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31 maggio 2015

SundayUp - Youth, di Paolo Sorrentino (2015)

Mettiamo subito le cose in chiaro: Youth non è un brutto film, mai si potrebbe definire tale un prodotto realizzato con un cast deccezione, addetti al mestiere della portata di Luca Bigazzi (fotografia) e David Lang (musiche), ma soprattutto con una produzione internazionale alle spalle. Il problema di Youth è laspettativa. Non ci sarebbe bisogno di ricordarlo, ma per aiutarvi ad unire i tasselli del percorso autoriale, è importante ricordare cosa ha preceduto questopera: Luomo in più (2001), Le conseguenze dellamore (2004), Il divo (2008), This must be the place (2011), La grande bellezza (2013). Mi sono permessa di lasciare fuori Lamico di famiglia, semplicemente perché — opinione personale meno rilevante ai fini della costruzione della poetica personale del buon Sorrentino. 
Poste queste briciole di pane, giusto per orientarci nuovamente se dovessimo retrocedere nella riflessione autoriale, risulta chiaro come il percorso filmico è stato in salita, fino a raggiungere il climax dellOscar con La grande bellezza. E ci tengo a sottolinearlo: meritatissimo. Come tutti i climax che si rispettino però, una volta consumati si inizia la discesa. Nel frattempo noi ci eravamo appassionati, ci eravamo affezionati ai protagonisti scontrosi e silenziosi, volevamo essere cullati dalle musiche e dalle immagini, desideravamo addormentarci dopo aver ascoltato un altro brano della fiaba. Insomma, ci eravamo creati delle aspettative.


A parte i titoli di testa che non convincono, qualcosa ci fa storcere il naso non appena iniziamo ad entrare dentro l’intreccio (difficile definirlo in questo modo, ma tant’è): un regista di mezza età, in una stazione di cure termali, sta cercando di risolvere la sceneggiatura del suo futuro film. Ha bisogno di riposarsi fisicamente e psicologicamente. I giorni trascorrono senza che si riesca a trovare una soluzione, e la sua ricerca di pace viene continuamente interrotta dai personaggi che animano la stazione termale, dalle visite che riceve e dai tecnici che stanno lavorando con lui al film e soggiornano nello stesso albergo. Il protagonista si chiama Guido Anselmi ed il film che vi ho appena raccontato è 8½ (1963) di Fellini. 
Ora vi racconto Youth: il vecchio regista Mick Boyle in una stazione di cure termali, sta cercando di risolvere la sceneggiatura del suo futuro film. Ha bisogno di riposarsi fisicamente e psicologicamente. Fred Ballinger, un anziano direttore d’orchestra e fedele amico di Mick, soggiorna in sua compagnia nell’albergo, e deve invece riflettere sulla proposta ricevuta da un emissario della regina Elisabetta, di dirigere un concerto a Buckingham Palace. I giorni trascorrono senza che si riesca a trovare una soluzione, e la loro ricerca di pace viene continuamente interrotta dai personaggi che animano la stazione termale, dalle visite che ricevono e dai tecnici che stanno lavorando con Mick al film e soggiornano nello stesso albergo. Bisogna quindi ammettere che, ad esclusione della figura di Fred Ballinger, nella sceneggiatura di Sorrentino non solo risuonano echi felliniani, ma per alcuni aspetti pare che egli abbia voluto realizzare un vero e proprio remake di 8½
Spunti felliniani arrivano quindi dalla trama, dalla scelta dei tipi umani che animano la stazione termale e dai tanti occhiali da sole usati per completare i costumi. Oltre al capolavoro di Fellini, si passa al setaccio anche La Montagna incantata di Thomas Mann: lo Schatzalp Hotel di Davos viene infatti citato in questo romanzo. Andiamo però oltre.


I due protagonisti, Fred e Mick, sono interpretati rispettivamente dai sommi Michael Caine e Harvey Keitel, che ce la mettono tutta per contribuire a rendere l’opera sublime. E di sublime qui si parla in senso romantico, è «l'orrendo che affascina» di Burke. Eppure c’è una distanza tra gli attori e lo spettatore, qualcosa di freddo che non viene colmato nel modo in cui aveva fatto Gep Gambardella, o comunque più in generale dal Toni Servillo alter ego di Sorrentino. Si percepisce chiaramente la mancanza dell’alter puro. In questo modo l’autore è costretto a mettere un po’ di se stesso in tutti i personaggi, anche i quelli secondari, che intervengono per pronunciare una sola battuta, e l’effetto è, necessariamente, straniante. Inoltre, confrontandoci con un intreccio esile, ci si aspetterebbe che almeno venisse approfondita la psicologia dei personaggi, invece tutto rimane sospeso: il tempo è sospeso, lo spazio è sospeso, le scelte, i dialoghi. Quando ci si approssima alla conclusione, nella quale i due protagonisti dovranno tirare le fila di tutte le riflessioni compiute, non disponiamo degli strumenti necessari per comprendere a fondo le loro decisioni, e tutto si trasforma in un cliché. L’interpretazione del mondo che vorrebbe trasmetterci Sorrentino precede l’azione concreta e questo impedisce la comprensione di ciò che poi accade. Gli elementi di salienza (alcuni personaggi, musiche, inquadrature) offrono quel tipo di esperienza emotiva che stimola la ricerca di senso, e lo stile ben definito indubbiamente aiuta nella ricerca di un significato alto. Ma il significato, quando arriva, è talmente banale da risultare svilente per lo spettatore stesso esser arrivato fino alla fine per un «tutto qua?».


Sorrentino doveva dimostrare a se stesso di essersi meritato l’Oscar e così, preso dall’irrefrenabile terrore di non essere all’altezza, unitamente alla volontà di confermarsi nel suo stile, ha preso tutto ciò che fa parte della sua poetica (i tipi umani, i contrasti tra estrema bellezza/ripugnanza, la riflessione sulla morte, la memoria, pacificarsi con il passato, la fotografia nitida) e l’ha messo dentro, senza approfondire nulla. Oltre a ciò, ha aumentato la portata del cast scegliendo tra star straniere, sforzandosi di fare un film internazionale, ma troppo forte è il debito al cinema italiano per risultare una scelta sincera. Uniformarsi ai canoni nordamericani non è sinonimo di qualità. Rimane quindi un’opera manierista e fortemente retorica, con picchi di banalità sconfortanti. È tutto eccessivamente splendido o fortemente grottesco, la sana mediocrità manca completamente, forse proprio per questo suo bisogno di stupire il pubblico senza soluzione di continuità. Peccato. Ci piaceva così tanto il grigiore di Titta di Girolamo.

Note di merito: la fotografia che riempie lo sguardo, il cambiamento delle scelte di ripresa, meno movimenti di macchina e più campi e controcampi, scelte musicali sempre impeccabili e un Paul Dano che non ha nulla da invidiare ai mostri sacri con cui si confronta.

