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29 ottobre 2015

SundayUp - Dancing with the GrooGrux King: Dave Matthews Band live a Milano




Dancing
Avete voglia di ballare?
Dave Matthews Band!
Ci sono band che hanno una storia strana. I Dave Matthews Band (e non “la Dave Matthews Band”, poi vi spiego perché), DMB per gli amici, sono una di queste: lui (Dave Matthews, leader, cantante e chitarrista) è nato in Sudafrica, ma, dopo vari trasferimenti (Westchester nello stato di New York, Cambridge in Inghilterra, di nuovo a New York dove, nel 1977, suo padre è morto di cancro ai polmoni, un’esperienza che è l’ispirazione di molti testi carpe diem di Matthews, poi di nuovo in Sudafrica, da dove se ne è andato per evitare la leva, essendo un quacchero, e quindi un pacifista), nel 1986, dopo un breve periodo di lavoro per IBM a New York, si stabilisce a Charlottesville in Virginia, dove comincia la nostra storia.

Lì, Dave inizia a frequentare la scena musicale, e incontra per la prima volta Tim Reynolds (che ritroveremo più avanti), con il quale inizia a suonare dal vivo, e, con musicisti locali, forma la prima versione della band: la prima performance, nel 1991 al Trax Nightclub di Charlottesville, contribuirà alla scelta del nome. Infatti, sebbene sia Dave a scrivere i testi e la musica della maggior parte dei pezzi, la band non è al suo servizio. Il fatto che sia lui a dar loro il nome dipende dalla loro indecisione nel trovarne uno migliore: Boyd Tinsley (all’epoca non ancora nella formazione ufficiale, come vedremo) aveva detto al gestore di scrivere semplicemente “Dave Matthews” sulla scaletta, e il gestore in questione ci ha aggiunto un “band” davanti (e quindi ecco perché “i” e non “la”).

La prima formazione della band comprendeva Dave (voce e chitarra acustica), Carter Beauford (batteria e cori), Stefan Lessard (basso), LeRoi Moore (sassofoni, fiati e cori) e Peter Griesar (tastiere e armonica); poco tempo dopo si è unito anche Boyd Tinsley (violino e cori).
La formazione ha avuto relativamente pochi cambi: Griesar ha lasciato nel 1993, mentre Moore è morto nel 2008, venendo sostituito da Jeff Coffin. Inoltre, nel 1998 si è unito Butch Taylor alle tastiere, rimanendo fino al 2008, quando il vecchio amico (e saltuario collaboratore) Tim Reynolds si è aggiunto, alla chitarra elettrica; nel 2005 Rashwan Ross ha aumentato la sezione fiati, fino ad allora composta dal solo LeRoi Moore, con la sua tromba (e cori).
Attualmente, la formazione è Matthews, Beauford, Lessard, Tinsley, Ross, Reynolds e Coffin (giusto per ricapitolare, casomai vi fosse sfuggito qualcosa).

Dave a Charlottesville
La band pubblica il primo disco (anche se c’era già stato Remember Two Things, autopubblicato e autoprodotto), Under the Table and Dreaming, nel 1993: è un momento particolare, perché il grunge è al suo apice, e vanno di moda i chitarroni distorti e le batterie fracassone, mentre i DMB hanno chitarre acustiche, batteria jazzata (anche se potente e articolata), sassofoni, violino e melodie africane.
L’album è dedicato alla sorella di Dave, Anne, uccisa dal marito in un omicidio-suicidio: molte canzoni scritte da Dave parlano di lei. Dopo la sua morte, Dave e la sorella minore Jane si prenderanno cura dei suoi figli. L’esperienza, inoltre, cambierà (prevedibilmente) la vita di Dave, portandolo ad abbandonare la religione nella quale era cresciuto. Under the Table and Dreaming è un successone, e consente alla band di iniziare una carriera folgorante: il successivo Crash porterà il Grammy per “So Much to Say”, e Before These Crowded Streets li porterà a collaborare, tra gli altri, con Alanis Morrissette.
Il penultimo album in studio della band, Big Whiskey and the Groogrux King, è l’ultimo prima della morte di LeRoi Moore, ed è dedicato a lui: pubblicato nel 2009, ha portato alla band le prime due nomination ai Grammy dal 2003, per miglior disco rock e per disco dell’anno (fatto inusuale, per una band tutto sommato di nicchia come i DMB).
L’ultimo disco in studio dei DMB è del 2012 e si intitola Away from the World.


La band ha reso l’attività dal vivo la propria colonna portante, il che li porta a essere costantemente in tour: il 2015 non ha fatto eccezione, e dopo un tour estivo delle Americhe sono approdati in Europa a ottobre, e hanno suonato per quattro sere in Italia. Il vostro Ipnorospo preferito (io) si è recato alla data di Milano e vi racconterà com’è andata.
La band suonava al Forum di Assago, il pubblico era numeroso ma la serata non era da tutto esaurito (prevedibile, in realtà: le quattro date italiane fanno presumere che la band, non avendo in Europa il diluvio di fan che ha in America, abbia preferito puntare su tante date con partecipazione medio-alta rispetto a una data sola con partecipazione enorme, o forse vogliono solo molto bene ai propri fan europei e hanno deciso di farci molto felici): io ho cominciato facendo quasi incazzare la signorina del merchandising, chiedendole di poter vedere i dischi disponibili per l’acquisto e sequestrandoli per una decina di minuti in preda a un’indecisione fantozziana, per poi tirare essenzialmente a caso, prendendo Live Trax (nome della serie di dischi dal vivo della band, ispirato al locale dove si sono esibiti la prima volta, che però vuole anche dire “Tracce”, Tracks), Vol. 10 [Live a Lisbona], con ospite nientemeno che Tom Morello (dei Rage Against the Machine: spero di non doverlo spiegare a troppi di voi, come spero che pochi di voi abbiano pensato “ah, quello che suona con Springsteen” prima di pensare ai Rage Against the Machine). Poi, altri 5 minuti per decidere la taglia della maglietta (una L, alla fine, dato che le taglie erano europee e non americane), con la signorina che ormai aveva il mio omicidio già pianificato, e ho potuto sedermi sui comodissimi sedili del forum, costruiti da qualcuno che evidentemente non conosce persone più alte di un metro e dieci. Risultato, con le ginocchia in gola (“eh, se non hai busto e culo non è colpa mia”) per quelle sane tre ore e mezza, dato che una volta seduto era impossibile rialzarsi senza far alzare tutti gli altri nella fila di sedie.
Come ho detto all’inizio dell’articolo, ai concerti dei DMB si balla, e il posto a sedere non sarebbe stato il massimo, ma il parterre in piedi costava una fortuna, quindi mi sono adattato.


