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31 agosto 2015

Una voce dal limbo: Sam racconta il suo viaggio verso l'Europa

A_to_B_project, da A a B, da un punto all’altro, come siamo abituati a chiedere indicazioni a Tom Tom e Google maps. Basta posizionarsi davanti ad un computer, digitare due indirizzi ed è fatta. Chiunque può essere un punto di partenza, chiunque può essere un punto di arrivo, ma non per tutti il percorso è libero. Ecco, questa volta si tratta di un percorso diverso da quelli che siamo abituati a percorrere.

Diverso è il punto di partenza, la Siria, prima, e la Turchia, per la precisione Bodrum a circa 23 km in linea d’aria dalla costa dell’isola di Kos. Diversa è la meta: la Grecia e poi chissà, Germania, Svezia… Europa. In una sola parola: futuro.
Diverso è l’autore di questo viaggio, Sam, 26 anni, siriano.
Diverso è anche il modo grazie al quale conosciamo questa storia. Lei, la voce di Sam, è una ragazza italiana. Come potrebbe capitare a tutti noi, ha scaricato WeChat per chiacchierare con gli amici, annoiandosi ha provato la funzione “Agita” e così è cominciato tutto. Nella chat si sono incontrati il bisogno di raccontare e la profonda esigenza di capire davvero. Sui giornali leggiamo tutti i giorni notizie sui migranti, siamo abituati a lasciarci scorrere davanti anche le immagini più crude, ma come reagiamo di fronte alla voce, una voce viva, di un viaggio ancora sospeso tra A e B, tra la vita e la morte?

La distanza che separa Bodrum, Turchia, da Kos, Europa
Sam è un ragazzo, in Siria studiava Tourism Management a Damasco, ma non ha potuto laurearsi a causa della guerra civile che ormai da quattro anni sta martoriando il Paese. Un conflitto intricato e complesso, raccontato tra gli altri da Francesca Borri, che ha costretto più di quattro milioni di siriani a lasciare le loro case perché la Siria, oggi, non è un posto sicuro per nessuno. Sam è uno tra i milioni di profughi e ha scelto di scappare così perché non gli sembra ci sia un’alternativa, si sente lasciato in balìa dei trafficanti di uomini. Non fa che confermare una fortissima mancanza da parte dell’Unione Europea: l’assenza di una via legale per richiedenti asilo e rifugiati per raggiungere il Vecchio Continente. Sam ci ha provato: ha inviato application per università e borse di studio, ha richiesto visti turistici, ma anche quando un’università tedesca l’aveva finalmente accettato, la burocrazia ha vanificato tutti gli sforzi fatti.

Eppure la maggior parte dei siriani che arrivano in Europa non hanno difficoltà ad ottenere una forma di protezione internazionale, proprio in questi giorni la Germania ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino per facilitare il riconoscimento della protezione internazionale ai siriani. Per la stessa ragione da anni, ormai, le principali associazioni ed organizzazioni attive nel settore palesano la necessità di creare dei veri e propri corridoi umanitari che, partendo dai campi di Turchia, Giordania, Libano, tolgano tanti essere umani dalle mani dei criminali. Una richiesta a cui i governi continuano ad essere sordi, mentre nel Canale di Sicilia si continua a morire.

Così come ha lasciato l’università per non essere costretto a prendere parte alla guerra che fosse con il Free Syrian Army o con l’esercito degli Assad, Sam è scappato da casa per approdare in Turchia. Si è fermato una manciata di giorni a Bodrum, insieme ad altri siriani come lui, nell’attesa del proprio turno per imbarcarsi. Nel frattempo affida ai messaggi vocali il suo punto di vista sulla situazione nel suo Paese d’origine dove tutti combattono per l’Islam e non sembra esserci scampo. In sottofondo si sente un bambino piccolo piagnucolare, qualche risata. 

Bodrum
Le giornate sono scandite dall’incertezza. Il primo viaggio è stato annullato, ma per Sam e altri quattro compagni di viaggio non c’è altro posto dove andare, gli hotel sono cari e vogliono preservare tutto quello che hanno per la loro nuova vita in Europa. Restano al punto di ritrovo, aspettano. Aspettano che il trafficante risponda al telefono. Aspettano che ci sia la possibilità di partire. “Sto seduto qua e non ho idea di cosa succederà poi.”.

Ha deciso di raccontare la sua storia ad una ragazza italiana, di affidare i suoi pensieri ad una manciata di messaggi vocali non per protagonismo, ma seguendo l'istinto che dice di denunciare quello che accade davanti ai suoi occhi: "Do queste informazioni perché siano usate contro chi sfrutta questa situazione. Ho nomi, numeri di telefono, location... non sono un promoter dei trafficanti, anzi tutto il contrario." 
E' la mancanza di alternative legali, appunto, che l'ha portato e ha portato tantissimi come Sam a rivolgersi ai trafficanti. E, ora, ad attendere che venga il proprio turno di prendere il mare. E dopo?

Già, cosa succederà poi ad S., una vita in sospeso tra tante. E se arrivasse davvero a Kos? Proprio sull’isola greca dove la polizia non più tardi di qualche giorno fa ha caricato i migranti con estintori e manganelli. La stessa isola dove le scorte di acqua e medicinali non sono sufficienti per tutti i settemila migranti che si trovano lì, soprattutto siriani ed afgani. 

E poi? Per i più fortunati c’è Atene dove sono state più volte denunciate le mancanze e i limiti dei centri di accoglienza. Dopo ancora il viaggio si bloccherà a Gevgelija, al confine tra Macedonia e Grecia dove centinaia di persone si accalcano alla stazione per salire sui treni che portano in Serbia. Una vera corsa contro il tempo, prima che l’inumano muro voluto tra premier ungherese Orban diventi realtà a sbarrare il passaggio verso l'Ungheria. Il muro non è altro che una recinzione alta 4 metri e lunga 175 km che sarà completato entro il mese di novembre. 

E’ davvero questo quello che siamo capace di offrire a Sam? E’ questo ciò che si può definire "accoglienza", sostegno, solidarietà? Sam è uno come tanti, non conosciamo il sul volto, non conosciamo tutta la sua storia, non sappiamo nemmeno cosa sarà di lui. Però S. è una voce che, grazie a WeChat e all’empatia di una persona, ci racconta quello che vede. Senza pretese di verità, senza sforzi retorici. Lasciando ogni riflessione a chi legge, a chi ascolta, a chi non vuole stare nascosto dietro un muro di filo spinato.

30 agosto 2015

SundayUp - Appino, "Grande Raccordo Animale" (2015)

Voi altri vi annoiate perché non avete una vita interiore!” tuonava mio padre 
(Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, 1963)

Si faccia una vita interiore, di studio, di affetti che non siano soltanto di “arrivare”, ma di “essere” e vedrà che la vita avrà un significato 
(Cesare Pavese in una lettera a Fernanda Pivano, 1944).
Ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro, e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro  
(Colette, 1937)

Ascoltare gli album da solista di Andrea Appino dopo aver ballato e cantato tutte le canzoni degli Zen Circus con un livello di stonataggine e un tono di voce tanto alto da inimicarsi praticamente tutto il vicinato è un po’ come leggere il diario personale di un qualcuno di cui conoscevamo solo la facciata pubblica. Il fatto che il cantante pisano abbia deciso di permetterci di andare oltre la maschera sociale e i toni accesi delle canzoni da serata in compagnia non può non svelarci, in una dimensione micro, qualcosa in più su di lui, ma anche, da un punto di vista più universale, sulla necessità di raccontare se stessi come individui isolati, di mostrare come siamo quando rimaniamo da soli. È innegabile l’enormità del bisogno che tutti noi, come esseri umani, abbiamo di conoscere profondamente noi stessi e di (se non possiamo amarci) quantomeno di accettarci, perché ogni cosa è volatile, passeggera, aleatoria, e siamo noi stessi e soltanto noi stessi le uniche persone con cui passeremo il resto della nostra vita.