Roberta Cristofori

28 maggio 2015

The Bottonomics - Dura lex sed lex: la vittoria dei tassisti nella vicenda Uber

Quanto ci piace il corporativismo eh


“Legge e buon senso prevalgono”. Così parlò Lupi. Un tweet per tutti e per nessuno. Ok, basta a scimmiottare Nietzsche e andiamo al punto. Il fatto è la sentenza dell’altro giorno del Tribunale di Milano che ha bloccato l’app di carpooling più amata dai milanesi (e non solo). Naturalmente, sto parlando di Uber, che in sostanza permette a chiunque, con la nuova versione Uber Pop, di improvvisarsi tassista. I prezzi sono stracciati e il consumatore è in estasi. Con la sentenza, la battaglia dei taxi ha ora vincitori e vinti. I vincitori sono i tassisti di professione. Già, i nostri amici a quattro ruote, quelli che si stracciano le vesti ad ogni tentativo di liberalizzazione (Bersani mi manchi) e che hanno iniziato ad esultare non appena la sentenza è stata pronunciata. Al coro, poi, si è accodato il Ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Per la serie “don’t touch my lobby”.  I vinti sono i consumatori, che vengono privati di un servizio economico e a portata di smartphone. Praticamente la sentenza annienta l’unica cosa simpatica della libera concorrenza: il benessere del consumatore. Certo ora la cosa più facile, se non sei un tassista, è scagliarsi contro la magistratura e tanti saluti. Tuttavia, pare evidente che, se da un lato c’è un problema bello grosso di opportunità politica delle sentenze, dall’altro è difficile dare torto al giudice di Milano. Andiamo con ordine. Gli organi giudiziari, in quanto a buon senso e opportunità politica, ultimamente non ne stanno acchiappando una. In effetti, la sentenza sulle pensioni prima e quella Uber poi, avrebbero potuto aprire la strada ad innovazioni, o per lo meno fungere da monito per spingere a cambiare il sistema italiano che è più immobile di Mexes. Quindi, a mio avviso, un concorso di colpa per la magistratura c’è eccome. Tuttavia, quello che fa il giudice è interpretare la legge e allo stato dei fatti non ha sbagliato troppo. Almeno per quanto riguarda la sentenza Uber, pare difficile contrastare l’assunto per cui Uber Pop entrasse nel mercato attraverso un sistema di concorrenza sleale. Infatti, Uber si pone(va) in una posizione di vantaggio sia dal punto di vista fiscale, che dal punto di vista della sicurezza. Fiscalmente perchè i tassisti non professionisti di Uber Pop non rilasciano alcuna ricevuta: il consumatore paga con carta di credito direttamente nella app e poi la società Uber provvede a rimborsare le spese al conducente. Ma siamo sicuri che si tratti di mero rimborso spese e non di reddito tassabile? Qualche dubbio c’è. L’altro problema è quello degli standard di sicurezza, che appaiono pressochè nulli per gli autisti non professionisti di Uber. Quindi, ripeto, difficile dare torto al giudice. Certo, sarebbe stato bello leggere una sentenza che, anzichè assoggetarsi allo status quo, spingeva per la regolamentazione del sistema di car pooling, viste le potenzialità benefiche della sharing economy. Vabbè, concorso di colpa. E il grosso della colpa? Evitando terminologie grilleggianti, qui la colpa è del legislatore. Di quel legislatore che – come molti imprenditori, ma questa è un’altra storia – è liberista col mercato degli altri. Di quel legislatore che – vedi twett di Lupi – esulta al fianco della lobby dei tassisti. Di quel legislatore che da anni parla di liberalizzazioni e ancora nel 2015 ci troviamo davanti gli occhi quell’economia corporativista nata durante il fascismo. A quanto pare l’Autorità dei Trasporti a breve si esprimerà sulla vicenda e la speranza è che da lì venga una spinta alla regolamentazione che lasci spazio all’innovazione e non si faccia custode ultima dello status quo. Poi certo, la questione sarebbe anche europea, ma intanto, per una volta, iniziamo noi. Per ora, io sto con il consumatore e, in fondo in fondo, anche con Uber.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

27 maggio 2015

Gli impresentabili 2015

Domenica 31 maggio i cittadini di sette regioni italiane saranno chiamati alle urne per decidere quale sarà il loro prossimo governatore. Si voterà in Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia. 
Regionali 2015
Fonte: ctnews.it

Oltre all’importanza delle elezioni, quello di domenica sarà un probante test sia per il Governo guidato da Matteo Renzi sia per le opposizioni, in particolare quella di Matteo Salvini che nell’ultimo mese ha girato in lungo e largo gran parte delle regioni in questione, parlando e incontrando numerosi cittadini e scontrandosi contro altrettanti. 
Le elezioni di domenica prossima possono essere considerate una cartina tornasole del pensiero degli italiani, dato che le regioni sono la via di mezzo tra il voto utile a livello nazionale e il voto per conoscenza personale di quelle amministrative, anche se non così decisive come quelle del 2000 quando l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema fu costretto a dimettersi dopo il voto in ben quindici regioni che premiarono il centrodestra.
Matteo Salvini, invece, ha già affermato che se il centrodestra dovesse “rubare”, oltre alla conferma del Veneto, una regione alla coalizione di centrosinistra, per Renzi sarebbe inevitabile consegnare le proprie dimissioni. Il Presidente del Consiglio, dal canto suo, ha già messo le mani in avanti, passando da una previsione di vittoria per 6 a 1 di un mese fa ad un 4 a 3 in favore del Partito di Governo. 

Le prossime elezioni sono passate alla ribalta soprattutto per lo scandalo “impresentabili” nelle liste di diverse fazioni, dal Veneto passando per la Liguria, fino ad arrivare in Campania. 
Ma passiamo ad analizzare la situazione regione per regione, presentando i candidati e le possibili soprese e conferme che si potrebbero verificare. 
In Veneto il Governatore uscente della Lega Nord, sostenuto anche da Forza Italia, Luca Zaia, è dato nettamente in vantaggio dai sondaggi con il 40% sulla rivale Alessandra Moretti del Partito Democratico che si ferma a poco più del 31 e sul sindaco di Verona ed ex leghista Flavio Tosi al 10. 
Zaia, Presidente della Provincia di Treviso dal 1998 al 2005, ha ricoperto dal 2008 al 2010 l’incarico di Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali nel Governo Berlusconi, mentre Alessandra Moretti è stata vicesindaco di Vicenza ed europarlamentare. In Veneto non sembra esserci partita, per il momento, nonostante l’ottimismo del PD e dopo il viaggio di Renzi  a sostegno della sua candidata di settimana scorsa. Il Partito democratico ostenta sicurezza, ma la vittoria è lontana e sembra che anche per questa tornata l’assalto al Veneto dovrebbe fallire.  

La Liguria è invece la regione con la maggiore incertezza. 
Il PD punta forte su Raffaella Paita che però sta perdendo terreno dopo l’inchiesta per omicidio colposo e disastro doloso che l’hanno riguardata direttamente e dopo lo scandalo delle Primarie che hanno visto la fuoriuscita dal partito di Sergio Cofferati. L’avversario è Giovanni Toti di Forza Italia sostenuto anche dalla Lega Nord dopo il ritiro della candidatura di Edoardo Rixi. Toti non è un avversario insuperabile, tutt’altro, bensì i problemi pocanzi descritti e i voti che andranno a Luca Pastorino di L’Altra Sinistra lo portano a ridosso della candidata democratica. In Liguria Matteo Renzi si gioca molta, se non tutta la propria credibilità, dopo la questione primarie, e la scelta di confermare Raffaella Paita potrebbe costare molto caro a lui e al suo Governo. 


In Toscana la vittoria di Enrico Rossi, Governatore uscente del PD, è scontata, nonostante un rischio di astensionismo molto alto. Claudio Borghi è invece il candidato della Lega Nord, economista e professore all’Università Cattolica di Milano, ed è uno degli artefici della battaglia no-euro perseguita da Matteo Salvini. Si trova da poco in politica, ma è riuscito sin da subito ad ottenere la fiducia del suo leader. 
Enrico Rossi, classe 1958, ha vinto le elezioni del 2010 sfiorando il 50% dei consensi, mentre gli ultimi sondaggi lo danno sì al di sopra del 45%, ma comunque abbastanza lontano dal record di cinque anni fa, mentre Claudio Borghi e il grillino Giacomo Giannarelli sono fermi al 15. Da notare il declino di Forza Italia con il suo candidato Stefano Mugnai al di sotto del 10% delle preferenze. 

In Umbria, a differenza della Toscana, regna ancora un’apparente incertezza. La Governatrice uscente Catiuscia Marini del Partito Democratico, sostenuta dall’intero centrosinistra, è avanti di 4 punti percentuali, sempre secondo i sondaggi, sul sindaco di Assisi Claudio Ricci sostenuto da Forza Italia. 38% per la prima, 34 per il secondo, con Andrea Liberati del Movimento 5 Stelle fermo al 20. 
Il programma della Marini pone le fondamenta sulla promozione dello sviluppo urbano, in particolare dei centri storici, andando a scontrarsi con quello del suo avversario secondo il quale la casa è un diritto di tutti, garantirla un dovere di chi amministra.  Nelle intenzioni di Ricci c’è la realizzazione di case popolari che verranno assegnate, con alcuni parametri di priorità, a chi risiede in Umbria da almeno 10 anni e dando prevalenza a famiglie numerose e con disabili. 

