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30 aprile 2015

The Bottonomics - Boeri: il nominato dissidente


Le vittime politiche del nostro presidente del consiglio sono ormai innumerevoli, nell'ordine: Civati e Cuperlo alle primarie, Letta che non sta sereno, Berlusconi sul Presidente della Repubblica, Lupi con una macchina del fango che Belpietro ha solo da imparare e per ultima la Rossa ciliegina sulla torta della componente dissidente del Partito Democratico, epurata in toto dalla commissione parlamentare sulla riforma elettorale (!). Ma quindi il Blair di Palazzo Vecchio è definitivamente solo al comando della nave e soprattutto della corsa politica?
Se per quanto riguarda la politica tradizionale, non andando troppo nei particolari che questa è materia del nostro Caro Direttore, si può affermare un piuttosto convinto, con anche il tifone Salvini che pare abbia perso un poco di intensità, è da esaminare attentamente un altro lato lasciato momentaneamente scoperto, ovvero i tecnici troppo politici (Cottarelli, where are you?).

Ad esempio il Consiglio dei Ministri nominò, al termine del 2014, Tito Boeri alla presidenza dell'INPS.
Questo economista piuttosto popolare e primo propositore di un contratto a tutele crescenti in Italia (anche se con caratteristiche decisamente diverse da quello successivamente varato dal Jobs Act) già da qualche anno si è dimostrato parecchio attivo su alcune tematiche calde come l'unificazione dei contratti, appunto, ma anche riguardo a pensioni, reddito minimo e amenità varie che da tutti ci si potrebbero aspettare tranne che da un Bocconiano.

Il contribuente medio che Boeri vuole salvare.
Beh, si diceva, questo eretico del tempio neoliberista probabilmente non ha troppo gradito questa carica, o meglio, non ha ben accolto l'accorpamento dell'Inpdap ed Enpals all'INPS anche perché questi due istituti hanno dei buchi di bilancio che anche uno Tsipras qualunque si potrebbe preoccupare.
Quindi che fa al posto di ringraziare? Inizia a fare di testa sua e a dettare una linea politica.

Infatti se ne esce con la proposta di garantire un reddito minimo ai disoccupati over 55 poiché «non credo che dare loro un trasferimento - che sarà basso - li esponga al rischio di non mettersi in cerca di un lavoro» e soprattutto poiché si tratta di soggetti che «difficilmente trovano un nuovo impiego (solo il 10%)». 

E i fondi? «Dalle pensioni alte, molto alte». Non si parla di una cifra vera e propria, ma si pensa ad una soglia di almeno 2000 €. In sostanza un contributo di solidarietà anche perché «riteniamo che ci sono delle persone che hanno delle pensioni molto alte che non sono giustificate dai contributi che hanno versato durante l'intero arco della vita lavorativa. A mio giudizio c'è un problema di equità che andrebbe affrontato».

Non male, a mio parere.



Poletti ha provato a smentire, ma Boeri continua a tirare dritto per la sua strada e rivendica la sua libertà di fare proposte. Ma si tratta di proposte o di manovre vere e proprie? Perché questo provvedimento andrebbe decisamente al di là delle competenze dell'Istituto. E di lì è un attimo arrivare ad un ricorso in Corte di Cassazione o in Europa che poi potrebbero far notare dei problemi di legittimità. E magari l'INPS dopo dovrebbe fare marcia indietro o, ipotesi non da escludere, si dovrebbe estendere il sussidio a tutti tramite legge. Cosa sacrosanta.
Ma questo vorrebbe dire che un Presidente nominato legifera in vece del nominante (aka Renzi).

Io punto su un'altra tacca, insieme alle 38 in arrivo da ieri, alla cintura di Mr.R.

Andrea Armani

29 aprile 2015

Salvini e i Rom: toglietemi tutto, ma non Facebook

“Due ZINGARE minorenni: "Rubare è una cosa bella, lo faremo per tutta la vita, non ci fanno niente, freghiamo 1.000 euro al giorno".
SGOMBERARE tutti i CAMPI ROM, con la Lega si può!”. 
Per queste parole di un un post di una settimana fa, Matteo Salvini, leader della Lega Nord, è stato “bannato” per 24 ore da Facebook ed è stato fatto oggetto di critiche e di apprezzamenti da parte dell’opinione pubblica. 


