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30 settembre 2015

Nuove rotte, stessi problemi: come la Croazia sta gestendo il flusso di migranti

In luglio, quando ancora quasi nessuno ne parlava, avevo scritto della “rotta dei Balcani”. Ora quest’espressione è sulla bocca di tutti e la gestione del flusso dei migranti sembra sempre più difficoltosa. Se prima i Paesi interessati dal fenomeno erano principalmente Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria adesso gli attori coinvolti sono aumentati. Le cause principali sono il muro di filo spinato, costruito per volere del premier ungherese Viktor Orbán, al confine con la Serbia e la successiva chiusura del confine. Migliaia di persone, giunte al confine, hanno fatto marcia indietro dirigendosi verso la Croazia. 

Tra il 16 e il 17 settembre 13000 profughi hanno attraversato la frontiera tra Serbia e Croazia. Il governo ha prontamente organizzato autobus e treni per trasferire le persone in centri accoglienza e campi temporanei. Come da prassi, pochissimi aspiranti rifugiati hanno richiesto asilo in Croazia dopo la registrazione, affermando di voler dirigersi verso il nord dell’Europa. Dunque Croazia come terra di transito, ma solo per poche ore. In seguito al rifiuto sloveno di consentire il passaggio di persone provenienti dalla Croazia, anche le autorità di quest’ultima hanno abbandonato l’iniziale atteggiamento collaborativo e la notte del 17 settembre hanno deciso di chiudere tutti i passaggi di frontiera con la Serbia. La decisione di chiudere i passaggi è stata motivata dalla paura di venire abbandonati insieme a pochi altri stati a prendersi cura di questo fardello. Il capo del governo Zoran Milanović ha poi annunciato il suo “piano B”, illustrando la volontà di trasferire i rifugiati fino alla frontiera più vicina a nord del Paese. 

Questo è proprio quello che è successo da venerdì 17 settembre quando le strade del Paese hanno iniziato a essere percorse da autobus e treni pieni di rifugiati. Una volta giunte alla frontiera ungherese alle persone è stato garantito dal governo magiaro un passaggio in autobus fino al confine con l’Austria. Non si può certo dire che l’Ungheria abbia apprezzato la mossa croata, vista come una violazione della sovranità nazionale. A quanto pare il consigliere politico di Orbán, Antal Rogan, ha addirittura dichiarato che l’Ungheria avrebbe posto il veto al futuro ingresso di Zagabria nel club di Schengen, poiché il paese “evidentemente non è pronto”, e che Budapest è pronta a estendere la propria barriera anche alla frontiera con Romania e Croazia. Nulla di sorprendente in tale dichiarazione, che considererei in linea con la ormai ben nota “diplomazia” ungherese. Il giorno stesso anche la Slovenia ha iniziato a lasciar passare i rifugiati, che in maggioranza hanno proseguito il loro viaggio verso l’Austria. Non ci s’immagini tuttavia dei tranquilli viaggi dotati di tutte le comodità. Purtroppo la capacità di trasporto è rimasta ben al di sotto delle esigenze e si è assistito alle immagini che vediamo ogni giorni in televisione con persone che si lanciano disperate nella speranza di riuscire a salire su un treno. Il governo croato, trovatosi impreparato ad accogliere un flusso così ingente di migranti, ha dovuto anche disporre la creazione di una nuova tendopoli “provvisoria” a Opatovac, presso il confine serbo.

Fonte: The financial express

A rendere la situazione ancora più tesa è stata la decisione croata (in vigore dal 21 settembre) di chiudere il valico, con la Serbia, di Batrovci-Bajakovo ai mezzi pesanti. Si trattava dell’unico valico di confine fra i due Paesi rimasto aperto dopo la scelta di chiudere nei giorni scorsi gli altri sette passaggi di frontiera con la Serbia a causa del massiccio flusso di migranti e profughi. Pochi giorni dopo, la Serbia ha ribattuto bandendo le importazioni di merci croate. Il premier Milanović ha ribadito che a suo avviso il blocco, sebbene sia una misura estremamente spiacevole, è l’unico modo per fare pressione su Belgrado. A quest’ultima si chiede che una parte dei rifugiati venga ridiretta verso  la frontiera ungherese. Venerdì scorso, però, Milanović ha annunciato l’eliminazione delle restrizioni in vigore al confine con la Serbia. Decisione dovuta al raggiungimento dei propri scopi? Non proprio, diciamo più che altro caldeggiata dall’Unione Europea. Il blocco aveva creato in territorio serbo una fila di oltre 17 chilometri di camion in attesa al valico di Batrovci-Bajakovo ed ingenti danni economici. Serbia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina avevano dichiarato che se il blocco alle frontiere fosse continuato sarebbe stata richiesta una riunione urgente della Cefta, l'Accordo di libero scambio fra i Paesi dell'Europa centrale. Esplicativo però del pensiero di Milanović è che si sia dichiarato pronto a re imporre le restrizioni alla frontiera in caso di mancata volontà serba di reindirizzare almeno in parte gli stranieri in arrivo anche verso l'Ungheria e la Romania (per la cronaca, l’Ungheria ha deciso la costruzione di una barriera anche alla frontiera con la Croazia).

La nuova "rotta dei balcani" | Fonte: The independent

Anche la nuova rotta sembra quindi pericolosa e difficile da percorrere, tant’è che già si parla dei possibili nuovi percorsi per raggiungere l’area Schengen. Si potrebbe dalla Grecia attraversare Bulgaria e Romania e poi dirigersi o verso l’Ucraina in modo da raggiungere la Germania attraverso la Polonia o attraversare l’Ungheria a Nord del “muro” e dirigersi verso Austria e Germania passando per la Slovacchia. Un’altra opzione sarebbe raggiungere l’Albania e qui tentare la traversata in mare verso le coste pugliesi o proseguire il viaggio sul continente fino a raggiungere la regione di Dubrovnik, in Croazia. Il problema però è che l’Europa si trova in un circolo vizioso e se queste deviazioni di percorso dovessero avvenire, Stati come Bulgaria, Romania, Slovacchia e Polonia molto probabilmente si chiuderebbero a riccio come hanno fatto i loro vicini. C’è un problema di coordinamento delle politiche e un deficit di solidarietà, lo si dice da tanto. Soluzioni all’orizzonte? Certo le istituzioni europee si stanno muovendo ma ancora fanno difficoltà a far sentire la propria voce. Si dice che una volta toccato il fondo, non si può far altro che risalire. Ecco, a me sembra che l’Europa nella gestione di questa crisi il fondo lo abbia già toccato. Attendo fiduciosa la risalita.  

Sabrina Mansutti
@sabrinamansutti

29 settembre 2015

La fortuna aiuta... Matteo Renzi

Fonte: HuffingtonPost.it
Per avere successo nella vita spesso talento e determinazione non bastano. La fortuna infatti gioca un ruolo importante nel rendere i nostri sogni più fantasiosi delle solide realtà, i nostri progetti più ambiziosi dei capolavori e le nostre scelte più rischiose delle formidabili intuizioni. Che piaccia o meno, la buona sorte rappresenta una componente decisiva nelle nostre vite in maniera positiva o negativa.

Matteo Renzi è indubbiamente una persona di successo. Nel febbraio dello scorso anno a 39 anni e un mese è diventato il più giovane Presidente del Consiglio nella storia della Repubblica. La sua scalata verso Palazzo Chigi è stata sensazionale se si pensa che fino che fino a 10 anni prima non ricopriva nessuna carica pubblica. Nel 2004 infatti viene eletto presidente della provincia di Firenze  - una istituzione che lui stesso ha poi abolito, paradossale no?. 4 anni dopo, da outsider, vince le primarie del centrosinistra per la corsa a sindaco del capoluogo toscano e, nel giugno 2009, prende effettivamente possesso di Palazzo Vecchio. Nel frattempo si fa largo dentro il Partito Democratico - lui che di famiglia sarebbe democristiano - invocando la “rottamazione” della classe dirigente. Nonostante questo atteggiamento conflittuale, dopo aver dignitosamente perso le primarie del 2012, si impone in quelle del 2013, ottenendo la carica di segretario. Carica dalla quale comincia a mettere pressione all'allora premier Enrico Letta fino a costringerlo a rassegnare le dimissioni in suo favore. Una cavalcata semplicemente folgorante.

