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30 giugno 2015

L'Europa? In fondo a destra.

E così anche la Danimarca ha voltato a destra. 
Le elezioni del 18 giugno hanno infatti sancito la sconfitta della coalizione di sinistra, guidata dal primo ministro uscente, la socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt.
Benché la formazione del premier si sia confermata primo partito (26,3%), guadagnando ulteriori tre seggi, il cosiddetto "Red Block" ha pagato il crollo della sinistra del Socialistik Folkeparti e dei liberali, fermandosi a 85 seggi, contro i 90 conquistati dalla destra. 
Stupisce e inquieta che la vittoria di quest'ultimo schieramento avvenga nonostante la pessima performance della destra tradizionale e liberale della Venstre (19% e 13 seggi persi), mentre il vero e proprio exploit si deve al Danske Folkeparti, il "Partito del Popolo Danese", che raddoppia il proprio consenso (21%) e guadagna 15 seggi (da 22 a 37).

Kristian Thulesen-Dahl, il leader del DF-Fonte: The Independent

La dicitura "Partito del Popolo" dovrebbe avervi già messo in allerta: il Folkeparti è un partito di estrema destra, euroscettico, nazionalista, che rifiuta il multiculturalismo e l'immigrazione. 
Dal 1998 ad oggi la sua crescita elettorale è costante - alle europee del 2014 il Folkeparti è stato addirittura il partito più votato, con il 26,6% dei consensi.  
Nonostante risultati stabilmente in doppia cifra, il DF ha sempre rifiutato di accedere direttamente al governo, limitandosi a sostenere gli esecutivi di minoranza a guida Venstre dall'esterno, riuscendo così - almeno all'apparenza - nel duplice intento di "non compromettersi" e al contempo di influenzare le politiche nazionali, specie in materia di immigrazione.
Nel 2002, ad esempio, la Danimarca introdusse una delle legislazioni più dure d'Europa in materia di accoglienza, attirando su di sé numerose critiche, non da ultimo quelle del governo svedese, che accusava Copenhagen di venir meno alla tradizionale solidarietà scandinava. A questa critica, Pia Kjærsgaard, fondatrice del DF, rispose dicendo: "Se vogliono trasformare Stoccolma, Goteborg e Malmö in Beirut scandinave, con guerre tra bande, omicidi d'onore e stupri di gruppo, lasciamo che facciano. Possiamo sempre mettere una barriera sul ponte di Oeresund".
C'è da credere che gli attentati del 14 febbraio scorso a Copenhagen (ricordate? un fondamentalista islamico fece fuoco prima ad un convegno sulla libertà d'espressione, poi nei pressi di una sinagoga) abbiano offerto una sponda efficacissima alla retorica xenofoba del Folkeparti, premiata nelle urne.
Nelle ultime ore il leader della Venstre Lars Lokke Rasmussen ha annunciato la formazione di un gabinetto di minoranza limitato al suo solo partito, che disporrà così di soli 34 seggi su 179, e che dovrà cercare di volta in volta una maggioranza sui singoli provvedimenti. 
Prosegue dunque la linea di isolamento del Danske Folkeparti, dal quale ci si attende tuttavia che capitalizzi il grande successo del 18 giugno, come già fatto in passato, specie in materia di immigrazione.


Il nuovo gruppo di estrema destra all'Europarlamento
(Salvini, Le Pen e Wilders) - Fonte Eunews
La svolta a destra della Danimarca si inserisce in una sequenza di risultati elettorali non dissimili in vari Paesi europei.
Il 24 Maggio Andrzej Duda ha vinto al ballottaggio le elezioni presidenziali polacche. Il suo partito, PiS, "Legge e giustizia", è descritto come nazionalista, clericale, euroscettico ma russofobo, nonché particolarmente attratto dal dittatore ungherese Orban. Peraltro, i voti necessari alla vittoria al secondo turno, ottenuta ai danni del centrista Komorowski, sono pervenuti dal terzo classificato, il cantante rock nazionalista Kukiz: un ulteriore segnale di una svolta a destra che dovrebbe essere confermata dalle incombenti elezioni parlamentari. Non va tralasciato che ciò accada in un paese come la Polonia, che ha conosciuto negli ultimi anni una forte crescita economica e una certa modernizzazione politica e sociale.

Il 7 Maggio, come è noto, David Cameron ha ottenuto un successo di proporzioni inattese in Gran Bretagna. Lo ha fatto promettendo un referendum per l'uscita dall'Unione Europea, avvicinandosi dunque alle posizioni dello UKIP di Nigel Farage - partito, anch'esso, nazionalista ed euroscettico -  vincitore delle europee del 2014 e destinatario di un inutile ma comunque consistente 12% di consensi alle politiche.

Il 19 Aprile le urne hanno consegnato alla Finlandia un governo di destra, cui contribuisce il 17,6% di voti ottenuti dal Perussuomalaiset , che la letteratura anglofona traduce con "True Finns", il partito dei veri finlandesi. Nazionalisti, euroscettici, populisti, non c'è bisogno di specificarlo...

I risultati citati fin'ora basterebbero a concludere che una nuova (vecchia) destra sta prendendo piede in Europa, ma, se servisse un promemoria, possiamo citare il Front National in Francia, il Partij voor de Vrijheid di Gert Wilders in Olanda, la Lega Nord di Matteo Salvini in Italia, la FPÖ che fu di Haider in Austria. (Tutto ciò in attesa di chiarire, se ve ne fosse bisogno, l'orientamento di Movimento 5 Stelle e Alternative für Deutschland, che nel dubbio a Strasburgo siedono a destra). 
Stiamo parlando di schieramenti capaci di attirare il consenso popolare, lucrando in particolar modo sulla crisi economica e sull'uscita diseguale da essa, per la quale si addita a responsabile la politica economica dell'Unione Europea, nonché sulla paura dell'immigrazione e sulle difficoltà dell'integrazione.
Ironia della sorte, chi ha influenzato le politiche europee in materia di economia ed immigrazione, dalla crisi in poi? Salvo poche eccezioni, le altre destre, quelle tradizionali, quelle di Merkel, Sarkozy, Berlusconi e, più tardi, Rajoy e Cameron, mentre i recenti governi di sinistra (o presunta tale), da Hollande a Renzi a Tsipras, non sono sembrati per ora in grado di cambiare i paradigmi dettati dai predecessori.

E così oggi, proprio in ragione del grande consenso che proviene loro, specie dai ceti più bassi della popolazione, osserviamo le nuove destre europee calamitare a sé le politiche non soltanto
della destra tradizionale (si veda Cameron in Gran Bretagna), ma talvolta anche della "sinistra" (si veda la gestione della crisi dei migranti a Ventimiglia, con i respingimenti praticati da Hollande). 


Se si andasse a votare oggi, in Francia si contenderebbero la vittoria al secondo turno Marine Le Pen e Nicolas Sarkozy, in quella che sarebbe una rappresentazione plastica della direzione politica intrapresa dall'Europa, e, al contempo, un triste presagio di sventura per una Unione Europea che è sempre più lontana da quella che in tanti sognavamo.

L'Europa? E' in fondo a destra, e io ho (un po') paura. 

Andrea Zoboli

Alexis Tsipras ha fallito

Diciamo una cosa controcorrente: Alexis Tsipras ha fallito.