Nelle Marche Gian Mario Spacca, dal 2005 il governatore della regione Marche e rieletto nel 2010 nelle fila del Partito Democratico, ha deciso di provare a correre per un terzo mandato. La novità più importante, però, è che questa candidatura non sarà più tra le fila dei Dem, bensì Spacca ha fondato la lista Marche 2020 per appoggiare una sua nuova corsa. Forza Italia ha deciso di appoggiarlo, non avendo trovato nessun candidato da lanciare in campagna elettorale. E quindi si è venuta a creare la curiosa situazione per cui l'ex candidato del centrosinistra si è trasformato per magia in quello del centrodestra. Luca Ceriscioli, insegnante di 49 anni, è invece  il nuovo candidato del centrosinistra e favorito per la successione di Spacca. Nelle Marche la vittoria del Partito Democratico non è in dubbio, ma è da sottolineare come il Movimento 5 Stelle, con il suo candidato Giovanni Maggi, molto probabilmente supererà il 20% delle preferenze. 

In Campania il Governatore uscente, Stefano Caldoro, ha deciso di ricandidarsi per un secondo mandato, sempre sostenuto da Forza Italia. Ministro per l’Attuazione del Programma del Governo tra il 2005 e il 2006 e indagato per abuso di ufficio nel 2015 nell'ambito di un'inchiesta sul trasporto pubblico locale, Caldoro, secondo i sondaggi, non avrebbe abbastanza voti per mantenere la carica, fermandosi al 33% delle preferenze. Vincenzo De Luca è il candidato del centrosinistra e al momento favorito per la vittoria finale. Ex-sindaco di Salerno per ben quattro mandati ed ex Sottosegretario del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti è una candidatura scomoda per il Partito Democratico, il quale ha provato a cambiare candidato in corsa, senza successo. De Luca è infatti condannato in primo grado per abuso d’ufficio, e nel caso dovesse venire eletto la sua carica decadrebbe immediatamente. L’ex sindaco spera in una vittoria sia alle elezioni che al Tar, dove ha già dichiarato di voler fare ricorso.  

In Puglia appare invece scontato il successore di Nichi Vendola: Michele Emiliano, candidato del Partito Democratico, dovrebbe essere rieletto senza alcun problema, sfondando la quota del 40% e affossando gli altri candidati. Nuovo Centrodestra e Fratelli d’Italia corrono con Francesco Schittulli, mentre Forza Italia e Noi con Salvini con Adriana Poli Bortone. 
I sondaggi possono significare molto, ma l’ultima parola spetta sempre ai cittadini, e vedendo le ultime indiscrezioni sembra che, ancora una volta, il vero vincitore non sarà né Renzi né Salvini ma l’astensionismo. 



26 maggio 2015

Il pallone, la pallottola e il potere: il calcio in Ucraina

Al fischio finale del ritorno della semifinale di Europa League tra Napoli e Dnipro, un’intera nazione ha esultato per una finale guadagnata contro ogni pronostico dal sapore di rivalsa nazionale. Perché quella nazione è l’Ucraina, ed ormai da due anni lo stato è spaccato ed in guerra, e qualsiasi vittoria o sconfitta viene automaticamente letta in chiave nazionalista, come scontro tra popoli, come battaglia all’ultimo sangue tra Kiev e Mosca. 

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I tifosi del Dnipro | Foto di passionesportiva.it
Ad aggiungere ancora benzina al fuoco dell’odio dei popoli, Dnipropetrovsk è una città di confine, nonostante sia nel cuore dell’Ucraina. L’Oblast di Donetsk, la regione limitrofa, è infatti la zona più ad occidente sotto l’influenza russa, dato che ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza, insieme alla Crimea e alla regione di Lugansk, ed ha promesso in un indefinito futuro di seguire proprio la vicina penisola sotto il controllo di Putin. Proprio per la situazione instabile, il Dnipro gioca le gare casalinghe europee nello stadio di Leopoli, a quasi 1000 chilometri di distanza. Ma se la squadra biancoazzurra è “fortunata” perché può giocare le gare casalinghe in campionato nella città natale (e perché alla fine Varsavia, sede della finale, rappresenta una trasferta solo di 200 km più distante rispetto a Lviv), altre società non lo sono altrettanto. Sono le squadre dei territori in conflitto, costrette per motivi di sicurezza a giocare costantemente lontano da casa.

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La Donbas Arena oggi | Fonte: repubblica.it
E’ il caso di sei società di Serie A (su quattordici), ospitate a turno dalle altre squadre o da formazioni di serie minori in zona sicura. Il caso più eclatante è probabilmente quello dello Shakhtar, vincitore della Coppa UEFA nel 2009 e che gioca tra Kiev e Leopoli, dato che la Donbas Arena, stadio nuovissimo e tra i più all’avanguardia d’Europa, è stato bombardato più volte. Insieme allo Shakhtar giocano costantemente in trasferta anche le altre due squadre di Donetsk, il Metalurg e l’Olimpik, lo Zarja di Lugansk (il cui stadio è stato in parte abbattuto a colpi di mortaio), e l’Ilichivets di Mariupol. A questi cinque si è aggiunto il Chornomorets di Odessa, città “dirimpettaia” dell’ormai russa, anche se non riconosciuta tale da molti, Crimea. Tutte queste squadre sono costrette a viaggiare, per ogni partita, tra i 450 e i 1000 chilometri, se non a trasferire armi e bagagli ed andare a vivere nella città ospitante. Nonostante questa situazione instabile e la guerra che imperversa, il campionato non è mai stato interrotto. Nemmeno la nascita delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, corrispondenti agli oblast precedenti, ha costituito un ostacolo insuperabile. La pausa invernale della stagione 2013/14 è durata due settimane in più del previsto, ma il campionato è stato portato a termine nonostante l’esplosione degli scontri tra nazionalisti ucraini e filorussi. 

Durante la pausa estiva, però, la Crimea ha votato l’annessione alla Russia, cambiando radicalmente gli equilibri. Le due squadre principali della regione, il Sebastopoli e il Tavrija Sinferopoli, vincitore della prima Premier League ucraina nel 1992, sono state inserite nella terza divisione della federcalcio russa. La Prem’er Liha ucraina ha avuto, fin dalla sua nascita, grandi difficoltà a reperire sedici squadre senza problemi economici in tutto lo stato per giocare il campionato dall’inizio alla fine senza fallire. La secessione di due club, insieme al fallimento dell’Arsenal Kiev, ha creato grossi ostacoli alla nascita della nuova stagione. Dopo lunghe discussioni si è riusciti a giungere ad una soluzione condivisa, ispirata dallo Shakhtar, ovvero la riduzione del campionato a 14 squadre, senza formazioni della penisola secessionista. Questa proposta è stata caldeggiata dal presidente della federazione, Anatoly Konkov, amico personale di Ahmetov, finanziatore e presidente della prima squadra di Donetsk. Ma il campionato non è certo proseguito su binari tranquilli, con un netto vantaggio delle squadre nord-occidentali (Dinamo Kiev e Dnipro in testa) su quelle orientali, costrette a viaggi estenuanti ad ogni gara. Mircea Lucescu, allenatore degli arancio-neri di Donetsk, ha provato a denunciare queste ineguaglianze, ma la federazione è rimasta muta, e il campionato è stato vinto, contro ogni pronostico della vigilia, dalla Dinamo, dopo cinque vittorie consecutive dello Shakhtar. Il mutismo della lega è facilmente spiegabile: a gennaio Konkov è stato rimosso, soprattutto per non essere riuscito a convincere l’Europa del calcio a sanzionare i club della Crimea. Al suo posto, prima ad interim e poi eletto, è stato messo Andriy Pavelko, di Dnipropetrovsk e molto vicino al governo dell’attuale premier Poroshenko. Ad aggravare la frattura, Ahmetov è stato accusato di finanziare i separatisti filorussi, ed il numero uno dello Shakhtar non ha mai smentito completamente queste voci.

Il campionato ucraino ha perso sempre più credibilità, e la guerra ha impedito l’arrivo di nuovi giocatori di rilievo. Anzi, è stato persino difficile trattenere quelli già presenti. Dopo un’amichevole con il Lione in Francia, sei giocatori della formazione di Lucescu (Fred, Dentinho, Facundo Ferreyra, Douglas Costa,  Ismaily e Alex Texeira) sono prima spariti e poi hanno fatto sapere di non voler tornare più in Ucraina, a pochi giorni di distanza dell’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines che ha portato alla morte di 298 persone. Grazie a minacce e pressioni i dirigenti dello Shakhtar sono riusciti a riportarli in patria, ma solo con la promessa di cederli al più presto, mantenuta solo per l’argentino Ferreyra. Altri club non sono stati così persuasivi, ed hanno dovuto cedere i pezzi pregiati a costo di svendita. 


