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29 luglio 2015

Dal matrimonio alle unioni civili: lost in translation

Alla domanda «volete che sia emendato l’articolo 41 della Costituzione del 1937, con l’inserimento di una nuova clausola nella sezione “Famiglia”? “Il matrimonio può essere contratto per legge da due persone, senza distinzione di sesso”», il 62 % degli irlandesi ha risposto “Sì”. I paesi dell’Unione Europea che ancora non hanno adottato nessuna legge che riconosca i diritti delle coppie omosessuali sono 9: Italia, Grecia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Bulgaria e Romania.

In Italia, ancora non sappiamo quale sarà l’esito della discussione della proposta di legge “Cirinnà” sulle unioni civili. Sono stati presentati all’incirca 4000 emendamenti che, malgrado la determinazione della senatrice Monica Cirinnà, l’appoggio del premier Renzi e la possibilità che una maggioranza per i diritti si costituisca ad hoc, rischiano di mettere in pericolo i diritti garantiti dalla futura legge (stepchild adoption, cioè la possibilità di adottare il figlio del o della partner, e la reversibilità della pensione, due punti che suscitano forti opposizioni), o addirittura di metterne in pericolo l’approvazione.
Molte sono le voci che hanno salutato il “sì” irlandese con grande entusiasmo. Tra le tante, quella della Presidente della Camera, Laura Boldrini, che su twitter incalza: “Dall’Irlanda una spinta in più. È tempo che anche l’Italia abbia una legge su #unioni civili. Esseri europei significa riconoscere i diritti”. Una presa di posizione senza dubbio importante che rivela, però, una visione dell’uguaglianza dei diritti all’italiana su cui riflettere.
Certamente, una legge che riconosca i diritti delle coppie omosessuali è, non solo un passo importante per porre rimedio al ritardo italiano, ma anche un’urgenza per tutelare le persone e le famiglie che vivono oggi in un vuoto giuridico, fonte di insicurezza, di ingiustizie e di innumerevoli problemi nella vita quotidiana (eredità, pensione, cura dei figli, ecc.). Eppure, il fatto che si sia intrapresa la via dell’unione civile (sul modello tedesco) andando a creare un istituto giuridico riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso è un’opzione politica che ha delle controindicazioni non trascurabili.
Si ricordi, in effetti, che la proposta di legge presentata in Italia non prevede una modifica del matrimonio civile che rimane esclusivamente eterosessuale, e istituisce l’unione civile come forma giuridica dell’unione tra coppie esclusivamente omosessuali. Si creerebbe così una doppia esclusione.
Da un lato, gay e lesbiche continuerebbero ad essere escluse/i dal matrimonio e accederebbero a una forma giuridica da cui dovrebbero discendere alcuni diritti (soprattutto patrimoniali) ma non per esempio la possibilità di adottare (al di fuori della coppia) o di ricorrere alla procreazione assistita (fecondazione in vitro). Dall’altro, le coppie eterosessuali che, per una ragione qualsiasi, non si riconoscono nel vincolo del matrimonio, per ufficializzare civilmente la loro unione, non avrebbero altra scelta che sposarsi.
Che si sia intrapresa la strada del compromesso, in un contesto politico di larghe intese e in un paese in cui la classe politica continua ad essere sottomessa al potere di influenza della Chiesa cattolica, non stupisce, ed è probabilmente l’unica strategia vincente, per quanto ancora sospesa all’imprevedibilità dell’iter legislativo. Si veda per esempio la sorte toccata alla proposta di legge “Scalfarotto” (legge sui crimini d’odio a stampo omofobico e transfobico), infossata e denaturata proprio da questa stessa strategia del compromesso che l’ha condannata a uscire tristemente di scena, offrendo una vittoria schiacciante ai movimenti integralisti, reazionari e conservatori.
Il dibattito sui diritti delle coppie omosessuali, che nei paesi più civilmente avanzati dell’Unione Europea si è concentrato sull’accesso al matrimonio, è stato tradotto qui in Italia nella versione discount delle “unioni civili”, tanto che per Laura Boldrini matrimonio e unioni civili sono ormai sinonimi. Occorre ribadire che, se fosse approvata la proposta “Cirinnà”, le coppie formate da persone dello stesso sesso continuerebbero ad essere coppie di serie B, non abbastanza civili per essere riconosciute sullo stesso piano delle coppie eterosessuali, non abbastanza “famiglie” da rientrare nella definizione che l’articolo 29 della Costituzione che “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, non abbastanza mature per poter adottare o per poter ricorrere a tecniche di procreazione assistita.
Più grave ancora, dietro questa strategia di realpolitik si va in realtà ad avallare il pregiudizio per cui le persone omosessuali non sono del tutto “normali” e quindi non è possibile equiparare la loro unione a quelle delle coppie eterosessuali, il cui unico privilegio sarebbe quello di essere fondate sulla presunta complementarità naturale e biologica dei sessi. Istituire una forma giuridica omosex che si avvicina per difetto al matrimonio e che apre ad alcuni diritti matrimoniali significa creare un ghetto giuridico e culturale che perpetua la segregazione delle persone omosessuali come categoria a basso valore sociale, e legittima di fatto le false credenze sull’omosessualità e sulle famiglie omogenitoriali.
In Francia, dove l’uguaglianza di tutte e di tutti davanti alla legge è un principio fondamentale e irrinunciabile della Repubblica, la situazione è allo stesso tempo semplice e giusta:
  • il matrimonio per tutti permette di utilizzare il cognome del coniuge, di presentare la dichiarazione dei redditi congiunta, di ereditare automaticamente dal coniuge, la reversibilità della pensione, il diritto di soggiorno per il coniuge straniero, e permette l’adozione all’interno della coppia (stepchild adoption) e all’esterno, permette la procreazione assistita per le coppie eterosessuali ma non per le coppie omosessuali (una dura battaglia è in corso per abbattere quest’ultima barriera);
  • il Patto civile di solidarietà (Pacs), una forma di unione civile, tutela i diritti delle coppie sia omo che etero con alcuni limiti. Permette, per esempio, la dichiarazione congiunta ma non conferisce lo statuto di eredi (necessità di un testamento), permette di subentrare al contratto di affitto in caso di decesso del partner ma non prevede la reversibilità della pensione, è un elemento preso in considerazione per il rilascio della carta di soggiorno per il partner straniero ma non prevede il rilascio automatico, permette l’adozione individuale (del figlio del partner o all’esterno), ma non l’adozione congiunta;
  • il concubinage, e cioè l’unione o la convivenza di fatto (prevista dalla proposta “Cirinnà”), prevede il riconoscimento della coppia convivente ma non permette la dichiarazione congiunta, permette al partner di subentrare nel contratto di affitto ma solo dopo un anno di convivenza, è un elemento preso in considerazione per il rilascio della carta di soggiorno, e favorisce il trasferimento per i dipendenti pubblici solo in presenza di figli (mentre Pacs e matrimonio danno la priorità in ogni caso), non prevede l’adozione (se non quella individuale comunque possibile in Francia dove il singolo può fare richiesta di adozione).
La distinzione fatta in Francia non riguarda l’orientamento sessuale delle persone, ma il tipo di forma giuridica che le persone scelgono per le loro unioni: più stretta, più tutelata e anche più costrittiva nel caso del matrimonio, più soft nel caso dell’unione di fatto (non c’è procedura di separazione per esempio), e a metà strada nel caso dell’unione civile.
L’uguaglianza dei diritti è un principio che non significa semplicemente “riconoscere i diritti” di persone che ancora oggi sono prive di diritti, ma significa riconoscere i diritti in maniera uguale e anti-discriminatoria. In italiano marriage (inglese), matrimonio (spagnolo), mariage(francese), ægteskab (danese), huwelijk (olandese), poroke (sloveno), si dice matrimonio, non unione civile.