Fonte: The Independent
La sua strategia negoziale si è rivelata un disastro. Il primo ministro greco pensava che il protrarsi della trattativa avrebbe estenuato i creditori, forzandoli a cedere alle sue richieste, prima considerate irricevibili. Una tattica nord-vietnamita in stile generale Giap: ogni giorno che l'attore più debole non capitola è una vittoria per lui. Ma alla fine la vecchia troika, ridefinita “Brussels Group” perché evidentemente suona più amichevole e rassicurante, ha concesso ben poco. E in fondo c'era pure da aspettarselo. Forse non ha giovato l'atteggiamento fin da subito conflittuale di Alexis Tsipras e del suo sodale Yanis Varoufakis. I look casual, i sorrisi ironici, il fare strafottente. Ma la storia non si fa con i se con i ma. Questa era la linea guida del governo ellenico fin da subito: non arretrare, non arrendersi, non trattare. Quanto questa tattica sia stata dettata da un sincero spirito di condivisione delle sofferenze dello stremato popolo greco o da egoistica convenienza politica non è dato saperlo e, al momento, è un dettaglio irrilevante.

Così dopo mesi di meeting infruttuosi, sabotati in parti uguali dai miopi falchi all'interno dell'Unione Europea (Weidmann, Dijsselbloem e compagnia bella) e dal simpatico tandem Tsipras-Varoufakis arriviamo alla settimana scorsa. Per continuare ad usare la metafora del poker che tanto va di moda in queste ore: si giunge al momento in cui i giocatori decidono di mostrare le loro carte. E guarda caso la mano migliore ce l'ha la fu troika. Anche perché l'FMI, non dovendo difendere nessuna presunta “accountability”, visto che appunto non ce l'ha mai avuta (per esempio riguardo le sue ciniche politiche neo-liberiste nei paesi del terzo mondo), irrigidisce la propria posizione. Il piano definitivo è quello. Non c'è più margine di discussione poiché il tempo utile volge al termine. L'Iva verrà alzata anche sul settore turistico, ci saranno privatizzazioni massive e una riforma delle pensioni. Prendere o lasciare. La palla passa al governo di Atene, il quale potrebbe vantarsi di avere strappato un accordo di gran lunga migliore di quelli siglati da chi l'ha preceduto. E invece no: colpo di scena! Questo matrimonio non s'ha da fare. La parola al popolo.

Ed ecco, si scatena il panico. La Grexit, un incubo tra i palazzi di Bruxelles ma ancora di più nel porto del Pireo, rischia di tramutarsi in una terribile realtà. La gente si accalca ai bancomat per ritirare il denaro che nei depositi potrebbe presto valere come carta straccia, Tspiras decide di chiudere le banche e la borsa, volatilità nei mercati finanziari eccetera eccetera. Intanto chi se la passava bene in Grecia già da tempo ha spostato i suoi risparmi in altri paesi più sicuri. Mentre tanti degli elettori di Syriza non sanno che pesci pigliare, dubbiosi su quale alternativa scegliere: caos assoluto nel breve periodo e ipotetica (!) ripresa un domani fuori dall'Euro oppure sacrifici perpetui per saldare un debito intrinsecamente insaldabile?

Scene di agitazione ad Atene-Fonte: Il Sole 24 Ore
Questo è il fallimento vero di Alexis Tsipras. L'abdicazione alla propria funzione di rappresentante legittimamente eletto per fare il bene del proprio stato. Perché il referendum-e lo affermo andando apparentemente contro il pensiero corrente-è una sconfitta della democrazia rappresentativa quando serve a dirimere questioni che dovrebbero essere materia della politica istituzionale. La (non)decisione di Tsipras mi ricorda quella della CGIL nella battaglia contro Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat. Si lasciano da soli i più deboli, quelli che il leader greco aveva promesso di tutelare, contro chi detiene il potere economico e sociale, contro chi ha il coltello dalla parte del manico. Questo non è amore della democrazia. Questa è irresponsabilità.

Anche la rivendicazione last-minute della sovranità popolare è utopistica oltre che contraddittoria. Utopistica perché riprende una visione della sovranità all'interno degli stati-nazione inesistente nella prassi. È un dato di fatto che le forze della globalizzazione abbiano gradualmente eroso la sovranità nazionale. Oggi appunto si parla di “interdipendenza” quando va bene, di “dipendenza” quando va male. Il paradigma va messo in discussione? Può darsi. Ma in questo caso ci si contrappone alla stessa idea di Unione Europea: un'organizzazione sovranazionale che deve tanto ad una certa visione dell'ordine mondiale e che si trova in una situazione di crisi proprio a causa della riluttanza di molti stati membri a cedere la stessa sovranità di cui parla Tsipras. Invocare l'unità nell'emergenza immigrazione e, allo stesso tempo, attribuire il diritto ad un singolo componente della zona Euro di lasciare unilateralmente l'unione monetaria costituisce una contraddizione in termini.


Quindi che ne dica Beppe Grillo (che ha una strana idea di democrazia all'interno del suo movimento), che ne dica Matteo Salvini (che ha grande stima di un paladino dello stato di diritto dal nome Vladimir Putin) o che ne dica una grossa fetta dell'establishment di sinistra italiano (che, citando la battuta di un mio esimio collega durante una conversazione privata, “è per Tsipras col culo dei greci”) il premier greco ha fallito. Ha fallito la sua strategia negoziale, ha fallito la sua reticenza a trovare un compromesso, ha fallito il suo non accontentarsi di aver portato all'attenzione collettiva le logiche perverse dell'austerità economica, ha fallito come rappresentante degli interessi del popolo greco, che ha abbandonato a sé stesso nel momento più delicato. In fondo Tsipras se ne è lavato le mani. Come un Ponzio Pilato contemporaneo.

29 giugno 2015

Tunisia: La sfida insopportabile per lo Stato Islamico

La Tunisia rappresenta tutto ciò che il Califfato di Al Baghdadi teme di più: un paese di religione musulmana avviato verso un percorso di democratizzazione interna e con un partito moderato islamico al governo; per questo motivo è stato bersaglio, nel giro di tre mesi, di due attacchi terroristici che hanno colpito in particolare il settore turistico tunisino, l’arteria pulsante dell’economia del paese, il 18 marzo con l’attentato al museo del Bardo e il 26 giugno alle spiagge di Sousse.

Fonte: The Independent

Gli attentati che hanno accompagnato quello di Sousse di venerdì scorso hanno “celebrato” il primo anno della svolta internazionalista di Daech, nome arabo che sta ad indicare l’IS, ovvero la proclamazione del Califfato da parte di Al Baghdadi e la conseguente esportazione della guerra contro gli infedeli, la jihad. La storia, seppur così recente dell’IS, si può dividere in due momenti ben distinti, il primo incomincia con la conquista interna dell’Iraq partendo dalla città roccaforte dell’Islam sciita di Falluja convertita al sunnismo e poi la svolta internazionale con la rottura dell’alleanza con i curdi d’Iraq e l’avanzata verso la Siria del 29 giugno 2014. 
I tre attacchi del 26 giugno sono tragici esempi degli obiettivi dell’IS, che si afferma sempre più come un nuovo attore regionale oltre che un’organizzazione terroristica perché capace di autofinanziarsi attraverso le risorse petrolifere dei territori conquistati e nel reinterpretare la jihad, ovvero la guerra santa, su livelli ben diversi rispetto ad Al Qaeda. La jihad di Daech è, infatti, contro “i crociati, gli sciiti e gli apostati”. Negli attacchi di venerdì scorso si ritrovano tutte e tre queste categorie di nemici dello Stato Islamico, anche se per gli eventi di Lione il coinvolgimento degli jihadisti francesi non è ancora confermato ufficialmente.