Andrea Appino, che “non credo negli slogan, li trovo inutili quanto i tweet”, dopo aver esplorato i legami e i rapporti umani nel suo primo album da solista Il Testamento (2013), vira verso mari più oscuri e nebulosi, accompagnandoci con un tuffo piroettante e deciso nel tema del cambiamento e del viaggio, che è una metaforica immersione nel Sé e nelle screziature della propria anima. Il frontman degli Zen Circus si spoglia di (almeno parte del) nichilismo feroce e mordace che contraddistingue la band pisana e della critica sociale. La bellissima Ulisse che apre il disco mettendoti addosso un’esigenza di partire fisica, un pizzicore allo stesso tempo fastidioso e stimolante, poiché è solo andandocene da un qualsiasi luogo che possiamo sentire l’esigenza di tornarvi, tanto più se si tratta di tornare a casa o (per citare Moni Ovadia) di tornare a se stessi.


Il tono malinconico di Rockstar, lontano anni luce dai riff ossessivi e danzerecci di Nati per subire o di Canzoni contro la natura, senza per questo essere meno coinvolgente, è un alito di vento malinconico che ti sussurra all’orecchio che il tempo passa e non si ferma per nessuno e che la vita non ti aspetta e non ti aspetterà se non inizi a viverla.

se avessi studiato
ora magari sarei professore
di quelli un po' trasandati
affascinante giovanile
le studentesse mi chiederebbero di uscire
io farei il superiore ma pio
gli do il numero di cellulare

L’ironia caratterizzante è sempre presente, anche se in una forma più delicata, dolce-amara. Ma probabilmente è proprio in Grande Raccordo Animale, terza traccia, 3 minuti e 35 secondi di auto-analisi quasi terapeutica che Andrea Appino presenta il messaggio di fondo dell’album, presentando come una sua caratteristica la sensazione condivisa da tutti coloro che non riescono a trovarsi, a non sentirsi apolidi in un mondo di certezze e apparenze.

Io non so la forma
né la densità
non ho le giuste proporzioni
non so la quantità
ma sono certo di volere
si chiama volontà
e se volere è sapere
io so la verità
Io non so la forma
né la densità
non ho le giuste proporzioni
non so la quantità
ma sono certo di volere
si chiama volontà
e se volere è sapere
io so la verità


C’è una velata e dolce tristezza nei testi di Appino, una sensazione spalmabile come una densa crema alla nocciola, qualcosa di amaro e pungente. Passeggero e delicato, qualcosa che se ne andrà, che si può trasformare in creatività e in malinconiche lacrime di comprensione, perché la tristezza è umana, ed può essere necessaria a farci sentire vivi. Sono la depressione e la disperazione che mettono radici dentro di noi e ci cambiano, ci trasformano in persone diverse, rendendoci fragili e atomizzandoci in un universo nero e straniante.

Sofia Torre 

28 agosto 2015

SundayUp - Ode ai festival locali


L’Italia non ha cultura musicale. 
L’Italia ha una cultura musicale, ma fa schifo. 
In Italia la gente non va ai concerti, e se ci va è per farsi i selfie da pubblicare su Instagram corredati da hashtag in numero variabile da 5 a ∞. Se l’Italia fosse il Regno Unito c’avremmo forse meno pizza, ma un sacco di gruppi fighi avrebbero il successo che si meritano.
Tutto questo può essere vero. Ma nonostante la desolante mancanza di un quadro pubblico e istituzionale per quel che riguarda i musicisti, la musica e la sua valorizzazione come prodotto culturale in grado di generare introiti, c’è una cosa che abbiamo in Italia e che non so quanti altri Paesi del primo mondo possano vantare (davvero non lo so, non è una figura retorica). Sto parlando dei festival locali.

Nella mia limitata esperienza come musicista mi è capitato un sacco di volte di trovarmi a suonare nelle province più sperdute, nelle campagne più remote, sui monti più inaccessibili. Tutto grazie a manipoli di ragazzi e ragazze che ogni anno, sfruttando ogni spazio a disposizione e ogni minuto libero dai loro “veri” lavori, si fanno un culo a strisce per organizzare piccoli festival, far suonare piccole band e portare un po’ di ossigeno nei piccoli paesi che altrimenti morirebbero di solitudine e senescenza.
In questo il Veneto è campione d’Italia. Tutte le estati le province di Vicenza, Treviso e Padova fioriscono di feste paesane: ogni frazione ha la sua sagra, che sia quella del baccalà mantecato, del maiale arrosto o semplicemente del santo locale, che è poi una scusa più che accettabile per bere come secchi. Ma dentro a ognuna di queste sagre c’è un commando di indomiti venti-trentacinquenni che passano l’anno a spulciare i nuovi nomi del sottobosco indipendente italiano, a contrattare il prezzo della birra e a cercare un service che costi meno dell’anno prima, per poi risolvere il tutto in tre giorni di musica dal vivo e amore. E lo fanno con un cuore che ho sempre ammirato tantissimo, una passione totale che non guarda al ritorno economico né al numero di litigi con la ragazza o il ragazzo che si lamentano perché sono sempre in giro. Per questo, e per il Valpolicella Ripasso, Dio benedica il Veneto ora e sempre (anche se i veneti spesso non benedicono Dio - NdEditor)



Ma anche in Emilia Romagna succedono delle belle cose. Un esempio è il Rock Marconi Festival, una piccola rassegna musicale di uno o due giorni (dipende dagli anni) che si ripete ogni estate a Sasso Marconi, provincia di Bologna. Quest’anno si terrà sabato 29 agosto, e come sempre la location è il parco di Villa Putte, ex villa signorile ora sede dell’Istituto Tecnico Agrario Arrigo Serpieri.
Nel parco, oltre all’edificio della scuola, sorge anche una casetta più piccola che un tempo ospitava il guardiano dei possedimenti della villa. Da anni ormai questa casetta è sede del centro giovanile di Sasso Marconi, il Papinsky, all’interno del quale c’è anche una piccola ma accogliente sala prove.
Il festival nasce dodici anni fa con il nome di Papinsky Rock Festival, un’iniziativa degli educatori del centro per fornire un palcoscenico alle giovani band che provavano nella saletta. Negli anni dal PRF è passata la crema dell’underworld musicale di Sasso e anche di Bologna, gruppi che continuano a suonare con la carica di allora e gruppi ormai sciolti da tempo, che vivono solo nei ricordi di chi ci ha suonato e di chi li ha amati.
Tra i ragazzi che suonavano al Papinsky, però, ce n’era uno un po’ particolare, un po’ matto un po’ visionario. Simon, chitarrista degli Absolut Red, un giorno pensò di prendere il PRF e di tirarlo fuori dalla bambagia locale nella quale si era perpetuato fino a quel momento, perché era arrivato il giorno di farlo diventare adulto. Così, assieme ad altri utenti, educatori ed aficionados del centro, stravolse il Papinsky Rock Festival, lo aprì ai gruppi esterni, lo costrinse a confrontarsi con il mondo esterno, cattivo ma pieno di possibilità entusiasmanti, e gli cambiò nome in Rock Marconi Festival, svincolandolo così dal rapporto esclusivo con il centro giovanile. Rapporto che comunque è rimasto, perché da allora il festival continua a tenersi nello stesso parco, in continuità con ciò che è stato.
Era il 2012, l’anno del rito di passaggio, del “Mukanda” come lo chiamano alcune culture, e che guarda caso è anche il nome di un altro bellissimo, neonato festival organizzato da dei bravi ragazzi in quel di Vico del Gargano (FG). Da allora il Rock Marconi cerca di imporsi come riferimento musicale di un’estate per il resto morta e sciapa.