I talenti e la dedizione di Renzi sono altrettanto fuori discussione. L'ex boy scout cresciuto a Rignano sull'Arno è un comunicatore fenomenale, in grado di suscitare empatia in chi lo ascolta, e sicuramente possiede un notevole acume politico che gli permette di districarsi nelle situazioni più complicate, volgendole talvolta a proprio favore. Per quanto riguarda l'attitudine al lavoro, pare che Renzi sia avvezzo a svegliarsi all'alba e lavorare fino a tarda sera.

Tuttavia il marito di Agnese Landini è anche baciato da tempi non sospetti dalla dea bendata. Questa estate che è appena trascorsa ci ha fornito prove inconfutabili a proposito su 4 vicende: la lieve ripresa dell'economia italiana, la negoziazione sugli aiuti europei alla Grecia, l'emergenza immigrazione e la delegittimazione del sindaco Ignazio Marino a Roma.

Economia in crescita

Prescindendo dalle stime, che variano da istituzione a istituzione, da organizzazione ad organizzazione, da agenzia di rating ad agenzia di rating, sembra che il PIL italiano sia di nuovo in crescita, seppure debole. E sembra inoltre che possa continuare a crescere nel futuro prossimo in maniera più consistente, portando anche ad una diminuzione del rapporto con il debito, fondamentalmente la grande spada di Damocle del bilancio pubblico nazionale. Merito delle finanziarie del governo e degli sgravi fiscali che hanno reso più economico assumere lavoratori per le aziende? Oppure di congiunture internazionali favorevoli? La seconda opzione pare la più veritiera. Il quantitative easing deciso dal presidente della BCE Mario Draghi e il crollo delle quotazioni delle materie prime sono stati i due fattori chiave nel provocare questi timidi segnali di ripresa. Se Renzi può, almeno in minima parte, vantarsi di aver premuto per un'acquisto di titoli di stato da parte di Francoforte, il calo del prezzo delle materie prime è stato letteralmente una benedizione dal cielo (o per meglio dire da Washington) per un paese che importa in maniera massiccia gas e petrolio. Il premier ha comunque riportato la fiducia degli investitori e del mondo della finanza sull'Italia. Ma gli effetti di questa gigantesca operazione di marketing si sentiranno, forse, nel lungo termine.

La Grecia rimane nell'Euro

In quella stanza di Bruxelles in cui si discuteva della permanenza della Grecia nella moneta unica c'erano tre persone, oltre naturalmente ad Alexis Tsipras, che spingevano per tenere dentro Atene a tutti i costi. Una era Jean-Claude Juncker, presidente della commissione, il quale, da europeista di lungo corso, assolutamente non voleva passare alla storia come “quello che non ha impedito il fallimento dell'Euro”. La seconda era François Hollande, il presidente francese, particolarmente attivo in politica estera in questi anni, che intendeva porsi come mediatore tra i falchi del rigore del nord e del centro Europa e l'esecutivo ellenico, un po' per principi e un po' per protagonismo. La terza era appunto Matteo Renzi, che sosteneva la posizione apparentemente per inerzia e per spirito democristiano più che per reale convinzione. Noi tenderemo a scordarcelo ma le cose potevano prendere una piega diversa perché tutti gli altri commensali seduti a quel tavolo, stando a molteplici ricostruzioni, erano pronti ad abbandonare, almeno temporaneamente, la Grecia al suo destino. Ma non è andata così. La posizione del trio Juncker, Hollande, Renzi ha prevalso e convinto la Germania. È chiaro che dei tre quello che si è speso meno è stato il premier italiano ma alla fine anche lui ne è uscito clamorosamente vincitore.

L'immigrazione diventa una questione europea

L'Italia si lamentava da tempo di essere stata lasciata da sola nel fronteggiare gli sbarchi di migranti - senza far distinzione tra economici e richiedenti asilo - che arrivavano dalle coste libiche. Nel frattempo organizzava la costosa operazione “Mare Nostrum”, che, con tutti i suoi limiti, ha salvato molte vite umane. Quando però da Bruxelles è arrivato il via libera all'operazione comune “Triton", Renzi ha festeggiato poiché le sue rimostranze erano state ascoltate. Peccato che quest'ultima missione fosse molto più circoscritta in termini di raggio d'azione ed efficacia rispetto a quella italiana. Insomma sembrava la più classica delle vittorie di Pirro. Poi quest'estate, alle porte del continente - e non solo quelle italiane - si sono affacciati una inverosimile moltitudine di profughi siriani, in fuga da una guerra civile che dura da troppo tempo verso la industriosa Germania e gli accoglienti paesi scandinavi. La questione è diventata per forza di cose europea e ora il sistema delle quote, che prima sembrava una proposta disperata del come al solito disorganizzato governo italiano, potrebbe diventare realtà. Merito della straziante foto di un bambino siriano trovato morto sulle coste della Turchia più che della persuasione e del peso politico di Matteo Renzi.

Ignazio Marino sulla graticola

Ignazio Marino non è mai piaciuto a Renzi e il sentimento è reciproco. Quando sul Campidoglio è piombato lo scandalo “Roma Capitale”, la poltrona dell'incolpevole sindaco è cominciata a scottare. L'ex chirurgo portava cattiva pubblicità al PD e al governo e quindi era diventato un problema. Così gli è stato affiancato il super-prefetto Franco Gabrielli, giusto per tenerlo un po' sulle spine. Marino però di responsabilità, tanto nella faccenda che coinvolgeva criminali e appalti pubblici romani quanto nelle deplorevoli condizioni in cui versava la città eterna, ne aveva pochine e quindi poteva ancora camminare a testa alta. Poteva appunto. Perché mentre lui era in vacanza tra States e Caraibi - con tanto di foto false diffuse da alcuni media - si è celebrato in pompa magna il funerale del malavitoso Vittorio Casamonica nel centro di Roma. Il primo cittadino non è nemmeno riuscito a tornare in tempo per un'importante riunione sull'organizzazione del Giubileo, subendo l'ironia del toscano (guarda un po') Gabrielli. Allo stato delle cose la credibilità di Marino è piuttosto compromessa, non solo a livello locale ma anche nazionale. Per la felicità di Matteo Renzi.

La fortuna, si suol dire, aiuta gli audaci. E il Presidente del Consiglio audace probabilmente lo è. Certamente è davvero molto fortunato.

28 settembre 2015

La migrazione ai tempi di hashtag e app

Ovvero di come Internet, social media ed app stiano influenzando la migrazione dei rifugiati

Quanto dobbiamo sorprenderci del fatto che i rifugiati siriani abbiano uno smartphone? chiedeva pochi giorni fa James O’ Malley su l’Indipendent. Ben poco, si dovrebbe rispondere, perché la Siria non è un paese ricco ma non è neanche così povero da non permettere ai propri cittadini di acquistare uno smartphone di medio livello.
Anche le cosiddette Primavere Arabe avrebbero dovuto portare alla stessa domanda, visto che gran parte delle manifestazioni furono organizzate attraverso smartphone e social media, ma non ci fu lo stesso sgomento in risposta alle foto che ritraevano i giovani egiziani armati di 3G. In realtà in entrambi i casi la popolazione in difficoltà ha utilizzato wifi, connessione 3G ed le potenzialità della Rete per ricevere informazioni utili, scambiarsi consigli e anche a sopravvivere.
La crisi europea e mondiale coincidente con la migrazione dalla Siria che conta 4,087,139 rifugiati (dati UNCHR) in cerca di asilo è già da mesi ampiamente raccontata dai media su carta e web ma è specialmente dal social web che grazie all’attività di giornalisti e reporter sul campo e quella dei migranti stessi (i quali, per l’appunto, utilizzano gli smartphone e la Rete) che si possono trarre dei dati sulla percezione dei fatti da parte dei cittadini europei.

Aprendo un social media come Facebook o Twitter e ricercando i termini relativi alla crisi in corso quali per esempio #refugeescrisis, #marchofhope, #Syria o #Refugeeswelcome è semplice comprendere quanto questi si siano diffusi.

Questa mappa mostra come l’hashtag #Refugeeswelcome si diffonde in Europa nelle ultime 24 ore.

Le zone “calde”, i paesi dove i cittadini si stanno dimostrando più attivi nel manifestare la volontà di accogliere rifugiati e migranti nel proprio paese, sono Germania, Regno Unito e Spagna.

Facendo invece una breve analisi su Hashtagify è chiaro quali siano ad oggi gli argomenti correlati a #Refugeeswelcome. 