In Kuwait una consistente parte della popolazione è sciita e strettamente legata a quella irachena che combatte Daech nel nord dell’Iraq, l’attentato alla moschea in Kuwait City mira così a radicalizzare le pulsioni settarie tra sciiti e sunniti nella regione seguendo lo stesso schema “vincente” che l’IS ha utilizzato in Iraq nell’ultimo anno distruggendo le istituzioni interne del paese così da poter stabilire il controllo sul territorio. Con questo ulteriore attacco contro la comunità sciita l’IS dimostra sempre più la sua distanza da Al Qaeda, che vedeva come primo obietto della jihad gli Stati Uniti e i paesi della regione suoi alleati da colpire attraverso attentati ben preparati e di alto valore simbolico, Daech invece sembra legittimare di più le iniziative dei così detti “lupi solitari”.

Fonte: La Repubblica
L’attentato di Sousse in Tunisia, nel quale hanno perso la vita turisti di diverse nazionalità europee, invece è un attentato contro un paese considerato “apostato” secondo il registro dello Stato Islamico. L’attacco è fortemente simbolico perché si rivolge ad una delle più giovani democrazie del Maghreb che aveva dato il via alle primavere arabe con la sua personale Primavera dei Gelsomini e che aveva visto una vera transizione democratica ed elezioni politiche realmente competitive dal 2011, insieme ad un miglioramento dei diritti interni sancito dall’alleanza di governo del partito laico e del moderato partito islamico Ennahda, fortemente perseguitato sotto Ben Ali. 
La Tunisia oggi è il paese del Maghreb con il maggior numero di donne elette in parlamento e questo, insieme all’apertura al dialogo sempre più intenso con l’Europa sui temi dei diritti umani, ambientali e di sicurezza ha fatto della giovane e fragile democrazia tunisina un caso di successo di relazioni tra l’UE ed il Maghreb. La Tunisia è un paese che, pur non potendo contare sulla ricchezza dei petrodollari, è riuscita a sviluppare una fiorente economia turistica che si basa principalmente sui flussi provenienti dall’Europa. Per tutte queste ragioni la Tunisia oggi rappresenta, seppur inconsciamente, una sfida insopportabile nei confronti del Califfato.
Non è semplice trovare il modo per convincere i turisti europei a prediligere per le loro vacanze ancora le meravigliose coste di Hammamet o Tabarka in nome di una solidarietà nei confronti di una democrazia tanto speciale quanto fragile, questo dimostra come ancora una volta l’IS abbia colpito la Tunisia proprio con l’intento di disintegrare quel neonato Stato di Diritto considerato come uno sfregio nei confronti del progetto di estensione dello Stato Islamico. La modalità, come si è detto, è sempre quella utilizzata in Iraq: rovesciare dall’interno le istituzioni dello stato e fare presa sulla comunità sunnita del paese per controllare il territorio e sfruttarne le risorse.
La Tunisia ha poco da offrire in termini di quelle risorse considerate vitali da Daech e la sua economia si è faticosamente costruita sulla promozione di un turismo colto e benestante che porta lavoro e vivacità alla società civile tunisina. 

Non possiamo sapere se l’intento dello Stato Islamico sia veramente quello di estendere il suo controllo su tutti i territori che facevano parte dell’antico Impero Ottomano, riunendo sotto la legge islamica tutte le popolazioni di lingua araba attraverso la violenza e la distruzione e non sappiamo se la Tunisia sarà, in questo senso, colpita ancora così da vedere annientata ogni speranza di ripresa economica. Quello che sappiamo è che Tunisi da sola non è in grado di prevenire e contrastare un nuovo attacco jihadista e di mantenere viva la sua economia senza il turismo; la cooperazione con l’Unione Europa su temi economici e di sicurezza sembra essere per ora l’unica strada per non far sfiorire definitivamente i Gelsomini del 2011.

Dante quasi mille anni dopo: un'intervista in neovolgare a Feudalesimo e Libertà

Conoscete tutti quel partito politico, nato e cresciuto nell'Internet, facente capo ad un unico, incontestabile, individuo?
No, non quel... Colpa mia, troppo vago. Ricominciamo.
Conoscete tutti quel manipolo di ragazzi sardi che gira l'Italia in abiti brancaleoneschi per promuovere il ritorno al modello politico feudale, e che dalla pagina Facebook proclama la volontà dell'Imperatore? Bravi, i ragazzi di Feudalesimo e Libertà. Li abbiamo incontrati qualche tempo fa allo Svilupparty a Bologna, dove si trovavano per presentare La Divina Commedia quasi mille anni dopo, scritto per volontà dell'Imperatore e illustrato da Don Alemanno. Dopo averci inflitto cento nerbate poiché nessun plebeo può chiedere udienza all'Imperatore, hanno cordialmente risposto alle nostre domande... in neovolgare.



Com'è lavorare per l'Imperatore?
Bellissimo! Lo Imperatore est come lo melior Pater che si puote habere, justo et misericordioso, ma che non lesina a fustigarci nella schiena ogne qualvolta non facciam come Elli comanda.

Come è nata l'idea di riscrivere Dante?
La Comedia dell'Alighieri est una opera de magno pregio che vuol mostrare alli homini quel che accade una volta avvenuto lo trapasso. Tuttavia, abbiam ritenuto che necessitasse d'un aggiornamento per far capir alli homini moderni quale sarà lo lor destino se continuan a comportarsi nella maniera, spesso aberrante, con cui seguitan a viver oggigiorno.

Cos'ha in comune il vostro Durante con l'originale e in cosa si differenzia?
Lo nostro, che s'appella “Durante”, è molto simile esteticamente all'Alighieri. Anch'elli s'est smarrito, perdendo la fede nella politica et nel ruolo dello suo partito, Feudalesimo e Libertà, che non riesce a prender lo potere a causa dello becerume dell'humanitade moderna, che preferisce vivere di Ego-Phoni. Durante, a differenza dello suo antenato, est stato corrotto dalla modernità, anche se in maniera curabile. Ritroverà la retta via grazie allo suo viaggio, commissionatogli dallo Imperatore, et predicherà quella che est la Veritade riguardante il post-mortem allo volgo tutto, diffondendo codesto tomo.

Una delle chiavi del vostro successo, oltre alla fedeltà all'Imperatore, è sicuramente il neovolgare: com'è stato confrontarsi con il suo genitore linguistico?
Lo neovolgare utilizzato nello tomo est leggermente differente dal solito neovolgare di Feudalesimo e Libertà con cui ora scrivo, ma abbiam laborato affinché fosse un poco più dantesco, per quanto comunque assai differente dal linguaggio del Sommo Poeta. Cosa abbastanza ardua est stata comunque quella di metter insieme le tre esigenze principali: fare in modo che fosse comprensibile anche alla plebe; fare in modo che fosse originale; fare in modo che suonasse come dantesco. Siam comunque assai soddisfatti dello risultato et Lo Imperatore lo est, altrimenti ci avrebbe fustigato fino a ottenere un'opera consona allo suo Nomen.