Sì, perché il vero valore sociale di questi eventi sta nel loro riqualificare un territorio che spesso è spento, privo di vita e vivacità culturale. I motivi possono essere opposti: si può essere troppo lontani dalla metropoli, troppo periferici, come è il caso di molti paesini italiani che ormai si stanno spopolando di giovani e in cui i vecchi soccombono lentamente al tempo, lasciando le case e le piazze vuote; ma si può anche essere troppo vicini, ed è proprio questo il caso di Sasso Marconi. Vicinissimo a Bologna, una delle città più vitali e piene di fermento musicale d’Italia, soprattutto in rapporto alle sue dimensioni tutto sommato modeste, Sasso soffre la sindrome del “buco nero” che è evidente nel caso della periferia di Milano, una distesa di cittadine-dormitorio svuotate dal fatto che nulla può sopravvivere a 20 minuti di macchina da una metropoli con un’offerta così totale e allettante. Perché passare le serate nell’unico pub del paesino, quando a 20 chilometri di distanza puoi trovare discoteche, concerti di artisti di calibro mondiale e feste di ogni tipo, forma, tema e dimensione?
Per questo i festival come il Rock Marconi svolgono un ruolo importante nel trattenere la socialità nei luoghi dove nasce, come le radici degli alberi che, avviluppando la terra, le impediscono di essere sciacquata via dalle piogge e dalle maree.

In più bisogna aggiungere il livello di qualità che questi festival riescono a raggiungere, pur con delle risorse spesso ridicole. Puntando sui gruppi emergenti, sulle next big thing, su ciò che si muove ma ancora non è esploso nella scena indipendente nazionale, spesso riescono a portare grandi spettacoli a poco o niente in posti che non ne verrebbero mai toccati. Anche quest’anno, ad esempio, il RMF vanta una line-up che mescola promesse locali e razzi sul punto di decollare. Il 29 agosto il festival inizierà con due showcase acustici firmati River’s End e No Sense Mistake, che apriranno le danze alle ore 17. A seguire Luck, Now, band nata dalle ceneri dei What, Really?, uno dei gruppi seminali della scena bolognese anni 2000; Smash, giovani promesse modenesi del grunge in forza alla casa La Barberia Records; Mood, duo strumentale math rock rivelazione dell’anno; Any Other, capitanati dalla giovane Adele, già front-woman delle recentemente sciolte Lovecats; Setti, anche lui modenese di scuderia La Barberia Records, tra i più apprezzati delle nuove leve del cantautorato; e Go!zilla, power-fuzz trio fiorentino con un curriculum infiorettato di date fuori dal Bel Paese.
Oltre a questo, per fornire un ambiente adatto ad un’adeguata fruizione del live, ci saranno gli stand gastronomici e quelli del birrificio artigianale Pratorosso, alcune bancarelle di artigianato handmade e l’angolo informativo a cura di SestoSenso, che fornirà alcol test gratuiti, una chillout zone per rilassarsi e organizzerà il percorso sensoriale, un viaggio alla riscoperta delle potenzialità dei nostri sensi che ormai è il trade-mark del festival fin dalla sua prima edizione.
Per mantenere vivi i luoghi dove dormiamo, perché non siano solo dei dormitori; per sostenere la musica indipendente in Italia, che ne ha un sacco bisogno; e perché no, anche per vedersi un bel concerto e farsi un paio di birrette al fresco di un parco, continuiamo ad andare ai piccoli festival come il Rock Marconi.



Giovanni Ruggeri

Terrore in diretta Tv: l'omicidio mediatico dei due giornalisti in Virginia

Otto colpi di pistola, due morti, la fuga e il suicidio, il tutto condito dal video dell'omicidio postato sul web e un fax con le motivazioni del folle gesto. Sono questi gli ingredienti dell'omicidio che due giorni fa ha sconvolto la Virginia, quando Vester Lee Flanagan, 41enne reporter afroamericano noto con lo pseudonimo di Bryce Williams, ha tolto la vita a due ex colleghi della WDBJ7 (emittente locale della CBS), la reporter Alison Park (24 anni) e il cameraman Adam Ward (27 anni).

Flanagan era stato licenziato dall'emittente, probabilmente per motivi disciplinari che avevano creato tensioni con i colleghi e la stessa WDBJ7. L'ex reporter aveva aperto una causa contro l'emittente televisiva e la ex collega Alison Park per discriminazione razziale, non accettando un licenziamento da lui ritenuto ingiusto e che lo ha portato a covare un rancore sfociato nella tragica follia omicida. Fra le motivazioni del folle gesto anche il desiderio di vendicare la strage di Charleston del giugno scorso - quando il ventunenne Dylann Storm Roof ha aperto il fuoco all’interno della Emmanuel African Methodist Episcopal Church, una delle storiche chiese afroamericane, uccidendo nove persone, fra le quali il pastore e senatore Clementa Pinckney – come spiegato nel fax di 23 pagine inviato da Flanagan all'emittente ABC.

Inutile sottolineare come la vicenda riporti alla ribalta il dibattito all'interno dell'opinione pubblica relativo al pericolo delle armi da fuoco negli States dovuto alla facilità nel loro reperimento e in questo senso le dichiarazioni di Obama sono state ancora una volta molto dure: “Ho il cuore spezzato. Le armi da fuoco uccidono più del terrorismo”. Parallelamente torna in auge la battaglia che il Presidente degli Stati Uniti sta portando avanti ormai da tempo al Congresso, quella relativa ad una maggiore regolamentazione nella diffusione delle armi da fuoco attraverso i background check, i controlli su chi acquista un'arma per verificare eventuali precedenti penali o disturbi mentali: battaglia che però viene fortemente ostacolata dalla NRA, la potente lobby americana sulle armi della quale avevamo parlato in questo articolo.


L'omicidio della Virginia però ha un risvolto forse ancora più inquietante e drammatico: esso è infatti stato studiato e pianificato mediaticamente dall'assassino, il quale ha ripreso con il cellulare gli istanti dell'agguato agli ex colleghi, postando poi su Twitter e su Facebook il video dell'omicidio, andato tra l'altro in onda in diretta televisiva dato che al momento degli spari Alison Park e Adam Ward stavano intervistando la direttrice della Camera di Commercio di Moneta, Vicki Gardner, rimasta ferita ma non in pericolo di vita. Il crimine è così andato in diretta televisiva e la televisione e i social network si sono trasformati in canali di diffusione del terrore e della violenza: un uso strumentale e ad hoc dei mass media che ricorda le tragiche riprese degli attentati dell'11 settembre e i recenti filmati delle uccisioni di ostaggi postati dall'Isis su YouTube, con i media trasformati in armi terroristiche.

Gli organi di informazione hanno subito parlato di “omicidio social”, “omicidio mediatico”, “delirio mediatico”, “vendetta in mondovisione” e “follia esibizionista”. La scelta di Flanagan di condividere il video dell'omicidio sui social network può essere letta come il tentativo disperato di cercare attenzione attraverso l'eco della Rete: il risultato è un terrore mediatico incontrollabile andato ormai in onda e condiviso dagli utenti del web attraverso i new media, creando una cassa di risonanza che non fa altro che alimentare la follia di un pazzo omicida che ha scelto strumentalmente la televisione e il web per amplificare la portata del suo messaggio di protesta, di vendetta e di morte.