I social network, principalmente Facebook e Twitter, sono diventati negli ultimi mesi un punto di incontro tra la ricerca d’aiuto da parte di migranti e rifugiati che stanno scappando dalla guerra e i cittadini europei, che di fronte al loro arrivo sulle coste mediterranee sembrano sempre più propensi ad accoglierli.
Ci sono per esempio i cittadini britannici, che da settimane si sono battuti per indirizzare il leader David Cameron verso una politica migratoria più morbida tramite diverse petizioni e conseguenti appelli sui social. La raccolta firme lanciata da l’Indipendent e diretta al primo ministro del Regno Unito ha superato ad oggi le 380 mila firme ed è notizia di qualche giorno fa che lo stesso leader del Partito Conservatore, prima restio nel compiere decisivi passi in avanti riguardo la crisi in atto, ha promesso di designare 100 milioni di sterline alla manutenzione di campi profughi sul confine siriano, probabilmente anche a fronte dell’intensa pressione suscitata dai suoi cittadini.

Che poi tra lo scrivere un hashtag su Twitter e l’agire concretamente ci sia un passo in più che non tutti gli utenti in questione compiranno, è un’altra questione ma tra le immagini, i reportage e le dirette su Periscope (sì, l’ha fatta Paul Ronseheimer del Bild) sono molte le storie che arrivano direttamente sul nostro schermo senza essere filtrate da agenzie di stampa o opinioni fuorvianti. (Abbiamo raccontato su queste pagine la storia di Sam che, grazie a WeChat e Facebook ha raccontato il suo viaggio dalla Siria all'Europa in viva voce, ndr). E sono molti, inoltre, gli aiuti ed i consigli che possono essere scambiati tra rifugiati e cittadini europei, o tra i rifugiati stessi, attraverso i social media. Basti pensare all’utilità di Google Maps per tracciare un possibile tragitto verso un’auspicabile vita migliore in Europa, o alla condivisione di questo o di altri consigli in gruppi Facebook creati appositamente anche per evitare posti di blocco sconvenienti o per trovare un alloggio.

Non solo parole e hashtag arrivano dal mondo della tecnologia per sostenere ed aiutare rifugiati e migranti: numerose sono anche le applicazioni create sia per aiutarli mentre percorrono il loro viaggio per trasmettere loro informazioni essenziali per superare l’impatto iniziale nel nuovo paese di accoglienza un volta arrivatici.

Di seguito qualche esempio.
AutoCV App: sviluppata da una startup svedese chiamata SelfieJobs, grazie a questa app i migranti appena arrivati in Europa e con smartphone alla mano possono cercare lavoro nella loro lingua inserendo facilmente i loro dati e i loro curriculum.

Gherbetna: ideata da un giovane sviluppatore siriano, Gherbetna nasce dall’esperienza diretta del suo creatore, a sua volta migrante siriano residente in Turchia da qualche anno. Questa app, il cui nome in arabo significa solitudine, contiene una lista di lavori disponibili in Turchia, diversi consigli per superare e velocizzare i cavilli burocratici tipici del primo arrivo e molte altre utili informazioni sul Paese in questione. Un contributo significativo visto che tra i 1.7 milioni di espatriati siriani la metà finisce per stanziarsi in Turchia.

My life as a refugee: creata dal UNCHR nel 2012, questa applicazione cerca di creare empatia tra mondo occidentale e rifugiati attraverso un gioco di ruolo. “Ogni minuto, otto persone devono scappare da una guerra, da una persecuzione o dal terrore. Se il conflitto coinvolgesse la tua famiglia, cosa faresti?”, si legge nell’homepage che presenta l’app. Questa app permette all’utente di “vivere” virtualmente le difficoltà che deve superare un profugo durante la sua migrazione. Nonostante l’autorevolezza dell’UNCHR e tutta la buona volontà con cui è stato creata, My life as a refugee presenta un lato grottesco decisamente evidente nel suo “giocare a fare l’immigrato”.

Welcome to Dresden: ideata e creata da due compagnie IT tedesche contiene informazioni utili ai rifugiati appena arrivati a Dresda per registrarsi ed entrare in contatto con le autorità locali, ricevere un’assicurazione e trovare il modo per iniziare un nuova vita nella città tedesca. “Visto che nei primi mesi dal loro arrivo non possono che aspettare una sentenza, è questo il momento in cui c’è maggiore bisogno di aiuto.” Secondo quando dichiarato al Guardian  da Peggy Reuter-Heinrich, CEO di una delle due compagnie creatrici, l’app è in grado di aiutare i migranti più dei fogli di carta in un momento di grandi difficoltà e confusione.

Fluchtlinge Willkommen: questa app tedesca che viene anche chiamata la “Airbnb per rifugiati” vuole mettere in contatto rifugiati e profughi approdati in Germania e in Austria con cittadini tedeschi e austriaci che abbiano a disposizione un letto in più. Il sistema funziona in modo simile a Airbnb e Couchsurfing: si registra la propria abitazione/posto letto, un’organizzazione che lavora con i rifugiati si occupa di far incontrare l’offerta di alloggio con le esigenze dei rifugiati ed in poco tempo si sarà in grado di ospitarli.

Professionisti o semplici cittadini non sono i soli che attraverso la tecnologia stanno cercando di portare il proprio contributo alla crisi migratoria in atto. Google, colosso di Mountain view, ha donato 1.1 milioni di dollari a organizzazioni umanitarie che stanno operando sul territorio, lanciato una piattaforma per incentivare le donazioni e creato un trabocchetto per aumentare la consapevolezza.

Talmente tante possibilità per utilizzare lo smartphone o il laptop in maniera funzionale che neanche i millennials potranno dire di non essere stati avvertiti che qualcosa, effettivamente, è possibile fare anche da uno schermo.

Valentina Tonutti
@vatonutti

27 settembre 2015

SundayUp - Will Butler, "Policy" (2015)

Avete presente gli Arcade Fire? La band canadese che, coniugando miracolosamente autorialità e gusto pop, ha portato quello che sarebbe ora di smettere di chiamare indie-rock alle vette del successo commerciale, riuscendo a fornire una proposta di altissima qualità attraverso quattro album e dieci anni di carriera? Ecco, questo articolo non è su di loro. (questa invece è una specie di recensione di Reflektor del nostro Filippo Batisti)
Non tutti loro, almeno. Perché il 33enne Will Butler, giovane polistrumentista fratello e compagno di band del cantante degli AF Win, ha da poco rilasciato un disco, Policy, uno di quei dischi che vale la pena ascoltare.
Registrato in una sola settimana durante una pausa dal tour con gli Arcade Fire ed uscito il 3 febbraio 2015 via Merge Records, Policy ha visto la luce negli Electric Lady Studios di New York grazie alla collaborazione tra il nostro Butler (che ha suonato praticamente tutti gli strumenti presenti nel disco tranne la batteria) e il già batterista degli AF Jeremy Gara (appunto). In realtà il disco non è la prima esperienza da solista del giovane Will: Butler si è già distinto per aver lavorato alle colonne sonore del film Home Burial di Jeff Newberg e, soprattutto, Her, l’acclamato ultimo lavoro di Spike Jonze, la cui musica – composta insieme al bassista degli AF Owen Pallett – ha ricevuto una nomination agli Oscar 2014 come “Miglior colonna sonora originale”.

Policy, per ammissione dello stesso Will, è una sorta di compendio di musica americana degli ultimi decenni. All’interno un orecchio attento può cogliere gli echi della new wave anni Ottanta come del blues dei primordi, le ballads per pianoforte di Leonard Cohen e i pezzi tirati dei Ramones passando per il rock’n’roll classico, anche se sinceramente faccio fatica a cogliere le influenze di Ghostface Killah, che pure risultano tra quelle dichiarate da Will stesso.
Questo calderone di influenze e spunti, che dovrebbero riflettere l’onnivoro gusto musicale dell’autore, viene amalgamato e tenuto insieme da una malta particolare, questo indefinibile senso di arcadefire-osità che pervade tutte le tracce, pur senza puzzare di plagio o mancanza di originalità in nessun modo. Sarà che la voce di Will è la stessa che si sente nei dischi della formazione di Montréal, sarà che Will in quanto co-autore di alcuni dei brani ha riversato un po’ del suo carattere nella band, sarà che dieci anni di una tale esperienza ti segnano per sempre; sta di fatto che il carattere e l’attitudine sono quelli, inconfondibili, ma lo stile riesce a risultare fresco e personale senza sembrare uno scadente spin-off del progetto principale.
Anche perché Policy è un disco che viene dalle profondità ctonie del suo autore, è strettamente personale. Ha a che fare con la rabbia, con la violenza – anzi, l’ultraviolenza di Kubrickiana memoria, come ha modo di dire lo stesso Will in un’intervista: la violenza è intesa come una delle forze fondamentali che spingono avanti la vita, la sensazione di potenza totale e incontrollabile che può provare un diciassettenne in un certo momento della sua vita e che subito se ne va, rubata dalla pacatezza della maturità. È la violenza dell’uomo che cerca di descrivere il mondo a priori, ma anche la violenza del mondo che esiste al di là e prima della descrizione dell’uomo, e con il quale questi alla fine deve fare i conti.

