ultimi'.

Sulle elezioni dello scorso giugno sembra aver pesato molto la polemica sui cosiddetti "impresentabili", e la conseguente polemica con la Presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi, che ha strascichi tuttora. Come avete vissuto quella vicenda dall'interno? In che direzione ha influenzato il risultato?

Personalmente penso abbia influenzato più la campagna nazionale che la campagna elettorale in Campania. Era sicuramente una situazione complessa e difficile: il rischio vero, oltre a un danno d'immagine, era quello di inseguire l'agenda imposta dai media, che metteva il tema "impresentabili" al primo posto. Parlare solo di questo tema, alla lunga, ci avrebbe danneggiato. Anche in questo caso, i sondaggi ci hanno dato una mano ad affrontare la situazione in modo ordinato e limitando gli errori, che in questi casi sono facili da commettere. Gran parte dei campani non conosceva la vicenda giudiziaria di De Luca né la Legge Severino, e tra chi la conosceva prevaleva la considerazione che De Luca, se eletto, avrebbe comunque avuto il diritto e dovere di governare. La strada era quindi tracciata: bisognava uscire mediaticamente dall'angolo, e bisognava farlo con un messaggio composto. Inoltre, per evitare di subire il frame degli 'impresentabili', abbiamo pensato ad una campagna per i social che ribaltasse il messaggio e preparasse il contrattacco: il vero impresentabile è il politico che governa male la Campania, che non è in grado di garantire il trasporto pubblico, che non contrasta la disoccupazione giovanile....

Per concludere, proponiamo a Giovanni Diamanti, che nonostante la giovane età ha all'attivo numerose collaborazioni con politici di primo piano, una suggestione più generale.
Nel paese dei mille commissari, dei Prefetti alla guida della Capitale, dell'esaltazione della società civile e degli appelli bipartisan alla gente comune, Vincenzo De Luca è il professionista della politica per antonomasia, l'amministratore ventennale, per altro di successo, stando ai plebisciti puntualmente riscossi a Salerno. Servono ancora i professionisti della politica?

Mi pare sia evidente che i professionisti della politica, oggi, non godano generalmente di un vasto consenso. Con De Luca, effettivamente, non è stato così. Guardiamo un po' quelli che sono stati i grandi vincitori dell'ultima tornata elettorale: Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Luca Zaia. Apparentemente, tre personaggi molto diversi tra loro. Ma i punti in comune non sono da poco: sono tre amministratori locali, molto legati al territorio e alla propria identità territoriale. Non sono soldati di partito, non hanno problemi a esporsi contro i propri leader nazionali, e hanno imbastito una serie di liste civiche al proprio sostegno per raccogliere un consenso trasversale. Soprattutto, dal punto di vista comunicativo, sono tre esponenti che fanno uso di toni forti, di un tipo di comunicazione disintermediata, qualcuno la definirebbe 'populista'. La realtà è che, probabilmente, oggi in Italia i cittadini vogliono politici empatici, indipendenti, vicini al territorio e ai problemi di tutti i giorni dei cittadini. E che, possibilmente, facciano pochi errori in campagna elettorale.

da destra Stefano Origlia, Giovanni Diamanti, Gabriele Dandolo, Lorenzo Ravazzini e Lorenzo Pregliasco di Quorum, insieme a Fabio Tamburro, dello staff di De Luca
La vicenda De Luca, da impresentabile "per gli italiani" a vincente e pienamente legittimato per i campani, sembra rafforzare, dunque, l'impressione di uno scollamento sempre più ampio tra la politica nazionale e quella dei territori, per la quale spesso valgono logiche e valutazioni autonome. Nulla di particolarmente originale, verrebbe da dire, se non fosse che ormai la funzione di collegamento ed intermediazione tra centro e periferia è svolta dai partiti in modo sempre più debole e occasionale. Con le importanti amministrative 2016 alle porte, è facile pronosticare che questa contraddizione possa continuare, offrendoci argomenti ancora a lungo, tra un Bassolino che imbarazza, un Sala che si espone, un Marchini che si pettina; tra investiture a cinque stelle sempre meno partecipate, primarie sì primarie no, una destra senza candidati e i dubbi di morettiana memoria della sinistra-sinistra.   

Andrea Zoboli

Il peso di essere donna: la violenza contro le migranti

In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è necessario parlare ancora delle donne rifugiate. È necessario parlarne perché, nell’ansiosa ricerca del dramma che caratterizza le notizie sui migranti, spesso le foto di donne e ragazzine sono sbattute in prima pagina solo per suscitare sconcerto e commozione. Quello che manca, invece, è una riflessione più profonda sulla realtà delle donne che fuggono dai loro paesi. Una riflessione che deve avere il coraggio di affrontare il tema del genere, e il tema della violenza.

violence refugees women


Secondo le statistiche dell’UNHCR, le donne costituiscono almeno la metà della popolazione mondiale dei rifugiati. Tuttavia, dei migranti arrivati in Europa nel 2015, le donne sono state solo il 12%. E allora, dove sono tutte le altre donne? Dopo aver abbandonato il loro paese, molte di loro si fermano nei grandi campi profughi oltre il confine. Non hanno soldi né energie per proseguire la fuga, hanno bambini piccoli e temono i pericoli del viaggio, e così vivono stipate nelle tendopoli in Giordania, Libano o Etiopia. I campi sono posti pericolosi e imprevedibili, dove le donne sono preda di malattie, fame e violenze. Altre donne fuggono dai propri villaggi, ma rimangono intrappolate all’interno del paese, come accade per esempio in Somalia, irraggiungibili perfino per le organizzazioni umanitarie più organizzate e potenti.