Nessuno è dunque riuscito a frenare la crisi del calcio ucraino. Non la federazione nazionale, spaccata all’interno da lotte intestine tra clan. Non le singole squadre, o troppo piccole per poter incidere o disinteressate a favorire l’avversario. Nemmeno la UEFA, incapace sia di applicare che di far rispettare le sanzioni e i regolamenti. E proprio qui hanno colpito le pesanti dichiarazioni del Napoli e del suo presidente contro l’arbitraggio di Moen nella gara d’andata. De Laurentiis ha accusato, non troppo velatamente, la UEFA e Platini di aver combinato la gara in modo da favorire il Dnipro, sia per tenere aperto il discorso qualificazione sia per la vittoria finale. Il numero uno del calcio europeo non ha commentato le dichiarazioni, ma il Dnipro alla fine in finale c’è andato davvero. E sarebbe un bello spot per la UEFA se la piccola cenerentola con la guerra in casa vincesse da sfavorita, proprio contro la vincitrice uscente, vero?

24 maggio 2015

SundayUp - Mad Max Fury Road (2015), il trionfo dell'azione on the road

Nel cinema non si butta via niente, le idee di un tempo spesso vengono rispolverate, lustrate e messe sullo schermo per portare in sala spettatori vecchi e nuovi. Spesso, però, la qualità di queste operazioni lascia a desiderare e si rischia di andare al cinema solo per effetto della nostalgia
Il film di cui parliamo oggi, invece, è un dannato capolavoro.

Mad Max: Fury Road non è semplicemente il remake della mitica trilogia action degli anni Ottanta, è un elogio del caos, un tripudio di esplosioni e calamità naturali con sottofondo di Giuseppe Verdi, un’opera matura e ben orchestrata, insomma, la prova lampante che si può tornare sulle buone idee del passato e rielaborarle alla luce di esperienze nuove.
George Miller ci catapulta in una desolata terra post-apocalittica, nella quale non esiste praticamente più nulla del vecchio mondo e il potere è in mano a chi possiede l’acqua: Immortan Joe, uno che è vestito come Darth Vader se avesse assunto Skeletor come stilista e arredatore d’interni, uno malvagio fino all’osso ma con dei princìpi a suo modo coerenti e profondi.

A fronteggiare questo villain di qualità c’è lui, Mad Max, un “uomo che fugge sia dai vivi che dai morti”, tormentato da un passato oscuro che, tenetelo a mente, non è raccontato nei precedenti episodi, e poi c’è una lei, Furiosa, una donna forte e determinata, guerriera esperta e scaltra che è il motore stesso dell’azione, non una semplice comprimaria. Contro di loro un esercito di esaltati Figli di Guerra con un credo misto di mitologia norrena e giapponese che sembra costruito sulle ceneri della cultura pop pre-apocalisse.
Ho detto fin troppo, perché in questo film si parla solo se è necessario: si guida, si spara, si esplode, ma non si parla, non ci sono spiegoni da film fantasy o di supereroi: le immagini e i rapidi scambi di battute sono sufficienti a definire il contesto nel quale agiscono i personaggi, rapide sequenze che spiazzano lo spettatore (per la loro mancanza di spiegazione) lasciano intuire che nel mondo di Max c’è un oltre, qualcosa che passa di sfuggita mentre si sfreccia per la Fury Road, e che conferisce alla pellicola un senso di profondità che è la vera sorpresa in una pellicola d’azione adrenalinica come questa.


George Miller arriva al successo nel 1979 con il primo capitolo della saga, uscito in Italia col titolo Interceptor, un successo planetario confermato da due sequel in cui, con l’aumentare del budget, diminuivano le “strade lastricate” e scomparivano le tracce della nostra società, finché con questo quarto capitolo a distanza di trent’anni dal precedente (ma ambientato, ancora una volta, chissà quando rispetto a esso) non sono rimasti che uomini e auto costruite con i rottami: per costruire questo mondo selvaggio e desolato la CGI è stata largamente utilizzata, tuttavia, ciò che vediamo non appare mai artificioso, questo grazie ad una troupe con più di un migliaio di elementi tra tecnici e stuntmen.

Come sempre, per i prodotti di entertainment di largo consumo, si prevedono già due sequel e diverse opere collaterali quali fumetti e un videogioco - tutto nel cinema di oggi è fatto per generare quanto più profitto possibile. Tuttavia Mad Max è la prova che si può fare del cinema di buona qualità anche in un prodotto di consumo.

Matteo Cutrì

20 maggio 2015

I Bush, la guerra in Iraq e l'ISIS: chi ha creato il mostro?

george jeb bush
Jeb e George W. Bush | Fonte: cnn.com
“Suo fratello ha creato l’IS”. Questa è stata la pacata pacata affermazione con la quale una studentessa dell’Università del Nevada ha deciso di rivolgersi a Jeb Bush, candidato alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2016. Il meccanismo che prevede come compito l’interpretazione della voce della coscienza del povero Jeb, riguardo al ricordargli: “ma ti ricordi di essere il fratello di…?” sembra fin troppo facile, come rubare una caramella al bambino. Difficile concentrarsi sui programmi elettorali, sul classico “cosa farei se fossi presidente”, se il tuo peccato originale sta nell’avere un fratello minore che ha interpretato il sogno della rivoluzione neo-conservatrice nel mondo, l’alfiere principale della “guerra globale al terrore”, degli “Stati Uniti al centro del villaggio”, a mettere in riga i super cattivi della terra, a colpi di invasioni e democrazia. Ai tempi dello Stato Islamico, poi, e del ritorno degli USA in Iraq a 12 anni dal disastro con cui il paese mediorientale venne lanciato verso il baratro, le scellerate scelte politiche di George sembrano ora riversarsi sull’ex governatore della Florida. Lo Stato Islamico del sedicente Califfo Al-Baghdadi (E’ vivo? E’ morto?) è visto a distanza di anni come il risultato finale che quella guerra contro Saddam Hussein, contro le armi di distruzione di massa, contro tutto ciò che fomentava terrorismo e autoritarismo, ha partorito. Prima ancora della studentessa, ci avevano pensato personalità più illustri e appartenenti allo Star-System americano ad esprimere il loro punto di vista su IS e George Bush: Sean Penn aveva pubblicamente ringraziato Bush e il suo ex vice-presidente Dick Cheney per la creazione dello Stato Islamico durante il talk show “Conan”.

Come ha reagito a tutti questi attacchi Jeb? Con dichiarazioni che hanno lasciato molti abbastanza confusi e disorientati riguardo il suo reale pensiero. L’origine della discordia starebbe nella risposta “Si, l’avrei fatto” ad un giornalista di Fox News (non esattamente un network sovversivo comunista) che gli chiedeva se avrebbe autorizzato l’invasione alla luce delle informazioni che oggi noi possediamo circa quella guerra. Al di la del malinteso che può esserci stato riguardo l’affermazione del candidato repubblicano (probabilmente pensando “avrei autorizzato l’attacco in base alle informazioni di cui eravamo in possesso all’epoca”), nel punto cruciale Jeb sembra non essere riuscito a liberarsi della pesante ombra del fratello, delle sue scelte, e delle conseguenze che in questo momento stiamo pagando caro. Nonostante Jeb non sembri essere George (Dio ce ne scampi!), sembra però aver apprezzato molte figure che facevano parte del gotha neo-con che dirigeva la politica estera americana durante gli anni d’oro della guerra globale al terrore e della lezione di libertà impartita alle canaglie incapaci di godersi la libertà e la democrazia. Tanto da averle inserite nello staff che coordina la campagna per le primarie. L’esempio in questione è niente di meno che Paul Wolfowitz, l’ex sottosegretario alla Difesa che insieme a Chiney e Bush contribuì a mettere in piedi uno dei più grandi inganni di tutti i tempi: Saddam Hussein che possedeva potentissime e pericolosissime armi di distruzione di massa in grado di colpire i paesi del mondo libero.
Il dibattito attorno alla guerra in Iraq, alle sue bugie, e alle conseguenze che nell’ultimo anno hanno generato, attraverso l’esplosione definitiva dello Stato Islamico, e del fallimento dell’entità statuale dell’Iraq post Saddam, un gran numero di dibattiti e discussioni. Jeb ha cercato di non indirizzare tutte le colpe del fallimento iracheno al fratello, puntando più il dito su informazioni errate che l’Intelligence statunitense aveva fornito all’Amministrazione dell’epoca delle informazioni false. Rimane abbastanza difficile credere che la presidenza più potente del mondo si sia bevuta un mare di frottole perché ingenua o male informata. Più facile pensare che la guerra in Iraq, come ha affermato l’economista Paul Krugman, non fu un errore innocente, ma un atto di guerra criminale, programmato sin dagli attentati dell’11 settembre e a cui serviva solamente un pretesto montato ad arte per attuarlo. Permettete dunque che l’affermazione di Jeb Bush faccia abbastanza ridere, ma faccia anche scattare un infinito senso di tristezza, sia che lo stia dicendo apposta per non colpire George e chi con lui aveva messo in piedi il teatrino, sia che lo dica in buona fede, convinto veramente che i poteri alti della politica americana non pressarono i vertici militari per diramare simili falsità. In questo caso sarebbe ancora più fastidioso, in quanto darebbe la dimostrazione di essere completamente fuori dalla realtà che lo circonda. 