La Divina Commedia è l'opera principe della letteratura italiana, la vostra riscrittura è più principesca o più serva della gleba?
Principesca ovviamente, non si dimentichi che li servi della gleba sono analfabeti! Approfittiamo per sottolineare che Feudalesimo e Libertà sostiene l'analfabetismo dilagante.

Nei piani dello Magno Sovrano c'è anche un videogioco sulla vostra Divina Commedia realizzato col supporto dei sudditi (chiamato dai sassoni "crowdfundig"), a che punto è il progetto ma soprattutto sarà più bello di Dante's Inferno?
Lo progetto sarà assai magno et partirà alla fiera 'Lucca Manoscripti et Ludi' (Lucca Comics and Games) a fine Ottobre, presso lo padiglione delli Giuochi. Lo

videoludo che ne uscirà sarà lo più pregevole mai realizzato, poiché Durante si farà largo nelli Inferi a suon di cazzotti et maniere forti contro li peggiori esseri delli nostri giorni: molti nostri politicanti, li vari homini di potere et tutti li peccatori moderni!

Matteo Cutrì

28 giugno 2015

SundayUp - Bene ma non benissimo: i feat.Esserlà e titolo del quarto di secolo

Era tanto che non recensivo un disco nuovo.
Cioè, era tanto che non recensivo una COSA nuova.
Non troppo nuova, comunque, ma abbastanza nuova.
Qualche sera fa sono stato a un mini festival prog organizzato da una specie di taverna nella profonda provincia di Treviso, a Zero Branco. Dico “mini” perché la dimensione della faccenda era ridotta: ma in realtà era una superbomba. L’headliner era Fabio Zuffanti con la sua ZBand (e io trovo meraviglioso che suonassero a Zero Branco), una specie di eminenza grigia (dico “una specie” perché in realtà tra gli esperti del campo è piuttosto conosciuto, ma dato che ha fatto parte dei Finisterre si ricorda più il lavoro del gruppo in sé del suo nome) del progressive italiano dagli anni ’90 in poi, e attualmente uno dei più raffinati autori post-prog: bassista e cantante, membro dei Finisterre e degli Hostsonaten, fondatore dei Maschera di Cera e anche scrittore (recentemente). L’ho anche citato nella recensione dell’ultimo degli Elii quitempo fa.
In apertura c’erano i miei amici Quarto Vuoto, di Treviso, che ho inserito con la loro opera prima al secondo posto nella mia classifica sui 5 migliori dischi del 2014, che suonano un post-prog in cui le influenze del progressive sia classico che moderno sono chiare ma non ne intaccano l’identità e la personalità (hanno anche un cantante che sa cantare, diversamente da una larga porzione del prog italiano).
In mezzo c’era IL DELIRIO PIU’ ASSOLUTO












ovvero i feat. Esserelà! Già amici di The Bottom Up dai tempi del primo evento organizzato da noi a Bologna, in cui suonarono.
Intendiamoci: con tutto il bene, non fanno musica particolarmente innovativa. Si sente molto Zappa, e ciò è bene, si sente un po’ dei Genesis di Duke (soprattutto su “No ()”), si sente (anche se penso sia assolutamente non voluto) LMR, ovvero il progetto di Tony Levin (dei King Crimson), Marco Minnemann e Jordan Rudess (dei Dream Theater), e già visti i paragoni direi che, pur sentendosi molto chiaramente, le influenze sono di tutto rispetto.
Fine dei lati negativi.
Il punto è che il trio è assolutamente divertente. E non intendo divertente tipo
“cacca”
“ahahahahaha”,
intendo divertente tipo “inizio a ballare e non mi fermo più”.
Il trio regge il palco notevolmente, con un tessuto sonoro meraviglioso e spesso (nel senso di spessore, non nel senso di tante volte nel tempo), dove chitarra, tastiera (predominante) e batteria (già, niente basso: e, cosa ancora più stupefacente, non se ne sente affatto la mancanza) si incastrano a creare un colorato collage funkeggiante senza diventare ridondanti o seriosi. In pratica, riescono a far fluire nel pubblico tutto il divertimento che c’è sul palco, nelle loro dita, corde, tasti e bacchette.
Ma veniamo alla ragione per cui ho deciso di recensire questo disco:
IL MIGLIOR TITOLO DEGLI ULTIMI VENTICINQUE ANNI.

“Tuorl”.



Capito?
Ve lo spiego.
È un album.
Capito?
“album”… “Tuorl”.




E i titoli delle canzoni sono tutti dei meravigliosi e divertentissimi
nonsense.
“Don't leave your dinosauri at home”, “Canguros de la ventana”, “Stichituffelpa rampa eserelà tum perugià”, tra gli altri.
I feat. Esserelà sono grandiosi perché riescono a raccontare delle storie nuove, anche se sono storie da un mondo folle e stupefacente, pur utilizzando un linguaggio (il genere che fanno, qualunque esso sia) che nuovo non è.
Bene, bravi, Bisio, come dicevano quelli.

Guglielmo De Monte

27 giugno 2015

Movimenti "No Gender": chi sono, cosa fanno, cosa vogliono?


Credevamo finiti i tempi delle crociate. I movimenti “no gender”, o genderfobici, stanno portando avanti una nuova crociata morale, alimentata da una vera e propria fobia collettiva, deliberatamente propagandistica e manipolatoria, che ha come obiettivo di diffondere false credenze sulla presunta pericolosità “dell’educazione al gender”. Quando nel 2012, nel discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, Benedetto XVI afferma la “profonda erroneità” della nozione di gender, in quanto negazione della natura dell’essere umano e della volontà divina, fa un gesto chiaro e politicamente incisivo avviando, di fatto, la mobilitazione anti-gender. Il suo intervento risponde in effetti alla proposta di legge francese che prevede l’apertura del matrimonio e delle adozioni per le coppie omosessuali (la legge sarà poi promulgata il 17 maggio del 2013). Nel frattempo, le manifestazioni dei pro e dei contro si moltiplicano, e il gruppo catto-destroide della Manif pour touscomincia a farsi notare. Il problema per questi nuovi missionari della famiglia “naturale” è che l’equiparazione del matrimonio eterosessuale al matrimonio omosessuale porterebbe alla cancellazione della differenza sessuale come dato biologico e naturale su cui si fonda l’intera struttura sociale. Appena qualche mese dopo, viene presentata, in Italia, la proposta di legge “Scalfarotto” (oggi arenata al Senato) che si propone di penalizzare i crimini d’odio a carattere omofobico e transfobico. Nasce allora la Manif pour tous Italia, cominciano le veglie delleSentinelle in piedi, nasce l’associazione dei Giuristi per la Vita e comincia la crociata contro una legge che questi gruppi considerano liberticida.

In Francia questo tipo di legge esiste dal 2004. Ecco alcuni esempi di come è stata applicata: nel 2007 un deputato di destra è stato condannato a pagare 3000 € di multa (a un’associazione LGBT) per insulti omofobici dopo aver dichiarato che “l’omosessualità è inferiore all’eterosessualità” e che è “un pericolo per l’umanità”. Nel 2013, durante il periodo caldo delle manifestazioni anti-gender una coppia di ragazzi viene gravemente aggredita da due uomini, condannati a 30 mesi di prigione. Infine nel 2014 due individui vengono condannati per aver diffuso su twitter #igaydevonosparire e #bruciamoigay – una decisione importante dato che internet è attualmente uno degli spazi in cui si scatenano le espressioni di odio e di violenza più triviali. Insomma, in Francia ci sono state decine di manifestazioni contro il matrimonio egualitario, e mai nessuno è stato arrestato e condannato per aver partecipato a queste manifestazioni! È quindi completamente falso dire che questa legge ridurrebbe la libertà di espressione.