Questo è il principale motivo per cui arrivano meno donne che uomini in Europa: non perché le donne abbiano meno bisogno di fuggire, ma perché per loro è più difficile allontanarsi dalle zone dei conflitti e trovare rifugio in paesi più sicuri. In Africa Occidentale, la popolazione femminile ha in media tassi di istruzione molto più bassi di quella maschile. Le donne sono più soggette alle malattie, soprattutto l’HIV. Hanno una situazione economica incerta, e spesso non possono contare sui propri risparmi o sul supporto della famiglia per pagare i passeurs. Per tutti questi motivi, per molte di loro l’idea di intraprendere il viaggio dall’Africa Centrale fino alla Libia, è semplicemente impensabile. Se hanno ancora i loro compagni, spesso sono loro a precederle, lasciandole in situazioni precarie con la speranza di trovare un modo sicuro di farsi raggiungere, una volta arrivati in Europa. Purtroppo questo modo non c’è: almeno fino a che non sia stato concesso lo status di rifugiato, il ricongiungimento familiare non è possibile. E allora, le donne rimaste indietro si trovano a dover scegliere se restare e vivere nel pericolo, o se intraprendere lo stesso terribile viaggio fatto dai loro compagni, ma questa volta da sole.

Quelle che decidono di partire, si imbarcano nello sfiancante attraversamento del Sahara, che è un’esperienza terribile per un uomo, e per le donne sole diventa un incubo. I trafficanti si approfittano della loro vulnerabilità e della loro disperazione, spremendo loro ogni risparmio e minacciandole di abbandonarle nel deserto se si rifiutano di soddisfare le loro richieste sessuali. Nelle lunghe carovane che attraversano il Niger, le donne sole vengono abusate, violentate e usate come passatempo dai trafficanti e dai compagni di viaggio. A volte, invece di arrivare alla meta, vengono abbandonate nei bordelli delle città lungo la strada. Ma anche se riescono a raggiungere la Libia, il loro calvario non è finito. A Tripoli le aspettano giorni di attesa, che a volte si trasformano in settimane e in mesi. Durante quel tempo, mentre uomini e donne vengono derubati e picchiati dalle bande armate che impazzano in città, le donne subiscono stupri di gruppo e sevizie di ogni tipo.

È difficile fare una riflessione sulla violenza contro le donne in situazioni di conflitto e durante la fuga. A volte, il voler fare dei distinguo viene interpretato come un vergognoso modo di insinuare che le donne soffrano più degli uomini. Questo non è vero, semplicemente perché è impossibile e insensato tentare di stendere una classifica del dolore. Il dolore, che è personale ed intimo, non si presta a percentuali e medie. E sottolineare le sofferenze di un popolo, un gruppo, un individuo, non significa negare o minimizzare le sofferenze di tutti gli altri popoli, gruppi e individui.

Per questo, parlare di una violenza sulle donne rifugiate è importante. Perché le donne fuggono, così come gli uomini, per mille diversi motivi. Perché la guerra è arrivata alla porta della loro casa, e invece di bussare l’ha sfondata. Perché il loro paese è in mano a gang criminali che lo mettono a ferro e fuoco. Perché sono governate da dittatori che impongono loro cosa pensare, cosa credere, cosa fare. Oppure perché, in quanto donne, sono vittime di abusi specifici, come matrimoni forzati, schiavismo sessuale o mutilazioni genitali.  Ma anche se il motivo principale delle violenze che hanno subito non è la loro appartenenza al genere femminile, la loro condizione di donne sole le rende ancora più vulnerabili davanti alla violenza. Se anche il genere non c’entra con la causa della loro fuga, molti degli abusi che subiscono, finiscono per essere violenza di genere. Lo stupro viene usato come arma di guerra, per punire le attiviste politiche, per umiliare le persone di altri gruppi etnici, per provare il proprio potere sulla pelle di un migrante inerme. La violenza di genere si nutre della povertà e del caos, prospera dove mancano la speranza e la consapevolezza dei propri diritti, viaggia insieme con la guerra. E quando una donna arriva in Italia attraverso il mare e attraverso il deserto, la probabilità che sia stata abusata in quanto donna sfiora la certezza.
Per questo ha un senso parlare di violenza contro le donne rifugiate. Senza nulla voler togliere alla violenza contro tutti i rifugiati. Ma anche senza voler negare che il genere gioca una parte importante e terribile, nel destino di chi è costretto a fuggire dal proprio paese.