Un particolare della copertina di Policy
Ma è anche un disco di spirito, o meglio di spiritualità: ha a che fare con la divinità e il rapporto che intrecciamo con essa. “Son of God”, la quarta traccia, è piena della rabbia che scaturisce dalla mancanza di una guida, dal ritrovarsi persi in un mondo in cui sai di stare agendo male, ma non sai come cambiare direzione. E allora la voce narrante dice “Se vuoi svergognarmi, dì il mio nome/e se vuoi biasimarmi, allora colpiscimi con il tuo biasimo”, ma il coro gospel subito dopo canta “Se il Figlio di Dio scendesse adesso e mi dicesse cosa fare con la mia faccia/Se me lo scrivesse di suo stesso pugno/Allora sarei buono, giuro che sarei buono”.
In mezzo a tutto ciò trovano spazio le suggestioni discodance di “Anna”, la seconda canzone nonché secondo singolo estratto dall’album, e la paraculissima “Something is coming”, che senza dire niente di niente ti butta lì una batteria in levare sotto a un synth che suona come dovrebbe suonare un adorabile mascalzone – e a quel punto proprio non riesci a non ballare. Ma ci sono anche le due ballate intimiste di “Finish what I started” e “Sing to me”, da ascoltare a occhi chiusi sul letto, e l’irresistibile “What I want”, che riporta subito alla mente la “Month of May” degli Arcade Fire ma meglio. Come si può non amare un uomo che canta “If you come and take my hand, I will buy you a pony/We can cook it for supper/I know a great recipe for pony macaroni”?
Piccola nota di colore: la versione standard dell’album è composta da otto brani, mentre la doverosa precisazione del titolo di questo articolo indica che qui stiamo parlando della versione estesa, la “Deluxe Version” appunto, che contiene cinque brani in più. Questi cinque brano sono il frutto di un esperimento che il giovane Butler ha portato avanti a partire dal 23 febbraio 2015: una volta al giorno, per una settimana, alle 7 del mattino il nostro si alzava e leggeva con attenzione le notizie del Guardian, per poi scrivere, registrare e mixare nel giro di poche ore una canzone ispirata a una delle news. Per le 15, orario americano, la canzone era pronta per essere spedita in Gran Bretagna alla redazione del giornale.

Will Butler
Parlando del progetto, Will ha detto: “Adoro le notizie. Leggo più i giornali di quanto non ascolti nuova musica. Artisticamente parlando al momento m’interessa di più l’abilità ‘artigianale’ del virtuosismo. I giornali sono quotidianamente pieni di artigianato coraggioso”.
I cinque pezzi sono gli ultimi del disco e sono ispirati alla crisi del debito greco (“Clean monday”), al contrasto tra il nazionalismo chiuso e gretto dei separatisti ucraini e la grande figura del combattente sudafricano anti-apartheid Moses Kotane (“Waving Flag”, forse la più fiacca del disco), alla crisi idrica che ha messo in ginocchio la città brasiliana di San Paolo (“You must be kidding”), a come le cose umane sembrino piccole di fronte alla scoperta di un buco nero svariati miliardi di volte più grande del nostro sole (“Madonna can’t save me now”), e allo Stato Islamico che saccheggia il Museo Centrale di Mosul (“By the waters of Babylon”).

Con Policy, Will Butler si conferma non solo polistrumentista capace ma anche artista poliedrico. È una di quelle rare personalità in grado di assorbire gli stimoli che gli giungono dal mondo esterno e processarli in un modo tutto personale, attraverso la sua musica, aggiungendo i suoi pensieri, la sua visione, il suo composito universo concettuale, per poi risputarli fuori in una forma non solo di dignitosissimo contenuto artistico, ma anche più che godibile da un punto di vista puramente sensoriale: potrei leggere i suoi testi con attenzione e rifletterci per ore, ma anche ballare le sue canzoni con un drink in mano senza pensare a niente se non a tenere gli occhi chiusi e a seguire il ritmo della cassa.

Giovanni Ruggeri

26 settembre 2015

L'istituzionalizzazione (im)possibile del MoVimento 5 Stelle

Da qualche tempo tra le righe dei sondaggi politico-elettorali è comparso un nome nuovo. Parliamo di Luigi di Maio, ormai stabilmente presente nelle tabelle di rilevazione della fiducia nei leader. "Leader", appunto, specie da quando, un paio di settimane fa, una battuta pubblica di Beppe Grillo sembrava aver confermato un'investitura ormai nell'aria. "Maledetto Luigi, sei tu il leader", così aveva detto il comico genovese, suscitando un certo parapiglia all'interno del Movimento, seguito da una pronta retromarcia. "E' una bella battuta quella di Beppe, ma il leader è il Movimento 5 Stelle. Ogni persona all'interno del Movimento fa la sua parte. Ognuno, in qualche modo, è leader degli argomenti che porta avanti e con la Rete riusciamo a prendere anche il governo del Paese", questo il commento di Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza Rai e membro del "Direttorio" del Movimento.

Luidi De Maio insieme a Beppe Grillo | Fonte: thechronicle.it
L'apertura di un timido dibattito sulla futura leadership, rivela tuttavia una questione ben più ampia sul futuro del Movimento: consolidata ormai un notevole base elettorale, come trasformare questo consenso in influenza politica, in potenzialità di governo, in risultati tangibili?
Un dilemma, questo, a cui i politologi danno un nome preciso: l'"istituzionalizzazione" dei partiti carismatici.

Nei giorni della straordinaria performance elettorale del 2013, il M5S era a pieno titolo un "partito carismatico", se pensiamo alle caratteristiche che in primis Panebianco vi rinveniva. Era una formazione tenuta insieme dalla lealtà al proprio leader - e forse lo è ancora, a giudicare dalle espulsioni, ratificate dalla Rete, dei parlamentari dissidenti. Non aveva una burocrazia interna - almeno fino a quando non sono stati imposti ai parlamentari un direttorio e severissimi responsabili della comunicazione. Ha tuttora un'organizzazione altamente centralizzata - nonostante le retoriche della "Rete" e il fiorire di MeetUp, le decisioni sembrano sempre avere l'imprimatur di Beppe Grillo.
Ha, o pretende di avere, un'aura rivoluzionaria, antipartitica, dettata dal carisma del proprio leader - ricordate la tanto auspicabile quanto vaga "rivoluzione dell'onestà"?

Il Movimento 5 Stelle era dunque un "partito carismatico" nel 2013 e, nonostante gli adattamenti resi necessari da oltre due anni di protagonismo sulla scena politica, lo rimane tuttora. Eppure è evidente che esso stesso non sia più un elemento di rottura ma una componente consistente del panorama elettorale nazionale. Principali indicatori dell'avvio di un percorso di istituzionalizzazione, per un partito carismatico, sono i risultati elettorali costanti nel tempo e la sua percezione come "staying power". E a questi segnali, è lampante, il Movimento non si sottrae.

Ma c'è un indicatore ulteriore, fondamentale: il partito ha "importanza sistemica"? In parole povere: come utilizza il consenso elettorale? Ha le potenzialità per divenire forza di governo o quantomeno per influenzare il processo politico?
Ad oggi, almeno sui temi fondamentali, il M5S non le ha dimostrate, o meglio, strategicamente non ha voluto dimostrarle.Abbiamo tutti negli occhi il famoso incontro in streaming del 2013 tra Pierluigi Bersani e i capigruppo pentastellati di allora, Vito Crimi e Roberta Lombardi. Ma anche negli altri grandi appuntamenti il movimento di Grillo ha giocato un ruolo a parte, dall'elezione dei Presidenti della Repubblica (specie Mattarella), all'attuale discussione sulla riforma costituzionale, in cui l'unica critica prodotta (tra le tante possibili) è che il Senato delle Regioni garantirebbe l'immunità parlamentare a consiglieri regionali che attualmente non ne godono.