Proprio per questo motivo la scelta di molte testate giornalistiche e organi di informazione di condividere il video della diretta televisiva e il video postato sui social è fortemente discutibile e non accettabile. Sul punto si è inevitabilmente aperto un forte dibattito che ha visto contrapporsi il dovere di informazione e l'etica morale (a tal proposito è interessante lo scambio di opinioni fra Massimo Razzi - direttore Visualdesk Gruppo Espresso -e il sito Valigia Blu ). Bisogna innanzitutto dire che Facebook e Twitter hanno subito disattivato gli account di Flanagan, come sancito dalle policy dei due social network (cosa fatta anche da YouTube, che ha rimosso i video), al contrario di altri organi di informazione – come BuzzFeed – che hanno deciso di non precludere agli utenti la possibilità di vedere le riprese dell'omicidio, come ribadito dal caporedattore Shani Hilton: “Noi non vogliamo disinfettare Internet. Il video è online, i nostri utenti sono online. Fingere che ci sia un muro tra i lettori e quel contenuto sarebbe stupido”. Una linea editoriale che è stata condivisa anche dal The Sun in Inghilterra e da Repubblica, La Stampa e il Corriere della Sera in Italia, i quali hanno postato i video e le fotogallery dell'assassino e delle vittime.

Linea editoriale non condivisa invece dal New York Times e dal The Independent, così come da SkyTG24, che ha deciso di non diffondere alcun filmato della strage, come sottolineato dal direttore Sarah Varetto tramite questo tweet:


Diffondere la violenza è una strumentalizzazione e una ricerca dello share che nulla ha a che fare con il giornalismo, il quale ha essenzialmente il dovere di mediare e filtrare le notizie e le modalità della loro diffusione. Mostrare e condividere la violenza è in qualche modo farsi megafono dell'assassino: è una questione non solo etica e morale ma principalmente di buon senso. Scegliere di non pubblicare e condividere tali immagini non è in sé una forma di censura ma una forma di rispetto per le vittime e i loro cari che nulla toglie alla notizia e al dovere di informazione. Semplicemente è una scelta che rende onore ad un giornalismo degno di questo nome.

Giuliano Martino


23 agosto 2015

SundayUp - Dargen D'Amico, "D'IO" (2015)


Corre l’anno 2012. Mentre cerco timidamente di approcciare il mondo dell’hip hop, il mio coinquilino del tempo mi consiglia di ascoltare un disco. L’album si chiama Di vizi di forma virtù; l’eclettico rapper/songwriter che lo canta è Dargen D’Amico, alias JD, alias Corvo D’Argento; e io m’innamoro subito di pezzi come “SMS alla Madonna” ed “Ex contadino”.
Pur viaggiatore profano nel sacro territorio che è il rap, riconosco che lo stile di Dargen è qualcosa di unico. Le parole gli escono di bocca in un flusso ritmato eppure omogeneo, incastrate le une alle altre in giochi di prestigio e calembour che a volte ricordano più Giuseppe Peveri ovvero Dente che Marracash. Il flow che lo contraddistingue fin da piccolo (appena esordiente, a 14 ani, vince un contest di freestyle nel programma radio One Two One Two) e l’abilità come mc (è considerato uno dei rapper più veloci e tecnici della scena italiana) lo rendono un esponente di tutto rispetto della scena hip hop nazionale, nonostante la sua originalità lo abbia sempre mantenuto ai margini del grande mainstream dove imperversano colleghi come i Club Dogo, con i quali inizia tra l’altro la sua carriera all’interno della crew milanese Sacre Scuole.

Ma l’aspetto della sua poetica che più mi piace è il fatto che, pur rientrando a pieno titolo nella scena rap, le sue canzoni sono quasi tutte lontane anni luce dalla retorica ghetto/vita da strada/don’t fuck with me/droga e figa che caratterizza troppa parte della musica di genere. Al contrario, la sua cifra stilistica è costituita da temi essenzialmente intimisti, a metà tra il self-questioning, l’autocritica, il flusso di coscienza e certi voli pindarici che vano ad abbracciare l’uomo nella sua interezza, il cosmo intero, Dio. Lui stesso definisce il suo stile “cantautorap”, a metà tra l’hip hop, il cantautorato, l’elettronica e il progressive; tra le sue principali influenze cita spesso Lucio Dalla ed Enzo Jannacci, decisamente fuori dall’orizzonte canonico del rapper medio.


L’esordio come mc risale al 1999, con le già citate Sacre Scuole. Negli anni seguenti fonda un’etichetta, la Giada Mesi, per la quale fa uscire gran parte dei suoi lavori. Nel tempo lancia sul mercato cinque album, mentre la cura per gli arrangiamenti elettronici e le caratteristiche liriche dei suoi testi diventano sempre più tratti distintivi della sua personalità artistica. Conta una quantità impressionante di collaborazioni bizzarramente assortite, tra le quali ricordiamo Two Fingerz, Club Dogo, Crookers, Fabri Fibra, Alborosie, Bugo, Marracash, Max Pezzali (sì, QUEL Max Pezzali), Fedez, Malika Ayane, J-Ax, i Perturbazione ed Enrico Ruggeri (sì, QUELL’Enrico Ruggeri).
Il suo eclettismo si manifesta anche attraverso l’originalità della sua produzione, inaudita in un contesto hip hop che in Italia si è appiattito sul rap da strada da una parte e sul trash da classifica dall’altra. Il suo quarto disco, Nostalgia istantanea, è composto da sole due tracce lunghe rispettivamente 18 minuti (il lato A, che reca incisa la title track) e 20 minuti (il lato B, Variazioni sul tema Nostalgia Istantanea). I due brani sono in realtà un flusso ininterrotto di parole ed immagini scaturite dalla riccioluta testa del nostro nei momenti appena precedenti e seguenti il sonno. Il risultato è un flusso di coscienza su basi elettroniche quasi ambient, un ininterrotto tuffo speleologico nel mondo privato di D’Amico. Decisamente non Drop it like it’s hot.

Date queste premesse si può capire come, pur non essendo un grande fan dell’hip hop, fossi molto emozionato mentre il mondo si preparava a ricevere l’ultimo capolavoro di JD, D’IO, uscito via Universal il 3 febbraio 2015.

Il disco consta di 13 tracce nel più puro stile D’Amico, ma con una marcia in più. Questa volta c’è un soffio mistico, quasi profetico, che gonfia tutto il disco. Già la prima traccia, La mia generazione, è un canto di amore e disperazione per un popolo anagrafico perso e senza riferimenti, con “amori e lavori che durano weekend e weekend che durano una vita”. Anche Amo Milano è una canzone d’amore, amore per un posto che “sembra una città ma è Milano”, metropoli europea piena di difetti e forse proprio per questo così affascinante.
Poi arriva La lobby dei semafori. È un pezzo strampalato in cui Dargen tira fuori un po’ di quella lingua sciolta per cui è famoso, asservendola a un testo paracomplottista che ipotizza una lobby al comando delle luci semaforiche del mondo. E poi, proprio alla fine della canzone, ci sono quei 50 secondi di delirio parlato che finisce per paragonare lo stesso Dargen a un semaforo lampeggiante, un ribelle contro la scena musicale italiana. A metà tra boh e wow.
È il momento di Crassi, un j’accuse contro la politica corrotta che spicca come una mosca bianca nella produzione del rapper milanese, sempre lontano da argomenti di attualità. Ci si chiede cosa passa per la testa dei figli di Craxi quando chiedono una strada con il nome del padre: “anche mio padre”, canta JD, “era un poco di buono, un fantasista di dubbia moralità; ma non mi verrebbe mai in mente il bisogno di fargli intitolare la via di una città”. E qui sorge il dubbio che il nostro in realtà abbia qualcosa di irrisolto con il padre (chi non ce l’ha, in fondo), perché anche nel pezzo successivo, Amico immaginario, se la prende con il genitore: “avevo già sentito uomini inutili come mio padre parlare di Dio”.
La mia donna è un capolavoro di incastro ritmico: se si ascolta con attenzione il sintetizzatore che fa da sottofondo all’inizio e per buona parte del pezzo, e poi si tenta di piazzarci sopra il flow di Dargen, sembra impossibile che le due cose stiano bene insieme. Poi però, ascoltando il brano nel suo complesso, tutto gira armoniosamente, come quelle ruote dentate di dimensioni e forme diverse che, grazie ai miracoli delle fasi e della geometria, girano incastrandosi perfettamente l’una nell’altra. Tra l’altro JD coglie anche l’occasione per reiterare il suo amore per Dalla, cantando “poi le mostro sottovoce che qui sotto, sotto sotto io non sono ancora morto, lei mi dice poveretto il tuo morto dallo al gabinetto”.