Gli Stati Uniti, e George W. Bush, hanno creato l’IS? Questa è una domanda da 1 milione di dollari, che rischierebbe di farci cadere nella più becera delle teorie del complotto americano/sionista/bildeberg/trilateral/blablabla. Sicuramente potremmo dire che l’invasione dell’Iraq ha creato una pentola a pressione azionata sin dai tempi del colonialismo e di scelte politiche delle ex potenze dominanti dell’area (Francia e Gran Bretagna) attuate attraverso accordi ben precisi. La disgregazione dello struttura statuale dell’Iraq ha avuto come conseguenza l’emergere di un caos che ha colto le truppe di occupazione americane completamente impreparate e che ha creato un vuoto di potere dove gruppi diversi, sostenuti dalle principali potenze regionali, si sono scontrate per il dominio sul Paese. La crescita del Gruppo Stato Islamico e di Al-Baghdadi sono state dovute alla debolezza del potere centrale di Baghdad e ad un’abilità nel combattimento e nella guerriglia, affinate anno dopo anno nelle fila della resistenza irachena all’esercito statunitense e ai suoi Alleati. Mettiamoci anche che molti amici dell’America hanno sostenuto economicamente e politicamente il gruppo estremista sunnita per tentare di rovesciare regimi autoritari non graditi ai più (leggasi Arabia Saudita con la Siria di Bashar Al Assad) ed il gioco è fatto. La stessa Washington aveva contribuito ad armare ed addestrare i Mujaheddin afghani nella guerriglia contro l’Unione Sovietica negli anni ’80, finendo così per creare lo zoccolo duro della futura Al-Qaeda. E anche lì sappiamo come andò a finire.
La linea adottata da Jeb Bush assomiglia di più a quella del classico scarica-barile: trovare un capro espiatorio da sacrificare, coprendo i veri colpevoli e cercando di chiudere le porte ad un dibattito serio e veritiero attraverso errori di interpretazione e personaggi influenti dello Staff che hanno creato un disastro e un mostro, con il quale oggi ci stiamo confrontando duramente.


19 maggio 2015

L'UE ha deciso: contro i trafficanti ci sarà una missione navale

Pronto il piano legale sulla missione navale per fermare gli scafisti in partenza dalla Libia

Federica Mogherini all'ONU || Fonte: si24.it

L’11 maggio l’Alto Rappresentante Federica Mogherini è intervenuta presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per presentare i futuri obiettivi dell’Unione Europea in materia d’immigrazione (qui il testo completo dell’intervento: http://bit.ly/1KBYpWF). Lady PESC ha sottolineato come l’attuale situazione sia di una drammaticità senza precedenti e quanto ci sia bisogno di una soluzione d’emergenza ad un fenomeno che è ormai diventato strutturale. Ciò che emerge dal discorso è un particolare accento sul concetto di sicurezza e non solo di emergenza umanitaria. I punti principali illustrati dalla Mogherini riguardano: aiuti ai paesi di origine e di transito dei migranti, migliori controlli alle frontiere in Libia e nei paesi confinanti, una serie di missioni contro i trafficanti di esseri umani e gli scafisti e la suddivisione dei profughi attraverso un meccanismo di quote tra i Paesi dell'Unione (di quest’ultimo punto abbiamo parlato qui: http://bit.ly/1Kag4HZ). In merito al terzo punto la Mogherini ha presentato una risoluzione sulla Libia ispirata al ”Capitolo VII” della Carta ONU (denominato “Azioni da intraprendere rispetto a minacce alla pace, violazioni della pace e aggressioni”) per autorizzare l’uso della forza. La risoluzione è stata preparata dalla Gran Bretagna e prevede una missione sotto il comando dell’Italia, quartier generale a Roma, con la partecipazione di circa una decina di stati. Si vorrebbero consentire tre tipi di operazioni militari: nelle acque internazionali, nelle acque territoriali di Tripoli, e nei porti, con la possibilità quindi di scendere a terra, se fosse necessario per rendere inutilizzabili i barconi. Il testo della risoluzione mette in collegamento il traffico degli esseri umani, la sicurezza e la stabilità della Libia. Lo scopo è eliminare il modello operativo dei trafficanti, individuando, catturando e distruggendo i barconi prima che siano usati per trasportare migranti. Per quanto riguarda il trattamento dei migranti che saranno fermati, rispettando le leggi internazionali, non potranno essere rimandati indietro. 

Basandosi sul “Capitolo VII” la risoluzione non avrebbe bisogno del via libera dello Stato interessato, ma i partecipanti non vogliono dare l’idea di voler invadere il Paese. È quindi in corso una discussione con il governo in esilio di Tobruk affinché invii una lettera che richieda l’intervento. Il problema però è il rapporto con l’esecutivo islamico di Tripoli, che controlla le coste di partenza dei barconi. Tobruk vorrebbe evitare un riconoscimento vero e proprio da parte dell’ONU del governo di Tripoli, ma almeno sul piano formale servirà l’assenso di quest’ultimo. Il mediatore ONU Bernardino Leòn e la Mogherini sono coinvolti nel negoziato con le autorità locali per la risoluzione e Leòn ha inviato una proposta di governo di unità nazionale alle due parti. L’ambasciatore libico all’ONU ha dichiarato di ritenere l’operazione “preoccupante”, lamentandosi del fatto che il governo di Tobruk sia stato contattato solo una volta redatto il piano della missione e non prima. In particolare ha espresso preoccupazioni in merito alla difficoltà di distinguere tra i barconi dei trafficanti e quelli dei pescatori. Critiche arrivano anche da diverse ONG che temono che l’operazione porti ad ancora più morti in mancanza di altre vie di fuga più sicure. Data la situazione politica dei paesi di origine, non sarà certamente quest’operazione a fermare i flussi migratori e il risultato potrebbe essere che ci saranno sempre più persone sui pochi barconi rimasti in circolazione o che addirittura i migranti cercheranno di costruire delle proprie navi. 

Fonte: oltrelostretto.blogsicilia.it
Lo Staff della Mogherini ha redatto un documento (“Crisis Management Concept”) contenente gli obiettivi della missione navale, che proprio ieri è stato approvato dai ministri degli Esteri e della Difesa dei ventotto stati dell’UE incontratisi a Bruxelles. La missione dovrebbe chiamarsi Eunavfor Med ed essere affidata all’ammiraglio di divisione Enrico Credendino. Secondo il sito Bruxelles2 specializzato nelle questioni di sicurezza e difesa Ue, i costi comuni dell'operazione (finanziati da tutti i paesi membri, salvo la Danimarca che ha un opt-out) ammonterebbero a circa 14 milioni di euro. La Mogherini ha ribadito che si esclude qualsiasi tipo di operazione militare sul territorio libico. Una volta ottenuto il mandato ONU, il piano della missione navale sarà presentato, per ottenere l’approvazione, al Consiglio Europeo del 25 e 26 giugno. Certo quanto avvenuto ieri da un forte segnale politico in merito alla volontà degli stati, ma la proposta dell’UE non avrebbe nessuna applicabilità senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza di una risoluzione. Per quanto riguarda i membri permanenti, se Francia, GB e USA sostengono apertamente l’Unione e la Cina sembra essere in linea di massima favorevole, lo stesso non può dirsi per la Russia. Quest’ultima teme che si possa ripresentare una situazione simile al 2011, quando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia per aiutare i civili libici fu in realtà usata dall’Occidente per rovesciare il regime di Gheddafi; chiede quindi che sia più chiaro che l’intervento deve essere consentito solo per contrastare il traffico. I Russi però non sembrano irremovibili. L’ambasciatore russo Vladimir Chizov ha detto alla testata giornalistica POLITICO che la Russia è pronta a collaborare con l’UE e i suoi stati membri per risolvere la situazione del Mediterraneo, anche su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. L’Europa spera che la risoluzione venga approvata durante le prossime settimane in modo che dopo il Consiglio Europeo possa già essere messa in pratica. 