Massimo Prearo


Articolo pubblicato su iosonominoranza.it 

IO SONO MINORANZA 

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28 luglio 2015

Tasse, bufale e caccia al consenso

Che caldo quest'estate! Vorrei proprio installare un condizionatore, ma con questa nuova tassa da duecento euro come si fa?
Si è rivelata una bufala la fantomatica tassa sui condizionatori, che ha arroventato i social esattamente nei giorni in cui il Paese pativa gli effetti di una prolungata ondata d'afa. 
Matteo Salvini ha prontamente denunciato lo scandalo con un tweet, ed anche Beppe Grillo, dal suo blog, si è scagliato contro l'ennesima ruberia. 
Nemmeno ventiquattrore dopo la verità a riguardo era ripristinata, la polemica sopita e l'attenzione dei social rivolta altrove.
Quando si parla di tasse, tuttavia, verità e percezione non sempre seguono binari paralleli, almeno fino alla verifica empirica del proprio portafoglio. E di tasse, di questi tempi, si è parlato eccome.


La pressione fiscale in Italia è storicamente alta: nel 2014 si assestava al 43,4% sul PIL, oltre tre punti percentuali al di sopra della media europea. Secondo uno studio della CGIA di Mestre, se la pressione fiscale nostrana fosse in linea con quella continentale, ogni italiano risparmierebbe circa 900 euro all'anno.
Le tasse finanziano la spesa pubblica dello Stato e degli Enti Locali e coprono i costi dei servizi pubblici di cui usufruiamo. Lo so, è una semplificazione, ma conviene puntualizzare perché, ricordate, qui si parla di percezioni.
E la percezione degli italiani è che spesa pubblica sia sinonimo di sprechi. Certo, frequentemente assistiamo a fiumi di risorse dissipate per mala gestione, inefficienza, corruzione. Ma ben pochi si assumono l'onere di operare dei distinguo; a chi conviene, d'altronde? Denunciando scandali si vendono più giornali, si giustificano scelte politiche approssimative (chi ha detto tagli lineari?), si alimenta il consenso.  

Ed eccoci al punto: il consenso. 
La polemica contro lo Stato vessatore e sprecone offre storicamente grandi dividendi in termini di consenso elettorale, sia che voi siate all'opposizione, sia che vi troviate - ebbene sì - al governo.
D'altronde, le tasse a chi piacciono?
Tommaso Padoa Schioppa a parte. Ve lo ricordate? Ministro dell'economia del secondo governo Prodi (2006-2008), curriculum di tutto rispetto e prestigio internazionale, il 7 ottobre 2007 dichiarò a "In mezz'ora": "Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l'istruzione e l'ambiente". Inutile ricordare la polemica suscitata da queste parole e l'affannosa retromarcia della maggioranza, benché quelle del Ministro fossero parole di buon senso e civiltà.

Agli italiani le tasse non piacciono, e l'evasione è usanza comune, giustificata da numerosi esponenti politici (ricordate gli scioperi fiscali proclamati dalla Lega Nord?), praticata da altri (chi ha detto Berlusconi?).
D'altronde, come rivela un recente sondaggio di Nando Pagnoncelli pubblicato sul Corriere, un italiano su due preferirebbe "pagare meno tasse anche a costo di pagare di più i principali servizi pubblici", mentre quattro su cinque sostengano che nell'ultimo anno la pressione fiscale sia aumentata, a fronte della stabilità registrata da Istat.

Fonte: linkiesta.it
Sulla retorica anti-tasse si giocano le campagne elettorali, a partire dal famoso manifesto "Un impegno concreto. Meno tasse per tutti", forse il più noto della serie di manifesti giganti con cui Berlusconi tappezzò le città alla vigilia delle elezioni politiche del 2001, poi stravinte.
O vogliamo parlare del colpo da maestro col quale lo stesso Berlusconi quasi riuscì a ribaltare l'esito delle successive elezioni del 2006, nonostante i sondaggi della vigilia lo prevedessero perdente. 
Siamo al secondo dei dibattiti televisivi tra Prodi (candidato dell'allora Unione) e Berlusconi, il 3 aprile 2006, sei giorni prima del voto. Appello finale al voto, Berlusconi scandisce le seguenti parole: "Per noi la casa, la prima casa, è sacra. Come è sacra la famiglia. Per questo aboliremo l'ICI. Avete capito bene: a-boliremo l'ICI su tutte le prime case, e quindi anche sulla vostra"
E ancora: febbraio 2013, vigilia elettorale. Tutti gli italiani ricevono per posta una lettera, il cui mittente è il "Presidente Silvio Berlusconi", avente ad oggetto il "Rimborso IMU 2012"

Veniamo a tempi più recenti. Caso particolare è il famigerato bonus degli 80 euro in busta paga voluto da Matteo Renzi in prossimità delle elezioni europee del 2014, stravinte. Un credito attribuito ai lavoratori dipendenti il cui reddito annuo non superi i 24 mila euro, effettivamente realizzato. I sostenitori di questo provvedimento hanno parlato di redistribuzione. I detrattori, invece, hanno subito gridato alla "mancia elettorale". Ora, se anche non fosse così nella realtà, lo è certamente nella percezione degli elettori (che hanno ricambiato con voti nelle urne) e degli osservatori. Siamo ormai abituati a concepire come mera propaganda qualunque annuncio (realizzato o meno) in materia di fisco. 

La luna di miele tra Renzi e gli italiani, tuttavia, si è presto interrotta. Ecco allora che intervenendo alla direzione del Partito Democratico il 18 luglio il Premier e segretario ha promesso una "rivoluzione copernicana del fisco", un taglio delle tasse pari a circa 35 miliardi di euro suddiviso in tre anni di interventi. E indovinate quale sarà la prima imposta su cui si interverrà? L'IMU, esattamente. Viene infine sdoganata la retorica anti-tasse anche a sinistra, o le intenzioni si riveleranno serie e lungimiranti?

Fermi un attimo, e le coperture? Da copione, questa è la reazione degli avversari politici di turno ad ogni annunciato taglio delle tasse. Peccato che generalmente il dibattito si interrompa al passaggio successivo: "ci sono" o "non ci sono". Ma quando le coperture, almeno in termini finanziari, esistono, quale frazione di spesa pubblica vanno a colpire? Saranno intaccate le inefficienze, gli sprechi, oppure i servizi ai cittadini? 
Una questione complessa, che non fa breccia nel dibattito politico e sui social. E che, infatti, raramente viene posta. Almeno finché gli eventuali disservizi generati dai tagli non emergano, tangibili e irreparabili.

Per concludere, chi non si augura che una pressione fiscale alta possa calare per effetto di tagli mirati e caccia agli sprechi? Si tratterebbe, tuttavia, di un processo graduale, incrementale, i cui risultati potrebbero evidenziarsi con anni di ritardo.

Una strategia più responsabile e avveduta, forse, ma di minore impatto.
Esiste allora un trade-off tra responsabilità e consenso? Tra buone politiche fiscali e comunicazione vincente? Se non si annunciano tagli epocali, si diventa automaticamente "il partito delle tasse"? (Chi ha detto Vincenzo Visco?).
Questo rebus esiste, ed è di ardua soluzione. A meno ché, naturalmente, non si propugni apertamente la logica del "meno stato, meno servizi pubblici", perché in quel caso diminuire tasse, tagliare risorse, chiudere servizi diventano politiche fin troppo (drammaticamente) facili.