Il post di Salvini commentava un’intervista fatta a due giovanissime ragazze Rom, una di tredici e l’altra di quindici anni, le quali si vantavano delle loro qualità di ladre, sbeffeggiando sia le vittime che la giustizia italiana, quest’ultima rea di non aver applicato, e di non applicare tutt'ora, le adeguate contromisure a questo loro reato.  Salvini, come sempre, non ha usato mezzi termini per condannare il contenuto del video, e su questo non si può che essere d’accordo con il leader leghista, solo dopo aver appurato, però, la veridicità delle parole delle due ragazze. Ma, come sempre, il segretario del Carroccio non è riuscito a dire e fare due cose giuste in un tempo relativamente breve, condannando tutta la popolazione Rom, o meglio tutta quella parte che ancora vive nei cosiddetti Campi-nomadi. 
Fare di tutta l’erba un fascio è una peculiarità "salviniana", tanto che dal mio modesto parere si potrebbe pensare ad un copyright tanto legittimo quanto ridicolo. Se si dovesse perseguire la via della generalizzazione di "salviniana" memoria, potremmo affermare che tutti i leghisti sono ladri, o meglio sono tutti Belsito, Renzo Bossi e compagnia cantante, oppure che tutti gli afroamericani sono dei grandi giocatori di basket, fino a dire che tutti i napoletani sanno fare la pizza. 
Salvini, dopo aver ricevuto critiche e dopo aver visto chiudere il proprio profilo Facebook (si per lui è questione di vita e di morte, altrimenti non potrebbe più spiegare lo spasmodico utilizzo del suo fidato scudiero iPad) si è difeso inventandosi che almeno il 95% degli italiani la pensa come lui in fatto di Rom, ancora una volta mentendo su numeri e dati. 

Ora proviamo a dargliene alcuni noi, provando a spiegare chi sono i Rom, da dove vengono e perché sono da sempre al centro di polemiche. 
I Rom sono uno dei principali gruppi etnici originari dell’India che parlano dialetti intercomprensibili costituenti il Romanì, dal quale deriva il loro nome. Essi vivono principalmente in Europa, soprattutto nei Balcani e nell’Europa occidentale, ma anche negli Stati Uniti e in altri continenti. Oggi gli Stati Uniti ospitano 1 milione di Rom, la Francia 500 mila, la Spagna 650, mentre l’Italia 180 mila. Tra di essi vi sono i Sinti, che sono piemontesi e lombardi, la cui lingua è influenzata dall’italiano e dal piemontese. 
La storia dei Rom è una storia di oppressione, che va dalla discriminazione alla persecuzione, ed è sempre stata oggetto di critiche in ogni parte del mondo.  Facendo un rapido calcolo sul totale della popolazione, scopriamo che nel nostro Paese essi rappresentano lo 0.25%, il quale scende ad un misero 0.06% se consideriamo coloro i quali vivono ancora nei cosiddetti campi (40 mila unità). Quasi la metà di essi, circa 70 mila, ha cittadinanza italiana. 
Lo scandalo nato dal post di Salvini ha aperto un dibattito sia sui campi-nomadi ma anche sulle reali origini di questo popolo. In passato il termine “zingaro”, con il quale sono spesso additati i Rom, aveva un’accezione oscura: si pensava a chi leggeva la mano, a chi toglieva il malocchio, a chi conosceva il mondo esoterico. Oggi questo significato è stato perso del tutto, così come il fatto che i Rom debbano e possano vivere in sporchi, degradanti e insicuri campi.
Si, nel 2015 credo che non sia più ammissibile che ci siano delle persone che possano vivere in condizioni di degrado totale, senza avere il dovere e il diritto di essere uguali a tutti gli altri. Ma la soluzione non è quella auspicata da Salvini. Con la forza non si ottiene mai nulla, e il “radere al suolo” i campi Rom  non può far altro che aumentare il disagio sociale e creare uno stato di confusione che per il momento c’è solo nella testa del leader leghista. 
I campi nomadi sono gabbie costruite su base etnica, sono una nostra invenzione e rappresentano una forma dell'abitare che è estranea alla consuetudine abitativa di rom e sinti, la quale è stata abusata dall’ex Ministro degli Interni Roberto Maroni. La soluzione del compagno di partito Salvini creerebbe un ulteriore problema, quello di avere migliaia di persone sul ciglio della strada senza nulla con cui vivere, senza un tetto, una fonte di guadagno sicura e soprattutto con una discriminazione senza precedenti nella storia delle etnie. 