18 maggio 2015

La realtà è incostituzionale o la costituzione non è reale?

Come in molti sanno, di recente la corte costituzionale ha emesso una sentenza che boccia il blocco dell'adeguamento all'inflazione delle pensioni dai 1443 euro netti al mese in su, inserito nel pacchetto “Salva Italia” dal governo Monti nel 2011. L'impatto sui conti pubblici della restituzione totale della somma dovuto da parte dello stato è stato inizialmente stimato in un buco di bilancio tra i 13 e i 19 miliardi, poco compatibile con la disciplina fiscale impostaci dall'Unione Europea. Nei giorni scorsi il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e i suoi collaboratori hanno cercato la soluzione più giusta e più sostenibile possibile per rimborsare almeno alcuni dei pensionati coinvolti dal pronunciamento della Consulta. Alla fine si è deciso di procedere attraverso la restituzione di un bonus "una tantum" per una platea che esclude 650mila pensionati che avrebbero potuto accedere al rimborso, ma che ricevono più di 3.200 euro lordi come pensione mensile. Il meccanismo è quello di una restituzione a scalare con il crescere del reddito pensionistico. La scelta del bonus una tantum e dell'esclusione di una parte di aventi diritto permette al Tesoro di limitare l'impatto della manovra sui conti pubblici.

renzi padoan
Matteo Renzi e il Ministro Padoan in conferenza stampa // ilfattoquotidiano.it

La sentenza ha scatenato molte critiche, riuscendo a suscitare la disapprovazione di economisti, esperti di politica e perfino giuristi, oltre che l'indignazione di una discreta fetta di opinione pubblica. I pronipoti di Adam Smith e Karl Marx hanno accusato la Corte di non attribuire benché minima importanza alla situazione finanziaria dello stato e di non prendere in considerazione a sufficienza le conseguenze delle loro decisioni. Personalità come l'ex premier Romano Prodi (non di certo uno sfrontato oppositore dello status quo istituzionale) hanno lamentato l'invasione di campo da parte dei giudici su una materia come la gestione delle risorse pubbliche, che dovrebbe essere di competenza esclusiva degli organi politici. Uno degli stessi giudici della corte costituzionale, Sabino Cassese, ha messo in discussione sul Corriere della Sera il tipo di sentenza, ritenendola eccessivamente vincolante per l'esecutivo. Infine molti cittadini suppongo si siano un po' corrucciati di fronte alla tutela di una fascia di persone che probabilmente non sono tra le più in difficoltà in questo momento.

Io vorrei però evidenziare una questione che prescinde dalla circostanza specifica: da diversi punti di vista noi viviamo in una realtà dei fatti chiaramente incostituzionale.

Esulando dal discorso dai toni vagamente complottistici sulla sovranità nazionale in mano ai “poteri forti” globali, sono in particolare i diritti economici e sociali disegnati nella nostre fonte di diritto primaria a non esistere più nella quotidianità. Pur non essendo un grande esegeta delle costituzione talvolta le contraddizioni sono inequivocabili. Contraddizioni tra una repubblica che dovrebbe “rimuovere gli ostacoli […] che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il peno sviluppo della persona umana” e una diseguaglianza galoppante. Contraddizioni tra uno stato che dovrebbe tutelare il lavoro “in tutte le sue forme” e che invece abdica alle leggi del mercato. Tra un presunto diritto ad una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa”e forme di contratto precarie e sottopagate.

Qualcuno mi potrebbe ribattere che tanti elementi enunciati nella costituzione non erano, non sono e forse mai saranno, rispettati pedissequamente nella realtà. Beh, allora così il documento non diventa altro che una sorta di lista dei desideri, una serie di principi limite a cui si dovrebbe tendere nella costruzione di una società esemplare. Non mi pare che sia questa la funzione della Costituzione. La stessa Consulta serve a sanzionare le leggi e gli atti incostituzionali e non ad applaudire occasionalmente l'effettiva realizzazione delle norme nella prassi.

Quindi la realtà dei fatti non è costituzionale e dovrebbe teoricamente esserlo.

Ma anche la Costituzione è stata scritta in una realtà ben precisa e temporalmente lontana da noi. Una realtà appena uscita da una opprimente dittatura fascista e da una guerra devastante e mortifera. Una realtà che allo stesso tempo però offriva spazio di immaginazione (ed economico grazie anche al Piano Marshall statunitense) per realizzare una società equa, attraverso uno stato sociale ampio, ricompensando così tutti coloro che avevano pagato il prezzo del conflitto militare ed assicurando un futuro migliore alle nuove generazioni. Una realtà complicata ma sicuramente molto diversa da quella attuale, condizionata da un quadro politico, economico e sociale radicalmente mutato rispetto ad allora, tanto a livello domestico quanto a livello internazionale.

E questo è il rovescio della medaglia: una costituzione che non può che diventare sempre più datata. Ormai l'interpretazione ortodossa e letterale di alcuni dei suoi principi, invece di essere ritenuta inoppugnabile viene, con anche qualche ragione, contestata, con la motivazione che i nostri padri costituenti (che in fondo non erano altro che uomini e, soprattutto, politici) vivevano in un'altra epoca.

Tra difese aprioristiche della assoluta sacralità e inviolabilità del documento costituzionale e riformismi a tutti i costi la verità sta forse nel mezzo, come sempre. La Costituzione è fondamento necessario dei nostri valori e della nostra storia ma dovrebbe essere letta costantemente e senza preclusioni ideologiche alla luce degli sviluppi della società italiana. Per farla incontrare con una realtà completamente differente ed intrinsecamente in cambiamento.






Matteo Salvini: due pesi e due misure

Lo scopo dei Black Bloc che hanno messo a ferro e fuoco Milano poco meno di un mese fa è quello di far sentire la propria voce anticonformista diretta e avversa all’Esposizione Universale, rea secondo il loro punto di vista di aver rubato miliardi di euro ai cittadini italiani, distribuendoli ai soliti noti. Le accuse e le prese di distanza da questi avvenimenti sono arrivate da tutte le forze politiche, le quali hanno condannato, giustamente, sia la forma che la sostanza di quanto avvenuto. Ma c’è chi, come al solito, ha trovato il pretesto per lucrare, per contestare, per criticare e per fare campagna elettorale. 
Il protagonista è sempre e solo lui: Matteo Salvini. 
Che il leader del Carroccio faccia propaganda elettorale sulle spalle di tristi avvenimenti non è una novità, ma la cosa che mi ha colpito maggiormente sono i due pesi e le due misure che Salvini ha usato, usa e magari userà in futuro riguardo ai fatti che avvengono in Italia e nel resto del mondo, e cioè la reazione che il segretario della Lega ha e ha avuto nei confronti dell’operato di personaggi a lui ostili e quella che invece sostiene e ha sostenuto quando chi è coinvolto è qualcuno che fa parte del suo stretto cerchio magico. 
Salvini, appresa la notizia di quanto avvenuto per le vie di Milano ha dapprima condannato l’accaduto e i colpevoli di esso e in secondo luogo ha allargato il suo orizzonte polemico chiedendo le immediate dimissioni del sindaco meneghino Giuliano Pisapia, del Ministro degli Interni Angelino Alfano e del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, rei, secondo Salvini, di quanto accaduto, non avendo adempiuto doverosamente al loro compito di prevenire, controllare e successivamente punire con severità i fatti e i colpevoli di questi. 
Un fondo di verità c’è nelle accuse di Salvini, ma quello che manca sempre, oltre ad un filo logico superiore al bar di paese, è quel senso di coerenza che sta diventando sempre più oltrepassabile nella politica dei giorni nostri con un semplice “chissenefrega”. 
Ma perché Salvini non dovrebbe essere coerente? 