Andrea Zoboli

26 luglio 2015

SundayUp - Sarban, "Il richiamo del corno" (Adelphi, 2015)

John William Wall è un mite e poco ambizioso funzionario diplomatico inglese, che ha scelto quel tipo di carriera nelle zone del Medio Oriente perché “Flecker, la cui poesia ho amato durante la scuola, era nel Servizio Consolare del Levante”. Sorvolando sulla scarsa notorietà del poeta Flecker, che si limita a essere citato qua e là da Agatha Christie, da Borges e in Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà, colpisce la discutibile consistenza della motivazione professionale di Wall. Come niente fosse, si ritrova a lavorare a Beirut (Libano), Jeddah (Arabia Saudita), Tabriz e Isfahan (Iran), Casablanca (Marocco), ma coltiva distrattamente anche il pallino della scrittura, con lo pseudonimo di Sarban (“carovaniere” in parsi). La sua produzione è estremamente ridotta, limitandosi a una manciata di racconti.


Sarban
Il richiamo del corno (The Sound of His Horn in lingua originale), pubblicato nel 1952, pare sia la sua opera più consistente (tra quelle pubblicate), e si situa esattamente a metà tra il racconto e il romanzo: è un romanzo breve o un racconto lungo, insomma un appartenente a quella categoria-limbo che fa impazzire editori e recensori che non sanno come considerare il testo in questione. Sorvoleremo quindi su cosa sia di preciso quest’opera dal punto di vista formale, addentrandoci un po’ meglio sui contenuti.
Si tratta (e dobbiamo ancora scomodare categorie “di confine”) di una sorta di racconto distopico-onirico: un normale ritrovo tra vecchi amici nel 1949 è la cornice verosimile e realistica che racchiude, sotto forma di “racconto nel racconto”, la lunga narrazione del protagonista Alan Querdilion. Racconta una strana esperienza capitatagli dopo essere evaso da un campo di lavoro tedesco in cui era prigioniero di guerra. Fuggendo nella notte incappa inavvertitamente in una barriera di strani raggi che delimitano una proprietà, Hackelnberg. Perde i sensi e si risveglia in una stanza d’ospedale, assistito da infermiere personali e sottoposto alle cure dell’enigmatico Herr Professor Doktor Wolf Von Eichbrunn. Tutto sembrerebbe andare per il meglio, le sue condizioni di salute migliorano giorno dopo giorno, ma una misteriosa presenza si manifesta nelle notti di luna, con un lontano suono di corno da caccia che riecheggia nell’immensa foresta che circonda il piccolo ospedale. Il Dottore e le infermiere sono evasivi, e sembrano anch’essi spaventati da quei misteriosi richiami notturni, ma si rifiutano di rivelare di cosa si tratti.
Come se non bastasse, quasi per caso Alan scopre che, per qualche ragione ignota, dalla notte in cui ha perso i sensi non sono passati pochi giorni, come credeva, bensì 102 anni: nel frattempo i nazisti hanno vinto la guerra e conquistato gran parte dell’Europa. Gradualmente gli si rivela un mondo progredito nel tempo e nei mezzi tecnologici, ma irrimediabilmente regredito moralmente fino a – di nuovo! – una via di mezzo tra il medioevo e la preistoria.

Il Graf (“conte”) Johannes Von Hackelnberg, Gran Maestro delle Foreste del Reich, è il proprietario dell’immensa tenuta, che amministra in perfetto stile feudale. La sua figura è quasi mostruosa, una specie di orco che sembra uscito direttamente dalle antiche saghe germaniche, condito con un po’ di feudalesimo morboso e con lati da serial killer. Per il suo personale diletto alleva ogni sorta di animali, aggiungendo, con un pizzico tipicamente distopico di eugenetica malata, innumerevoli schiavi muti clonati da un unico “esemplare”, creature in bilico tra la natura umana e quella animale, e un notevole numero di “prede” che si rivelano esseri umani bizzarramente travestiti per fungere da selvaggina nel corso delle battute di caccia che il Graf organizza per sé e per i suoi ospiti.
Anche il nostro Alan diventerà prevedibilmente una potenziale preda del Graf Von Hackelnberg, ma qui ci fermiamo perché lo spoiler alert ha iniziato a suonare in modo pressante…

Racconto lungo o romanzo breve che sia, è un libro che si fa leggere in modo decisamente fluido: la suspense è sempre presente ma mai invadente, e non bisogna dimenticare che si tratta comunque di ottima letteratura, che non si serve mai dei soliti trucchetti acchiappa-attenzione. Lo stile è asciutto ed essenziale, non indugia più del dovuto nel torbidume psicologico (che, ammettiamolo, spesso è un po’ fine a se stesso) ma allo stesso tempo si mantiene decisamente lontano dall’opposto, cioè una fredda cronaca senz’anima. Equilibrato è la parola giusta, probabilmente.
Ed è proprio questo a sfuggire alle categorie: si tratta sì di una vicenda distopica, se isoliamo la pura narrazione del protagonista, ma l’inizio e la fine del romanzo (o quel che è) sono improntate al più coerente realismo (la “cornice letteraria” ambientata nel 1949 in una tranquilla casa inglese), e in questo modo il racconto di Alan diventa qualcosa di palesemente irreale, a meno che non si pensi che sia in grado di viaggiare nel tempo a piacimento. Una narrazione onirica, dunque,
costantemente in bilico tra realtà e allucinazione. Cos’è vero e cosa è falso nel racconto di Alan? Ha semplicemente perso i sensi e sognato tutto? Eppure il suo sogno è di una coerenza cristallina e dettagliato come non mai. Forse è impazzito per un breve periodo di tempo, come lui stesso ritiene? Il futuro da lui immaginato, o “visitato” (qualunque cosa voglia dire) è irreale o soltanto in attesa di realizzarsi? Lui non pare credere a quello che ha visto, limitandosi a cogliere quello che di buono gli ha dato quell’esperienza: una nuova consapevolezza di sé e del suo rapporto con gli altri (e forse per la prima volta questo testo ricade dentro una sola precisa categoria: il romanzo di formazione).
Ma una volta chiusa l’ultima pagina resta il meraviglioso dubbio “ma chissà, forse…” che è quello che, almeno a mio parere,
lascia incollati a un libro anche dopo averlo finito.

23 luglio 2015

SundayUp - Tame Impala: i dolori del giovane Parker (Currents, 2015)

Finalmente, dopo mesi di attesa e qualche settimana di ritardo, venerdì 17 luglio è uscito Currents, il terzo album in studio dei Tame Impala.
Con i due precedenti lavori, Innerspeaker e Lonerism, Kevin Parker – autore, produttore, arrangiatore e vera mente dietro al progetto – ci aveva abituato a un panorama musicale che, pur saccheggiando massicciamente gli stilemi del rock psichedelico di stampo Beatlesiano e 70’s, riusciva comunque a risultare molto più di un semplice esercizio di revivalismo. Il ventinovenne di Fremantle, Western Australia, è riuscito a sobbollire le sue influenze un po’ vintage in un manicaretto estremamente personale, con uno stile compositivo inconfondibile e tutto sommato efficacemente moderno, che ha consacrato i Tame Impala come la punta di diamante dello psych-rock contemporaneo. A livello espressivo poi, come si può intuire già dai titoli, i precedenti lavori aprivano una finestrella sull’universo privato di un Parker che usava la musica per ritirarsi dal mondo; ma per una migliore trattazione dell’argomento vi rimando alla bella recensione della mia collega Sofia Torre.