Carter a Milano
I ragazzi sono saliti sul palco alle 20:15 e hanno asfaltato tutto e tutti fino alle 23:15, con una breve pausa prima dei bis. Diversamente dalle date del tour estivo americano, si sono concentrati molto sui pezzi “famosi”, pur non risparmiando in pezzi nuovi o più oscuri e noti solo ai fan duri e puri.
Hanno suonato tre dei brani inediti che dovrebbero far parte del nuovo disco (che uscirà non si sa quando), la dolce “Death on the High Seas” (con Dave al pianoforte), “Black and Blue Bird” e la splendida e spettrale “Kill the Preacher”, eseguita per la prima volta integralmente (le volte precedenti ne avevano suonato solo una strofa e il ritornello) come introduzione alla trascinante “Why I Am” (da Big Whiskey and the GrooGrux King), uno dei punti più alti del concerto, anche se di bassi non ce ne sono stati, a dirla tutta.
Se siete dei neofiti potrei dirvi qualunque cosa e mi guardereste strano, dato che i DMB non hanno avuto neanche una hit “enorme” in Europa, un pezzo universalmente conosciuto, per cui mi limiterò a dirvi quali, secondo me, sono stati i momenti migliori dello show. Un bel momento è stata l’esecuzione, per me abbastanza inaspettata, di uno dei miei pezzi preferiti, “Funny the Way It Is” (sempre da Big Whiskey), che parla dell’ironia della vita e di come diamo molto spesso troppe cose per scontate. L’esecuzione di “Jimi Thing” (da Under the Table and Dreaming), caposaldo dei concerti dei DMB, è stata semplicemente devastante, con Boyd che macellava i nostri cervelli con un assolo al fulmicotone e la chiusura con Dave che, mentre suonavano, ha presentato la piovra dietro ai tamburi come “this sexy motherfucker… Carter Beauford!” per poi lanciare tutti in un’interpretazione di “Sexy MF” di Prince.
Il set principale si è chiuso con il classicone danzereccio “Ants Marching” (sempre da Under the Table), e anche qui tutta la band è stata devastante, soprattutto Carter e Boyd, che hanno picchiato come fabbri (letteralmente, nel caso del batterista) per lasciare spazio ai due bis: “The Space Between” (da Everyday del 2001) e, quando meno me l’aspettavo, la conclusiva “Grey Street” (da Busted Stuff del 2002: ce n’è una versione bellissima e potente su Live at Piedmont Park, del 2007), forse il loro brano a cui sono più legato, che racconta la storia, in realtà piuttosto tragica, di Anne Sexton, poetessa americana, a cui si ispira anche “Mercy Street” di Peter Gabriel (non casualmente un’influenza per i DMB, che ogni tanto dal vivo eseguono la sua “Sledgehammer”).
E quindi sono impazzito, ho probabilmente turbato l’udito dei miei vicini di posto quasi scoppiando in lacrime all’attacco e cantando praticamente tutto il pezzo.


La scaletta la trovate qui.
Le immagini sono tutte prese da http://davematthewsband.com/




The Bottonomics - Arriva il TFTA: l’asse “Cape-to-Cairo” si ripropone



La direzione verso cui l’economia globale si sta muovendo, dopo la sbornia di multilateralismo degli anni Novanta coincidente con la nascita della World Trade Organization, è quella dell’integrazione commerciale su base regionale. Gli esempi non mancano: si parte dall’ormai consolidato mercato unico europeo e dal NAFTA (North American Free Trade Area), passando per il Mercosur in America Latina fino ad arrivare all’Unione Economica Eurasiatica nello spazio ex sovietico. In mezzo, un’incredibile proliferazione di trattati commerciali bilaterali minori che ha reso lo studio della geografia economica il sogno di ogni appassionato di diagrammi di Venn. Anche il TPP (Trans Pacific Partnership), di cui si è tanto letto nei giorni scorsi, e il TTIP (Translatantic Trade and Investment Partnership), di cui tanto si parlerà in futuro, rientrano in questa casistica, anche se il legame geografico in questo caso è stato soppiantato da più forti motivazioni politiche.

Lo scorso 10 giugno si è aggiunto a questo elenco un nuovo accordo, la Tripartite Free Trade Area (TFTA), che si propone di riunire in un unico spazio commerciale ben 26 paesi africani, ricreando quell’asse verticale lungo la spina dorsale del continente, dal Sudafrica all’Egitto, che era stato il sogno nemmeno troppo nascosto della Gran Bretagna durante la corsa coloniale. Le negoziazioni hanno richiesto quasi dieci anni, essendo il primo incontro datato al 2006, e l’effettiva entrata in vigore del trattato è subordinata (come del resto accade anche per la TPP) alla ratifica dell’accordo da parte di almeno 14 degli stati membri. L’aggettivo Tripartite deriva dal fatto che i soggetti promotori dell’iniziativa non sono i singoli paesi ma le tre organizzazioni regionali in cui sono distribuiti, ossia la SADC (Southern African Development Community), l’EAC (East African Community) e la COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa): attraverso l’estensione reciproca delle preferenze commerciali (per ora solo sulle merci fisiche), l’obiettivo è quello di creare una colonna della tanto agognata area di libero scambio continentale, di cui si parla dal 1993. Tuttavia al momento della firma l’accordo è passato quasi inosservato ai commentatori internazionali, e di questo non bisogna stupirsi: guardando la TFTA attraverso i grezzi dati macroeconomici, si nota come il volume commerciale tra i paesi coinvolti equivalga a malapena all’1 % del totale delle esportazione mondiali e all’1,5 % delle importazioni (il TPP, tanto per fare un paragone, coinvolge circa il 40 % dell’economia globale). L’accordo diventa però rilevante in quanto coinvolge potenzialmente più di 600 milioni di persone (più dell’Unione Europea e del NAFTA, ad esempio), e lo spazio commerciale che è venuto a crearsi supera i 17 milioni di chilometri quadrati. Le merci quindi potrebbero girare su un territorio grande circa quattro volte l’Unione Europea, con la possibilità di creare un network commerciale di primissimo piano. Se praticamente ogni organizzazione internazionale vede nel commercio la chiave per far crescere l’ormai mitologico ceto medio africano, allora la TFTA rappresenta un primo passo nella direzione giusta. 

Al netto di queste considerazioni, vi sono però molte nubi sull’esito positivo di questo accordo, generate dalle caratteristiche strutturali delle economie africane, dalle dinamiche commerciali del continente e dai complessi assetti politici degli stati coinvolti. Tradizionalmente il commercio tra paesi africani ha un volume molto basso, intorno al 10 % degli scambi totali che interessano il continente. Gli ostacoli maggiori affinché cresca sono due: le enormi difficoltà di trasporto dovute alla carenza di infrastrutture e la scarsa diversificazione produttiva. Rimane da vedere come la TFTA si relaziona nei confronti di questi due problemi. Per quanto riguarda le infrastrutture, gli accordi prevedono l’istituzione di un piano di investimenti comuni per creare nuove infrastrutture lungo tutta la lunghezza dell’area (più di 7000 Km in linea d’aria), che dovrebbe aggiungersi ai piani di sviluppo stradale e ferroviario delle singole organizzazioni regionali e dell’Unione Africana. La diversificazione della produzione comporta qualche incertezza in più: non solo la mancanza di questa causa il crollo delle potenzialità commerciali regionali, ma favorisce in misura straordinaria le poche economie più sviluppate e diversificate (nella fattispecie Sudafrica, Zimbabwe, Kenia ed Egitto, che secondo le proiezioni dovrebbero assorbire circa il 90 % di tutti i guadagni diretti totali). Gli ottimisti e gli ortodossi della teoria ricardiana sono convinti che il solo abbassamento delle tariffe doganali, accompagnato dal piano di coordinamento industriale previsto dalla TFTA, spingerà i paesi alla ricerca del vantaggio comparato, aumentando le potenzialità del commercio. I pessimisti invece dubitano che le cose siano così semplici. Per creare una rete commerciale ci devono essere sia le merci che i consumatori: in questo momento, nonostante i segnali macroeconomici incoraggianti, mancano entrambi. Da un lato infatti un’enorme parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (dal 51 % dell’avanzato Sudafrica al 95 % della Repubblica Democratica del Congo). Incentivare al consumo in presenza di livelli di povertà così estremi pare un controsenso, soprattutto se si spera in questo modo di ingrossare le fila del piccolo ceto medio che sta emergendo. Dall’altro lato, risultano poco evidenti gli sforzi per invertire il tradizionale trend commerciale che vede le economie di quasi tutti i paesi africani essere export led, in particolare con la funzione di serbatoi di materie prime per il resto del mondo, con una produzione manifatturiera a basso valore aggiunto. Secondo molti commentatori, nel medio periodo molti stati si troverebbero quindi a dover fronteggiare l’invasione commerciale di merci più competitive senza avere le possibilità di ristrutturare la propria economia. Bisogna anche considerare che togliere i proventi dai dazi doganali creerà un cratere nelle finanze di quasi tutti i paesi.

Senza andare a considerare tutte le infinite, e meritevoli di discussione, problematiche di natura legale, politica e sociale che l’implementazione di un accordo di questo genere porta con sé, rimane il fatto che la TFTA nasce economicamente già sbilanciata verso pochi soggetti e con poco carattere verso i problemi strutturali. I risultati si vedranno solamente nel lungo periodo, ma con queste premesse i policy maker dei paesi coinvolti saranno costretti al superlavoro per rendere funzionale l’accordo. 