I Rom costituiscono un problema minimo, dato il loro numero e la loro “pericolosità”, e la “ruspa” di Salvini non è altro che un modo di accaparrarsi voti facendo leva sulle emozioni e sulla pancia di un popolo ormai stanco, timoroso e chiuso nei confronti del diverso. Il leader del Carroccio questo lo sa fare, e anche bene, ma la prova del nove lo attende il prossimo 31 maggio alle elezioni regionali in Veneto, Liguria, Toscana ed Umbria. Se dovesse vincere solo in Veneto, con il candidato uscente Luca Zaia, dovrebbe ritirarsi a vita privata, perché in quasi due anni di segretariato è stato l’unico uomo politico della storia ad aver incrementato il proprio consenso pur perdendo ogni partita giocata. 
In caso contrario, invece, tanto di cappello all’opera di restyling fatta con la Lega, ma comunque non sufficiente per arrivare al Governo. Salvini sta già commettendo dei passi falsi, passando dall’espulsione di Flavio Tosi per finire con l’alleanza con Silvio Berlusconi e Forza Italia per le elezioni regionali, dapprima lodando, e poi silurando il candidato Governatore leghista Edoardo Rixi per accontentare il leader forzista con il suo candidato Giovanni Toti in Liguria. 

Concludendo e tornando al nodo centrale del discorso, Salvini, come per gli sbarchi, ha soluzioni veloci, che spesso gli fanno avere applausi dal pubblico di qualche trasmissione televisiva, ma inconcludenti, destinate a rimandare il problema senza risolverlo alla radice. Un problema di integrazione, per una minima parte di Rom, c’è ed è sotto gli occhi di tutti, ed è giusto battersi affinché essi possano avere uguali diritti ed uguali doveri come tutti gli altri, ma questa strada deve essere percorsa con riforme radicali e forti, e non con condanne e violenza. L’uso della forza non può far altro che peggiorare la delicata situazione attuale, e questo Salvini lo sa fin troppo bene. 

28 aprile 2015

Nereo Rocco: l'uomo semplice che cambiò il calcio

Solo davanti 
a un fiasco de vin 
quel fiol d'un can fa le feste 
perche' xe un can de Trieste 
perche' xe un can de Trieste 
Davanti 
a un fiasco de vin 
quel fiol d'un can fa le feste 
perche' xe un can de Trieste 
e ghe piasi il vin!



Lelio Luttazzi, conduttore radiofonico e televisivo, attore, cantante, musicista, regista, direttore d’orchestra, regista e tante altre cose, ha regalato alla sua città un inno all’autoironia tipica del popolo che la abita. Un cane di Trieste, lontano da casa, è sempre triste, tranne davanti a un bicchiere (o magari due) di vino. Alla fine, a bere, non è solo il cane, ma anche il padrone, che così, puzzando di vino, riceve le coccole del cane. E il vino ritorna anche nella storia di uno dei triestini più importanti, celebrati e vincenti dello sport italiano. In una intervista faccia a faccia del 1974, Gianni Brera lo descrive così. “L’aspetto è dell’ex atleta, che ha smesso di correre e che ha onorato Iddio in tutte le sue creazioni, compresi i cibi buoni e soprattutto i vini.” E nel corso dell’intervista il vino non manca. Eppure Nereo Rocco, dall’aspetto così bonario e mai restio ad accettare un bicchiere di teràn, è stato uno dei principali innovatori della storia del calcio, italiano e mondiale. 