Quello che colpisce di Currents, invece, è la sua volontà di cesura con il passato. Tutto cambia nel nuovo disco, a partire dal sottinteso del titolo: se gli altri due erano ombelicalmente ripiegati su se stessi, l’ultimo già dal nome parla di abbandono al mondo, dello staccarsi finalmente dallo scoglio del sé per galleggiare sulle correnti dello spazio e del tempo, di un’apertura eraclitea al movimento al quale non ci si può in fondo opporre, se non per breve tempo e con scarsi risultati.
Anche il suono che esce dall’home studio della band vicino a Perth cambia radicalmente. Una massiccia e steroidea iniezione di sintetizzatori prende il posto degli strati di chitarre e dei fuzz grandi come elefanti che nei primi due dischi costituivano la struttura armonica delle canzoni – basti pensare che, in Currents, la chitarra compare non più di tre o quattro volte, e solo per brevi camei. Anche il basso, che soprattutto nel celebratissimo Lonerism svolge un ruolo molto melodico e si addobba quasi sempre di un fuzz armonico dal timbro inconfondibile, nel lavoro appena uscito ritorna ubbidiente al ruolo prettamente ritmico in cui il rock spesso lo relega, svestendo le distorsioni e martellando percussivo per costituire l’ossatura delle canzoni. Persino la batteria, pur sembrando sempre “analogica”, spesso adotta delle sonorità più pompate, elettroniche. La voce, infine, anche se indulgendo sempre nel falsetto che tanto bene riesce a Parker, si libera dei mille effetti che ne confondevano il corpo nei primi album, e spesso risuona apparentemente inalterata, più nuda, come se volesse mostrarsi a tutti per com’è.
Ed effettivamente questo disco è molto intimo. Molti l’hanno definito un “album di separazione”, nel senso che tutte le canzoni trattano in maniera più o meno evidente della fine di una relazione. È difficile non vederci un riverbero della recente rottura tra Parker e Melody Prochet dei francesi Melody’s Echo Chamber, ma come lo stesso autore ha specificato, il tema della separazione non è che una delle forze che guidano Currents.

Kevin Parker
Come si è già detto un’altra fonte d’ispirazione, probabilmente la principale, è la riflessione sul cambiamento. Emblematica, da questo punto di vista, è la scelta di mettere al primo posto della tracklist il singolo Let it Happen, forse il passo più lungo compiuto dalla gamba dei Tame Impala in questo album. Let it Happen è la splendida mela che cade lontano dall’albero, il pezzo che più di tutti si differenzia dalla produzione precedente, eppure resta inconfondibilmente dentro a quella cifra stilistica – e non solo, è anche tra i meglio riusciti di tutto il disco. È la canzone che dà il via al viaggio sciamanico di Kevin Parker dentro se stesso, viaggio che sarà composto da diverse fasi e che alla fine vedrà riemergere un Parker diverso da quello che era partito, eppure sostanzialmente ancora la stessa persona. In un certo senso il pezzo è un riassunto del percorso che, per intero, viene raccontato attraverso l’album, i cui diversi momenti sono ben identificabili nella canzone: dopo la prima strofa, l’effetto “subacqueo” a 0:50 sembra voler dire che in quel punto inizia l’immersione del protagonista nel proprio profondo; il loop nel quale a un certo punto entra il sintetizzatore potrebbe essere un momento di difficoltà o di stallo sul sentiero del cambiamento; l’outro, infine, con il ritorno (caso quasi unico nel disco) della chitarra distorta che si unisce all’elettronica per formare la melodia, può rappresentare la riconciliazione con la vecchia identità (la chitarra) all’interno di una nuova consapevolezza (il sintetizzatore comunque ben presente).

Al secondo posto c’è Nangs, che nello slang di Perth indica i palloncini riempiti di gas esilarante usato come droga ricreativa da alcuni circoli post-hippie (e non solo) in Australia, Usa e Uk. Un minuto e cinquanta secondi di interludio trippy, in cui la voce ripete ossessivamente una sola cosa, “But there is something more than that”: non riesco a non pensare al momento iniziale del viaggio sintetizzato nella canzone precedente, quando Parker l’artista si ritrova intrappolato in un genere (lo psych-rock, che potrebbe essere rappresentato dalla droga di cui sono pieni i nangs) e si chiede se non c’è nient’altro a cui può aspirare, assetato di una svolta creativa. Svolta che arriverà proprio con Currents.
Dalla track 3 alla 8 tutte le canzoni parlano, con toni più o meno disperati, della fine di un rapporto. The Moment, Yes I’m Changing – un manifesto d’intenti già dal titolo – , Eventually (per ammissione dello stesso compositore il vero cuore emotivo del disco, un singolone strappalacrime estremamente intenso), Gossip e The Less I Know, the Better raccontano di una persona alle prese con l’abbandono da parte dell’altro e con il cambiamento in se stessa. Improvvisamente però, a partire dalla numero 8 Past Life, la prospettiva si rovescia: la voce narrante, qui pesantemente effettata, incontra dopo anni di distanza una vecchia fiamma mai dimenticata. 


La relazione, mentre prima è raccontata nel momento in cui viene troncata, in questa canzone è vista da un punto molto più in là sulla linea del tempo rispetto alla rottura effettiva. Allo stesso modo, nella successiva Disciples, non è il protagonista che cambia, ma l’altra metà della coppia (And I had no idea/what that feeling could do to you/And I could tell you changed/By the people around you), mentre nella splendida ’Cause I’m a Man il falsetto di Parker non è la vittima, la parte che subisce la crisi della storia, ma quella che si scusa per il dolore causato dalle proprie azioni, determinate da una forma mentis fondamentalmente maschile: “Non posso accettare la sconfitta e lasciar correre/Non ho voce se non penso con la mia testa/La mia debolezza è la fonte di tutto il mio orgoglio”. Ma alla fine si riconosce anche un fondo comune a tutta l’umanità, al di là delle differenze di genere: “Ma sono un essere umano, donna/E rispondo a una forza più grande”.
Per finire, il disco si chiude con New Person, Same Old Mistakes, forse la canzone più densa di tutto l’album. La struttura si svolge intorno a un solo riff di basso, ripreso dalla voce, che resta sempre sullo sfondo, ipnotico, per tutta la durata del pezzo. Scompare solo nel ponte, nel quale lo scintillante arpeggio di sintetizzatore sprizza psichedelia ad ogni nota. In più, come lo stesso autore fa notare nel corso di un’intervista, in questa traccia il testo si unisce al metatesto, mettendo le mani avanti a proteggersi dalle critiche degli zeloti dello psych-rock che gli avrebbero rimproverato di essersi “venduto” – al mercato, all’elettronica o a chissà che altro: I can just hear them now/”How could you let us down”, ma anche I know that you think it’s fake/Maybe fake’s what I like.


Con New Person, Same Old Mistakes si chiude una parabola artistica che ricorda per certi versi un romanzo di formazione ottocentesco: Currents è I dolori del giovane Werther per i Tame Impala, una storia di stallo, necessità che diventa urgenza, decisioni drastiche e rischi da correre, grosse scommesse con il futuro, percorsi di purificazione tra le fiamme e infine rinascita come fenice, uguale eppure diversa, più forte, più bella. I fan di Tolkien ci ritroveranno echi del passaggio di Gandalf da grigio a bianco (a me è venuto spontaneo pensarci). Sta di fatto che questa è una strada che tutti dobbiamo percorrere, prima o poi; per chi non ce la fa la pena è l’immobilismo, e alla fine la morte.