Dalla traccia 8 alla 13 l’afflato mistico di Dargen si sfoga liberamente. A parte Lunedì chiuso, il sestetto di brani è la parte del disco in cui il rapper milanese può sciogliere i lacci al suo occhio interiore e lasciarlo correre lungo tutta la linea del tempo dell’evoluzione umana (Parenti, nella quale cerca di spiegare “che siamo tutti parenti/se il primo uomo è stato uno/ siamo parenti, siamo fratelli di ognuno”), oppure negli spazi siderali a considerare tutto l’universo, rispetto a cui, nonostante le nostre manie di grandezza, non siamo che ridicoli atomi (L’universo non muore mai). Ma i brani più sorprendenti sono probabilmente i due di chiusura, Modigliani (uno dei singoli estratti dal disco) ed Essere non è da me.
Il primo, con la sua base struggente e una melodia vocale che ti culla fino al sonno tra le lacrime, è una vera poesia ispirata alla vita di Amedeo Modigliani, qui simbolo dell’artista consumato dalla sua vocazione e morto in povertà, solo per essere poi rivalutato e infine osannato a posteriori, ancora in tempo per tutti tranne che per lui.
Ma Essere non è da me è la vera chicca, un riassunto di tutto ciò che è stato ed è Dargen D’Amico. Come lui stesso dice: “È un brano figlio di D'iO, è un dialogo (o monologo, a seconda delle credenze religiose) con la luna - intesa sì come satellite ma altrettanto come l'Una e cioè sinonimo dell'Uno, e quindi dell'Universale, di Dio, la Summa”. Corredato di un video disarmante nella sua semplicità, nel suo farci sentire come se fossimo davvero di fianco a Dargen nei suoi mille giri per il mondo e al tempo stesso soli con lui nella sua testa, mentre ripensa a quello che è stato e tira le somme, Essere non è da me è forse l’apice della produzione artistica di questo artista alieno, bizzarro, caleidoscopico.



Alcuni penseranno che Dargen abbia sviluppato un complesso di Dio piuttosto importante; basti pensare alle volte che la divinità viene evocata o addirittura confusa con la voce narrante nei suoi pezzi, al titolo del suo ultimo disco, o anche solo all’incipit della citazione precedente. La cosa è verosimile, non lo nego.
Sta di fatto, però, che quest’uomo spicca come un diamante nel fango all’interno del panorama hip hop italiano – ma anche in quello musicale tout court – per originalità, intraprendenza, indipendenza, talento e capacità di scrittura. Ha fondato un’etichetta, ha inventato almeno un genere musicale, ha sfornato sei dischi di qualità sorprendente – e tutto questo flirtando sapientemente con le major, giostrando con abilità tra il pop commerciale e l’avanguardia più sperimentale, mettendo insieme riferimenti colti, classici della musica italiana e parti di pura elettronica. Se dovete ascoltare dell’hip hop italiano oggi, ascoltate Dargen. Se dovete ascoltare della musica italiana oggi, ascoltate Dargen. Se proprio vi fanno schifo entrambi, se vi piacciono i Motörhead o Shakira, se non ascoltate musica per niente – ascoltate comunque Dargen, e non ve ne pentirete.

Giovanni Ruggeri

20 agosto 2015

Giochi di guerra in Europa Orientale: a chi giovano?

Nel 70° anniversario che celebra la fine della seconda guerra mondiale, sentiamo e leggiamo numerose opinioni e dichiarazioni, da giornalisti a politologi, fino agli onnipresenti teorici del “cospirazionismo” in salsa sionistakomunistamassonicabilderbergkasta, che la terza guerra mondiale è sempre più vicina e pochi giri di lancette dell’orologio ci separano dall’inizio dell’apocalisse. Ovviamente tutto ciò si riconduce alle perenni tensioni che da quasi due anni stanno condizionando gli equilibri geopolitici della parte centro-orientale nel continente europeo, per via di un conflitto nell’Ucraina dell’Est che non accenna a placarsi. 

nato army ukraine
Forze statunitensi, ucraine e lituane durante delle esercitazioni militari condivise in una foto di Mykola Tys/EPA 

Ci eravamo tutti illusi che i cosiddetti “Accordi di Minsk-2” del febbraio 2015 avessero posto le basi per una tregua solida e costruttiva  dopo i fallimenti del precedente protocollo firmato nella capitale bielorussa il 5 settembre 2014. Parafrasando una frase di Danilo Elia nel suo articolo pubblicato dall'Osservatorio Balcani-Caucaso: “La tregua uccide". I combattimenti tra l’esercito regolare ucraino (affiancato da numerose milizie paramilitari) e i miliziani separatisti che controllano le regioni di Donetsk e Luhansk, sono proseguiti e, dalla metà di luglio, i due fronti sono ritornati anche a fare uso dell’artiglieria, nonostante gli accordi ne prevedessero lo smantellamento. Sebbene la ripresa delle ostilità non sia ancora coincisa con l’inizio di operazioni belliche su vasta scala lungo la linea del fronte, il riaccendersi in modo “ufficiale” delle tensioni nell’ex repubblica sovietica ha creato il solito effetto domino di rafforzamento della sicurezza nei paesi che temono di essere a loro volta travolti dalle conseguenze del caos ucraino. In questa prima parte di agosto numerosi quotidiani internazionali hanno riportato come sia la NATO che la Russia hanno intensificato le rispettive esercitazioni militari, inasprendo una tensione che non si registrava così alta dalla fine della guerra fredda. L’incremento dei “War Games” è stato particolarmente intensivo nelle zone che le due parti considerano come le più deboli del loro scacchiere: l’Alleanza Atlantica ha deciso di aumentare in maniera considerevole la sua presenza nelle tre Repubbliche Baltiche, le quali rappresentano l’area più vulnerabile della Coalizione, attraverso operazioni che hanno visto l’impiego di 15.000 truppe in simulazioni di reazioni ad (im)probabili infiltrazioni russe sullo stile della Crimea; la Russia, dall’altre parte, nel mese di marzo aveva dispiegato un impressionante quantitativo di forze per manovre ad ampio raggio (si parla di circa 80.000 soldati) per contrastare possibili azioni offensive degli USA e dei suoi Alleati NATO, specialmente in zone di importanza nevralgica per la difesa russa come l’exclave di Kaliningrad (situato tra Polonia e Lituania) e il Mar Artico.