MoVimento 5 stelle
Il gruppo di parlamentari del M5S alla Camera | Fonte: ilfattoquotidiano.it

Finora la strategia dell'estraniarsi dalla "casta", del non scendere a compromessi, ha pagato in termini elettorali. Ma può bastare? Fino a quando? 
Perché poi può capitare di vincere le elezioni amministrative in alcuni comuni importanti. Governare, ahimé, comporta la necessità di accettare compromessi o soluzioni graduali: Pizzarotti, ad esempio, ha vinto le elezioni a Parma promettendo la chiusura di un inceneritore che, nonostante gli sforzi profusi, è ancora in funzione. Governare, in altri termini, porta inevitabilmente ad una contraddizione con la "purezza" finora predicata.

Serve allora un ripensamento dell'agire politico di un movimento giunto alle soglie della maturità, e pare che gli stessi Grillo e Casaleggio se ne siano accorti, specie se si dimostreranno vere le previsioni di chi sostiene che nel prossimo incontro nazionale ad Imola, a metà ottobre, verrà presentata una squadra di governo. Lo dicono gli studi e lo dice la prassi politica: per una fase politica nuova serve prima di tutto una leadership nuova, e la attesa proclamazione di Luigi di Maio, il più "istituzionale" dei volti del Movimento, in luogo dello stesso Grillo, troppo legato alla fase "movimentista" e di protesta, va in questa direzione.
Tuttavia per realizzare il potenziale politico-elettorale del Movimento, e dunque completare la sua istituzionalizzazione, non basta una simile successione - una pure complessa "uccisione del padre".
Per sedersi finalmente al tavolo politico con ambizioni più concrete della semplice testimonianza di una disaffezione - per gran parte comprensibile, serve che il Movimento 5 Stelle definisca (quel tanto che basta nei nebulosi orizzonti della politica italiana) il proprio profilo.
Il M5S è quello del reddito di cittadinanza e dell'ambientalismo delle origini, o è quello che difende Orban e viaggia in Europa con Farage? E ancora, è quello della democrazia diretta o quello delle espulsioni e delle oscure votazioni della rete?

Il cambio di leadership all'orizzonte, insomma, sembra indicarci che il Movimento 5 Stelle ha intrapreso la strada della sua istituzionalizzazione. Un passaggio pericoloso, che richiede un drastico cambiamento dell'agire politico quotidiano, e che rischia di costare in termini di consenso.
Un passaggio necessario, perché un'Aventino costante che non concretizza il sostegno degli elettori non può durare: ci sarà sempre qualcuno più puro, più estraneo e più "innocente" pronto a scalzarti.

Andrea Zoboli



24 settembre 2015

The Bottonomics - È facile smettere di fare auto se sai come farlo

Qual è il miglior modo per imparare a programmare?
Mi ripetevo questa domanda almeno due volte al giorno qualche anno fa: esistono tanti linguaggi di programmazione e, sebbene abbiano tutti la stessa logica alla base, spesso sono solo le istruzioni a differire. Essendo nuovo in ambito informatico, decisi che la miglior cosa da fare, al fine di apprendere, sarebbe stata quella di utilizzare un linguaggio "applicato"; decisi così di comprare l'Arduino Starter Kit.
All'arrivo del corriere fu subito gioia, ma la vera sorpresa fu iniziare a programmare quella scheda: ricordo ancora l'entusiasmo nel vedere il primo led acceso davanti ai miei occhi.

Nella specifico, Arduino è una piccola scheda madre dotata di un microcontrollore che consente di costruire un circuito che interagisce con l'ambiente esterno: un determinato evento che incide su un sensore, ad esempio la temperatura, genera un dato che Arduino capta e, in base alle righe di codice che sono state scritte, trasforma quel dato (in input) in una istruzione in output che consente, ad esempio, ad un led di essere acceso o spento, oppure ad un motorino di essere avviato.

volkswagen dieselgate


La logica alla base di Arduino è la stessa che è alla base del dispositivo che ha consentito alla VolksWagen di eludere i controlli che l'agenzia per l'ambiente statunitense aveva stabilito. Attraverso un software, la casa automobilistica tedesca era in grado di modificare la "mappatura" della centralina elettrica e questo avveniva quando ricorrevano alcune condizioni che non erano possibili in strada, ma solo sui banchi di prova (come ad esempio velocità nulla, angolazione ruote, giri del motore, introduzione sondino digitale nella porta diagnostica, ect). Messa in strada, invece, la vettura modificava le proprie impostazioni perché le precondizioni venivano a mancare e così non solo le prestazioni erano migliori, ma anche il rispetto della normativa sulle emissioni veniva meno. La truffa a danno dei consumatori e dei governi è stata scoperta grazie ad uno studio della West Virginia University che, condotto in strada e con le normali condizioni di utilizzo della vettura, ha permesso di fare luce su quanto accadeva su questi veicoli.

Non sappiamo se la VW sia l'unica ad adottare questo trucchetto, ma la cosa fondamentale da sapere è che la casa automobilistica tedesca ora ne sta pagando le conseguenze in borsa. Conseguenze queste che pesano anche sulla sua leadership mondiale nel settore delle quattro ruote che era stata sottratta, come i dati relativi al primo semestre del 2015 mostrano, al gruppo Toyota. Il titolo ha perso circa il 18% nella prima seduta, passando da un valore in apertura di 162,40 ad uno in chiusura di 132,20. Il danno ammonta a 15 miliardi di capitalizzazione andati in fumo nella sola seduta di lunedì 21 settembre a cui potrebbero aggiungersi 18 miliardi (di dollari) di multa che l'autorità americana potrebbe infliggere nella peggiore delle ipotesi. Gli investitori hanno continuato a punire il gruppo VW anche nella seduta di martedì, seduta che ha visto il prezzo delle azioni scendere fino a 106, bruciando ancora valore. La perdita totale in termini di capitalizzazione è stata di 24 miliardi. In sole due seduta il gruppo ha perso un terzo del suo valore.
Ma il sospetto che VW non sia l’unica ad adottare questo dispositivo ha generato panico tra gli investitori che hanno penalizzato, anche se in parte minore, altri marchi automobilistici come BMW (-6,32%), Peugeot-Citroen (-8,76%) e FCA (-6, 21).

Secondo il Die Welt, un autorevole quotidiano tedesco, il governo tedesco sapeva di questo dispositivo anche perché lo scorso 28 luglio c’era stata una interrogazione dei Verdi al ministro dei trasporti tedesco e, ad ogni modo, era già dal 2014 che negli USA i sospetti si aggiravano sullo storico marchio che, ad ogni accusa, smentiva.

Questa storia, ormai rinominata Dieselgate, ha anche dei forti riscontri politici: da una parte, paesi come la Francia ed il Regno Unito (storici costruttori di auto) sollecitano una commissione di inchiesta europea che faccia luce sulle attività del gruppo in Europa; dall’altra paesi come l’Italia, valutano se emettere un blocco alle vendite delle auto del gruppo (non solo VolksWagen, ma anche Audi,  Porsche, etc).
Questa storia ha davvero dell’incredibile, non solo se si pensa che il gruppo VW ha truffato il mondo intero vendendo circa 11 milioni di vetture truccate, ma anche perché il gruppo, come è definito dall’OCSE, è una PSOE, cioè una società che ha una componente societaria  parzialmente pubblica. Infatti, come si evince dal sito web della casa automobilistica, lo Stato di Bassa Sassonia detiene il 20% dei diritti di voto.

Ma che figura ci fanno la Germania e la cancelliera Merkel? Loro che sono stati sempre in prima linea per ridurre le emissioni in Europa! Ad ogni modo questa storia non finisce qua, anche perché, come faceva notare sempre il Die Welt, questa serie di dispositivi non sarebbero necessariamente legati ad un motore diesel o benzina e questo vuol dire che anche altre tipologie di controlli, magari legati all’industria o a qualcos’altro, potrebbero essere stati elusi.


In conclusione dico che la VolksWagen da questa storia ne uscirà di sicuro con le ossa rotte (basti pensare che ha già accantonato 6,5 miliardi per far fronte al pericolo concreto di una multa negli USA) e la Germania, dato il suo ruolo in Europa e nel gruppo automobilistico, almeno debolmente indebolita. Non credo che il gruppo cesserà di esistere (il titolo è un omaggio a tutti quelli che hanno letto il libro di Allen Carr e non hanno smesso di fumare), ma questa storia avrà serie ripercussioni sia economiche che politiche.