Forse non ricorderete bene, ma nell’ottobre 2011 a Roma, in Piazza San Giovanni, si sono verificati violenti scontri tra le forze dell’ordine ed esponenti di Occupy Movement, un movimento di protesta internazionale contrario alla disuguaglianza economica e sociale, che ha portato ad una situazione di guerriglia urbana nelle vie capitoline. 
Emblematica è la scena di un manifestante che sta lanciando un estintore contro le forze dell’ordine. 
Bene, all’epoca il Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il Ministro degli Interni era Roberto Maroni, attuale Governatore della Lombardia ed ex segretario federale della Lega Nord. All’epoca Salvini aveva invocato le dimissioni dell’allora Ministro, dell’allora sindaco e dell’allora Premier? La risposta è ovviamente no, ma aveva posto l’attenzione solo sulla violenza e sulla deficienza dei manifestanti additati come zecche comuniste. Perché Salvini non ha chiesto le dimissioni del suo amico Maroni? Forse perché non era ancora Segretario della Lega? Forse perché all’epoca, il suo partito, non era all’opposizione? O forse perché Roberto Maroni era “uno dei suoi” e le colpe erano solo delle zecche comuniste? 

Un altro aneddoto che denota il repentino cambio di idee che solitamente il leader leghista ha, riguarda un fatto risalente poco tempo fa. Sull’onda di sondaggi favorevoli, Salvini si è sentito abbastanza forte da dichiarare che non avrebbe mai stretto alleanza con altri soggetti del centro destra che non avrebbero avuto le stesse idee e gli stessi progetti politici della Lega Nord. Per la prima volta nella storia, sarebbe stata la Lega a dettare le condizioni di alleanza e non di subirle. 
Tempo un paio di mesi e Salvini, in vista delle elezioni regionali del prossimo 31 maggio, ha stretto un accordo con Forza Italia in tutte quelle regioni in cui la Lega si presenterà, e ha inoltre deciso di mettere da parte il suo candidato ligure Edoardo Rixi per far spazio al forzista Giovanni Toti, in segno di rispetto nei confronti di Silvio Berlusconi. 
Anche in questo caso il “celodurismo” salviniano si è afflosciato molto in fretta, cambiando rapidamente strategia in rapporto alla velocità di cambiamento della situazione. 
C’è da dire però che Salvini si sta dando da fare, sta girando l’Italia in lungo e in largo trovando piazze piene di gente che lo acclamano e lo considerano come un eroe. In ogni luogo, in ogni città e in ogni piazza visitata, Salvini posta su Facebook una foto della gente che lo applaude, molta, e di quella che lo contesta, poca, quest’ultima definita “sfigata”, “poverina”, “nulla facente” e “parassita”.  È sfigata, poverina, nulla facente e parassita solo perché non la pensa come lui? 
Dopo le dure proteste contro EXPO, Giuliano Pisapia è stato accolto sul luogo degli scontri con cori di scherno, lancio di uova e di ortaggi e striscioni offensivi. Salvini ha commentato entusiasta il fatto, consigliando al sindaco milanese di dimettersi perché a quanto pare i milanesi non sono più dalla sua parte. 

Ecco i due pesi e le due misure di salviniana memoria. Chi contesta lui è uno sfigato, uno che dovrebbe andare a lavorare e che non sa cosa sia la democrazia, mentre chi contesta un suo avversario politico è paradigma e termometro di una situazione che sta cambiando. Salvini si comporta da abile animale politico in una situazione che lo sta favorendo e che lo sta facendo crescere nei sondaggi, ma non abbastanza. 
Il leader del carroccio sta avendo presa sui cittadini in difficoltà, non perché li aiuti, ma perché dice quello che loro vogliono sentirsi dire. Leggendo il programma politico, nelle intenzioni di Salvini ci sarebbe quello di fermare l’immigrazione usando la guardia costiera a difesa dei confini nazionali, di abolire la legge Fornero, di aiutare prima gli italiani e poi tutti gli altri, garantendo aiuti economici e di uscire dall’euro, perché con la lira eravamo la quinta potenza mondiale. 
Mentre davo un’occhiata al programma mi continuava a venire in mente, e non so perché, il film “Qualunquemente”, dove il protagonista, Antonio Albanese, si era candidato a sindaco della sua cittadina calabrese senza sapere nulla di politica, e la sua propaganda si basava sostanzialmente su un compenso di 2000 euro per ogni famiglia che lo avrebbe votato, con annessa imbiancatura completa della casa e posto di lavoro come guardia forestale. 
Ecco, la situazione è più o meno questa. Proposte ad effetto che non possono però essere praticate, ma che alla gente piace sentire. 
Salvini, però questo non è un film, e rischi pure di passare come Albanese. Sia mai. 


16 maggio 2015

SundayUp - Johan Harstad, "Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?" (2005) Iperborea, mon amour

Leggere è un po’ come andare in aereo: si sente la partenza, poi generalmente c’è una lunga fase di stasi, magari funestata da qualche turbolenza, ma mai niente di grave, e infine si atterra e tanti saluti. Di solito i libri sono così: partono, stanno un po’ su e poi atterrano; aprono, cambiano aria e poi richiudono. Descrivono sempre una specie di curva, che torna poi ad adagiarsi sull’asse da cui è partita (attenzione, però: non sto dicendo che tornano al punto di partenza).
All’inizio di un giallo di Agatha Christie la situazione è tranquilla, e alla fine pure. Certo, c’è stato un delitto in mezzo e alla fine si è scovato l’assassino, quindi la realtà è cambiata, ma alla fine si è tornati di nuovo alla tranquillità. Così funziona la maggior parte dei libri, storici, fantasy, noir e tutta la narrativa in generale.

Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? invece non è uno di questi, e per uno strano imprinting l’ho capito dopo averne letto le prime due righe: “La persona che ami è fatta per il 72,8% d’acqua e non piove da settimane”. È stato così folgorante nella sua assurda chiarezza (“frittatona di cipolle e ossimoro libero” direbbe qualcuno) che non poteva che svilupparsi in modo non convenzionale.
Il protagonista, Mattias, ha nella vita un solo desiderio: passare inosservato. Nascondersi nella massa, non emergere, essere colui che compie il proprio dovere senza lamentarsi per poi scomparire. Come il suo idolo Edwin “Buzz” Aldrin, secondo uomo sulla luna, che per un momento pensò di dare una spinta ad Armstrong e diventare lui il primo, nello stesso giorno della nascita di Mattias, il 20 luglio del 1969, ma subito rinunciò all’idea, persuaso di dover compiere il suo dovere anche sacrificando la fama.


Mattias all’inizio del romanzo è un giardiniere norvegese di 29 anni, che trova nella cura di piante e fiori la realizzazione dei suoi ideali di tranquillità e serenità. Sembra che trovi sollievo nella lenta ma inesorabile crescita delle sue piante, così come nella sua storia d’amore con Helle, che dura ormai da circa quindici anni. Una specie di idillio della normalità: tutto funziona, tutto cresce lentamente ma costantemente, tutto resta meravigliosamente e normalmente uguale.
Naturalmente questa normalità nel giro di poche pagine verrà spazzata via da eventi che non scriverò di certo: basti sapere che Mattias si lascerà convincere dal suo migliore amico Jørn a partecipare come tecnico del suono a una trasferta della sua band per un festival che si tiene alle isole Fær Øer, sperduto arcipelago quasi indipendente dalla Danimarca piazzato in mezzo all’Atlantico: probabilmente quanto di più simile alla Luna si possa trovare a poche ore di viaggio dalla Norvegia. Le isole sono aspre, scoscese, umide, fredde, vi si parla una lingua diversa da tutte le altre lingue scandinave, sono abitate da poche persone, sparse tra innumerevoli villaggi che spesso contano meno di dieci abitanti. E soprattutto alle Fær Øer non esistono alberi, perché la salsedine e il vento costante ne impediscono la crescita.
In questa natura tutt’altro che ospitale, che sembra riflettere tutt’a un tratto il mondo interiore improvvisamente spalancatosi dentro Mattias, accadranno ancora numerosi avvenimenti che non rivelo, ma che continueranno inesorabili a destabilizzare il lettore, che non riuscirà mai a vedere la pista d’atterraggio. In questo senso potremmo dire che questo libro non è un volo di linea, ma una partenza verticale su uno razzo, come l’Apollo 11. Continua ad alzarsi costantemente, in un’unica, regolare ma ripida curva dall’inizio fino alla fine. Ecco spiegata la mia strana sensazione, colta nell’incipit e poi confermata dalla lettura di tutto il libro.