Roberto Mantero

Per chi volesse saperne di più: 

28 ottobre 2015

Non suonarla, Donnie



Viste dall'altra sponda dell'Oceano, le elezioni presidenziali americane sono proprio uno spettacolo, non c'è che dire. Gli ingredienti ci sono tutti: massima personalizzazione della battaglia politica, big money, staff elettorali interminabili, spin doctors e frontiere della comunicazione politica spostate ogni quattro anni più in là. E ancora: feroce pubblicità negativa, intrighi e finanziatori oscuri, stelle hollywoodiane a sostegno dell'uno o dell'altro candidato. Il tutto con la Casa Bianca a fungere da scenografia e, come in ogni varietà che si rispetti, musica, tanta musica. 

Una raffigurazione esageratamente caricaturale? 
Probabilmente sì, ma questa foto lascia aperto qualche dubbio.

Steven Tyler e Donald Trump
C'è Steven Tyler, 67 anni, un trascorso da eccentrico frontman degli Aerosmith - quelli di "Walk this way", "Sweet emotion", per intenderci. E c'è Donald Trump, 69 anni, altrettanto eccentrico miliardario nonché variabile impazzita e per ora vincente (da destra) alle primarie repubblicane.
Ebbene, recentemente il primo ha diffidato per vie legali il secondo dall'utilizzare l'innocuo (banale?) brano "Dream on" nei propri eventi elettorali. 
Nonostante Tyler sia da tempo registrato al Great Old Party e abbia partecipato in prima persona al più recente dibattito tra i candidati repubblicani, attraverso i propri avvocati egli ha tenuto ad allontanare ogni sospetto di endorsement nei confronti del miliardario, ricordando peraltro che quest'ultimo non detiene i diritti di riproduzione del classico della band di Boston. 
D'altronde, caro Donnie, c'era da attendersi un simile colpo basso da una misera rockstar milionaria che nel 1993 cantava "Eat the Rich: there's only one thing they're good for / Eat the Rich: take one bite now - come back for more ".

Sfortunatamente per Trump, Steven Tyler non era la prima rockstar settuagenaria a sabotare la sua playlist. 
Nel giugno scorso, infatti, all'indomani dell'annuncio della discesa in campo del miliardario, Elliot Roberts, manager della leggenda del folk-rock americano Neil Young, si è affrettato a dichiarare che l'assistito, peraltro cittadino canadese, sostiene Bernie Sanders - cioè quanto di più antitetico a Trump proponga la scena politica americana ad oggi.
L'oggetto del contendere? L'inno "Rockin' in the free world"
Paradossalmente, tuttavia, l'immediata presa di distanze del cantautore potrebbe aver risparmiato al candidato gli imbarazzi di una scelta improvvida. Non serve infatti molta attenzione per notare che, al di là del riff divenuto ormai un classico e dell'incipit "There's colors on the street / Red white and blue", l'America cantata da Neil Young è tutt'altro che "great again", citando lo slogan di Trump. 
Questa, ad esempio, la seconda strofa: "I see a woman in the night / with a baby in her hand / under an old street light / near a garbage can / now she puts the kid away / and she's gone to get a hit / she hates her life / and what she's done to it / there's one more kid / that will never go to school / never get to fall in love /never get to be cool"
Qui, detto tra parentesi, siamo ai livelli del Bersani 2009: ricordate i manifesti "Un senso a questa storia"? La canzone "Un senso" di Vasco Rossi, appositamente scelta dal leader del PD, proseguiva "... anche se questa storia, un senso non ce l'ha".
Un altra disdetta, caro Donnie, il cappellaccio da cowboy di Neil Young non basta a farne un repubblicano fervente.

Quantomeno, caro Donnie, né Steven Tyler né Neil Young sembrano essersela presa male tanto quanto Micheal Stipe, frontman dei REM, il quale, lo scorso 10 settembre, aveva reagito via twitter all'utilizzo di "It's the end of the world (as we know it)" in un raduno del Tea Party. 
"Go fuck yourselves, the lot of you - you sad, attention grabbing, power-hungry little men. Do not use our music or my voice for your moronic charade of campaigning". Un signore.
Più laconico il bassista dei REM Mills, che di Trump disse: "Personally I think the Orange Clown will do anything for attention. I hate giving it to him". 

Ma consolati, caro Donnie: non sei il primo repubblicano a faticare nella ricerca di endorsement musicali di rilievo.
Nel 2012, ad esempio, Mitt Romney fu doppiamente beffato: il rapper K'naan gli impedì l'utilizzo del brano "Wavin' flag", inno dei mondiali di calcio in Sudafrica dello stesso anno: poco tempo dopo la medesima canzone venne inclusa nella playlist della campagna di Obama (un raffinato esempio di targeting dell'elettorato su base musicale).
Fattene una ragione, caro Donnie: il panorama musicale americano è da sempre un terreno minato per i repubblicani, sia che si ambisca alle leggende viventi, sia che si miri all'endorsement dei contemporanei. E, d'altronde, dove andare a cercare? Tra i miti del soul e della black music? Tra i reduci del folk-rock degli anni Sessanta e Settanta? O forse a Seattle, nella tana del grunge? Cosa fare, allora, se il mondo hip-hop pare inaccessibile e persino l'establishment del pop più commerciale sembra più incline a prestarsi al fianco dei candidati democratici?
Non a tutti può andar bene come a Ronald Reagan, che a sorpresa fu definito da James Brown "the most intelligent, most well-coordinated president we've ever had".

Rassegnati, caro Donnie: ti resta solo il country, i soliti riff di chitarra, le solite praterie dell'America centrale, le solite Harley Davidson sulle solite lunghe highway. Insomma, ti resta soltanto Kid Rock.
Kid Rock
Peccato che Romney lo abbia già ampiamente saccheggiato quattro anni fa.
Ma ora, caro lettore, è bene tornare seri per un'ultima avvertenza.
Benché la commistione tra musica e politica sia spesso relegata alle note di colore dei giornali, essa è sempre più frequentemente frutto di precise strategie marketing elettorale, specie in America, nonché specchio del contesto politico, mediatico e sociale del paese in cui si cala. 
La campagna elettorale del 2012 di Obama insegna - e se ne parlerà magari un'altra volta.
Insegna, si è detto. Caro Donnie, se ce la fai, impara. 

Andrea Zoboli

27 ottobre 2015

Non chiamatelo storytelling, è semplice conservazione del potere

Anche il cronico Medioevo culturale nel quale non ci stanchiamo mai di sguazzare è stato investito dalla comunicazione 2.0, una categoria che non significa sostanzialmente nulla ma nella quale facciamo rientrare per comodità tutto quello che comprende comunicazione politica, social network, spin doctor, mass media nuovi e vecchi. Molti ad esempio si saranno accorti che la parola del momento è “storytelling”, un termine inglese che tradotto significa letteralmente “narrazione di storie”, cioè tutto e (soprattutto) niente.

Da quando viveva nelle caverne l'uomo che grazie alla forza, all'anzianità, alla ricchezza o quant'altro deteneva una qualsiasi forma di autorità sull'altro non si è mai limitato ad esercitarla, ma ha cercato di giustificarla, di far credere agli altri che questa autorità fosse giusta, naturale. Ovviamente in certi casi lo è, in altri no, ma in entrambi questa autorità non deriva solo da una superiorità reale, ma dall'abilità nel dimostrare agli interlocutori che questa superiorità, vera o fittizia, esiste e ha presupposti condivisibili. Questo essenzialmente è lo storytelling, con un raggio di azione che oscilla tra la leadership più empatica e la supercazzola. Il grosso equivoco del 2015 è la convinzione diffusa e condivisa da un po' tutto l'apparato mediatico italico che lo storytelling e tutto quello che concerne la comunicazione politica moderna che va oltre l'essere proprietario di tre canali televisivi e diversi gruppi editoriali (ciao Silvio, mi manchi davvero) sia stato inventato da Matteo Renzi e Nomfup.