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Soldati russi durante le prove per il Victory day | Fonte: telegraph.co.uk
Le misure adottate da entrambi gli schieramenti  hanno fatto di fatto incrementato i toni di allarmismo generale, dando fiato a tutti quelli che vedono nell’aumento della tensione tra le parti il preludio allo scoppio del terzo conflitto mondiale. E questo non fa altro che muovere gli ingranaggi che alimentano questa paura. Dobbiamo effettivamente cadere vittime del panico e costruire dei rifugi atomici nei nostri scantinati? Oppure, come quasi sempre accade, stiamo esagerando nel trarre delle conclusioni? La verità, se realmente esiste, sta ovviamente nel mezzo. Il clima di tensione generato dal disastro del conflitto interno ucraino è figlio di molti colpevoli. Sia la Russia che l’Occidente hanno creato una situazione che entrambi pensavano di usare a loro piacimento e che invece è letteralmente sfuggita di mano: al Cremlino, il quale attraverso l’annessione (scellerata) della Crimea e il supporto (diretto ed indiretto) ai separatisti russofoni pensava di continuare a condizionare a suo piacimento le sorti di Kiev, attraverso una strategia dei “frozen conflict” già adottata con successo nei confronti della Georgia; agli USA e a molti Stati europei, che pensavano, attraverso il sostegno ai moti di Maidan e al supporto nella destituzione dell’ex presidente Janukovic, di aver reciso il ruolo che il Cremlino aveva sempre giocato nel condizionare la vita politico-economica del Paese, aprendo conseguentemente la strada verso l’integrazione crescente nelle strutture dell’Unione Europea e, successivamente, della NATO. L’escalation della “Proxy War” (guerra per procura) ucraina e tutti i fallimenti nel cercarne una via d’uscita hanno certificato la sconfitta dell’Occidente, che ha preferito sostituire un oligarca fedele a Putin con un oligarca fedele a Washington e a Bruxelles, e l’incapacità di Vladimir Putin nell’indirizzare il disordine ucraino a suo piacimento. L’annessione della Crimea infatti, oltre a generare le sanzioni occidentali che hanno indebolito la loro economia, ha decretato il rivolgersi contro Putin della fetta più importante del paese in termini economici, desiderosa di abbracciare il prima possibile le Istituzioni occidentali.

Nonostante i membri del “quartetto Normandia” (Poroshenko, Putin, Merkel, Hollande), siano tornati al tavolo dei negoziati alla fine di luglio, per ridiscutere il processo che dovrebbe portare ad una nuova linea demilitarizzata sul fronte, concedendo anche importanti concessioni ai ribelli filo-moscoviti (come l’acquisizione di numerosi villaggi che spianerebbero la strada verso Mariupol, città sul Mar d’Azov, obbiettivo dichiarato dei miliziani di Donetsk), la realtà è che l’Ucraina sembra in procinto di affrontare una situazione dalla quale non uscirà sicuramente nel breve periodo. E che l’Occidente, inizialmente coinvolto nel sostegno alle operazioni antiterrorismo dell’amministrazione Poroshenko, si sia progressivamente smarcato dalla questione ucraina. Il paese sembra essere dato per perso, e gli sforzi statunitensi e dell’Alleanza Atlantica si sono rivolti ora nell’incrementare la difesa di Lituania, Lettonia ed Estonia, i “falchi” della linea anti-russa e spaventati nel diventare il nuovo possibile obbiettivo delle mire neo-espansioniste del Cremlino. Ovviamente Mosca ha interpretato questo dispiegamento di forze ingente nei Paesi Baltici (5000 truppe e numerosi armamenti pesanti in arrivo dal Pentagono) come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale, reagendo di conseguenza per non farsi trovare impreparato di fronte ad un’eventuale aggressione armata. 

putin merkel hollande poroshenko
Il "quartetto Normandia" | Fonte: sputniknews.com
La situazione quindi si presenta come estremamente tesa e complessa, anche se nessuna delle due parti in questo momento è intenzionata a compiere un’azione scellerata che porterebbe, al 99,9% dei casi, ad un confronto nucleare. A chi giovano quindi queste dimostrazioni nel mostrare i muscoli all’avversario? Non certo a tutti quelli che chiedono una distensione dei rapporti tra l’Occidente e la Russia, indispensabili per ritornare ad una politica di cooperazione che porterebbe solo a dei benefici per tutti (anche per gli stessi paesi Baltici, la cui economia, a causa delle sanzioni, sta vivendo un momento di difficoltà). Si può dire che in questo momento, ancora una volta, e con tutte le difficoltà che sono state elencate, Vladimir Putin sia posizionato un passo avanti rispetto agli USA e alla NATO. Distogliere lo sguardo dall’Ucraina permette ai russi di riorganizzare le forze e di giocare nella strada dei negoziati da una posizione di forza rispetto a quella del governo di Kiev. Nonostante i numerosi errori commessi, a Putin la situazione creatasi nella parte orientale può andare bene così, permettendogli di condurre in porto le sue richieste (amnistia ai ribelli, riconoscimento dei capi delle Repubbliche separatiste come interlocutori) in base anche alla riconosciuta debolezza della politica ucraina e delle sue Forze Armate. Inoltre, l’aumento della presenza euro-atlantica ai suoi confini occidentali permette al Presidente russo di ricompattare sotto lo strumento del nazionalismo l’opinione pubblica, spaventata da un possibile attacco militare del nemico, distogliendo quindi l’attenzione dai problemi che attanagliano la società civile. 


16 agosto 2015

SundayUp - C'era una volta il Nord-est: Aldo Sbadiglio, "Ljuba Toast Cricket Club"

Ero partito con quella di recensire l’ultimo dei Wilco.
I Wilco sono una band alternative americana, usciti dallo sbobbone generato negli anni ’90 dai R.E.M., essenzialmente, e hanno regalato a tutti il nuovo disco, ma mica come gli U2. Gli U2 ci hanno ficcato in gola (cioè nei nostri account iTunes) il loro ultimo album senza neanche chiederci se ci faceva piacere: a me coincidenzialmente ha fatto piacere, anche se poi il disco è una mezza (solo mezza, giuro) ciofeca, ma a più di qualcuno non è piaciuto affatto.
Quindi insomma ‘sti Wilco hanno regalato il disco ma dicendo “il disco è qua, se volete scaricarvelo” e io tac, l’ho scaricato.
Non ho mai ascoltato i Wilco.
Il disco non è male.
Essenzialmente, però, non è nulla di che.

Quindi.

L’altra sera sono stato a una sagra, nella migliore tradizione friulana, a sentir suonare Aldo Sbadiglio e la Famiglia Ananas in Vacanza a Dresda, una formazione folkeggiante della “provincia di Codroipo” (ovvero la città con l’anagramma più divertente di tutti), e ho acquistato il loro ultimo disco, che in realtà è già uscito da un po’ (per la precisione, a settembre scorso).
Insomma l’ho ascoltato e mi sono divertito molto di più che con quello dei Wilco.
Ho deciso che meritava la recensione.

Foto di Alice Durigatto
Ho conosciuto Aldo Sbadiglio e la Famiglia Ananas in Vacanza a Dresda e il loro nome meraviglioso a un evento promosso a Udine da un ente locale per la lingua friulana, il “Premi Friûl”, che l’anno scorso li ha visti vincitori: quello che salta agli occhi è il divertimento assoluto che la band trasmette al pubblico, che già si sente sul primo disco, In Vacanza a Dresda.
Il secondo album, che si intitola Ljuba Toast Cricket Club (Ljuba, in sloveno, è nome proprio di persona, ma vuole anche dire “amore”, “tesoro”), però, ha qualcosa in più.