Niky Venza

23 settembre 2015

Il ritorno di Gazebo

Gazebo
La storica copertina disegnata da Makkox. Fonte: community.rai.it
Il 27 Settembre su Rai3 torna Gazebo, con il classico doppio appuntamento settimanale in seconda serata che ci ha fatto fare le ore piccole nelle stagioni passate. Il programma di Diego Bianchi, in arte Zoro, che si è ormai aggiudicato il ruolo di trasmissione culto per gli aficionados di quel giornalismo puro e semplice in salsa romana, è un diamante grezzo nel panorama, spesso deprimente, della televisione italiana e per questo merita un focus di buon inizio stagione. Le aspettative riposte nei prossimi appuntamenti, infatti, sono altissime ma non dobbiamo confondere il nostro affezionato Gazebo con una trasmissione televisiva di ampio share.  Gazebo nasce, infatti, come programma di nicchia posizionandosi in quel continuum di trasmissioni di qualità di rai3 scritte da Andrea Salerno, che appassiona un’intera generazione di ragazzi cresciuti con gli indimenticabili Per un pungo di Libri e L’Ottavo nano.

Non ci si aspetta, quindi, niente di più e niente di meno di una versione aggiornata della formula classica fatta di vignette, giornalettismo, musiche e reportage brillanti del “cronista-compagno” Bianchi, secondo la dicitura di Riccardo Bocca de L’espresso.
La formula vincente che ha portato Gazebo a compiere il quarto anno d’età è, come in tutti i casi di successo che si rispettino, l’originalità e la qualità in un mix di improvvisazione e tempi ridotti. Gazebo è infatti riuscito a trovare, forse accidentalmente, la ricetta perfetta per un programma d’informazione e satira con sottofondo musicale di qualità grazie allo spessore e l’intelligenza dei suoi ideatori, eccezione fatta per l’intermezzo di Jovanotti in quella infausta puntata primaverile. Zoro, però, non è il solo artefice del mix esplosivo del programma, è quell’ensemble di Marco d’Ambrosio Makkox insieme a Mirko-Missouri 4, Marco Damilano, Roberto Angelini e Giovanni di Cosimo che hanno portato valore aggiunto a Gazebo.

Social TopTen
La Social TopTen -  Fonte: twitter.com
Il programma è andato così caratterizzandosi per la sua semplicità quasi neo realista ed una casualità degli interventi da far sentire gli spettatori ad una serata tra amici, in quel mood che ricorda programmi storici come Quelli della Notte di Arbore o Blitz di Gianni Minà.
Ciò che noi, fedelissimi di Gazebo, attendiamo con ansia è proprio il ripetersi dei tormentoni degli ultimi anni come i tutorial di Makkox, le social top ten con i vari premi #Gac e gli #Stopamen di Radio Maria, ma anche gli spiegoni di Damilano e i sondaggi di Mirko che hanno fatto da intermezzo ai reportage di un certo spessore di Zoro, attenti e puntuali nel raccontare la realtà italiana ed internazionale.
Un elogio in particolare, infatti, va rivolto alle inchieste portate avanti da Gazebo che più di una volta si è trovato all’interno della notizia. Impossibile da dimenticare quando, ad Ottobre scorso, Zoro con la sua telecamera a mano ha documentato gli scontri a Roma tra la polizia e gli operai dell’Acciaieria di Terni registrando il “caricate!” di un dirigente della polizia, smentendo così la versione fornita dal Ministro degli Interni Alfano.
E’ quindi apprezzabile l’idea che in questa nuova stagione l’intento sia quello di dare ancora più spazio ai reportage e alle Gazebo-storie come quella dei coniugi siriani, seguiti dalla Grecia fino ad Amburgo, purchè i reportage rimangano sempre caratterizzati da quell’amatorialità voluta dei montaggi di Diego Bianchi e da quegli sprazzi musicali geniali che li  contraddistinguono.
Gazebo ha avuto il merito di non snaturarsi con il passaggio primaverile in prima serata, riuscendo a mantenere quell’aurea casual anche sui tempi lunghi, ma Gazebo è per sua natura un animale da seconda serata ed è così che, sembra, lo rivedremo da fine mese con immensa gioia di noi affezionatissimi della premiata formula di Zoro and friends.

Gaia Taffoni
@TaffoniGaia

22 settembre 2015

Alexis Il Grande

Fonte:  Il Quotidiano Nazionale
Per la seconda volta, dopo quelle del 25 gennaio scorso, Tsipras ha vinto le elezioni politiche con il 35,5% di preferenze ottenendo una maggioranza relativa fatta di 145 seggi sui 300 previsti dal Parlamento greco.
Così come successo a gennaio, dove ne aveva ottenuti 149, dovrà per forza di cose formare un governo di coalizione passando per l’alleanza dei Greci Indipendenti di Anel, partito di destra ed euroscettico che ha ottenuto 10 seggi ed è guidato da Panos Kammenos.
Nea Dimokratia è il secondo partito, con il 28,1% dei voti e 75 seggi, i neofascisti di Alba Dorata sono il terzo partito con il 7% e 18 seggi, quarti i socialisti del Pasok con il 6,28 per cento (17 seggi). I comunisti di Kke si attestano al 5,6% con 15 seggi, To Potami al 4,09% con 11 seggi. I Greci indipendenti ottengono il 3,69% con 10 seggi e l'Unione dei centristi il 3,43% con nove seggi.

Lunedì sera Tsipras ha giurato davanti al Presidente della Repubblica Prokopis Pavlopoulos e a breve formerà un nuovo esecutivo che potrà contare su un totale di 155 seggi sui 300 del Parlamento, una maggioranza abbastanza solida che gli permetterà di governare senza incontrare particolari ostacoli.
Dalle prime indiscrezioni sembrerebbe che la prima mossa del premier sarà quella di istituire un iper-ministero per la Troika, concentrato cioè sul memorandum e sulle misure dei creditori, che dovrebbe essere occupato dall’ex ministro delle finanze Euclid Tzakalotos, che già aveva sostituito Varoufakis nel precedente Governo.
Le elezioni di domenica passeranno alla storia anche per il record negativo di affluenza alle urne, intorno al 56%, percentuale più bassa di sempre nella storia della Grecia.

I risultati, invece, sono stati pressoché simili a quelli del gennaio scorso, e proprio per questo sorprendenti.
I sondaggi dei giorni precedenti la tornata elettorale, infatti, erano abbastanza pessimisti nei confronti di una riconferma di Tsipras, o meglio riguardo al raggiungimento di una maggioranza relativa che gli avrebbe permesso di non dover stipulare un accordo con Nea Dimokratia.
Ma i sondaggi, come a volte succede, hanno sbagliato i propri calcoli, forse sottovalutando la forza di Tsipras o sopravvalutando quella dell’avversario.
Sta di fatto che il leader di Syriza ha trionfato nel vero senso della parola, non per quanto riguarda l’aspetto numerico bensì per quanto riguarda le modalità con cui ha condotto i suoi uomini alla riconferma in Parlamento.
Si è dimesso da Primo Ministro con lo scopo di avere una posizione più forte, ha visto la minoranza interna del suo partito fuoriuscire, formare un nuovo soggetto politico e non riuscire a superare la soglia di sbarramento necessaria per entrare in Parlamento, e il tutto dopo la firma del pacchetto di accordi con la Trojka che poteva seriamente pregiudicare la sua carriera politica.
Certo ha rischiato, come già era successo con il referendum del 5 luglio scorso, ma ha ottenuto quello che cercava: una nuova investitura popolare e una credibilità da esibire da qui in avanti per il resto della legislatura.

Piazza Syntagma in festa, venerdì 18 settembre 
È una vittoria a tutto tondo, una vittoria dell’anima e nell’anima dei cittadini che l’hanno votato, anzi ri-votato, convinti che una possibile rinascita greca possa passare solo e soltanto da e con il suo lavoro.
Proprio a loro, lunedì sera a risultato ormai assodato, Tsipras ha parlato dicendo di sentirsi vendicato da questo risultato e al tempo stesso pronto per continuare a combattere sia dentro che fuori il Paese.
Se si dovesse fare un paragone con le elezioni del gennaio scorso, quelle di domenica passerebbero certamente in secondo piano, non tanto per l’importanza, bensì per l’alto tasso di astensione (+10%) e per quel senso di speranza che oggi è più debole di come lo era solo nove mesi fa.