Angela Tognolini



24 novembre 2015

The West after Paris - an interview with Dr. James Strong



The world is what it is, which is to say, nothing much. This is what everyone learned yesterday, thanks to the formidable concert of opinion coming from radios, newspapers, and information agencies”. Thus, on the 8th of August 1945, Albert Camus started his editorial commenting the bombing of Hiroshima, in the French Resistance newspaper, Combat. A similar “formidable concert” took place after the attacks of the 13th of November in Paris. Media have not spared us any sort of commentary. We have been submerged by a deluge of information in which it is easy to drawn. So much has been said and written, that the quality of the arguments has succumbed to the sheer quantity of news and opinions.

There is very little indeed to add to this mass of information about what happened in Paris. However, with the hope of contributing to an informed debate, we asked James Strong, fellow in International Relations and Foreign Policy analysis at the London School of Economics, about the role of the media and the public opinion in the wake of the attacks. He has previously been interviewed by the New York Times and Al Jazeera

The attacks in Paris have shocked the western world just few months after blood was shed in the French capital (in January 2015). We have witnessed deeply emotional international reactions, from social media to declarations of the most important women and men on the planet. President Holland has defined the attack as an “act of war”. You have written that “media logic (...) colonises foreign policy decision-making”. Could you explain what this means and how this applies in the context of post-Paris attack?
In this context there is a risk that the media’s desire for quick reactions, simple soundbites and clear policy lines makes dealing with a hugely complex situation in Syria significantly harder. The media wants to know NOW what governments plan to do. They have no time to reflect or to plan, they just have to react. Similarly, the emotive and highly shocking nature of the Paris attacks generates massive media coverage that forces governments to focus on Paris specifically, excluding for example similar developments in Lebanon or Nigeria. Finally, it makes coming up with a nuanced, balanced policy response difficult. President Hollande has declared a state of emergency and despatched an aircraft carrier to join the fight in Syria. Far more people are talking about keeping refugees out of Western Europe (and the US) than about protecting Syrian civilians so they don’t feel the need to become refugees in the first place. To some extent that reflects the public’s immediate reaction. But the media amplifies and exacerbates it.

Do you think that the kind of language used by international political leaders is a hint that a major shift in the EU and US foreign policy is going to take place in the Middle East?
I think a policy shift of sorts was already underway, with the realisation growing that the US and Russia are going to have to cooperate to address the common threat of ISIL. That’s happening from Moscow as much as from Washington after the Metrojet bombing a few weeks ago. At the same time, it’s far from clear that there is a real appetite for a large-scale involvement in Syria from Western publics, even on the limited scale that Russia has launched on behalf of the Assad regime. Certainly we’ll see the West drop its objections to Assad staying in power at least in the short to medium term.

And what about Britain?
In the UK the parliamentary arithmetic still militates against a military response to ISIL. Labour leader Jeremy Corbyn opposes the use of force on principle. But if the government can put forward a comprehensive strategy addressing issues of multilateral cooperation, international law, humanitarian protection and diplomacy it might well get parliamentary support for further military strikes.

Some commentators argue that the strategy of the Islamic State is to incite Europeans civilians to more hatred towards “Muslims”, indiscriminately. These commentators invite to be more cautions and to avoid the use of phrases like “clash of civilisations”. Others, instead, see this attack as an opportunity to seize in order to take concrete steps to eliminate the threat and bring security to European citizens. What do you think is the role that public opinion will now play in shaping European foreign policy towards the Islamic State?
Public opinion is a difficult concept to work with. For example, when you talk about French public opinion, you need to include in that the opinion of French Muslims, most of whom want a balanced approach that protects them from ISIL without harming civilians. ISIL may well be trying to provoke a clash of civilisations. But to some extent the tradition of pluralism in Western democracies should protect them. If we see too much of an anti-immigrant backlash it’ll be harmful. There are however good reasons to be hopeful that cooler heads will prevail.

Muslims make up for 4.5% of the population of England, as opposed to 7.5% in France. Is the British public opinion going to be different than in other European countries?
Dr. James Strong
British opinion probably won’t differ that much from that in other European countries. The British public in general tends to be more willing to use force abroad and to intervene in other states. But it is also prone to insularity, especially on the issues of immigration and European co-ordination. Minority populations will definitely have a role to play in the debate, ideally making two points. First, the people carrying out these sorts of attacks are the people the refugees are running away from. Second, minorities alone can’t defeat ISIL. I particularly enjoyed the tweet from one British Muslim who said “I can’t even get the girl I like to text me back, and you expect me to defeat a terrorist group?!”. Ultimately the Western traditions of pluralism and tolerance that so offend ISIL are what protect minority groups in Western states. Most members of minority groups, Muslim or otherwise, support these values strongly. I’ve argued for some time that you can tell the West is going to beat ISIL from one simple fact. People are fleeing in terror from ISIL in their millions. And they’re trying to come here, because here is better. In the long term, as long as we don’t forget that, the West will win.
Luigi Lonardo