Un altro degli argomenti cari ai vari portavoce dei movimenti “no gender” è che l’omofobia non esiste e che è solo un’invenzione delle lobby gay. Per corroborare questa tesi viene spesso citato un sondaggio realizzato nel 2013 dall’Istituto statunitense Pew Research Center in 39 paesi per calcolare il tasso di accettazione dell’omosessualità. Secondo questi movimenti, e secondo la stampa che ne garantisce la comunicazione (NotizieProVitaTempiLa BussolaQuotidiana), risulterebbe che l’Italia è il Paese più tollerante al mondo rispetto all’omosessualità. E questo invaliderebbe i risultati di un altro sondaggio condotto a livello dell’Unione Europea nel 2012 su un campione di circa 93000 persone LGBT interrogate sulla loro percezione della discriminazione e sulla loro esperienza in famiglia, a scuola, sul lavoro, ecc., secondo cui l’Italia è il paese europeo in cui l’omofobia è risentita in maniera più forte. In realtà, i dati della ricerca statunitense dicono che l’Italia è il paese in cui c’è stata una progressione più forte del tasso di tolleranza rispetto ad altri paesi (cioè è passato dal 65% al 74%, mentre negli altri paesi la variazione è stata minore). Se si considera la classifica appare invece che l’Italia si posiziona dopo Spagna, Germania, Repubblica Ceca, Francia e Gran Bretagna, e prima di Polonia, Russia e Turchia.

Un’altra mistificazione dei movimenti anti-gender consiste nell’affermare che anche nei paesi che hanno adottato leggi in favore delle persone LGBT, l’omofobia non sparisce anzi aumenta. Il sondaggio dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea – il primo mai realizzato su larga scala in Europa – mostra invece che nei paesi che hanno adottato leggi favorevoli ai diritti LGBT, le persone vivono più serenamente la loro identità. Dalle risposte alla domanda “Con quanti sei dichiarato sulla tua identità lesbica, gay, bisessuale o transgender sul lavoro?”, si vede chiaramente che nei paesi che hanno adottato queste leggi già da alcuni anni la situazione è sensibilmente diversa rispetto agli altri: per esempio, nei Paesi Bassi, il primo paese ad aver adottato il matrimonio omosessuale nel 2001, solo il 5% si nasconde e il 43% si dichiara a tutti, nel Regno Unito (che dal 2004 ha istituito la civil parternship) il 9% si nasconde e il 36% si dichiara, in Belgio (che prevede il matrimonio fin dal 2003) il 12% si nasconde e il 31% si dichiara; mentre in Italia il 35% dichiara di nascondere la propria identità LGBT sul lavoro e il 14 % di essere aperto con tutti. C’è quindi una correlazione evidente: nei paesi “avanzati” dal punto di vista di queste leggi, le persone vivono più serenamente la loro identità e non hanno paura di fare coming out sul mondo del lavoro. Le cose cambiano, eccome.

Questi movimenti organizzano in tutta Italia centinaia di conferenze per allarmare i genitori, invitarli alla mobilitazione delle Sentinelle in piedi, con tanto di linee guida su come contrastare nelle scuole qualsiasi iniziativa in cui direttamente o indirettamente si parli di educazione all’affettività, alla sessualità o di discriminazione, e distribuendo modelli di lettere da mandare ai presidi e ai dirigenti scolastici. Ma perché, tutta questa fobia? Perché questa paura viscerale rispetto al fatto che si parli di omofobia o che vengano riconosciute le coppie omosessuali sullo stesso piano delle coppie eterosessuali? E soprattutto perché questa paura che se ne parli ai dirigenti scolastici, agli insegnanti, ai bambini e agli studenti? Perché il punto di fondo è che per questi movimenti, l’omosessualità rimane un peccato e, come ribadito dal catechismo della chiesa cattolica, un “comportamento oggettivamente disordinato”. L’Avv. Gianfranco Amato, dei Giuristi per la Vita, alla domanda di un giornalista che gli chiede “ma lei odia gli omosessuali?” risponde: “Io rispetto l’omosessuale come peccatore, odio l’omosessualità come peccato”, e insiste “io odio il furto come peccato ma amo e rispetto il ladro come peccatore”. Se l’omosessualità è un peccato da “odiare”, allora il riconoscimento legale delle situazioni coniugali e familiari omosessuali, o il fatto di affermare che l’identità omosessuale non è un’anomalia da correggere attraverso “terapie riparative”, come invece sostiene Massimo Gandolfini, di Scienza e Vita, è una forma di corruzione sociale che perverte l’ordine naturale.

C’è una morale politica democratica che è fondata sull’autonomia delle persone e della società, e sul rispetto della dignità dell’identità vissuta e percepita dagli individui, che i fenomeni di omofobia, di bifobia o di transfobia, di bullismo, di delegittimazione degli orientamenti sessuali “diversi” ostacolano, producendo fatti gravissimi, come per esempio un tasso di suicidio degli adolescenti omosessuali all’incirca 6 o 7 volte superiore rispetto a quello degli adolescenti eterosessuali.
I movimenti “no gender” non sono dei movimenti di informazione sul gender, ma movimenti spinti da un’ideologia reazionaria e conservatrice di stampo cattolico con fini politici ben definiti, che si avvalgono dell’appoggio della gerarchia vaticana e soprattutto, a livello locale, di vescovi e arcivescovi che rivendicano la necessità di una rinascita identitaria del mondo cattolico intervenendo anche abusivamente nella vita politica per dare indicazioni di voto. In questo senso, i movimenti anti-gender sono movimenti anti-democratici perché si oppongono allo sviluppo di una società fondata sui principi fondamentali della democrazia.

Massimo Prearo

IO SONO MINORANZA 

Attualità, curiosità, politica, testimonianze e non solo. iosonominoranza.it è un progetto di think community nato per contribuire alla costruzione di una società più aperta e rispettosa della diversità.

La rubrica sull’attualità, la politica e la militanza di Massimo Prearo.

“Unico tra i volatili a non saper volare, il pinguino ha trovato un modo diverso di muoversi tra le acque fredde e le terre scivolose di un mondo che osserva di traverso.”

25 giugno 2015

National Rifle Association, la potente lobby americana a favore delle armi

“Se il pastore ucciso avesse avuto una pistola tutto questo non sarebbe successo. Innocenti sono morti a causa della sua posizione su una questione politica”. Così Charles Cotton – uno dei leader della National Rifle Association (NRA), la più potente lobby americana a favore delle armi presieduta da David Keene – si è espresso a proposito della recente strage di Charleston (South Carolina), dove il ventunenne Dylann Storm Roof ha aperto il fuoco all’interno della Emmanuel African Methodist Episcopal Church, una delle storiche chiese afroamericane, uccidendo nove persone, fra le quali il pastore e senatore Clementa Pinckney. Dichiarazioni scioccanti e inaccettabili ma purtroppo espressione del sentire di molti statunitensi, tanto da considerare più grave che le vittime fossero disarmate rispetto alla follia di un giovane che uccide nove persone perché vuole “scatenare una guerra razziale”, come dichiarato agli investigatori dopo la cattura. Altrettanto scioccante è il fatto che un ragazzo così giovane potesse essere in possesso di una calibro 45, forse regalata addirittura dal padre. In ogni caso è sorprendente la facilità con la quale, negli Stati Uniti, chiunque possa entrare regolarmente in possesso di un’arma da fuoco, come fosse un giocattolo o un prodotto da comprare al supermercato. 