nereo rocco
Per vent’anni, l’Italia era stata dominata dal “metodo”, il WW, oppure usando i numeri il 2-3-2-3, formazione fascistissima che aveva portato la fascistissima Nazionale a vincere due mondiali consecutivi, nel 1934 e nel 1938, sotto la guida di Vittorio Pozzo. Ma alla fine della guerra qualsiasi riferimento con il passato, per quanto vincente, venne obbligatoriamente e magari troppo velocemente abbandonato, Pozzo venne fatto dimettere e il metodo venne bollato come anticalcio. Venne importato il “sistema”, l’inglese WM (3-2-2-3), che però prevedeva scontri uno contro uno in ogni posizione del campo e finì per favorire le squadre con l’organico migliore: sono gli anni del Grande Torino, che con il sistema domina in Italia ed impressiona il mondo, finché Superga non li strappò dall’Olimpo del calcio tornando da una trasferta in Portogallo. Le squadre piccole allora, per contrastare la superiorità delle grandi, cercarono nuove strade. Una di queste, quella che si rivelò più funzionale e vincente, fu introdotta proprio da Nereo Rocco nella sua Triestina. Creato da Karl Rappan al Servette in Svizzera, il “mezzo-sistema”, conosciuto in Italia come catenaccio, creava una superiorità davanti alla propria area attraverso l’introduzione del libero dietro la difesa, con un sistema che si può riassumere in un 1-3-3-3. Il libero aveva anche compiti di regista arretrato, e libertà (come suggerisce il nome) di aiutare i difensori nelle marcature. Quella Triestina, anche grazie a sovvenzioni della Lega e dalle altre società (data la situazione particolare della città, divisa tra Jugoslavi e anglo-americani) riuscì a creare una squadra competitiva. Nella stagione precedente all’arrivo di Rocco, l’alabardata era arrivata ultima in un campionato vissuto tra mille difficoltà e giocato per metà a Udine, data l’occupazione, ma venne ripescata. Nella stagione di debutto di Rocco sulla panchina, la Triestina arrivò seconda, pari merito con Juventus e Milan e dietro al Torino, con otto sconfitte su quaranta partite, di cui nessuna in casa. Nereo non riuscì a ripetersi, ma ottenne comunque due ottavi posti nelle due stagioni successive. L’anno dopo, per motivi mai del tutto chiariti, Rocco venne esonerato. Si accasò al Treviso in serie B, salvo essere richiamato a Trieste, per poi venire nuovamente allontanato. Dal quartiere di Rozzol Melara, ora famoso per il complesso di edilizia popolare di lecorbusierana memoria del Quadrilatero, inaugurato tre anni dopo la scomparsa dell’allenatore, Rocco partì verso Padova, che prima salvò insperatamente, e poi portò ad un eroico terzo posto, senza mai rinnegare il catenaccio. Dopo una breve esperienza alla guida dell’Italia Olimpica, arrivò la chiamata del Milan.

Per la prima volta, il catenaccio venne applicato ad una grande squadra, e i risultati non si fecero attendere. Lo scudetto arrivò alla prima stagione, con i gol di Josè Altafini e la fascia di capitano al braccio di Cesare Maldini. Ma fu il 1963 a riservare le gioie più grandi. Il terzo posto in campionato fu accompagnato dalla prima vittoria italiana della Coppa dei Campioni, ai danni del Benfica di Eusebio e con il diciannovenne Rivera in campo. Al fischio finale, Rocco festeggiò con la stessa verve di Mourinho dopo la Champions nerazzurra, dato che aveva già firmato con il Torino. Le stagioni in granata lo portano al terzo posto e ad un anno come direttore tecnico. L’abbandono della panchina fu solo momentaneo per l’istrionico triestino, dato che già per la stagione successiva venne richiamato dal Milan, che si trovava in difficoltà di fronte ai grandi successi della cugina nerazzurra guidata da Helenio Herrera, con tre scudetti e due Coppe Campioni. Scudetto e Coppa delle Coppe subito, Coppa dei Campioni l’anno successivo, con un modulo che definire difensivista è limitato. Un libero, cinque giocatori davanti a lui, un centrale di centrocampo e due attaccanti supportate da un’ala mobile su entrambe le fasce. Questo 1-5-1-1-2 domina in Italia, paga in Europa e porta a vincere anche nel mondo, con la conquista della Coppa Intercontinentale contro l’Estudiantes.  