"Instagrammami di profilo mentre guardo l'orizzonte che viene una bomba"
Fonte: Panorama.it
Stando a quotidiani e telegiornali, la rivoluzione tecnologica e modernista renziana consiste nel comunicare tramite i suoi account Twitter e Facebook, adottare il più spesso possibile un registro informale e usare le slides per presentare le novità di governo. Sempre in riferimento al Medioevo culturale di cui sopra, è palese che nel 2015 questi elementi non possono considerarsi particolarmente rivoluzionari e innovativi. In tutto il mondo più o meno tutte le personalità politiche e non hanno un account ufficiale sui social e se ne servono per comunicare, persino Benedetto XVI, uno dei papi più conservatori della storia recente, aveva un account Twitter. Reagan strappava consensi già negli anni 80' parlando come l'uomo comune (anche perché non avrebbe saputo fare altrimenti) e nemmeno le slides sono un'idea così nuova. Bisogna sfatare un mito: Renzi ha nella comunicazione uno dei suoi principali punti di forza, è circondato da collaboratori capaci e usa tecniche tutto sommato moderne ma non ha inventato nulla, non ha rivoluzionato il mondo della comunicazione e non usa niente che non si sia già visto in Europa o negli USA negli ultimi 15/20 anni.

Inoltre, la fascia d'età degli under 30, quella più digitalizzata e sensibile alle dinamiche moderne per ovvie questioni anagrafiche è anche quella meno attratta da Renzi e quella che lo ha votato di meno nelle seppur trionfali elezioni europee del 2014. Com'è quindi possibile che il premier più giovane della storia, il rottamatore di tutta la vecchia politica, il comunicatore moderno e modernista riscuota più successo tra gli over 50 piuttosto che tra gli under 30? 

Sicuramente ci sono ragioni strettamente politiche che esulano dalla comunicazione, la quale può anche averlo sovrastato, ma non ha (ancora) annullato l'importanza del contenuto. Interpretare questa dinamica solo da un punto di vista comunicativo sarebbe riduttivo, il senso di appartenenza degli elettori più anziani e ideologizzati al partito erede del PCI (fa ridere un sacco, lo so, ma è così) o un Jobs Act che non sembra in grado di sconfiggere la piaga della disoccupazione giovanile sono fattori determinanti, ma non bastano a spiegare la diffidenza dei giovani nei confronti del premier giovane. Sorprendentemente, sui social  Matteo Renzi perde il confronto con gli altri leader: su Facebook ha circa 830000 likes, 300000 meno di Salvini e addirittura un milione in meno di Beppe Grillo; su Twitter va meglio, ha circa due milioni di follower ma solo poche decine di migliaia in più del leader del M5S.

La risposta è quell'inglesismo vago che va tanto di moda in questi giorni, storytelling. La vittoria della comunicazione renziana consiste nell'essere riusciti a “raccontare la storia”del leader moderno che si è imposto sulla vecchia politica battendola in campi per loro impraticabili quando in realtà l'ex sindaco di Firenze ha conquistato il potere e soprattutto lo mantiene grazie a giornali e televisione, che saranno anche vecchi e superati, ma estremamente efficaci.

La sensazione di eccezionalità attorno a Renzi che twitta o Renzi che spiega la nuova finanziaria su Facebook è trasmessa dai telegiornali e scritta sui quotidiani, non è autoelaborata. Ho 25 anni, non ci vedo nulla di eccezionale nel fatto che un premier comunichi tramite la sua pagina Twitter, lo fanno praticamente tutti. Questo smodato e disinibito uso della tecnologia (sarcasmo) nel 2015  fa colpo più che altro su chi non la conosce o comunque non la usa: le fasce d'età più mature, che tuttavia siccome non la usano apprendono le doti del leader moderno e modernista da televisioni e giornali sempre pronti a creare culti della personalità nel tentativo di rendersi un po' più interessanti.

Ricordiamoci sempre che siamo un paese mediamente vecchio, scarsamente digitalizzato e culturalmente arretrato rispetto ai partner europei. Il consenso non lo mantieni a colpi di #lavoltabuona e tweet che sembrano fatti col generatore automatico dove fai vedere quanto ce l'hai grosso ricordi tutte le cose che sei riuscito a fare anche se tutti dicevano che non ce l'avresti fatta ma con televisioni e giornali che si sperticano nelle tue lodi, riducono le voci critiche a macchiette (gufi e rosiconi) e gonfiano a dismisura candidati con pochissima credibilità ma grande impatto mediatico (“l'altro Matteo”). Il consenso lo mantieni grazie al tuo portavoce Filippo Sensi, esperto di comunicazione politica, ex vice-direttore di Europa e twitstar con l'account Nomfup, ma non solo grazie a #cosedilavoro, l'idea neanche troppo originale di farti le foto non dalla prospettiva ufficiale ma da quella del fan che è riuscito a intrufolarsi dietro le quinte o perché lancia la foto di te e Orfini che giocate a FIFA per distogliere l'attenzione dalle regionali che non sono andate proprio benissimo ma soprattutto perché ha grande influenza, se non vero e proprio potere, su gran parte della stampa, che pare non esiti a foraggiare con indiscrezioni/notizie che vuol far uscire, magari sotto la formula “Renzi avrebbe confidato ai suoi” che salta fuori su ogni tema e, siccome non credo ci siano spioni nel giglio magico, sa tanto di notizia calata dall'alto. Il consenso lo mantieni parlando di rivoluzionare la Rai, rimodernarla sul modello della BBC o della CNN ma votando il nuovo Cda con la legge Gasparri per lottizzarlo coi tuoi uomini di fiducia e riformarla in modo da aumentare il potere nelle mani delle persone che tu hai messo lì.

Chi è il premier più giovane e fico della storia?
Fonte: Giornalettismo.com
Che i media mainstream siano servili e conservatori (metafora del paese?) è quasi un dato storico, non stupisce neanche troppo il modo in cui questo Presidente venga coccolato, protetto, riempito di attenzioni quando si parla di superficialità e affettuosamente messo al riparo quando sbaglia o viene criticato. Esperti e addetti ai lavori fanno a gara a chi lo applaude più forte, d'altronde tengono famiglia anche loro, d'altronde sarebbe irresponsabile e da catastrofisti andare contro l'uomo che piace a tutti in un momento cruciale come questo. L'opposizione cronica e sterile lasciamola fare ai soliti, innocui, noti.
Per conservare ed esercitare il potere nel 2015 serve anche il moderno storytelling fondato su modernismo, ottimismo, fiducia, progresso, giovinezza, rinnovamenti, luci in fondo al tunnel e volte buone, ma soprattutto servono trucchi antichi ma che nessuno ha mai pensato di rottamare come appunto il controllo dei media, l'eliminazione politica degli avversari, la capacità di consolidare e implementare la maggioranza con nuovi acquisti, l'abilità di mettere uomini di fiducia al posto giusto e le promesse di diminuire le tasse.


26 ottobre 2015

Immigrazione, Sicilia, giornalismo: a tu per tu con Salvo Catalano

Incontriamo Salvo Catalano in una delle sale dell’Hotel Biancaneve di Nicolosi, piccolo paese arroccato alle pendici dell’Etna nel catanese, arriva trafelato, si sa che quando piove nella zona cominciano i problemi. Ospite del corso “Reporting diversity - An ethical perspective on migration”, Salvo Catalano collabora con Il Fatto Quotidiano, La7 ed è vice direttore di MeridioNews, una testata locale siciliana che si è affermata anche lontano dall’isola: tanto da attirare l'attenzione di RaiTre o ARTE. La ragione di questo successo? La decisione di occuparsi di immigrazione come tema principale, una scelta dettata da una semplice ragione geografica, ma anche dal bisogno di fare chiarezza sulla transizione di persone che, ormai da anni, coinvolge la Sicilia e l’Italia intera. 

Alcuni migranti fuori dal CARA di Mineo (CT) | Fonte: palermo.repubblica.it

Salvo si racconta con la spontaneità e la naturalezza dei suoi 28 anni, andando dritto al punto perché la priorità è raccontare, spiegare, svelare l’umanità che troppo spesso si nasconde dietro alla parola “immigrazione”.