Giovanni Ruggeri 

22 luglio 2015

Storie di migranti abbandonati lungo la rotta dei Balcani

"Rifugiati in fuga dalla guerra e dalla persecuzione intraprendono il viaggio lungo i Balcani nella speranza di trovare salvezza in Europa. Invece, finiscono per subire violenza e sfruttamento, a causa di un sistema d'asilo che non funziona".                                                                                                                               
Gauri van Gulik, vicedirettrice del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International.
Fonte: Internazionale
Il 7 luglio Amnesty International ha diffuso un rapporto intitolato “Frontiere terrestri europee: violazioni contro migranti e rifugiati in Serbia, Macedonia e Ungheria”. Nel documento si parla della “rotta dei Balcani” meno nota della “rotta del Mediterraneo” ma altrettanto pericolosa. La rotta inizia dalla frontiera marittima tra Turchia e Grecia e porta migranti, richiedenti asilo e rifugiati lungo Macedonia e Serbia fino in Ungheria. Il rapporto si basa su quattro missioni di ricerca eseguite in Serbia, Ungheria, Grecia e Macedonia tra luglio 2014 e marzo 2015 e su oltre 100 interviste a rifugiati e migranti. Le testimonianze ci aiutano a scoprire le terribili esperienze di chi intraprende il viaggio lungo la "rotta dei Balcani". Il numero delle persone fermate solo lungo il confine tra Serbia e Ungheria è passato da 2370 nel 2010 agli attuali 60.602, con un aumento di oltre il 2500 per cento. Si tratta di persone, bambini compresi, che subiscono violenze ed estorsioni ad opera delle autorità e di bande criminali e spesso vengono abbandonate, in balia del loro destino, da un sistema d’immigrazione e d’asilo palesemente inefficiente. I migranti restano intrappolati in Serbia e Macedonia in un “limbo giuridico” che rende difficile l’accesso alle procedure di richiesta d’asilo. Il percorso per chiedere asilo politico in questi stati è talmente tortuoso che nel 2014 solo 10 richiedenti hanno ottenuto lo status di rifugiato in Macedonia e solo uno in Serbia.

Il viaggio di siriani, afghani, egiziani, iracheni, nigeriani, tunisini, somali, sudanesi ed eritrei (circa 21 mila rifugiati e migranti hanno percorso la rotta dei Balcani occidentali nel 2014) inizia con l’approdo sulle isole greche (Amnesty International stima che almeno 61474 rifugiati sono arrivati sulle isole greche tra il 1 gennaio e il 22 giugno 2015, a fronte dei 43500 arrivati durante tutto il 2014) e l’incontro con condizioni di accoglienza tutt’altro che raccomandabili. I migranti cercano di spostarsi ad Atene per poi passare più facilmente il confine macedone e raggiungere altri stati membri dell’Unione Europea. Al confine tra Grecia e Macedonia e a quello tra Macedonia e Serbia rifugiati e migranti affrontano uno dei momenti più difficili del loro viaggio. Respingimenti illegali e maltrattamenti sono perpetrati dalle forze dell’ordine. Inoltre, spesso vengono chieste somme di denaro per poter attraversare il confine. L’estorsione di denaro al confine si aggiunge allo sfruttamento economico che i migranti subiscono per mano di chi organizza i viaggi verso l’Europa. Molti rifugiati e migranti vengono arbitrariamente arrestati; si parla di centinaia di persone, comprese donne incinte e minori non accompagnati, costrette a trascorrere lunghi periodi di detenzione nel Centro di accoglienza per stranieri della Macedonia (conosciuto come Gazi Baba), senza alcuna salvaguardia legale o possibilità di chiedere asilo. Le autorità macedoni li trattengono illegalmente per mesi, in condizioni inumane e degradanti, per farli comparire come testimoni nei procedimenti giudiziari contro i trafficanti.


Purtroppo al termine della rotta c’è lo stato dell’Unione Europa che in questo momento è forse il più ostile verso rifugiati e migranti. Quell’Ungheria che proprio qualche giorno fa ha iniziato i lavori di costruzione di un muro lungo il confine con la Serbia per bloccare il flusso proveniente dall’area balcanica. Secondo quanto riportato dall’Ufficio comunicazioni internazionali del primo Ministro Viktor Orban, i lavori inizieranno contemporaneamente in 10-12 località differenti lungo il confine e saranno completati entro il prossimo 30 novembre. Non basta il disappunto di Martin Schulz e del Parlamento Europeo a diminuire la gravità di questa soluzione. Non basta, se gli stati continuano a preferire le logiche nazionali alla condivisione delle responsabilità e alla solidarietà. Ad ogni modo, muro o non muro, ottenere lo status di rifugiato in Ungheria non sembra molto facile. Nel 2014, l’Ungheria ha concesso asilo solo a 240 persone, una piccola parte di coloro che avevano presentato domanda. Le persone fermate per ingresso irregolare in Ungheria sono regolarmente detenute, spesso in condizioni di sovraffollamento, o sottoposte a maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. Chi non intende chiedere asilo in Ungheria, magari per provare a presentare domanda in altri stati dell’Unione europea, spesso viene espulso verso la Serbia e da qui, in alcuni casi, ulteriormente mandato indietro verso la Macedonia.
Fonte: Internazionale
Non c’è dubbio che Serbia e Macedonia debbano fare di più per rispettare i diritti di migranti e rifugiati, ma resta il fatto che sono costrette ad accollarsi le conseguenze delle politiche europee in materia di immigrazione. Ad oggi, sembra che Grecia e Ungheria “usino” gli stati balcanici per bloccare gli immigrati in questa sorta di limbo e quindi riceverne meno. Il tentativo di ostacolare gli ingressi nell’Unione Europea ha limitato le vie di accesso sicure e legali percorribili. Conseguentemente si è generata una forte pressione sugli stati europei periferici, in particolar modo Grecia e Italia; tale pressione risulta dal fallimento dell’Unione di sviluppare politiche migratorie che riflettano sia il bisogno di una maggiore solidarietà globale, in seguito all’aumento dei flussi migratori, sia una maggiore solidarietà tra gli stati membri, che attualmente condividono in modo iniquo la responsabilità dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Amnesty International conclude il suo rapporto con alcune raccomandazioni all’UE per un sistema di migrazione più rispettoso dei diritti umani. Tra queste: l’apertura di rotte più sicure e legali per permettere ai migranti di raggiungere l’Unione Europea; l’aumento del supporto tecnico e finanziario agli stati periferici che ricevono il maggior flusso di immigrati; la revisione dei regolamenti interni per facilitare la libera circolazione dei rifugiati all’interno dell’UE. 

21 luglio 2015

La sfida di Pagella Politica: il crowdfunding per smascherare le bugie dei politici

Sono in molti a pensare che spesso i politici alterino il passato e il presente in maniera strumentale. C’è chi è al governo, che ha tutto l’interesse di valorizzare i dati positivi espressi dagli istituti statistici, o chi sfrutta l’attualità per rafforzare l’attività di opposizione. Quello che talvolta viene dimenticato è che esiste un team giovanissimo e molto preparato formato da dieci ragazzi che, ogni giorno, seleziona le dichiarazioni dei politici e le verifica utilizzando numeri, dati, leggi. Sto parlando della redazione di Pagella Politica, progetto indipendente di fact-checking  che, dal 2012, smaschera tutte le bugie dei politici italiani e non, perché -si sa- hanno le gambe corte. Non solo “panzane pazzesche”, ma c’è anche chi si merita un “pinocchio andante”, “c’eri quasi”, “Nì” e “vero”: queste le categorie utilizzate dalla redazione che ha ricevuto riconoscimenti dai principali media italiani ed europei. 

pagella politica panzana pazzesca


Oggi il progetto vuole crescere e, per farlo, Pagella Politica ha lanciato una campagna di crowdfunding su Kickstarter per poter realizzare almeno 5 brevi video animati. Toccherà alla mascotte Pollock trovare le peggiori “panzane pazzesche” della classe politica italica e smascherarle. L’obiettivo? Ottenere sempre più risposte e smentite dai diretti interessati!
Per scoprire tutto sulla campagna, che si concluderà tra 10 giorni, abbiamo fatto due chiacchiere con Alexios, che ha risposto a tutte le nostre curiosità.