“Ma come è possibile?” – direte voi. Risulta particolarmente assurdo per noi che associamo le armi generalmente alla mafia e alla criminalità e quasi ci sembra un’ipotesi remota poterne entrare un giorno regolarmente in possesso. Negli Stati Uniti, invece, è la stessa Costituzione a sancire per i suoi cittadini il diritto a possedere un’arma da fuoco. Già, perché negli States possedere un fucile o una pistola è considerato un diritto civile al pari del diritto al voto e alla libertà di espressione: un diritto inviolabile insomma. Tutto ciò è regolamentato dal secondo emendamento della Costituzione:  “A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed” (“Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”). Esso fa riferimento ad un periodo storico ben preciso, ossia quello delle occupazioni da parte dell’Impero britannico e di quello spagnolo, dalle quali gli statunitensi potevano difendere se stessi, le loro famiglie e i loro beni soltanto attraverso le armi da fuoco. Una concezione di sicurezza che è rimasta viva negli Stati Uniti fino ad oggi e che fa della circolazione delle armi un problema non solo sociale e politico, ma soprattutto culturale. 

In questo senso fa storia la sentenza del 2008 della Corte Suprema degli Stati Uniti che dichiara incostituzionale la legge del distretto di Columbia che vietava ai residenti il possesso di armi da fuoco. Una sentenza che di fatto ha annullato quindi la legge sulla proibizione del possesso di pistole in casa – anche per la difesa personale – per i cittadini di Washington, rafforzando il presunto diritto al possesso di armi. 

Jeb Bush ad un recente evento NRA
A questa decisione giudiziaria bisogna aggiungere il clamoroso fallimento della riforma sul controllo delle armi promossa dall’attuale Presidente degli Stati Uniti. Dopo la strage del 14 dicembre 2012 - quando il giovane Adam Lanza uccise 27 persone (di cui 20 bambini) nella scuola elementare Sandy Hook di Newton – Obama portò avanti una campagna sul controllo delle armi, al fine di regolamentare maggiormente il possesso delle armi da fuoco per impedirne il reperimento a persone con precedenti penali o problemi di salute mentale. La riforma era uno dei punti chiave del secondo mandato del primo Presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti, ma è stata bocciata dal Congresso il 17 aprile 2013: affinché la riforma passasse erano necessari 60 voti favorevoli ma ne furono raccolti solo 54, al fronte dei 46 contrari (41 repubblicani e 5 democratici). Decisivo fu quindi il Partito Repubblicano, nel quale solo in quattro si dichiararono favorevoli ad una maggiore regolamentazione, ma anche e soprattutto proprio la NRA, che sulle armi ha notevoli interessi economici e politici in ballo. 

Essa fu fondata nel 1871 a New York con lo scopo di riunire tutti i fabbricanti d’armi degli States e da allora la politica ne è fortemente influenzata, soprattutto alla luce del consenso bipartisan del quale la NRA gode all’interno del Congresso, come dimostrano i voti di repubblicani e democratici che hanno affossato la riforma di Obama. La NRA ha la sua sede a Fairfax (Virginia) e opera per la promozione della sicurezza nell’uso delle armi, nell'organizzazione di corsi di addestramento al loro utilizzo e anche nella promozione di eventi sportivi relativi ad esse, assumendo anche una forte influenza politica – soprattutto per quanto riguarda i repubblicani – attraverso il finanziamento di campagne politiche ed elettorali. Ruolo che ne fa una potente lobby e addirittura la più antica organizzazione per i diritti civili degli Stati Uniti in virtù del secondo emendamento della Costituzione – a tal proposito per farsi un’idea più precisa dello strapotere delle lobby americane vedere il film Thank You for Smoking diretto da Jason Reitman e tratto dall’omonimo romanzo di Christopher Buckley. 

Un ruolo molto influente che non va giù al Presidente Obama: dopo il fallimento della sua riforma ha dichiarato: “Oggi è una giornata vergognosa per Washington. Ma non è finita qui. La mia amministrazione farà di tutto per proteggere la nostra comunità dalla violenza delle armi”. Parole che oggi sembrano più che mai attuali e alle quali fanno eco i tweet del 21 giugno pubblicati da Obama dopo gli eventi di Charleston attraverso l’account presidenziale @POTUS: “Ecco le statistiche: per popolazione ci uccidiamo l’un l’altro con armi da fuoco 297 volte più del Giappone, 49 volte più della Francia e 33 volte più di Israele”. E ancora: “Espressioni di compassione non sono sufficienti. È tempo che facciamo qualcosa su questo”



Parole che rischiano di rimanere una vana lotta contro i mulini a vento: non dimentichiamoci che quella delle armi è una problematica culturale e sociale, così come per quanto riguarda la pena di morte, in vigore in molti Stati americani. Questioni sulle quali la (buona) politica può purtroppo fare ben poco, soprattutto per il fatto che la mentalità di una nazione non si può cambiare a suon di riforme: urge un’opera di forte sensibilizzazione e la proposta della governatrice repubblicana della South Carolina, Nikki Haley, di rimuovere la bandiera confederata (quella dei secessionisti del Sud durante la guerra civile americana) dal Parlamento statale di Columbia è un altro passo importante nella lotta al razzismo. NRA permettendo. 

Giuliano Martino


24 giugno 2015

Verso USA 2016: Hillary Rodham Clinton

Hillary Clinton, Rodham è il suo cognome da nubile, ha 67 anni ed è uno dei più famosi e potenti politici statunitensi. È moglie di Bill Clinton, presidente dal 1992 al 2000, e secondo molti è la persona più qualificata e meglio finanziata, aspetto da non sottovalutare assolutamente, che si sia mai candidata alla presidenza degli Stati Uniti. 

Hillary Clinton in versione "Obama"- Fonte: theguardian
Ma chi è davvero Hillary Clinton? 
Nata a Chicago, laureata in giurisprudenza presso la Yale Law School, dove conobbe Bill Clinton, la Rodham collaborò come avvocato per il Children’s Defense Fund, ed inseguito entrò a far parte dello staff d’inchiesta dell’impeachment presidenziale durante lo Scandalo Watergate. Divenne poi un membro dell’University of Arkansas, e l’11 ottobre 1975 si sposò con Bill Clinton, futuro Presidente degli Stati Uniti nel gennaio 1993, fatto che portò Hilary ad essere la prima First Lady ad aver conseguito una laurea, ad avere una sua carriera professionale di grande successo e ad ottenere uno studio personale nella West Wing, l’ala della Casa Bianca in cui vengono prese le decisioni più importanti. Dopo aver passato, quasi indenne, lo scandalo “Sexgate”, nell’ambito del quale furono trovate prove di tradimento da parte del marito Bill con la stagista Monika Lewinsky (ha portato l’allora Presidente all’impeachment dopo Andrew Johnson nel 1868), la Clinton è stata Senatrice per lo Stato di New York nel 2000 e poi nel 2006. La Rodham si era già candidata alla presidenza nel 2008, ma a sorpresa perse alle primarie democratiche contro Barack Obama. 