Lavorando nell’ambito dell’immigrazione, qual è un modo efficace per creare una relazione con il migrante? E come fare a scrivere una buona storia senza tradire la fiducia e l’identità individuale del migrante?

Credo che non tradire l'identità del migrante significhi non incontrarlo avendo già in testa una storia per lui, dei paletti dentro i quali inserirlo, delle macrocategorie in cui inquadrarlo. Lui ha la sua storia, piena di sfaccettature, di dolori e di esperienze anche positive. Vanno tirate fuori con grande sensibilità. Non tradire la sua fiducia significa rispettare i patti: io scrivo quello che tu mi racconti, anche se non sta bene ai miei valori, alla linea editoriale del mio giornale, ecc. Instaurare una relazione nel poco tempo che si ha a disposizione è difficile: un ascolto sincero è la base, venire prima incontro alle sue esigenze materiale, per quanto possibile, può sicuramente aiutare. Se il migrante da quando è sbarcato non ha ancora sentito telefonicamente i famigliari, allora allungare il tuo cellulare e permettergli di chiamare casa è un gesto che rompe la freddezza. 

Cosa significa fare il giornalista che si occupa di migrazioni in Sicilia in questi anni? Quali sono le principali sfide e i problemi più comuni?

Fare il mestiere di giornalista in Sicilia è un privilegio. Occuparsi di immigrazione qui in questi anni ancora di più. Dalla Sicilia sta passando il mondo e la Sicilia è diventata laboratorio per le politiche italiane ed europee sull'immigrazione. La stampa internazionale ci guarda e viene qui per raccogliere le storie. E spesso siamo noi, cronisti locali, a fare da apripista. E' una bella responsabilità. Che va affrontata con un occhio e un orecchio alle decisioni politiche prese a migliaia di chilometri di distanza da qua, e con l'altro occhio e l'altro orecchio sulle nostre strade. I problemi più comuni da affrontare sono la poca trasparenza delle istituzioni coinvolte e il rischio di far diventare routine le tragedia e le storie dei migranti. 

Proprio per quanto riguarda la poca trasparenza istituzionale e non solo, è molto complesso ottenere l’autorizzazione a visitare i CARA e le altre strutture di accoglienza, ma non solo: le cooperative e le associazioni che li gestiscono spesso mostrano il “lato buono” della struttura a politici e giornalisti. Lei è uno dei pochi che è riuscito ad osservare e testimoniare quello che succede davvero oltre i cancelli, la differenza è così determinante? Perché, a Suo avviso, i gestori si oppongono a tal punto alle “visite”?

I gestori si oppongono a visite davvero libere perché hanno qualcosa da nascondere. Che può andare dalla cattiva organizzazione a veri e propri abusi. Riuscire a parlare con i migranti, vedere i luoghi dell'accoglienza anche nelle parti più nascoste senza avere il fiato sul collo di uffici stampa o gestori è determinate nel fare un racconto quanto più veritiero della realtà. 

La sovrapposizione tra associazioni di stampo mafioso e la gestione dei CARA come influenza la professione del reporter?

Personalmente la gestione del Cara da parte di soggetti su cui sono in corso le indagini non hanno mai influenzato il mio lavoro. Ma solo spinto ad approfondire sempre di più tutto quello che ruota attorno a questo luogo. 

salvo catalano
Salvo Catalano in uno scatto di Elisenda Torrente Ribé

La società civile ha dimostrato di saper rispondere alle sfide sociali dell’immigrazione in maniera più umana rispetto ai politici. Sono molte le associazioni non governative attive su tutto il territorio italiano per supportare migranti e richiedenti asilo. Esiste una rete di collaborazione attiva dei giornalisti italiani con queste realtà?

No, non esiste una rete ufficiale di giornalisti che tiene i rapporti con le associazioni. Sono alcuni singoli cronisti, o in alcuni casi come MeridioNews per cui scrivo, alcuni giornali a tenere rapporti costanti con le associazioni che si occupano dei migranti. Senza le quali il nostro lavoro sarebbe quasi impossibile. Associazioni che in molti casi non sono ben viste dalle istituzioni, a cominciare dai comuni e dai centri di accoglienza perché per loro sono una spina nel fianco. 

Dopo anni di passività l’Unione Europea ha approvato un importante provvedimento, stabilendo un sistema di redistribuzione e ri-allocamento dei rifugiati a livello comunitario. Inoltra ha previsto la creazione di centri d’identificazione e registrazione co-gestiti da autorità nazionali ed europee, i cosiddetti hot-spot. In che modo questo cambiamento influirà sulla tutela dei diritti dei migranti? C’è il rischio che si formalizzi una divisione tra migranti di “serie A” e di “serie B”?

Il nuovo sistema di gestione dell'immigrazione dell'Europa, fatto dell'accoppiata quote di ricollocamento + hotspot, contiene un duplice rischio: limitare ancora di più la libertà dei migranti di scegliere il loro futuro e creare in Italia una nuova emergenza sociale. Il ricollocamento riguarda solo due nazionalità: siriani ed eritrei. In questi anni sono pochissimi i siriani e gli eritrei che sono rimasti in Sicilia. Piuttosto hanno approfittato delle maglie larghe delle strutture di prima accoglienza per scappare senza essere identificati e continuare il loro viaggio verso il Nord Europa. Ora si impone l'identificazione e una parte di questi verrà accolta in altri Paesi europei. La restante parte dovrà chiedere domanda di asilo in Italia, perché paese di primo approdo, visto che non è stata superata la convenzione di Dublino. Ma ad avere la peggio saranno i cosiddetti migranti economici. Negli hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Augusta, Trapani, Porto Empedocle) in 48-72 ore si dovrà decidere chi ha diritto a fare domanda di asilo e chi no. Come si fa a valutare le storie personali dei singoli migranti in così breve tempo? Già nelle ultime settimane, anche se gli hotspot non sono formalmente partiti, si sta applicando questo criterio. Secondo le prime testimonianze, i migranti vengono sottoposto a un'intervista (a volte in un inglese incomprensibile) o devono rispondere a questionari a risposta multipla. La semplice ammissione di essere venuti in Italia “per lavorare” fa scattare l'etichetta di migrante economico, a prescindere dalla storia personale che ognuno si porta dietro. E qui scatta il rischio emergenza sociale: respingimento non significa rimpatrio. Ai migranti a cui non viene permesso di presentare domanda di asilo viene consegnato un foglio di via: entro sette giorni dovrebbero lasciare l'Italia a loro spese. Cosa che non avviene mai. Queste persone entrano nel limbo della clandestinità, tagliati fuori dai tradizionali canali di accoglienza, spesso alla mercé della criminalità. 




25 ottobre 2015

Con i tuoi ad-blockers stai rovinando tutto ciò che ami

In un (fondamentale) pezzo recente di Anna Momigliano su Rivista Studio si cita molto bene, come mi accade di continuo, un fatto che avevo maldestramente nella testa da mesi: una delle potenziali (ma per diversi aspetti già in atto) cause del declino del web inteso come modello di business con tutto ciò che ne consegue, sono i sempre più diffusi ad-blockers, vale a dire quei programmini che ti fanno saltare la pubblicità prima dei video di Youtube.

Non vorrei sporcarmi le mani con paragoni storici ad alto rischio di inaccuratezza, ma probabilmente Internet e il web sono i ritrovati tecnologici nella storia (almeno recente) dell'uomo con il più devastante potenziale d'azione. Voglio dire che dando in mano a un bonobo una vanga, se va male te la sbatte sul naso o, nella migliore delle ipotesi, ti scrive la sceneggiatura della seconda stagione di Les Revenants, ma se gli dai in mano un bazooka potrebbe affondare il Lusitania e dare inizio alla Prima guerra mondiale. 
Una grande domanda alla quale ho una risposta tendenzialmente pessimista è sicuramente: l'umanità degli ultimi 15 anni, ce l'ha il pollice opponibile per capire almeno come maneggiare il bazooka che si compone di Internet e web? Noi qui non la affronteremo, ma un indizio che porta acqua alla causa del “NO” è il fatto che la stragrande maggioranza delle persone che conosco (e in qualche caso anche io, ovviamente) non si preoccupa troppo delle conseguenze che i propri comportamenti abituali su Internet possono avere su larga scala o a lungo termine. (TBH: è qualcosa che gli esseri umani in generale fanno poco, altrimenti non utilizzeremmo così tanto le automobili in città, non daremmo il diritto di voto prima di un opportuno test del QI e non avremmo lasciato che la NBA lanciasse quelle orribili divise a mezza manica).