Non si può non amare Mattias, è semplicemente impossibile. La disarmante sincerità con cui si rivela al lettore (il libro è in prima persona) lo rende un personaggio da imitare, anche se non è certo esente dai difetti che presto o tardi colgono ognuno di noi. A momenti rasenta una sorta di sublime declinazione dello zen, ad esempio quando si propone di scrivere un libro:

Manuale di base per una vita lunga e felice. Metodo in tre fasi.
Inspirare.
Espirare.
Ripetere secondo necessità.”

Insomma, si tratta senz’altro di un libro che vale la pena di leggere, qualcosa di catartico, a suo modo.
Leggetelo se vi piacciono la natura selvaggia, i mari in tempesta, i Natali in solitaria, le barche e le balene, le piante e i fiori, le cliniche per ex pazienti psichiatrici, il pop svedese. O le partenze senza l’obbligo di pensare al ritorno.


Omosessuali in Medio Oriente, tra stragi più e meno mediatiche


Il 17 maggio viene celebrata la «Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia». A vent’anni dalla rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali pubblicata dall’Organizzazione mondiale della sanità, il 17 maggio 2005 Louis-George Tin, attivista e ricercatore francese, curatore del Dictionnaire de l’homophobie (PUF, Parigi 2003), propone di proclamare una Giornata internazionale e fonda l’International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia. Il 26 aprile 2007, una risoluzione del parlamento dell’Unione Europea riconosce ufficialmente la giornata internazionale e invita tutti gli Stati membri a promuovere leggi antidiscriminatorie e a condannare i discorsi discriminatori che alimentano odio e violenza nei confronti degli omosessuali. Nel 2015, l’Italia è uno degli ultimi paesi dell’Unione a non aver ancora adottato nessuna legge che riconosca i diritti delle coppie dello stesso sesso e che condanni i crimini d’odio e le violenze a carattere omofobico e transfobico.



Nonostante l’opinione contraria di molti, come quella dell’imam franco-algerino Ludovic Mohamed Zahed che ha addirittura celebrato matrimoni omosessuali, il trattamento che viene riservato ai soggetti LGBT nei paesi a maggioranza islamica è senza dubbio problematico, se non drammatico. Non solo da un punto di vista sociale, ma anzitutto da un punto di vista legislativo, visto che nella stragrande maggioranza di questi Paesi l’omosessualità è illegale. La repressione penale dell’omosessualità è infatti ampiamente praticata in tutti i Paesi islamici, salvo poche eccezioni, quali la Giordania, la Turchia, il Bahrein, l’Indonesia e di recente il Libano.
Nella cronaca internazionale queste realtà sono spesso dimenticate; anche, troppo spesso, da blog, quotidiani, e associazioni che si occupano di diritti LGBT: è forse molto più rassicurante parlare dell’ultimo riconoscimento di un matrimonio gay di un giudice dell’Ohio (battaglia comunque importantissima), che parlare di interi paesi dove milioni di omosessuali sono sottoposti a un vero e proprio “divieto di esistere”.
Gli ultimi eventi che attirano i media internazionali sono però quelli inerenti l’espansione, ideologica ancor più che geografica, dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. La politica del Califfato ha infatti acceso i fari dell’attenzione dell’opinione pubblica, non solo occidentale, sulla crudeltà riservata dallo stesso ai diversi, diversi uccisi in nome di una ideologia che vive del culto del dogma.
E così, insieme alle immagini dei giornalisti occidentali decapitati dal sanguinario Jihadi John, e insieme alle immagini degli attentati che hanno coinvolto l’Oriente come l’Occidente, abbiamo visto le immagini del trattamento riservato agli omosessuali siriani, iracheni, nigeriani e libici nelle terre occupate dai jihadisti. Vere e proprie mattanze a dire il vero tragicamente scenografiche: il 3 febbraio, per esempio, è salito agli onori delle cronache il video che ritrae gli estremisti spingere i presunti gay dagli alti palazzi delle città conquistate, e finire con la lapidazione coloro che, gravemente feriti, sopravvivevano alla caduta. Il 10 marzo, invece, è il turno della decapitazione in piazza, per diversi uomini ritenuti omosessuali e catturati all’interno della Provincia di Ninive. In molte occasioni, insieme ai jihadisti, a lapidare i pochi sopravvissuti vi erano donne e bambine. E non c’è da stupirsi: è vero ed evidente che in terre dove governano l’arretratezza e la povertà innanzitutto culturale e una concezione primitiva e fideistica della religione gli uomini del Califfo Al Baghdadi (che, tra l’altro, secondo i suoi detrattori, sarebbe egli stesso un omosessuale dedito all’alcoolismo) abbiano trovato terreno fertile per la propagazione dell’odio.
Queste stragi cruente, puntualmente videoriprese e documentate, hanno senza dubbio un obiettivo più mediatico che punitivo. L’ISIS in sé e per sé, molto più che organizzazione religiosa e politica, è infatti un’organizzazione che si nutre della battaglia mediatica, per diffondere un’ideologia intrinsecamente anti-occidentale, a prescindere dal discorso religioso. Ciò che ama l’Occidente è Male: quindi è male, ad esempio, anche se nulla c’entra con la religione islamica e col Corano, permettere ai reperti storici nei musei di restare intatti. Così come è male permettere agli omosessuali di esistere e di essere tollerati, come succede nei paesi occidentali.
L’uso della persecuzione omosessuale come strumento mediatico di acquisizione del consenso non è una novità storica: anche in Russia, ad esempio, Putin usa la questione omosessuale come componente importante della propria propaganda contro il “buonismo e il diritto-umanesimo democratico”, che porta a corruzione e decadenza morale nelle terre dell’Ovest.
Le stragi di omosessuali in Medio Oriente sono sempre state però ordinaria amministrazione, ma ora sono riprese e sono portate alla luce a causa dell’attenzione mediatica sull’ISIS. Gli estremisti islamici da tempo dilaniano uno stato fallito come la Somalia, imponendo la Sharia e lapena di morte per gli omosessuali nelle terre dominate. Esiste inoltre una vera e propria pena di morte per omosessualità in moltissimi paesi, di cui i media occidentali si ricordano in pochissime occasioni e per pura convenienza politica: è il caso ad esempio delle impiccagioni omosessuali in Iran, di cui si parlava moltissimo durante la Presidenza dell’antiamericano Ahmadinejad e di cui ora parrebbe che tutti si siano dimenticati. Per non parlare della Sharia accettata in tutte le Regioni a Nord della Nigeria, della pena di morte nel Sudan di Al Bashir, così come nel caos dello Yemen, nel Brunei, ma anche nella Mauritania e nell’Arabia Saudita di quei dittatori e re che all’ultimo G20 stringevano la mano a tutti i capi di Governo occidentali.
Talvolta la repressione omosessuale viene usata addirittura per risolvere questioni di politica interna, e per praticare altri tipi di repressione. È il recente caso, ad esempio, della Malaysia, ove l’omosessualità è punita con la reclusione, e ove il capo dell’opposizione all’ormai sempre più autoritario Najib Razak, Anwar Ibrahim, è stato condannato al carcere a cinque anni per sodomia, secondo molti commentatori, affinché il Primo Ministro potesse toglierselo di mezzo.
L’attualità a cui l’ISIS ci impone di confrontarci dovrebbe contribuire a risvegliare le coscienze di tutti i cittadini, a prescindere dalle appartenenze politiche o religiose. Ma con un’Europa sempre più reazionaria e in crisi politica, morale e valoriale, le cose si fanno difficili anche per chi dovrebbe dare l’esempio.
S. K.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul sito iosonominoranza.it, si trova qui grazie alla collaborazione attiva con The Bottom Up.

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