Sotto la sua guida, Rivera, da diciannovenne magrolino nel ’63, divenne Pallone d’oro solo sei anni dopo. Per i giocatori non fu un semplice allenatore, bensì fu un secondo (o spesso anche un primo) padre per loro. Si concentrava completamente sugli uomini, tanto da predisporre le marcature a uomo una per una, attirandosi spesso critiche e dubbi ma avendo alla fine sempre ragione. In particolare, Trapattoni e Lodetti lo vedevano come un eroe, e per lui avrebbero fatto di tutto.
Prima della fine della carriera, dopo la Fiorentina e due anni come direttore tecnico a Padova, tornò al Milan, prima come dirigente, e poi di nuovo come allenatore, dove vinse la Coppa Italia del 1977. Per 28 anni è stato l’allenatore con più presenze in Serie A, battuto solo nove anni fa da Mazzone. 
Nereo, il cui cognome originario era l’austriaco Rock, italianizzato dal padre nel ’25 per poter avere la tessera fascista per lavorare al porto di Trieste, si ritirò a vita privata insieme alla moglie Maria, con in bacheca due Campionati, tre Coppe Italia, due Coppe delle Coppe, due Coppe dei Campioni e una Coppa Intercontinentale.  Ma purtroppo il Cavaliere dello Sport Nereo Rocco non rimase molto a casa, perché solo due anni dopo, nel febbraio del 1979, lasciò questo mondo, per guardare da lassù (è bello crederlo almeno) il calcio che lui stesso ha contribuito a creare. Alla fine, il suo amico Gianni Brera gli dedicò uno scritto, un articolo, una lettera aperta. Se gliel’avesse letta, sicuramente il buon Nereo lo avrebbe interrotto, per non emozionarsi troppo, con un “Tasi, mona!”

Caro vecchio Nereo, se avessi pianto non avrei finito a tempo questo lavoro che l'amicizia, soltanto l'amicizia non mi rende gravoso né ingrato. Il magone mi è venuto quando ho letto la tua ultima lettera. Non è da noi piangere. La tua vita è stata buona. Al tuo ricordo, amico, brinderò come tante volte abbiamo fatto insieme. Addio Nereo, ti sia lieve la terra.

Marco Pasquariello

27 aprile 2015

Sei immigrato? Sei vulnerabile? Allora il tuo destino è essere sfruttato

immigrazione mediterraneo

Quante volte sentiamo dire “gli immigrati vengono a rubarci il lavoro”? Tante purtroppo. E chi lo dice lo fa sulla base della scarsa informazione e scarsa circolazione del reale. È vero che il migrante arriva in Italia, è vero che taluni lavorano. Ma come lavorano qualcuno se lo chiede?
L’immigrato lavora perché vulnerabile, e perché vulnerabile può essere sfruttato. Questa situazione è lo specchio dell’economia fallimentare italiana. Mentre, prima, la situazione era circoscritta a diverse aree italiane ora riguarda tutta la penisola: dalla Sicilia al Piemonte. Ad esempio, a Vittoria in Sicilia vi è un area di sole serre. In quest’area vi lavorano oggi solo donne rumene e la situazione che si viene a creare è quella di una vera e propria segregazione e schiavitù. Schiavitù sì, perché come dichiarato dalla corte europea la schiavitù risponde a una situazione di mancanza totale di alternative e queste donne un alternativa non ce l’hanno. Sono imprigionate lì, ricattate, minacciate, pagate oltre il minimo salariale e talvolta anche violentate dai loro capi-padroni italiani. Non stiamo parlando di una realtà isolata e povera, ma di una realtà ricca e che deve essere conosciuta a tutti in quanto attiva tutto l’anno. 
A Rosarno, in Calabria, accade la stessa cosa, ma questa volta con lavoratori africani che non venivano solo sfruttati ma anche costantemente aggrediti dalle organizzazioni malavitose. Qui chi lavora si è dovuto costruire delle capanne-abitazioni in lamiera, plastica e cartone, perché l’unica risposta che il governo, attraverso la protezione civile è stato capace di dare è provvedere a rifornirli di tende, non adatte però a tenerli al caldo durante l’inverno. Ma non basta. A Foggia, per produrre il simbolo del Made in Italy: il pomodoro si lavora in condizioni di profondo sfruttamento, in una situazione di ghetto, di violenze e insulti, ma stavolta con i cittadini provenienti dall’est Europa. Ad Asti, così a Soluzzo in Piemonte situazione simile, con bulgari pronti a lavorare per la vendemmia e non pagati ed i quali prodotti vengono poi usati anche nell’export. 