La sfida che lo aspetta è affascinante, ma anche molto lunga e con parecchi ostacoli da superare.
Nei mesi precedenti si è battuto come un gladiatore nell’arena delle banche per cercare di ottenere le condizioni più favorevoli possibili per il ripianamento del debito greco, ed è riuscito a strappare una maggiore flessibilità da parte della Trojka.
Se da un punto di vista pratico Tsipras non può far altro che applicare le impopolari riforme contenute nel piano di aiuti, dal punto di vista morale, culturale e forse anche intellettuale ha l’onere e l’onore di cambiare una mentalità ancorata al passato e totalmente fuori luogo al giorno d’oggi. Abolizione delle agevolazioni fiscali per gli agricoltori, fine delle pensioni anticipate, ricapitalizzazione delle banche, ristrutturazione del debito pubblico e fine della corruzione.
Queste sono le basi da cui ripartire, e sono già di per loro sufficienti a mantenere la Grecia all’interno dell’Unione europea e dell’Euro.
Già, l’Europa.

La vittoria di Tsipras è soprattutto una buona notizia per l’Europa, perché i greci con il voto di domenica hanno scelto l’Europa e hanno capito che i loro interessi sono all’interno dell’Unione, e non al di fuori essa.

Giacomo Bianchi
@GiacomoBianchi6

20 settembre 2015

SundayUp - I filantropi vestiti di stracci

The Ragged Trousered Philantropists è il romanzo marxista britannico per eccellenza. Scritto all’inizio del XX secolo, fu pubblicato censurato, dopo tanti rifiuti, nel 1914, dopo la morte del suo autore irlandese Robert Tressell. Non è un trattato, né un saggio sul socialismo - sebbene non manchino vere e proprie spiegazioni educative terra-terra della teoria marxista - ma un romanzo. Un’opera che, pur essendo l’unica mai scritta dal suo autore, lascia trasparire un’abilità narrativa e una leggerezza espressiva che soltanto pochi grandi talenti hanno avuto la fortuna di possedere.
È la storia di alcuni imbianchini impiegati presso una ditta chiamata “Rushton & Co., Builders and Decorators” situata nel paesino fittizio di Mugsborough, nel sud-est dell’Inghilterra, attorno al 1906. I giovani, gli anziani e i minorenni sfruttati che glitteravano le case di cinici uomini di chiesa e capitalisti corrotti in cambio di salari di sussistenza, vengono un giorno affiancati da Frank Owen, un operaio qualificato che inizia a parlare loro con voce profetica, della sua eccentrica visione di una società giusta. Il linguaggio vrai, dialettale, analfabeta dei muratori che a malapena sapevano leggere traspare dai dialoghi trasportandoci nella realtà di quelle esistenze misere, sprecate. Una trama ricca di svolte inaspettate, dialoghi brillantemente comici ed emozionanti allo stesso tempo e resoconti dettagliati e talvolta perfino osé, considerata l’epoca storica, del modo di vivere, di vestire, mangiare e svagarsi degli inglesi dei primi del Novecento. Tressell era stato uno dei lavoratori - scrisse il libro nel suo tempo libero – e nella prefazione all’opera precisa che il suo intento principale era quello di scrivere una storia degna di nota, piena di interesse nei confronti dell’umanità e basata su avvenimenti della vita di tutti i giorni; il tema del Socialismo era stato trattato solo “incidentalmente”. Dal mio ingenuo punto di vista, Tressell si imbatté nel tema sociale più che accidentalmente, quasi premeditatamente. L’unica pecca del romanzo, infatti - volendone trovare una se non altro in nome dell’oggettività di questa analisi - è la ripetitività dei concetti che stanno alla base dello spirito del capitalismo. La ripetitività, tuttavia, non è servita a molto: le situazioni di sfruttamento descritte non sono estranee nemmeno all’Italia del 2015.


Andando oltre a quelli che sono i luoghi comuni che scappano ad ogni analisi di questo genere, il plusvalore aggiunto da Tressell sta nel definire il concetto di povertà in relazione a quelli che sono i “benefici della civilizzazione”. E’ povero colui che non è in grado di assicurarsi i comfort, i piaceri e le comodità che lo sviluppo tecnologico e il progresso culturale hanno portato all’animale uomo. È povero colui che non si può permettere il lusso di avere del tempo libero da dedicare ai libri, al teatro, alla musica, alle vacanze e ai viaggi, al buon cibo, alle case belle e confortevoli, ai vestiti comodi. Quest’affermazione ha delle implicazioni che tutt’oggi valgono una profonda riflessione.
Il titolo, in pieno stile da humour inglese, è ironico. Tressell finisce per dare la colpa ai proletari stessi per la vita a cui sono costretti. Perché, pur avendo avuto la fortuna di imbattersi in Owen - uno dei pochi che sapeva leggere ma soprattutto capire e ragionare sulla realtà - che spiega loro la necessità di agire, di provare almeno ad uscire da quella situazione ai limiti della sussistenza, alla quale i loro stessi figli erano inevitabilmente destinati, si rifiutano. Offrono le loro forze e la loro vita ai padroni nientemeno che in beneficenza. Non ascoltano Owen, non lo capiscono, lo deridono. Chi capisce invece, ha paura. Non può immaginarsi un’esistenza diversa da quella che conduce e ha paura di perdere anche quel poco che ha, la propria vita. Dalle parole di Owen traspare pietà, rabbia e infine delusione verso quei lavoratori che non riescono ad avere coscienza della propria condizione, ai quali, fin da piccoli, l’ipocrisia della chiesa e della società ha insegnato loro di non essere all’altezza, di essere creature inferiori alle upper-classes vittoriane. Il poter vivere usufruendo dei “benefici della civiltà non è roba che fa per noi” – sbuffano gli imbianchini tornando al lavoro.


Il finale è happy se guardato dalla prospettiva del breve periodo, ma non scontato e la speranza con cui Tressell guarda nel futuro, verso il sorgere del “sole del Socialismo”, racchiude un’ingenuità talmente pura da togliere il fiato.
Morale della storia: trattate bene gli imbianchini che vi dipingono la casa e, se potete, dato che purtroppo non è mai stato tradotto in italiano, pur avendo dato vita a film e numerose opere teatrali, oltre che ad un’associazione che ne porta il nome, leggete questo eccezionale romanzo.


Elena Calarasu

17 settembre 2015

Elezioni in Grecia: che vinca il migliore o che vinca qualcuno?

Le dimissioni di Tsipras sono dovute alla volontà dello stesso di avere un mandato forte, una maggioranza assoluta. Passata dai 149 seggi di inizio legislatura, ai 123 del mese scorso, la maggioranza è venuta meno nel corso della precedente esperienza di governo, ma è necessaria affinchè l’ingegnere ateniese possa portare avanti gli accordi firmati con la Trojka (Unione europea – Banca Centrale – Fondo Monetario internazionale) per disporre così di nuovi aiuti economici in cambio di riforme particolarmente severe e strutturali.
Tsipras, nel corso di questa campagna elettorale, ha più volte dichiarato di aver commesso considerevoli errori durante i suoi 7 mesi di governo, ma al tempo stesso di essere fortemente sicuro di aver sostenuto ed affrontato un durissimo ed estenuante negoziato, prendendosi la responsabilità del passato, del presente e del futuro del Paese, a differenza di quanto fatto dagli altri Governi ellenici, in particolare quello del suo predecessore Antonis Samaras, incautamente piegatosi alle richieste e ai voleri della Trojka.
Tsipras ritiene che il debito greco, dopo il pacchetto di accordi firmato nei mesi scorsi, possa essere saldato e la nazione possa prendere una direzione positiva e di crescita,  dopo essere caduta in una profonda crisi economica e socio-morale.
Il quartier generale di Syria in Piazza Panepistimio.
Fonte: L'Espresso.it
Al momento, i sondaggi ci dicono che Syriza, il partito del premier uscente, sia ancora leggermente favorito per la vittoria finale, con un vantaggio però ridotto nei confronti di Nea Dimokratia, il partito di opposizione guidato da Vangelis Meimarakis, avvocato e Ministro della Difesa dal 2006 al 2009. Gli ultimi sondaggi danno Meimarakis a solo un punto di distacco di Syriza, fermo al 27%. Tsipras vinse le elezioni nel gennaio scorso con il 36% dei consensi, mancando di un solo seggio la maggioranza assoluta in Parlamento.
Questo è - ed è stato - lo scopo del leader di Syriza, ovvero quello di dimettersi e di perseguire la via delle elezioni anticipate per tentare di capitalizzare il più possibile il suo consenso, e di conseguenza ottenere quella maggioranza assoluta sfuggita di un niente 7 mesi fa.
I sondaggi mostrano però che difficilmente Syriza ripeterà il risultato di gennaio, bensì è molto probabile che perda dai 6 ai 7 punti percentuali e forse, nel caso più eclatante, anche la vittoria, scontando gli ultimi avvenimenti e gli accordi firmati con la Trojka, i quali si sono dimostrati ancora più duri di quelli respinti dal voto popolare con il referendum del 5 luglio scorso. 