Oggi un’ipotesi di sconfitta non è presa nemmeno in considerazione, dopo quattro anni da capo della diplomazia americana come Segretario di Stato.
Hillary Clinton è la candidata migliore per i Democratici: nessuno può vantare un curriculum ricco e articolato come il suo, nessuno ha la sua notorietà sia nazionale che internazionale, e nessuno può sfregiarsi di rapporti così profondi con l’establishment del partito e di conseguenza con i suoi finanziatori. Ma la cosa più importante è che all’orizzonte, almeno per il momento, non c’è nessun Barack Obama versione 2.0, e cioè un profilo di spicco che potrebbe toglierle il posto per la corsa alla Casa Bianca. Tanta sicurezza non è solo un presentimento o un’idea strampalata, ma la si può dedurre anche dalle parole di Joe Biden, attuale Vice Presidente americano, che pochi giorni fa ha dichiarato la sua discesa in campo solo nel caso in cui la Clinton dovesse ritirarsi. Biden, uno dei più autorevoli politici a livello globale, ha capito che sarebbe impossibile battere la ex-first lady, consegnandole di fatto il bastone del comando dei Democratici. Per il momento, i primi tre candidati che si sono fatti avanti non sembrano essere dei pezzi da novanta: Lincoln Chafee, Governatore del Rhode Island, Bernie Sanders, attuale Senatore per il Vermont, e Martin O'Malley, ex Governatore del Maryland. 

La Clinton durante il comizio a Roosevelt Island-Fonte:mydailynews.com
Mentre si aspetta la decisione di altri candidati per le primarie, Hillary Clinton ha tenuto il 13 giugno scorso, a Roosvelt Island, il primo comizio della sua campagna elettorale, delineando i punti chiave del suo programma. Si è concentrata sulla promessa di aiutare le famiglie lavoratrici e di far funzionare l’economia americana per tutti i cittadini, non solo per coloro che ricoprono posizioni di rilievo. Ha inoltre speso parole forti contro le discriminazioni nei confronti degli omossessuali e ha posto l’accento sul bisogno di una riforma delle politiche di immigrazione, evitando così milioni di espulsioni dal suolo americano. 
Per il tema economico, ormai sempre più al centro della politica globale, la Clinton si affiderà a Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 e già consigliere di Bill negli anni ’90. Stiglitz è considerato il guru della lotta alle disuguaglianze, le quali saranno uno dei punti forti della campagna di Hillary. A dimostrare la totale sintonia con l’economista, la Clinton è andata contro lo “short-termism” che domina l’economia americana, e ha affermato che occorrerebbe tassare progressivamente di più i redditi più alti, le proprietà e le plusvalenze finanziarie sia in America ma anche in Europa. 
La politica estera è invece l’ambito dove è possibile intravedere le più nette differenze con Obama. La Clinton, come ha più volte affermato quando era Segretario di Stato, aderisce a una visione liberale della politica internazionale, ed è estremamente convinta che gli Stati Uniti debbano impegnarsi in modo sempre più attivo nella lotta contro i regimi dittatoriali e di conseguenza favorire le basi per la ricostruzione della democrazia; mentre Obama ha usato molta più prudenza e ha seguito i principi della realpolitik, a volte tollerando i dittatori e a volte rovesciandoli, così come con le primavere arabe. Hillary ha inoltre auspicato, a differenza dell’attuale Presidente, una presa di posizione più forte e decisa nei confronti di Putin e Assad, una maggiore prudenza nel processo di destituzione di Mubarak e più flessibilità sul ritiro delle truppe dal territorio afgano. Con queste premesse sembrerebbe che con la Clinton ci si avvii verso un ritorno della centralità della leadership americana dopo gli anni del cosiddetto “leading from behind”.


Il discorso di Roosvelt Island ha poi subito una sostanziale virata verso il passato, con l’intento della candidata a cancellarlo. “Yesterday is over” non è stato altro che una scintilla a quello che, probabilmente, sarà il suo sfidante Repubblicano alla Casa Bianca: Jeb Bush, figlio di George Bush, Presidente americano dal 1989 al 1993, e fratello minore di George W. Bush, anch’esso Premier dal 2000 al 2009. 


23 giugno 2015

Ex-Jugoslavia: quando la guerra si giocava in campo

Una delle mete obbligate, per chi visita Zagabria, è il Parco Maksimir, un enorme parco urbano, tra i primi europei per dimensioni ed età, con all’interno chilometri di percorsi e piste, boschi ed un paio di laghi. Proprio di fronte a questo luogo di pace ed armonia, appena dall’altro lato della strada omonima, sorge il Maksimir Stadion, lo stadio cittadino, tanto avveniristico all’apparenza quanto vetusto appena si superano i tornelli. I lavori di ristrutturazione erano infatti cominciati, ma non sono mai stati portati a termine, lasciando uno scudo di vetrate e specchi a copertura di acciaio e ferro rosso di ruggine. Per capire cosa sia stato a fermare i lavori, basta girare attorno alla curva e raggiungere il parcheggio retrostante, dove, all’ombra di alcuni alberi, è stata eretta una bronzea stele. Un soldato campeggia al centro, seguito da un esercito, e dalla lettera che ricorda i tifosi della Dinamo Zagabria che morirono nelle guerre Jugoslave. Che morirono, specificato, armi alla mano e per la Croazia. Perché le tifoserie più violente ed estreme, che negli anni ’80 avevano sempre più assimilato metodi e linguaggio degli hooligans inglesi, diventarono i cuori pulsanti delle guerre civili che distrussero i Balcani per tutti gli anni ’90. I derby sul campo tra squadre slovene, croate, serbe e bosniache si trasformarono in battaglie fratricide con morti, torture e distruzione. E il tutto cominciò proprio sul prato verde del Maksimir, come ricorda e orgogliosamente celebra la stele luccicante e sempre ornata da lumini e ghirlande di fiori, a testimonianza che la guerra in realtà non è mai finita. 

Un'immagine degli scontri del 13 maggio 1990
La fine degli anni ’80 si avvicina. Il mondo profuma di cambiamento. Il muro di Berlino cadrà tra pochi anni, sulla piazza Rossa a Mosca è appena atterrato un piccolo aeroplano bianco guidato da uno studente tedesco e Glasnost e Perestrojika diventano parole di uso quotidiano, grazie ad un occhialuto signore con una voglia sulla testa. Metà del mondo si sta trasformando, e l’altra metà guarda attenta. Ma nessuno osserva un piccolo stato, affacciato interamente sull’Adriatico, che progressivamente nel corso della storia ha perso importanza. La Jugoslavia, da ago della bilancia nello scontro tra USA e URSS, alla morte di Tito è solo un calderone di popoli diversi e bellicosi uniti forzatamente sotto lo stesso tetto e nel 1987 il tetto sta per scoppiare. Sloveni e Croati si staccano sempre di più dal governo centrale jugoserbo, mentre i primi moti nazionali scoppiano tra Macedonia e Montenegro. La situazione nel corso del tempo diventa sempre meno sostenibile, ed il primo ministro Markovic è costretto a concedere, o meglio a non impedire, le prime elezioni nazionali in Slovenia e Croazia. Soprattutto a Zagabria si liberarono le tensioni nazionaliste, dove stravinse l’HDZ, partito anti-comunista di destra con idee simili al governo ustascia di Pavelic, guidato dal molto discusso ex generale titino Franjo Tudman. Andando avanti veloce, i due stati proclamano unilateralmente l’indipendenza, ma mentre per la Slovenia le cose andarono in porto con relativa tranquillità, la Croazia venne trascinata da quel poco che rimaneva della Jugoslavia in una guerra civile sanguinosa lunga quattro anni. Ai morti croati e serbi si aggiungeranno quelli bosniaci, finchè nel 1996 la guerra finirà, anche se solo sul campo e non negli animi.