Come è nata l’idea di finanziare parte del vostro progetto attraverso il crowdfunding, utilizzando Kickstarter disponibile solo da qualche tempo in Italia?
Per sviluppare la mini-serie di Pollock l’acchiappa-panzane ci siamo affidati al crowdfunding per due ragioni (oltre a quella più ovvia: altrimenti non avremmo avuto i fondi necessari!). La prima era vedere se l’idea piaceva anche ai nostri lettori o se era una cosa che ci saremmo finiti per vedere solo noi. Non c’è conferma più sicura del fatto che qualcuno ritiene che un’idea sia buona del fatto che ci investa qualche soldo. In secondo luogo crediamo che questi video avranno un maggiore impatto quando saranno rilasciati perché frutto non solo dello sforzo editoriale dei giovani professionisti che animano il progetto ma anche dello sforzo economico dei lettori.

Come avete scelto le ricompense, che vanno da un ringraziamento social speciale alla possibilità di scegliere la dichiarazione da verificare, per ringraziare i vostri sostenitori? 
Non è stato semplicissimo. I crowdfunding di maggior successo solitamente sono per sviluppare un gadget o un videogioco e quindi le ricompense sono collegate. In questo caso il prodotto è “intangibile” e la principale ricompensa deve essere la soddisfazione di aver reso possibile questa cosa. Detto ciò le nostre tazze personalizzabili stanno riscuotendo successo, evidentemente c’è un po’ di panzana nelle vite di ognuno di noi.

Come ha reagito il vostro pubblico all’idea dei video e del finanziamento online? Vi hanno scritto qualche commento particolare? C’è qualcuno a cui proprio l’idea non è piaciuta?
Al momento di insulti non ne abbiamo ricevuti (c’è sempre tempo). C’è da dire anche che in tre anni di attività non abbiamo messo una pubblicità che fosse una sul nostro sito e i lettori capiscono che non è che ci si può reggere in piedi solo con la buona volontà.

L’obiettivo sembra a portata di mano, mancano dieci giorni alla fine e i vostri follower hanno risposto con entusiasmo. Ve lo aspettavate?
Sshh non dire “gatto”… In ogni caso siamo molto contenti di come sta andando la campagna. Anche perché, di nuovo, stiamo proponendo di fare una mini-serie sulla politica non un orologio che ti fa il caffè. Guardando a quello che hanno ricavato altri fact-checkers in giro per il mondo dalle campagne crowdfunding (vedi ad esempio PolitiFact, che per il fact-checking ha vinto il Premio Pulitzer) se raggiungeremo l’obiettivo ne saremo contenti.

Siete ambiziosi (e fate bene vista la qualità delle vostre analisi), sperate quindi di ottenere qualche smentita dai politici che hanno sparato la loro “panzana pazzesca”, ma vi è già capitato di ricevere qualche risposta, pubblicamente o privatamente?
Fortunatamente sì, anche se non spesso quanto vorremmo. Proprio nel video della campagna presentiamo tre risposte ricevute, da Di Maio, Meloni e Zingaretti. Altre volte abbiamo ricevuto risposte infuocate (vedi qui). Proprio perché vorremmo aumentare il numero di correzioni pubbliche puntiamo su Pollock. Puoi ignorare un’analisi piena di dati, ma come fai a far finta di niente se ti corregge un polletto sgangherato? 

A chi vi segue e a chi, magari, vi ha scoperti solo ora cosa direste per convincerli a sostenervi?

In Italia non si risparmiano le critiche al mondo dell’informazione e a quello della politica. Noi di Pagella Politica non ci illudiamo certo di rivoluzionare né l’uno né l’altro con la nostra web-series. Ma possiamo dare un piccolo segnale di cambiamento. Se chi legge crede che quale che sia la propria ideologia, prima di tutto bisogna partire dai dati corretti, sostenga la nostra campagna!

20 luglio 2015

La Germania di Angela Merkel: un egemone riluttante

All'indomani dell'accordo all'interno dell'Eurogruppo sulla crisi Greca, sembrava che, in mezzo ad un cumulo di macerie, emergesse un unico vincitore: la Germania di Angela Merkel. Mentre il governo greco era costretto ad ingoiare bocconi amari per mantenere finanziariamente in vita (chissà per quanto) il proprio paese e l'Unione Europea scongiurava in extremis la fuoriuscita senza precedenti di uno stato membro dalla moneta unica, vedendosi però chiaramente sminuita nella sua natura sovranazionale durante le trattative, Berlino aveva ottenuto tutto ciò che voleva. La cancelliera Merkel infatti era riuscita a piegare la fiera resistenza di Alexis Tsipras, lanciando così un monito a chiunque in futuro abbia velleità di sovvertire la politica economica vigente nella zona Euro e, contemporaneamente, a ridurre a miti consigli i falchi, tedeschi e non solo, che desideravano liberarsi del fastidioso fardello ellenico. Insomma un capolavoro diplomatico in cui la Germania formalizzava in maniera muscolare, ma anche multilaterale, la propria egemonia nel vecchio continente e salvava la reputazione e la credibilità del progetto d'integrazione europea.

 La cancelliera Angela Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schauble | Fonte: The Guardian
Tuttavia questa vicenda pone, forse definitivamente, la politica estera teutonica davanti al dilemma culturale della leadership. Infatti, a dispetto di risorse economiche preponderanti rispetto agli altri stati membri della UE, la Germania continua a non voler percepirsi, e di conseguenza, comportarsi in maniera coerente come forza trainante, celandosi prudentemente dietro alle opache istituzioni di Bruxelles e al tanto storicamente rilevante quanto attualmente squilibrato asse con la Francia.

Le radici del problema vanno ovviamente rintracciate nella scia di morte e terrore causata dai tentativi tedeschi di dominare il continente nel secolo scorso, seguendo una presunta idea di eccezionalità, riassunta nel concetto di Sonderweg. Dalla fine della seconda guerra mondiale l'élite politica della Germania Ovest ha plasmato una nuovo ruolo del proprio paese all'interno dello scenario politico globale improntato al pacifismo, al rispetto delle norme e del diritto internazionale, al multilateralismo, all'integrazione con gli altri paesi europei e alla lealtà nei confronti degli USA. Quando il muro di Berlino è caduto c'erano grandi timori, soprattuto da parte di Francia e Gran Bretagna, riguardo ad un possibile risorgere delle ambizioni tedesche di egemonia nel continente, corroborate da interpretazioni realiste in ambito accademico. Inizialmente però queste preoccupazioni sono state fugate dagli accordi di Maastricht e da un più generale atteggiamento orientato al basso profilo. Progressivamente però alcuni cardini della politica estera tedesca sono andati via via indebolendosi, seppur con ragioni validissime. Dapprima la partecipazione all'operazione NATO in Kosovo ha rotto con il carattere pacifista in senso stretto per evitare un atto di pulizia etnica. Successivamente il rifiuto di entrare in coalizione con gli Stati Uniti di George W. Bush nella scellerata invasione dell'Iraq ha segnato una discontinuità con la dimensione atlantista. In un certo senso la patria di Goethe è parzialmente uscita dal suo guscio, cominciando a far sentire la propria voce e perorando i proprio interessi nazionali autonomamente.