"La campagna elettorale" nel quartiere di Omonia
Il sistema elettorale greco, preso atto della quasi parità dei due principali partiti, non prevede la possibilità di formazione di un Governo che non si allei con altre forze politiche, andando così a formare una vasta coalizione. Un accordo Syriza-Nea Dimokratia è quasi un’utopia, vista la distanza di ideali e di politiche riguardo ad Europa, immigrazione ed economia, anche se Meimarakis ha dichiarato nei giorni scorsi di voler stringere un’alleanza con il principale partito dell’opposizione nel caso di vittoria, solo e solamente per mantenere la Grecia nell’Euro.
Nel caso in cui dovesse vincere Syriza, senza ottenere la maggioranza assoluta, dovrebbe per forza di cose cercare alleanze tra i socialisti del Pasok e del Partito centrista To Potami guidato da Stavros Theodorakis, dato che gli ex alleati, i Greci Indipendenti, non dovrebbero riuscire a superare la soglia di sbarramento del 3%.
I comunisti del PKE e Unità Popolare, i fuoriusciti da Syriza, inizialmente erano dati intorno al 5% delle preferenze, ma nelle ultime settimane sembrano faticare persino ad ottenere un solo seggio in Parlamento.
Se dovesse verificarsi uno scenario come quello appena descritto, Tsipras non potrà far altro che rimettere il proprio mandato al Presidente della Repubblica e passare il testimone a Nea Dimokratia, tornando nuovamente alle urne, così come avvenne nel 2012 con Antonis Samaras.
Anche nel caso in cui dovesse vincere Vangelis Meimarakis, sempre senza la maggioranza assoluta, i voti dei presunti alleati, Pasok e To Potami, non sarebbero sufficienti per formare un governo di maggioranza, costringendo il leader di Nea Dimokratia  a rimettere il proprio mandato al Presidente della Repubblica, così come farebbe Tsipras. 

L’unica ipotesi che in questo momento sembrerebbe superare lo spauracchio dello stallo, vede i due partiti principali rendersi conto della necessità di costituire, se nessuno dei due dovesse ottenere la maggioranza assoluta, un Governo nazionale che accetti in toto di dare esecuzione al pacchetto firmato con la Trojka, e prenda decisioni in materia economica utili a far ripartire il Paese.
Si tornerebbe perciò alla situazione appena precedente le dimissioni di Tsipras, quando Syriza votava i provvedimenti insieme a Nea Dimokratia affinché la Grecia potesse ricevere gli 86 miliardi di euro compresi negli accordi della Trojka.

E gli altri?

Accennato della versatilità governativa di Pasok e To Potami, e della risolutezza del PKE e Unità Popolare, alle prossime elezioni si presenteranno ben 19 partiti che non potranno che creare un Parlamento molto frammentato al suo interno. Stando agli ultimi sondaggi non dovrebbero superare la soglia di sbarramento del 3%, necessaria per ottenere almeno un seggio, dai 7 agli 8 partiti.
Chi invece questa soglia la sorpasserà, e non di poco, è Alba Dorata, partito neonazista, euroscettico e fortemente nazionalista nato nel 1993 e rappresentato dal leader Nikòlaos Michaloliákos. Alba Dorata dovrebbe ottenere intorno al 7% di voti, nonostante i guai che ha dovuto affrontare dopo la denuncia e in parte la condanna del suo direttivo per l’uccisione del rapper greco Pavlos Fyssas, avvenuto il 18 settembre 2013, diventando così il terzo partito ellenico. 
I dubbi sul prossimo Primo Ministro
Fonte: ilpost.it
In Grecia, a differenza di inizio anno, non c'è nessuna novità, nessuna speranza, nessun entusiasmo che accompagni le elezioni, quei sentimenti di rivincita e di rilancio che c’erano solo nel gennaio scorso. Solo un grande senso di amarezza e delusione e la sensazione di aver perso un’altra possibilità di ribalta.
Il timore più grande è dato dal fatto che sarà difficile per uno dei due partiti favoriti alla vittoria ottenere una maggioranza assoluta necessaria a governare, e questa è l’unica cosa che la Grecia dovrà evitare.

Che vinca qualcuno, in questo caso anche il peggiore.

Giacomo Bianchi 
@GiacomoBianchi6


The Bottonomics - Data revolution: ride bene chi ride primo

Lee Evans
Lee Evans è, tra gli attori comici inglesi, uno dei più famosi. Mi è capitato di vedere un suo spettacolo in tv un po' di tempo fa, appena giunto in UK. I miei coinquilini dell'epoca, Grant e Chris, erano piegati in due dalle risate e avevano seri problemi con la regolare respirazione. Insomma, lo show più divertente della loro vita. Ed io? Serio, quasi impassibile. Accennavo qualche sorriso di tanto in tanto, ma niente di che. Adesso, a parte lo humour inglese che, come universalmente risaputo, a noi italiani trasmette poco, c'era un problema di fondo: io non ridevo perché non capivo nulla di quello che Lee Evans diceva. Per dirla in economichese, Lee Evans trasmetteva con la sua produzione orale e mimica una serie di messaggi che Grant e Chris erano in grado di cogliere ed elaborare in informazioni che permettevano loro di aumentare il proprio benessere. Io, al contrario, non ero in grado di cogliere ed elaborare, quindi non aumentavo il mio benessere se non in modo parziale quando, qualche gesto sconsiderato di Evans, generava un accenno di sorriso sulle mie labbra.

Ecco, analogamente a quanto a me accaduto su quel divano a Leicester, questo è quello che accade oggi nel mondo delle imprese (e non solo): ci sono imprese in grado di raccogliere dati e trasformare questi in informazioni utili per il loro processo produttivo e/o innovativo ed imprese che, invece, non hanno la forza di ridere perché non sono in grado di comprendere quello che i dati raccontano. La potenza delle informazioni nascoste nei dati è straordinaria e dirompente o, per dirla con un termine americano molto in voga, disrupting.

In un recente articolo della MIT Sloan Management Review, Joe Locarno, CIO della Cathay Pacific ("Hong Kong's premier Airline" - Cit.), racconta di come il business dei voli stia diventando sempre più "data-driven": comprendere i dati significa avere nuove informazioni e avere nuove informazioni significa essere in grado di elaborare nuovi servizi o servizi più efficienti. Insomma, come aveva predetto Michael E. Porter in tempi non sospetti, l'informazione è in grado di conferire vantaggi (competitivi) alle imprese e la diffusione di strumenti "smart" può solo aumentare la capacità di queste di raccogliere dati. Ecco perché da un lato le imprese cercano di captare informazioni dal loro processo produttivo e dall'altro cercano di capire quali sono i gusti dei loro clienti o potenziali tali. Ad esempio, come si legge nell'intervista fatta a Locarno, monitorare i bagagli e avere una conoscenza precisa di dove essi siano in ogni preciso istante consente alla Cathay Pacific di implementare il servizio di consegna a domicilio che lo stesso cliente può facilmente attivare con un click dal suo smartphone, magari mentre legge il suo giornale online preferito che gli è stato gentilmente offerto dalla compagnia.
Se ci sono i margini di profitto (e a quanto pare ci sono), le imprese saranno incentivate a raccogliere dati e ad elaborarli così da concretizzare un vantaggio nei confronti dei propri competitor. La data revolution, inoltre, apporterà analoghi vantaggi anche nel settore pubblico, settore in cui Governi ed Istituzioni potranno aumentare la loro efficienza e velocità, oppure comprendere nuove esigenze e creare nuovi servizi ai cittadini.

Per concludere dico solo che in un futuro molto prossimo lo stock di dati sarà sicuramente un core asset e la loro elaborazione una core activity per tutte quelle imprese che non vorranno restare in poltrona a guardare gli altri ridere.

Niky Venza