Zeljko Raznatovic, detto Arkan: dallo stadio alla guerra civile.
Il 13 maggio 1990, a poco più di una settimana dall’esito delle elezioni trionfali per l’HDZ, il campionato unito della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia offre come partita di cartello lo scontro tra la prima e la seconda in classifica. La Stella Rossa di Belgrado, già matematicamente campione, gioca in trasferta contro la Dinamo Zagabria, proprio al Maksimir Stadion, per l’occasione pieno in ogni ordine di posto. Con una sola eccezione: il secondo anello della curva ospiti. Il primo anello è occupato dagli ultras serbi, gli autoproclamatosi “Delije”, gli Eroi. Hanno già distrutto il treno che dalla capitale li ha portati a Zagabria e tutto ciò che hanno trovato lungo le vie dalla stazione allo stadio. Il loro capo è un signore di quasi quarant’anni con un passato vissuto tra carcere, risse, omicidi, rapine e lavoro per la polizia segreta jugoslava ed un futuro ancora tutto da scrivere: è Zeljko Raznatovic, passato alla storia come Arkan, comandante delle Tigri, reparto militare a reclutamento volontario che si macchiò di indicibili violenze e omicidi impossibili da contare. Arkan verrà poi incriminato dall’ONU per crimini contro l’umanità, tra cui genocidio e pulizia etnica, ma venne assassinato nel 2000 prima del processo, mentre sorseggiava un drink nella hall dell’Intercontinental Hotel a Belgrado. Al suo funerale, parteciparono numerose autorità ed oltre 20.000 persone. Per far capire quanto il calcio fosse importante nella vita di Arkan, al termine della guerra comprò una squadra, l’Obilic, che portò a vincere il campionato e a giocare la Champions. In più fu amico personale del nuovo allenatore del Milan Mihajlovic, a cui salvò i genitori dall’eccidio di Borovo Selo. Sinisa poi chiese, o almeno acconsentì, ai tifosi della Lazio, dove giocava, che esposero uno striscione in favore della Tigre. 

Lo striscione dedicato ad Arkan apparso all'Olimpico
Raznatovic e i suoi ultras (che presto confluiranno nelle Tigri) fronteggiano la curva croata, controllata dai Bad Blue Boys, che nei giorni precedenti alla partita hanno oliato i giusti ingranaggi e hanno fatto entrare e nascosto nello stadio sacchi di pietre e taniche di combustibile. La partita non è nemmeno iniziata, che si accende la violenza. I Delije scalano la tribuna ed invadono il settore vuoto sopra di loro, cominciando a distruggere le recinzioni, i cartelloni pubblicitari ed i seggiolini. La polizia, in netta inferiorità numerica e male armata, lascia fare. E i federali rimangono immobili anche quando un piccolo gruppetto di tifosi croati attacca la curva ospiti per difendere l’onore patrio, finendo però per essere aggredito in massa e picchiato selvaggiamente. Questa fu la scintilla che innescò il Maksimir. I Bad Blue Boys attaccarono in massa, sia correndo lungo le scalinate che abbattendo le recinzioni e scemando sul terreno di gioco. La polizia jugoslava intervenne solo in quel momento, puntando compatta sugli ultras croati. Pochi croati riuscirono a raggiungere la curva, dove però si impossessarono degli striscioni della Stella Rossa e dei Delije. La gran parte della curva di casa rivolse la propria furia contro la Milicija. Proprio nel momento in cui la polveriera esplodeva, le squadre entrarono in campo.


Grandi giocatori componevano le due squadre. La Stella Rossa schierava in campo campioni del calibro di Dejan Savicevic, ribattezzato “Genio” con la magia rossonera di Milano, Darko Pancev e Dragan Stojkovic. Non per niente la Crvena Zvezda avrebbe vinto la Coppa dei Campioni l’anno successivo, in finale a Bari contro l’Olympique Marsiglia. Di fronte aveva una squadra giovane ma molto talentuosa, con due punte di diamante, entrambe 21enni: il primo è la punta, Davor Suker, che segnerà praticamente ovunque, andando a giocare per il Siviglia, il Real Madrid, l’Arsenal e il West Ham. Il secondo è il numero 10, già capitano della squadra, che all’inizio della guerra lascerà la Croazia per costruirsi una carriera più che decennale al Milan, insieme al “nemico” Savicevic: è Zvonimir “Zorro” Boban. Ma di quei grandi campioni, nessuno quel giorno calcò il rettangolo verde del Maksimir per giocare.

La partita venne immediatamente sospesa, e mentre gli ultras croati combattevano contro la polizia, pali di ferro contro manganelli e seggiolini divelti contro lacrimogeni, e i Delije si difendevano dagli attacchi al riparo sulla curva, i calciatori rientrarono di corsa negli spogliatoi. Tutti, tranne alcuni giocatori della Dinamo, con Boban in testa. La polizia infatti aveva arginato la marea dei Bad Blue Boys, ignorando gli Eroi di Raznatovic ed accanendosi sui giovani croati con odio nazionalista. Boban e i suoi, croati in pectore come i manganellati, attaccano alle spalle la milicija federale. Si scatena una grande rissa confusa, difficile da seguire nei particolari. Ma una scena salta all’occhio. In mezzo al nero delle divise delle forze di polizia corre una maglia blu con un numero dieci sulle spalle, che punta proprio un poliziotto. Dopo un paio di battute, condite da odio e rabbia, il poliziotto si allontana, ma Boban lo insegue e con una ginocchiata gli frattura la mascella, per poi scappare tra le fila dei Bad Blue Boys. 



Gli scontri dallo stadio esplodono nelle vie adiacenti. I Delije rimangono confinati nello stadio, mentre la polizia prova a rendere sicure le vie tra il Maksimir e la stazione. Arkan riesce a salire su un treno solamente alle 23, ben cinque ore dopo il lancio del primo seggiolino. Gli incidenti causano oltre 100 feriti, in gran parte tra le forze dell’ordine e tra gli ultras della Dinamo, mentre le televisioni croate sparano in ogni casa le immagini degli scontri per ore. La partita non verrà mai recuperata, e la ruota della guerra è ormai in movimento. La prima partita della stagione successiva, ultima della Jugoslavia unita, vede di nuovo di fronte una squadra croata ed una serba, e nemmeno Partizan Belgrado – Hajduk Spalato arriva al fischio finale. E pochi giorni dopo il fischio finale della stagione, il 25 giugno del 1991, Croazia e Slovenia si dichiarano indipendenti, scatenando la reazione militare di Milosevic e di quello che presto sarà il suo braccio destro, naturalmente armato, Arkan. Ed è da quella partita, dall’odio scatenato e dalla rabbia repressa improvvisamente lasciata libera, dall’orgoglio nazionale e dai soprusi, che nacque la guerra. Proprio la Tigre dichiarerà, nel 1994, al giornale Serbia Unita: “Dopo quella partita, ho previsto la guerra.”