Questa normalizzazione della politica estera tedesca è avvenuta in modo molto meno limpido nel contesto dell'Unione Europea. Qualunque osservatore minimamente informato aveva notato come già da tempo a dettare legge nella zona Euro fosse la Germania. Però non si era ancora verificato un singolo evento che aveva acceso i riflettori dell'opinione pubblica sugli indiscutibili rapporti di forza interni alla UE. La trattativa con il governo di sinistra radicale in carica ad Atene, soprattutto nelle sue fasi conclusive, ha, come già sottolineato in precedenza, svelato la presenza di un paese politicamente ed economicamente egemone in Europa che, parafrasando il George Orwell de la Fattoria degli Animali, “è più uguale degli altri”. Gli altri appunto non possono fare altro che adeguarsi volenti (e noi in Italia tendiamo a scordarcelo ma sono la maggior parte) o nolenti.

Ora che le carte sono state scoperte la Germania deve per forza guardarsi allo specchio e fare i conti con sé stessa: il proprio passato, le proprie ansie e le proprie angosce. Da una parte rimanere a giocare all'oscuro burattinaio da dietro le quinte è impossibile oltre che controproducente. Dall'altra impugnare le redini dell'Euro e dell'Unione Europea richiede una netta ridefinizione dell'identità nazionale oltre ad una totale dedizione alla causa. Ma è anche l'unica opzione percorribile.

Fonte: Il Sole24Ore
Berlino ha tutte le qualità per essere un perfetto leader post-moderno. Non esiste nessun altro stato membro così convinto dell'immanenza e irreversibilità del processo d'integrazione europea e dell'importanza di trasferire sovranità politica a favore delle istituzioni comunitarie. Non esiste nessun paese che crede di più nel multilateralismo e nel consenso per raggiungere le decisioni collettive e che possiede una così fruttuosa esperienza nel cosiddetto coalition-building. Pochi altri sono così attenti e scrupolosi per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e delle norme della comunità internazionale. Infine, che piaccia o no, il modello economico tedesco si è rivelato, pur con alcuni immancabili difetti, il più efficace tra quelli continentali per affrontare le sfide della competizione globale.

Vanno però evidenziati un paio di aspetti su cui la Germania dovrebbe correggere il tiro. È fondamentale che le autorità tedesche, Bundesbank in primis, abbandonino i loro dogmi: pareggio di bilancio nel breve periodo e prudenza nell'attuare una politica monetaria espansiva. Queste due paranoie, nate in seguito alla devastante super-inflazione durante la repubblica di Weimar, hanno esacerbato la recessione nella zona Euro. Dovrebbero anche, in ossequio con un ruolo di egemone conclamato, tenere in considerazione un elettorato più ampio di quello che risiede nei propri confini poiché le loro scelte hanno un impatto chiaramente transnazionale.

Può darsi infine che in questo momento sussista un problema di classe dirigente. Angela Merkel, per limiti personali e anagrafici, temo non possa operare una tale trasformazione dell'identità e, quindi, della politica estera tedesca. Tuttavia qualcuno presto lo dovrà fare. Poiché, affinché l'Unione Europea faccia un significativo salto di qualità, oltrepassando lo stallo di questo ultimo decennio, c'è un disperato bisogno di una leadership solida, affidabile e lungimirante. C'è bisogno della Germania. Una nuova Germania.

Una nuova Europa è Possibile? Report dal Politicamp di Firenze

Possibile è il nuovo soggetto politico che in questi caldi mesi estivi si sta definendo nel panorama politico italiano così da trovare un posto nell’ampio spettro partitico con l’arrivo della stagione più mite. 
Grazie ad iniziative come quella del Politicamp, che ques’tanno è stata organizzata a Firenze nella suggestiva Limonaia di palazzo Strozzi, Possibile raccoglie istanze da più voci della società civile. Alla tre giorni di Firenze, infatti, hanno partecipato neo iscritti, fondatori, storici esponenti della sinistra italiana e un buon numero di giovani interessati a partecipare agli incontri, dibattiti e tavoli di lavoro. 
Sono diverse le riflessioni che si potrebbero proporre, almeno tante quante i temi affrontati nei tavoli di lavoro così come quella sul futuro di questo nuovo soggetto politico, ma il mio personale contributo è quello sul tema dell’Europa e sullo stato di salute dell’Unione perché oggi più che mai i temi caldi da affrontare sono strettamente temi europei.
Giuseppe Civati al PolitiCamp di Firenze-Repubblica.it
Nell’intervento tenutosi sabato sera si è parlato in particolare d’Europa, partendo dalle quattro macro questioni che Elly Schlein ha voluto ricordare: la questione Greca, quella Ucraina, la questione dell’immigrazione e quindi di Lampedusa e in fine quella di Lussemburgo e l’elusione fiscale. Quattro temi che dimostrano come oggi l’Unione Europea  non riesca ancora a trovare una risposta comune.
Sergio Cofferati ha sottolineato come manchi ancora oggi il completamento dell’idea originale d’Europa così come era stata delineata nel Manifesto di Ventotene; una mancata cessione di sovranità nazionale che rende le politiche rimaste di competenza nazionale ancora zoppe, la proposta di Cofferati è quella di scrivere un nuovo Trattato che indichi quali siano ad oggi i confini della nuova Europa, di un’ Europa che è uscita certamente cambiata nel post crisi economica. 
Sul problema dello stato attuale dell’Unione Europea è intervenuto anche Marco Revelli, che è stato tra i promotori della lista “L’altra Europa con Tsipras”, secondo lo storico infatti dalla crisi Greca la differenza tra Europa ideale ed Europa reale è diventata più evidente. L’Europa reale è, secondo Revelli, quella che non tollera la spinta democratica dal basso dei paesi membri come nel caso del Referendum greco. E’ quindi il deficit di democrazia, secondo Revelli, uno delle maggiori questioni che bisognerebbe affrontare in particolar modo all’indomani della crisi greca che ha visto una quasi totale assenza del Parlamento Europeo a favore del Consiglio Europeo (ndr l’organo non legislatore di cui fanno parte i capi di stato dei paesi membri) e dell’Eurogruppo. 

La Eurodeputata Elly Schlein-Fonte EUnews
Dall’incontro di sabato sera non sono mancate diverse stoccate all’operato di Renzi a Bruxelles. Maria Pia Pizzolante, attivista che da poco tempo è entrata a far parte del direttivo di SEL, ha sottolineato come il semestre europeo italiano, da poco concluso, sia stato un’opportunità sprecata dall’Italia e dal presidente del Consiglio Renzi di poter incidere veramente nella politica europea. Su questa linea è stato molto interessante l’intervento di Cristina Scarfia, giovane lobbista che lavora a Brussels per Confindustria, che ha sottolineato come il livello di gioco italiano nelle istituzioni europee non sia adeguato. 
Sia nelle politiche comunitarie, come quella sulla pesca e la famosa questione della grandezza delle vongole, che nel Consiglio d’Europa l’Italia manca di una vera capacità di incidere nel processo decisionale europeo amplificando, in questo modo, le accuse rivolte dalle istanze antieuropeiste. Questo è dovuto, secondo la Scarfia, ad una mancata presenza dell’Italia nelle stanze decisionali europee anche per via dell’ inadeguatezza del personale che dovrebbe rappresentare gli interessi nazionali a livello europeo. 
Gli interventi di Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, e di Claudio Riccio, attivista di ACT, hanno invece proposto in modo non velato la necessità di costruire un nuovo movimento di sinistra europea che parta da organizzazioni nazionali, secondo Ferrero, o che segua la linea proposta da Podemos e Syriza secondo Riccio.