C’è qualcosa, a Nord-est, che non c’è da nessun’altra parte in Italia, ed è qualcosa che c’è sempre stato anche prima che l’Europa di oggi cancellasse i confini di ieri, quel sentimento di unione tra popoli e culture, quella sensazione di trovarsi fuori dal mondo che io, bambino nato e cresciuto in una grande città, potevo provare già quando ancora non ci abitavo e venivo in vacanza dai nonni in Friuli.
Questo qualcosa viene raccontato meravigliosamente dalla Famiglia Ananas, assieme ad altre storie, nelle quali forse possiamo riconoscerci tutti. La musica, dopotutto, è fatta per questo: raccontare storie, alle quali qui viene data voce dal malinconico eppure comico Aldo Sbadiglio (che in realtà si chiama Paolo Drigo e ha una barba notevole), in italiano e in friulano. Storie come quella di “Ghiaccioli Blu”, resoconto di una visita estiva al supermercato, o quella, surreale, del viaggio in Tibet di Aldo per staccarsi dal logorio della vita moderna in “Where’s Aldo” (non devo spiegarvi che il titolo viene dal giochino “Where’s Waldo”, vero?). Ci sono anche piccole perle di friulanità come “Sborfadôr” [“Innaffiatoio”] con ospite Fabian Riz, icona del rock and roll friulano, e “All Night”, omaggio a un soggiorno estivo in località montana carnica (la Forni del testo, che non è dato sapere se sia Forni Avoltri, Forni di Sopra o Forni di Sotto, con annesso calembour Forni-care).

Foto presa dal profilo Fb della band
I pezzi migliori, però, sono quelli che raccontano il nostro tempo: “Milano Violenta, Udine in Cassa Integrazione”, “Levante (C’era una volta il Nord-est)” (omaggio alla cantautrice Levante, che ha fatto una canzone che si intitola “Sbadiglio”, chiaramente omaggiando la Famiglia Ananas) con ospite il Coro Popolare della Resistenza, la splendida “Libero Sei (Stato)” e la divertente, dolceamara, conclusione di “Živjeli S.p.a.” (Živjeli vuol dire “salute” in sloveno, non salute di quando si starnutisce ma di quando si beve: ricordiamoci che siamo in Friuli).
Di questi tempi, trovare artisti che siano anche narratori divertenti, coinvolgenti ed emozionanti non è facile, e Aldo Sbadiglio e la Famiglia Ananas in Vacanza a Dresda lo sono, con freschezza e originalità.
Se non siete mai stati in Friuli, questo disco vi incuriosirà; se ci siete stati, vi ci ritroverete.

Trovate Aldo Sbadiglio e la Famiglia Ananas


15 agosto 2015

SundayUp - Nulla di nome, Zen Circus di fatto

Un folk-punk sanguigno, condito da riff seducenti e ossessivi, ruggenti tamburi arrembanti, d’assalto. Un immaginario da neorealismo proletario, zaino in spalle e andate tutti a quel paese, senza ombra di retorica o melodramma, zeppo di ironia amara, iconoclastia, slanci di metafisica e pillole di nichilismo balneare. Otto album (dieci se consideriamo i progetti solisti) ed un Ep all’attivo, quasi quindici anni di onorata carriera e più di mille concerti. Questo (e molto altro) sono gli Zen Circus, band pisana che ha inesorabilmente scalato i gradini dell'indie-rock italiano diventando una delle band più acclamate della propria generazione e un marchio di garanzia per serate riuscite.

Andrea Appino (voce, chitarra e tastiere) ha davvero molte storie da raccontare, tanto come frontman della band toscana quanto per quanto riguarda la sua esperienza da solista. I suoi testi non sono conditi da facili slogan, ma si srotolano in ragionati resoconti metropolitani dei nostri tempi così crudi e cementificati, narrati in maniera densa e personale. È forse a causa (o per merito) della loro ironia brutale, tagliente, spietata (e geniale!) che gli Zen Circus rimangono un piacere di nicchia, è innegabile che manchi l’appeal scialbo e rassicurante delle canzonette spensierate alla Jovanotti che tendono a scalare vertiginosamente le classifiche e gli ascolti.

Avete mai visto gli Zen Circus in concerto? L’estate scorsa, quando ancora l’argomento “tesi” era uno spauracchio lontano e remoto, come la menopausa o la fine di questo glorioso pacco di biscotti, quando la temperatura climatica estiva bolognese era ancora ancora sopportabile e non ti sembrava di essere imprigionata sotto l’ascella sudaticcia di un ciccione, quando, insomma, ero meno acida, cinica e meno propensa a pensare alle foibe come a, tutto sommato, una buona idea, gli Zen hanno suonato a offerta libera (leggi: gratis) in Vicolo Bolognetti a Bologna e io mi sono scapicollata a vederli. Ero con tre miei compagni di corso e uno di loro, a un certo punto, ha cominciato a manifestare un disperato bisogno di prendere un trancio di pizza, girare intorno al Nettuno e poi tornare indietro, motivo per cui abbiamo perso gran parte del concerto (e la pizza non gli andata neppure di traverso). Ciò nonostante, mi ricordo quella serata come una delle più belle che abbia mai passato: la notte decisamente più nera di Obama, il mio amico che rideva e ballava sguaiatamente, come se non lo stesse guardando nessuno, la birra Bear tiepida e sgasata, ma con quel sapore frizzante speciale che ha tutto quello che riesci a portarti di straforo e soprattutto i testi delle canzoni: ironici, taglienti, incredibili.

Andrea Appino, Karin Qqru e Massimiliano "Ufo" Schiavelli: gli Zen Circus
Il brano su cui oggi intendo scrivere la mia recensione è stato presentato sulla pagina Facebook della band come un piccolo vademecum ironico (ed autoironico) su come scrivere il testo di una canzone indipendente oggi. Il fatto che questa canzoni si intitoli “il nulla” (3 febbraio 2015, due minuti e sedici secondi) è una feroce frecciatina all’esuberanza di stimoli, alle facili velleità pseudo intellettuali, alla facile logica secondo cui qualsiasi notizia insulsa, qualsiasi cazzata diventa un evento alla cui continua ed esasperante esposizione non è possibile sottrarsi.
Chitarre furiose, qualche accenno di elettronica, una denuncia punk-folk del nostro vuoto generazionale,

e di nuovo a cercare parole
qualcosa da dire che possa stupire
la frase da urlare che faccia pensare
poi anche ballare i biglietti staccare
una crisi d'identità, il nulla
e poi ammicchi alla gioventù, il nulla
questa ricchissima povertà, il nulla

Non siamo più in grado di sentire gli alti e i bassi, non abbiamo uno scopo né qualcosa verso cui camminare con fede cieca, siamo persi, atomizzati, sparpagliati in un mondo fittizio, di social network, cibo di plastica e immagini edulcorate. Non possiamo mai completamente sottrarci all'esposizione, fittizia e ridondante, dei fatti degli altri, e questo non fa che accrescere il desiderio di ciascuno di farsi, come direbbero i The Pills, i cazzi propri e di pensare al “nulla”.

Il tema della crisi di identità è centrale in questo momento storico, che ci costringe a saltellare sull'orlo di un baratro profondo e nero di insicurezze, parole vuote, occhiate vacue e troppo cinismo. Ridimensiona le tue aspirazioni, lascia perdere i tuoi studi: consegna il curriculum vitae alla Coop, poi ingoia i tuoi principi e portalo anche da McDonald’s. Non ho nessuna fretta di finire di studiare, perché ho come la sensazione che un buco nero di frustrazione e di sogni non realizzati mi inghiottirà e potrò vincere finalmente le Olimpiadi del Cinismo. Che bello.

l'Italia e la crisi la televisione
e una citazione da un’ altra canzone
che non fa più rima con generazione
scrivi della felicità, il nulla
ed il lavoro che non c’è più, il nulla
una qualche modernità, il nulla

In tutto questo, come evitiamo di infilare la faccia nel frullatore? Come possiamo fare per posticipare il più possibile il momento in cui decideremo di seguire l’esempio della Cristoforetti e filarcela nello spazio? La risposta, nichilista (o nietzscheana, volendo), è sempre la stessa: riderci su. Una risata ci seppellirà, il senso non esiste, e comunque vada non ne usciremo vivi. Tanto vale divertirsi un po’.

sarà che sto diventando vecchio
ma più mi guardo allo specchio
e più ci rido su.