Ciò detto, tutti e dico tutti noi abbiamo scaricato un film da Internet, abbiamo guardato una serie Tv in streaming, abbiamo scaricato tantissima musica, siamo finiti per sbaglio su siti porno cliccando certi banner un po' ingannevoli. Chiunque possa scagliare la prima pietra in questo frangente è evidentemente un bonobo o il good-guy-CEO di WinRAR.


Ora, la mia personale esperienza con i software di ad-blocking è molto breve: non mi è mai passato per la testa di scaricarne uno. Perché? Fondamentalmente, perché gli add-on sui nostri browser li vedi come dei vampiri succhiasangue pronti a rallentare la navigazione. 
E, in secondo luogo, perché ho pensato che molte cose gratuite di cui usufruiamo (in milioni) sul web, sono tali proprio perché esiste la pubblicità. 
Ricordatevi che finché siamo nel capitalismo, nessuno è mai obbligato a darvi qualcosa gratis e se lo fa, è perché ne trae un guadagno indiretto, non necessariamente in moneta peraltro. Giustamente, coltivando un ribellismo in nuce pieno di #poraccismo, potreste giustamente dire: ma chissenefrega, i Muse non moriranno di fame se non gli arrivano i miei 20€ del cd / la Warner Bros. non andrà in rovina se mi guardo l'ultimo Avengers in streaming / PornHub non finirà a gestire un giro di casalinghe insoddisfatte nella zona industriale della mia città perché blocco i pop-up zozzi sul suo sito!

Si dovrebbe rispondere: probabilmente no, perché stai parlando di giganti commerciali nel loro campo. Ma a ben vedere non siamo poi così lontani: band e management musicali, anche di altissimo rango, se le stanno inventando veramente tutte per supplire al fatto che non si vendono più supporti fisici (regalare l'album in digitale per puntare tutto sulle presenze ai live; fare il tour sulla base dei biglietti pre-venduti; streaming a pagamento come Spotify, Tidal e compagnia bella; potrei continuare). Nel caso dell'industria musicale, va aggiunto il problema del fatto che i cosiddetti produttori, non mettono più una lira in anticipo per i propri artisti da molti anni.
Per quanto riguarda la cinematografia, gli appelli degli attori a non scaricare o streammare i film si sprecano (più controversa la scena musicale, su questo punto), ma - a quanto mi dicono le mie fonti interne - non si sta facendo granché sul piano pratico, anche se in uno dei suoi tipici "essere così indietro da risultare avanti", la RAI sta pensando di mettere il canone dentro la bolletta della luce, in modo da far pagare gli streaming (legali e, chiaramente, non) assimilandoli all'uso della corrente elettrica. 

Infine, la pubblicità online, quella coi banner, coi video pop-up, coi finti link, quella che conosciamo bene da tanti anni, è sicuramente il mezzo più trasversale rispetto al sito che la ospita. Perciò, tocca anche chi non ascolta musica, non guarda film, non guarda porno. Anche questi mitologici personaggi però, probabilmente, frequentano siti di news (Repubblica, Corriere, VICE e compagnia). Perciò devono rendersi conto che la possibilità di usufruire di notizie, approfondimenti, immagini, video gratis e in tempo reale deriva o dal fatto che comprano anche il quotidiano di carta in edicola (non per VICE, che è free press) o dall'evidenza ben nota che questi siti sono infarciti di pubblicità.
Uno dei motivi per cui non ho mai voluto rinunciare consapevolmente alla pubblicità sui siti, è che - incredibilmente - su Youtube, con una frequenza devo dire interessante, ho trovato degli spot interessanti e che ho addirittura visto per intero, perdendo vari minuti della mia vita. Questa, a parte una perversione tutta mia, potrebbe essere la prova che i maledetti cookies funzionano alla grande, quando selezionano la pubblicità giusta per me - anche se Facebook in questo mi capisce molto meno, stranamente. 
E se, come facevano notare inquietantemente su MOTHERBOARD, un bel giorno potrebbe saltare fuori che ti ricatta minacciando di far sapere a tutti che la tua query porno preferita negli ultimi tre anni era "hairy asian tranny", dall'altro lato il problema è che se noi togliamo sistematicamente la possibilità agli inserzionisti di vedere remunerato il proprio investimento per cui pagano Youtube o qualsiasi altro sito del web e loro, dati alla mano, lo vengono a sapere, smetteranno di pagare e se smettono di pagare, coloro che offrono contenuti gratuiti al pubblico cosa potranno offrire, da parte loro, agli inserzionisti per potergli dare visibilità e, contemporaneamente, agli utenti per fargli godere di un contenuto senza troppi sbattimenti di navigazione e soprattutto senza cacciar fuori un soldo?

Le notizie, la musica, i film, la tv-via-internet, sono messi a dura prova da questo tipo di comportamento di una fetta (quanto effettivamente grande?) degli utenti di Internet. Quello che trovi via Internet ha un prezzo. Essere un utente del web ha un prezzo. Perciò, se vuoi continuare a fare tutta questa roba gratuitamente, potresti anche disinstallare quel cavolo di ad-blocker, suvvia.


p.s.: non è stata volutamente affrontata la differenza tra rubare il lavoro di un altro (di molti altri) con download e streaming e, invece, scansare la pubblicità nei siti legali, come Youtube o le news. 

23 ottobre 2015

Alcune ricerche sull'omofobia in Italia e nel Mondo

Alla domanda di un giornalista che gli chiede “Cos’è per lei l’omofobia?” l’avv. Gianfranco Amato, dei Giuristi per la Vita, uno dei gruppi più attivi del movimento “no gender” risponde: “Omofobia significa, ci dice l’etimologia, paura dell’uguale. Io dico sempre: io e mio fratello siamo uguali, se avessi paura di mio fratello sarei omofobo? No [sic]. È un concetto che non esiste, è un concetto ideologico perché tutti noi siamo uguali” 1.
Per corroborare questa tesi secondo cui l’omofobia sarebbe un’invenzione senza nessun riscontro nella realtà, nelle varie conferenze anti-gender, viene spesso citato un sondaggio fatto dall’Istituto statunitense “Pew Research Center” in 39 paesi per quantificare il grado di accettazione dell’omosessualità. Dalla ricerca risulterebbe, secondo la lettura che ne fanno i movimenti “no gender”, che l’Italia è uno dei Paese più tolleranti al mondo rispetto all’omosessualità. Secondo la rivista cattolica Tempi, anch’essa in prima linea sul fronte “no gender”:

«Lo scorso 4 giugno [2013] il Pew Research Center ha pubblicato un rapporto che indica l’Italia l’ottavo paese più tollerante al mondo nei confronti dell’omosessualità, a pari merito con l’Argentina. Non solo, secondo la ricerca del think tank americano, l’Italia si piazza al quarto posto mondiale – dietro Corea del Sud, Stati Uniti e Canada – tra i paesi che hanno fatto i più grandi passi avanti nell’accettazione dell’omosessualità negli ultimi sei anni » 2.

Se questo dato fosse vero, ribadiscono i “no gender”, allora sarebbe di fatto invalidata un’altra inchiesta condotta dall’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea nel 2012 su un campione di circa 93000 persone LGBT, interrogate sulla loro percezione della discriminazione, sul modo di vivere la propria omosessualità in famiglia, sul coming out, sul lavoro ecc., secondo cui l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea in cui l’omofobia è risentita in maniera più forte.