Il quadro disegnato da Possibile sull’Europa e sul ruolo che questo nuovo soggetto politico di sinistra debba avere in Europa è piuttosto chiaro e sembra avere posizioni ben salde. 
Il processo d’integrazione europea è arrivato ad uno stallo e ci sono ancora oggi politiche dirimenti che rimangono totalmente di natura nazionale ma questo si è rivelato, in particolare nelle quattro crisi sopra elencate, un enorme ostacolo per trovare delle soluzioni. E’ infatti difficile, se non impossibile, trovare soluzioni comunitarie per politiche ancora nazionali. 
L’antieuropeismo si inserisce là dove manca una risposta veramente comunitaria, in questo senso c’è, oggi più che mai, bisogno di un nuovo slancio nel processo di integrazione europea e di una presenza di partiti, anche di sinistra, veramente europei che tornino a sottolineare le istanze che oggi mancano dai dibattiti come il welfare e quindi la ridistribuzione delle risorse, istanze che, se si guarda ai trattati europei, non sono categorizzabili come sinistrorse ma come vere basi valoriali di un progetto ideale europeo.  

Se Possibile, nei prossimi mesi che vedranno un suo consolidamento come nuova entità politica, saprà farsi portavoce di questi bisogni e saprà essere un partito con un’anima veramente comunitaria e saprà comporsi di persone realmente competenti allora troverà un ampio spazio politico nel quale agire e diverse issues di cui farsi portavoce. L’augurio è quindi quello di non cadere nella trappola delle logiche politiche nazionali di mero guadagno di consensi alle elezioni ma di migliorare veramente l’accountability europea.

19 luglio 2015

SundayUp - Tame Impala, "Currents" (2015)

Cosa vi è successo questo venerdì 17? Gatti neri? Malocchio? Libagioni di sale? Magari una bella apocalisse mattutina? Io sono fiera di annunciare che non ho ceduto alla tentazione di spaventare mia nonna aprendo ombrelli in casa o mostrandole fotografie dei cerchi nel grano. Sono stata, inoltre, tanto matura e provvista di carità cristiana da evitare di fare partire la musica rituale dell’ISIS durante la sua siesta pomeridiana, nonostante siano settimane che mi dice che sono ingrassata. Il Regno dei Cieli mi attende: speriamo che mia nonna si sbagli e che io riesca a passare dai Cancelli Celesti senza schiacciare San Pietro. Questo venerdì, infatti, si è verificato un lieto evento, tanto gioioso da scacciare la mala sorte: è finalmente uscito l’ultimo (capo)lavoro dei Tame Impala, la band australiana guidata da Kevin Parker che prende il nome da una specie di antilope africana, l’impala, appunto.

Che dire dei Tame Impala? Che sono un gruppo incredibile. Che riescono a unire in un connubio perfetto musica elettronica di ispirazione anni Ottanta e sontuose armonie psichedeliche, senza mai risultare banali o meno istintivamente orecchiabili. Che possono vantare un sound incredibile, psichedelico, originale, coinvolgente, addirittura scenografico. Il titolo dell’ultima fatica della band australiana è Currents, che in inglese significa “correnti”, inteso come “flussi, corsi d’acqua e d’aria”, non manca di ricordare anche l’aggettivo “current”, in vigore, attuale: corrente, appunto. Una sorta di memento, di omaggio allo scorrere inesorabile, spietato e necessario del tempo, che non si ferma per nessuno e che alla fine ci porterà via. (Okay, forse mi sono lasciata contagiare anch’io dall’isteria collettiva del venerdì 17. Ma solo un pochettino).


Fino a questo ultimo, splendido album, si può tranquillamente dire che le canzoni dei Tame Impala siano una sorta di equivalente musicale alla lettura serale degli ultimi capitoli di un romanzo che ci appassiona: un’esperienza individuale. Piacevole, certo, ma più musica da cuffia che da festa, non c’è che dire. Currents, tuttavia, presenta alcune caratteristiche completamente nuove: si tratta di un tipo di musica che si può ballare, un continuo flusso di energia libera, vorticosa, trascinante, perfetta per un rave in spiaggia, o per una nottata passata a guidare.

Se il precedente Lonerism (2012) descrive la beatitudine dell’assenza di confronto e di compagnia, ponendo la solitudine come una sorta di medicina per l’anima in un mondo costretto alla mondovisione e alla continua, forzata connessione, Currents parla della ricerca di contatto e dialogo. Se in Innerspeaker (2010) è centrale il tema del terrore della propria esposizione a una massa indistinta e colossale di persone invisibili, non è l’agorafobia il concetto focale di Currents, quanto, piuttosto, la complessità dei rapporti umani, stratificati, evanescenti e sfuggenti.
In Love/Paranoia i sentimenti sono un susseguirsi di martellate al cuore e al cervello:
I've heard those words beforeAre you sure it was nothingCause it made me feel like dying insideNever thought I was insecure, but it's pureDidn't notice until I was in love for realAnd if we're gonna cross the lineJust to find what shit's happeningIf only I could reach your mindOh I'd be fine, I'd be normalNow's my time, gonna do it
Se non è possibile non identificarsi e non soffrire per le struggenti parole d’amore, ad un livello più profondo, o quantomeno diverso, il testo di Love/Paranoia è strettamente psicologico e apertamente filosofico: si parla dell’umana, umanissima, esigenza di sentirsi “normali” e venire accettati per quello che si è.


Un altro, eccezionale, pezzo che espone un dilemma eterno e universale è lo splendido Cause I'm a man, uscito come singolo in anteprima:
Cause I'm a man, woman
Don't always think before I do
Cause I'm a man, woman
That's the only answer I've got for you
Cause I'm a man, woman
Not often proud of what I choose
I'm a human, woman
A greater force I answer to

Se avete voglia di raggiungere livelli olimpici di onanismo intellettuale, potete qui cogliere un riferimento secondo me chiaro all’Amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence (1928), nell'interpretazione di Simone De Beauvoir, che nel Secondo Sesso (1949), dedica pagine infuocate di critica accurata e meticolosa a quella che definisce “l’orgoglio fallico di D.H. Lawrence”. Uomini e donne sono separati da un abisso, binari separati, logiche opposte, incomunicabilità totale. L’unica speranza di dialogo è quella rappresentata dal contatto carnale, l’unica forza maggiore in grado di lanciare un appello a cui tutti noi rispondiamo. Se capita di “non essere sempre orgogliosi di ciò che si sceglie”, il bivio non si pone, e nemmeno la possibilità di tornare indietro: la natura umana esiste come regola, l’abisso non può essere colmato a parole. Ecco perché, sostanzialmente, siamo fregati: quando ci innamoriamo, se ci innamoriamo davvero, non siamo più in grado di accettare l’altro/a come insieme delle proprie generalità di genere, vogliamo disperatamente individuarlo. Farsi attraversare dal grande fiume della vita, fatto di distanze, incomprensioni e ansie è qualcosa di inaccettabile per chi perde la testa. Non è un caso che la canzone si intitoli Cause I’m a Man e non Cause I’m a Woman. Secondo la rappresentazione ancestrale, è la donna a perdere se stessa nell’altro, tasto dolente reso palese anche dal lessico sessuale femminile, tradizionalmente passivo: il fiore della verginità “viene colto”, la donna “viene presa”… Insomma, il solito fallico protagonismo maschile. Sai che novità.

I Tame Impala si esibiranno in Italia in tre date: il 25 Agosto a Sestri Levante, il 26 Agosto assieme a Nicholas Holbrook al Postepay Rock In Roma 2015 e il 28 Agosto al Teatro Romano di Verona

Sofia Torre