Sofia Torre

12 agosto 2015

SundayUp - Dentro il collettivo: da un'idea folle a documentario

Borgo Tanzi è una via come un’altra dell’Oltretorrente parmigiano. Le mura grigie degli antichi palazzi del centro storico scorrono ai lati degli stretti marciapiedi, si susseguono i portoni, le auto innervosite suonano i loro clacson contro i ciclisti che contromano sfrecciano verso i portici di via D’Azeglio. Potrete attraversarla in lungo e arrivare fino al torrente Parma. Potrà anche capitarvi, arrivando davanti al numero 26, di notare un importante portone in legno. Probabilmente sentirete delle voci provenire dall’interno e, altrettanto probabilmente, verrete colti dalla curiosità di varcarne la soglia.
Il numero civico 26 di borgo Tanzi, a Parma, non è un civico come un altro. Colori, risa, ciclofficina, lunghe nottate di vino e chiacchiere, aperitivi, lezioni, dibattiti, musica. Cos’è il 26 di Borgo Tanzi? No, non è il paese dei balocchi, è Art Lab: Autogestisci Rivendica Trasforma. Art Lab è un centro sociale nato il 6 maggio del 2011, per volontà di un gruppo di studenti universitari che hanno deciso di recuperare uno spazio dismesso da oltre vent’anni. È un progetto politico e sociale, un bene comune, sede di numerosi laboratori, per alcuni è casa. Il 25 aprile di quest’anno è stato liberato anche il Nomas Hotel, alle sue spalle, dunque all’interno dei due edifici trovano ospitalità numerose famiglie e ragazzi che pagano un affitto sociale per il fondo spese comuni.



Vi si respira un’atmosfera dalla quale è difficile non rimanere inebriati, per quelle strane coincidenze che portano un luogo a divenire familiare. Tra le tante persone che ne hanno varcato la soglia, c’è stato Lorenzo Melegari, il quale, al suo primo ingresso, è stato colto da un’idea incosciente e folle: realizzare un documentario. “L'idea è nata subito, quando ho messo il primo piede dentro Art Lab. L'emozione suscitatami da quel posto, da quei ragazzi, mi sembrava già sufficiente per dire: ‘Ok, proviamoci’. C'è un certo grado di casualità e di innamoramento nella scelta. Da un punto di vista razionale, ho avuto fin da subito la percezione netta che Art Lab, rispetto ad altre realtà, avesse un grado di apertura maggiore, che fosse una piccola isola dove si stesse sperimentando la ricostruzione della società su basi nuove, più libere da preconcetti e da logiche partitiche o veteromovimentiste”.
Lorenzo è di Parma ed è qui che dalla musica si è avvicinato al cinema, inizialmente con alcuni cortometraggi, per poi collaborare alla realizzazione del film La passeggiata dello scettico, con Alessandro Haber, e a due videoclip musicali. In tutto questo però, nessun contatto con il mondo dei centri sociali; perciò, quando deciderà di intraprendere il percorso che darà vita a Dentro il collettivo, Lorenzo dovrà studiare ed approfondire prima l’argomento. Allo stesso tempo questo gli consentirà di approcciarsi al tema “in maniera pura, senza pregiudizi o idee precostituite. Il mondo dei centri sociali è complesso, fatto di sfumature, rapporti politici, linguaggi settoriali, insomma: una precedente esperienza forse avrebbe finito per alterare un po' il mio punto di vista”.

 
Quando iniziano le riprese, nell’autunno del 2012, c’è un’idea chiara e un obiettivo: raccontare e far raccontare “da dentro”, portando alla luce “un microcosmo di energie straordinarie”. Sembra facilissimo. Sembra. Prima di tutto, infatti, “il centro sociale è fatto di persone che vanno e che vengono, e dunque occorreva convincere tutti della bontà del progetto”, indipendentemente dall’entusiasmo di chi lo aveva inizialmente accolto. “Il centro sociale è un'entità viva, sensibile politicamente, bisogna tenerne conto quando vai a toccare i loro nervi caldi, e bisogna avere il giusto rispetto, soprattutto se ti trovi a dover filmare situazioni ai limiti della legalità”. In secondo luogo, “quando si tratta di politica, e soprattutto da una posizione così periferica, le diffidenze, i preconcetti, sono tantissimi. L'italiano medio pensa che i centri sociali siano soltanto luoghi dove la gente si sballa, va per divertirsi, non costruisce nulla, e nei casi peggiori ha idee estremiste e può costituire le basi per nuove cellule terroristiche. Ma a pensarci bene il vero italiano medio nemmeno sa cos'è realmente un centro sociale, al limite può ricollegarlo all'idea del black bloc incendiario post Genova, quando si trova a vedere le immagini di una qualche grande manifestazione sulle tv nazionali”. Ci sono poi gli ostacoli posti dai media, che continuamente denigrano e semplificano l’azione politica dei centri sociali, e quelli invece posti dai partiti e dalle amministrazioni locali, “anche se bisogna dare atto alla giunta 5 Stelle parmigiana (e questo rappresenta una novità nella storia politica cittadina) di aver saputo dialogare, a volte anche in maniera proficua, con i vari soggetti che fanno movimento in città”.



Alla fine le riprese sono durate tre anni. E Lorenzo ha realizzato qualcosa che nessun altro aveva fatto prima in Italia: non esiste nessun documentario che racconti in maniera sistematica la vita di un centro sociale. “È una novità assoluta, e, in questo senso, sono convinto che il documentario avrà la sua importanza sia a livello filmico, che a livello sociologico”. L’approccio di Lorenzo è “onesto e genuino”, contro il “senso del finto” che permea la stragrande maggioranza dei documentari recenti. L’occhio della telecamera entra dentro una realtà sconosciuta ai più, per restituirci le immagini di chi la anima, per contrastare i pregiudizi e allo stesso tempo per rivelarne con onestà i limiti e i nervi scoperti. Indipendentemente dalle opinioni personali e politiche, una cosa è certa: se un giorno Art Lab dovesse chiudere, Parma perderebbe “la capacità, in primo luogo, di interrogarsi. È una città piuttosto ricca, molto borghese, chiusa nel suo provincialismo. Questi ragazzi, in gran parte provenienti da altre regioni d’Italia, hanno saputo portare una ventata di novità, hanno saputo incalzare e smuovere una cittadinanza, ormai disabituata a mobilitarsi”. Art Lab è uno “stimolo alla promozione di una cittadinanza attiva, partecipata, che riprenda in mano la politica rimboccandosi le maniche, come evidentemente è necessario quando il voto finisce per essere esercizio sterile di democrazia”. Perciò lunga vita alla scuola di italiano per stranieri A voce alta, alla squadra di calcio antirazzista La Paz, alla ciclofficina, alla Ciurma.

Ora Dentro il collettivo deve trasformarsi in realtà filmica, e per poterlo fare è stato lanciato un crowdfunding che scadrà il 26 agosto. Questi fondi sono necessari per poter coprire le spese, in particolare quelle di postproduzione, e già moltissimi sostenitori hanno versato il loro contributo. È importante partecipare finché possibile, perché Dentro il collettivo è arte, giornalismo, informazione alternativa; in quanto tale: unica.

Roberta Cristofori
@billybobatorton