Per capire meglio la discordanza tra questi due risultati e sull’uso che ne viene fatto occorre andare a vedere più da vicino i dettagli delle ricerche. In realtà, un’analisi più attenta permette di apportare delle precisazioni che capovolgono la presentazione fatta dai “no gender”.
Sottolineiamo innanzitutto che la differenza sostanziale tra la ricerca del Pew Research Center e la ricerca dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea sta nel fatto che nel primo caso si tratta di un sondaggio a domanda unica, mentre nel secondo caso si tratta di un’inchiesta realizzata tramite questionario autosomministrato online che prevedeva una batteria di domande divise in dieci sezioni, a cui i partecipanti hanno consacrato in media 28 minuti 3.


Nel sondaggio “The Global Divide on Homosexuality” 4 del Pew Research Center i partecipanti (il campione nazionale per l’Italia era composto da circa 1000 persone adulte al di sopra dei 18 anni) dovevano rispondere alla domanda:

“Quale tra queste due affermazioni è più vicina alla sua opinione? La numero 1 o la numero 2?
Numero 1 – “L’omosessualità dovrebbe essere accettata dalla società” o Numero 2 – “L’omosessualità non dovrebbe essere accettata dalla società”.

A questa domanda, nel 2007, in Italia è risultato il 65% di risposte positive (quindi i due terzi del campione), mentre nel 2013, alla stessa domanda si osserva un aumento di 9 punti (uno degli aumenti più significativi tra tutti i paesi sondati): il 74% del campione italiano considera che l’omosessualità deve essere accettata nella società, rimanendo comunque all’ottavo posto dopo Francia, Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Spagna, Germania, USA, Canada e Australia.


Questo è sufficiente per affermare che l’Italia è uno dei paesi più tolleranti al mondo rispetto all’omosessualità? È bene precisare anzitutto che solo 39 paesi (quelli elencati nella tabella) sono stati interrogati e non tutti i 205 paesi del globo, e che, per l’Europa, per esempio, solo 9 paesi sono stati inclusi nel sondaggio. Se tutti i paesi dell’Unione Europea fossero stati inseriti il risultato sarebbe stato ben diverso.

In effetti, secondo la Rainbow Map 2015 realizzata dall’associazione ILGA-Europe (associazione che difende i diritti delle persone LGBT) e che tiene conto del grado di protezione delle minoranze sessuali sulla base delle leggi e dei programmi di lotta contro le discriminazioni esistenti (quindi su basi oggettive), l’Italia si posiziona al 34° posto in Europa (perdendo due punti rispetto al 2014) con il 22%, poco dopo la Polonia (26%) e la Bulgaria (27%) e poco prima del Kosovo (18%) o della Lituania (19%) 5.


Oltre a negare il fenomeno dell’omofobia su cui esistono da almeno trent’anni numerosi studi scientifici 6, a questa lettura tendenziosa dei dati si aggiunge un’altra flagrante mistificazione. Contrariamente a quanto affermato dai movimenti che rivendicano il riconoscimento dei diritti delle persone LGBT, affermano i “no gender”, nei paesi in cui sono state adottate leggi che danno accesso al matrimonio per le coppie dello stesso sesso l’omofobia non diminuirebbe, anzi, viene talvolta avanzato, questa aumenterebbe.

Ora, se si consulta il dettaglio delle risposte fornite all’inchiesta dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, appare chiaramente la correlazione tra riconoscimento dei diritti e diminuzione della discriminazione percepita dalle persone. Se si osserva il dato che riguarda la domanda fatta ai partecipanti: “Con quanti sei aperto o dichiarato sulla tua identità lesbica, gay, bisessuale o transgender sul lavoro?”, dalle risposte si evince chiaramente che nei paesi che hanno adottato queste leggi già da alcuni anni la situazione è diversa rispetto ai paesi in cui non esistono questo tipo di leggi: in Italia, nel 2012, il 35% dei partecipanti dichiara di nascondere la propria identità lesbica, gay, bisessuale o transessuale sul lavoro e il 14 % di essere aperto con tutti, mentre nei Paesi Bassi, che è stato il primo paese ad adottare il matrimonio omosessuale nel 2001, solo il 5% si nasconde e il 43% si dichiara a tutti; nel Regno Unito (che dal 2004 prevede il civil parternship) il 9% si nasconde e il 36% si dichiara, in Belgio (dove esiste il matrimonio egualitario dal 2003) il 12% si nasconde e il 31% si dichiara. C’è quindi una correlazione evidente: nei paesi “avanzati” dal punto di vista di queste leggi le persone vivono più serenamente la loro identità e non hanno paura di fare coming out sul luogo di lavoro.

Questo permette anche di insistere sul fatto che un sondaggio a cui viene posta una sola domanda generale non indica se in un paese esiste o no l’omofobia, ma semplicemente se in un dato paese l’attitudine nei confronti dell’omosessualità propende verso l’accettazione (e accettazione non è sinonimo di riconoscimento o di integrazione, ma piuttosto di semplice tolleranza spesso espressa secondo il principiodon’t ask, don’t tell) o verso un’ostilità manifesta. Un’inchiesta che sonda l’esperienza della discriminazione vissuta dalle persone nel loro quotidiano, attraverso una serie di domande approfondite, permette, al contrario, di ribadire la persistenza in Italia e non solo di una diffusa, recalcitrante e ordinaria omofobia.


Massimo Prearo

Articolo pubblicato originariamente su iosonominoranza



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Le parole di Gianfranco Amato sono tratte dal video della conferenza tenutasi nel Comune di Noicattaro (Ba) il 28 aprile 2015, organizzata dal Movimento per la Vita di Noicattaro con il patrocinio del Comune. Video disponibile su YouTube. URL.
Ma quale “allarme omofobia”. Una ricerca prova che l’Italia è tra i paesi meno omofobi al mondo, «Tempi.it», 7 giugno 2013. URL. Tutti i dati relativi all’inchiesta sono disponibili online sul sito dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. URL.
Tutti i dati relativi al sondaggio sono disponibili online sul sito del Pew Research Center. URL.
Dati disponibili sul sito di ILGA-Europe. URL.
Daniel Borrillo, Omofobia. Storia e critica di un pregiudizio, Edizioni Dedalo, Bari 2009.

22 ottobre 2015

Elezioni in Argentina: un taglio con il passato... ma non troppo

Il momento di un’elezione può avere due diverse sfaccettature di cui la prima di esse si chiama continuità mentre la seconda prende le sembianze di un punto di rottura. 

In Argentina, a prescindere dal candidato e dal partito che vincerà, un punto di rottura, un taglio netto con il passato ci sarà comunque: dopo 12 anni di presidenza, quattro di Nestor Carlos e gli ultimi otto della moglie Cristina Fernandez, la famiglia Kirchner, che ha monopolizzato il potere argentino degli ultimi anni, non siederà più a Casa Rosada, il Palazzo del Governo di Buenos Aires, ma lascerà il posto ad uno dei tre candidati in lizza per la successione, tutti di origine italiana: stiamo parlando di Mauricio Macri, Sergio Mazza e Daniel Scioli che il 9 Agosto scorso hanno vinto le primarie dei rispettivi partiti.

Le primarie argentine sono molto importanti in previsione del voto presidenziale, e i risultati ottenuti dai candidati hanno permesso di tracciare un bilancio a più lungo raggio in relazione del voto di domenica.
Daniel Scioli, candidato del Frente para la Victoria, è arrivato primo con il 37% delle preferenze, mentre Mauricio Macri è il candidato dell’opposizione dopo aver ottenuto il 31% dei consensi. Il terzo sfidante sarà Sergio Massa del Frente Renovador che con il 12% è diventato il candidato unico della coalizione “Una Nueva Alternativa”.
Daniel Scioli è dunque, risultati alla mano, il favorito per la vittoria finale, ma non ancora sicuro di vincere al primo turno, visto che il sistema elettorale argentino prevede che se nessun candidato dovesse ottenere il 45% dei consensi, oppure il 40% con almeno dieci punti di distacco dal secondo arrivato, si debba necessariamente andare al ballottaggio tra i due più votati.
Le primarie, soprattutto in Argentina, possono essere considerate una sorta di cartina tornasole sull’orientamento dei cittadini, ma dal 9 agosto di tempo ne è passato e molte cose possono essere cambiate nella mente degli elettori.

Ora però andiamo a vedere chi sono i tre candidati alla Casa Rosada.

Mauricio Macri, attuale sindaco di Buenos Aires ed ex-presidente del Boca Juniors, è un imprenditore, leader del partito conservatore Propuesta Republicana e candidato unico dei partiti d’opposizione “Cambiemos”. Macri non è il favorito per la vittoria finale, ma il suo obiettivo più realistico è quello di arrivare al secondo turno di novembre, dove, con un’alleanza con Sergio Mazza, avrebbe anche qualche possibilità di sconfiggere il favorito Daniel Scioli.
Il programma politico del sindaco di Buenos Aires prevede un consistente abbassamento delle tasse, una feroce lotta alla corruzione, una riforma di liberalizzazione dell’economia e il taglio deciso a tutti i vincoli presenti nel sistema economico del Paese. 
La sua campagna elettorale è stata però sporcata da un’inchiesta di corruzione partita da un giudice della capitale che ha richiesto dei documenti relativi a contratti pubblicitari che Macri stesso avrebbe firmato con un’azienda di un esponente del suo stesso partito.

Mauricio Macri
Sergio Massa, già capo di gabinetto durante la Presidenza di Cristina Fernandez e quindi ex- kirchnerista, è un avvocato 43enne e si presenta come la terza via tra la continuità rappresentata da Scioli e l’opposizione di Macri. È l’esponente del “Fronte Renovador” e il suo programma politico ha come fulcro la lotta alla criminalità organizzata. Vuole inoltre eliminare qualsiasi vincolo al controllo dei capitali e portare l’inflazione tra il 4 e il 5%. 


Sergio Massa
Daniel Scioli è invece il leader della coalizione formata dal Frente para la Victoria e dal Partido justicialista, e successore della Presidentessa uscente.
Cristina Fernandez non ha appoggiato fino in fondo la candidatura di Scioli, come del resto non c’è mai stato grande feeling tra lui e la famiglia Kirchner, ma ha al tempo stesso dovuto prima accettarlo e poi sostenerlo solamente per il fatto che era l’unico esponente del partito con un bacino di elettori abbastanza ampio da poter garantire una continuità politica al partito.
Già Governatore della provincia di Buenos Aires, Scioli è un peronista fatto e finito, è in politica dalla fine degli anni ’90, e il suo programma prevede una riforma sull’ampliamento delle liberalizzazioni e sul rafforzamento della competizione economica, il tutto senza effettuare alcun taglio alla spesa pubblica e senza che la moneta venga svalut
Daniel Scioli insieme a Christina Fernandez Kirchner
a.

La promessa più importante riguarda un monte investimenti di 30 miliardi di dollari all’anno, con lo scopo di ridurre l’inflazione del Paese nei prossimi quattro anni.
Scioli ha annunciato che si occuperà appieno del problema attuale che riguarda le esportazioni del Paese, oppresse dalla crisi della Cina, che in Argentina compra soia e grano, e da quella del Brasile, che rappresenta quasi il 50% dell’export del Paese.


La battaglia elettorale di domenica, oltre all’importanza propria di un’elezione, avrà perlopiù le sembianze di un referendum sul Kirchnerismo.
Nel caso dovesse vincere il Kirchnerismo, e quindi Daniel Scioli con il suo Frente per la Victoria, si avrebbe un Presidente con lo stesso background di Nestor e di Cristina Fernandez, ma al tempo stesso ci si avvierebbe verso una strada più moderata ed aperta al dialogo rispetto al recente passato.
Scioli è stato in grado di compiacere e prendere le distanze dalla politica della famiglia Kirchner senza mai allontanarsi definitivamente da loro.
Sarebbe dunque il segno di una continuità lucida e razionale, che può piacere o meno ma che comunque ha lasciato il segno su una buona parte del Paese.
Se invece dovesse vincere il conservatorismo di Mauricio Macri, quasi certamente con un’alleanza con Sergio Massa, si avrebbe l’affermazione di una coalizione già forte nella regione di Buenos Aires e di un esempio di partito moderato nei confronti del credito internazionale.
I dubbi sul conservatorismo di Propuesta Repubblicana sono molti, soprattutto riguardo alla totale contrapposizione nei confronti dell’attuale Governo, contrapposizione che dovrà essere confermata in caso di vittoria e che non dovrà basarsi esclusivamente sulle condizioni di crisi economica che l’Argentina sta vivendo.

Giacomo Bianchi
@GiacomoBianchi6

21 ottobre 2015

SundayUp - Back to the Future Day

Dal tempo dei Maya fino ad arrivare al millennium bug passando per Nostradamus, la nostra cultura è infarcita di profezie e premonizioni che hanno dato un tempo e un luogo esatti in cui si sarebbero verificati grandi sconvolgimenti. Ciò dimostra l'attitudine degli uomini a guardare più in là dei loro anni per giocare d'anticipo sul Tempo. Tuttavia, nulla di tutto questo ci ha preparati a questo giorno fatidico. Si, perché questo giorno è entrato nella storia ben prima che si verificasse, oggi è il 21 ottobre 2015, oggi Marty e Doc arrivano nel futuro.

Anche se non siete appassionati della trilogia migliore di tutti i tempi sarete senz'altro a conoscenza del valore di questa giornata. In tutto il mondo stanno avendo luogo eventi a tema e proiezioni di Ritorno al Futuro II. Per quel che mi riguarda ho già avuto ventuno collassi e la giornata è ancora lunga.
Non è facile essere qui, sulle pagine di The Bottom Up, a parlare del film che ha segnato tutta la mia esistenza; ricordo ancora la diffidenza degli altri bambini quando li esortavo a non ledere il continuum tempo-spazio e le lacrime che sgorgavano copiose nel momento in cui la DeLorean... no, non ce la faccio a continuare...

destroyed delorean
Traumi infantili: altro che mamma di Bambi. Fonte: YouTube
A distanza di anni credo ancora che ci siano cose peggiori del complesso edipico a vietarvi di incontrare i vostri genitori. E ci sarebbero decine di altre cose che “sarebbe bello ma meglio evitare che sennò distruggiamo l'intera galassia” ma per questo vi esorto alla visione della trilogia.

Una miriade di eventi e proiezioni in tutto il mondo, dicevamo. In previsione di questa data, in rete e alle convention si è molto dibattuto sulle tecnologie mostrate nel 2015 di Ritorno al Futuro II: indubbiamente l'invenzione di portata più vasta è stata la videochiamata, diffusa su pc e smartphone e non relegata alle TV come accade nel film. Bocciati dal mondo reale sono stati, invece, i Google Glass corrispettivo degli stilosissimi occhialoni a marchio JVC presenti nel film. Tuttavia, che si pensi di aver raggiunto o superato lo stadio tecnologico del film, quello che lega i fan a Ritorno al Futuro è qualcos'altro: a Zemeckis (in compagnia di Spieldberg e Bob Gale) si deve la creazione di un'immagine dell'avvenire fantasiosa e scanzonata, impregnata di meravigliosa e variopinta estetica direttamente dagli anni Ottanta, il decennio che più di tutti ha guardato al futuro.

"Il Futuro..." Fonte: Google
La nostra “linea temporale” è naturalmente diversa da quella tratteggiata dal film, il nostro mondo è gravato dalla crisi economica, dalla fame e dal terrorismo (ma l'elenco sarebbe più lungo). Sotto molti aspetti, la nostra è più simile alla società di trent'anni fa (o a quella del 1984 orwelliano) piuttosto che a quella immaginata dal film. Nell'edizione celebrativa della trilogia, uscita proprio oggi, è presente un corto intitolato Doc Brown saves the World in cui il personaggio interpretato da Christopher Lloyd ci spiega perché il nostro 2015 è diverso da quello del film, nella stessa occasione la Universal ha caricato sul tubo un invito del buon Doc a costruire un futuro migliore.

Ritorno al Futuro rappresenta una delle ultime visioni dell'avvenire fiabesche e spensierate, quando questa giornata sarà trascorsa il suo futuro farà parte del passato, cosa accadrà ora? Dobbiamo aspettarci il dominio delle macchine alla Matrix/Terminator o ci aspetta qualcosa di diverso? Non lo so. Voglio il mio volopattino.