Affinché tutto questa persista, è necessario un sistema pronto a giustificarlo e a mantenerlo perché più comodo. La capacità della commercializzazione della criminalità è altissima, il traffico di uomini è assurdo. Il contesto delle norme all’interno dell’UE è determinante nel processo di sfruttamento ed infatti il problema strutturale si basa su processi di deregolamentazione. Si favorisce un processo di nuovo lavoro povero, in alcuni casi precario, in altri gravemente sfruttato. Dal momento che devono essere raccolti un tot di prodotti in un lasso di tempo, se ci sono centinaia di ettari da raccogliere in 20 giorni, serve una quantità di manodopera tale che si crea il fenomeno del ghetto. Si stima che il lavoro sommerso nel settore agricolo sia di 400.000 lavoratori irregolari, senza diritti, di cui 100.000 esposti al grave sfruttamento e caporalato e che le maggiori nazionalità presenti siano a livello comunitario quella di Bulgaria, Romania e Polonia, mentre a livello extra comunitario Tunisia, Albania, India e Marocco. 
L’inchiesta che c’è a Nardò, in provincia di Lecce, sta dimostrando che la tratta interna è legata alla tratta internazionale. Ci sono delle intercettazioni che dimostrano e registrano tutto un passaggio della tratta interna, contatti locali che si sa possano far arrivare dal Nordafrica immigrati con un permesso di lavoro che si possono reputare falsi. Le varie organizzazioni di caporalato, organizzano la gestione della piattaforma lavorativa, trascinando quindi lavoratori da una parte all’altra dell’Italia per coltivare il prodotto della stagione. Ma questa è tutta una forma di servizi che si viene a creare solo se dietro vi è la totale omertà dello Stato Italiano. La direttiva Europea n 52, ratificata in Italia nel 2012 prevede un regime di tutela e protezione speciale per i lavoratori extracomunitari vittime di tratta e sfruttamento lavorativo. Il monitoraggio effettuato nel secondo rapporto dimostra però che tale norma è in gran parte disattesa. C’è la norma ma non gli strumenti di tutela economica. Per far sì che tutto questo enorme sistema corrotto venga alla luce e trovi a poco a poco la fine bisogna fare rete, integrare le azioni di tutela di questi lavorati, costruire rapporti di fiducia, tutelare i loro diritti. È necessario che lo spazio europeo si attivi a creare una legislazione e un’amministrazione più dura nel punire i trafficanti e i caporalati. La nostra economia, il nostro fallimento si basano solo su questo. Ma la colpa non è di chi arriva, la colpa è solo ed esclusivamente di chi sfrutta la situazione di vulnerabilità di alcuni, portando avanti processi di corruzione che funzionano grazie alla protezione dei poteri forti. 

Silvia Lazzari


26 aprile 2015

SundayUp - Eugenio in via di Gioia: purificarsi dai mali della società con l'ironia acustica

Devo ammetterlo, se fosse stato per me, non avrei mai intervistato Eugenio in via di Gioia - ma questo dopotutto non conta granché, che se fosse stato per me non avrei mai fatto una marea di cose interessanti, come ad esempio pettinarmi i capelli o guardare i film di Lars von Trier. Quindi grazie ad Angela Caporale che mi ha passato il faldone, per così dire. A voi l'intervista! 


Ciao, come state? Ho visto che qualche tempo fa avete completato con grande successo una campagna di crowdfunding, casualmente anche la mia band ha appena fatto la stessa cosa, anche se con un goal decisamente più modesto. Nel mio piccolo, sono rimasto davvero sorpreso di avercela fatta, non me lo aspettavo sinceramente. Voi? 
Che cosa fate nella vita, a parte suonare? Se siete fra coloro che stanno tentando di guadagnarsi la pagnotta suonando, posso chiedervi come va? Che prospettive reali vedete davanti a voi? Avete il progetto di andare avanti finché dura senza troppe perdite/non si sovrappone a un lavoro full time e una volta arrivati a 28 anni (come un vero giornalista moderno, ignoro dati fondamentali tipo la vs età) direte che 'ok, può bastare così'?

Stiamo bene, non c'è male dai. Per quanto riguarda il crowdfunding siamo rimasti sorpresi anche noi! Non ci aspettavamo tutto questo seguito da parte delle persone che possiamo definire “fan”, anche perché la cifra da raggiungere non era bassa. Era la seconda volta che provavamo questa esperienza e abbiamo notato una bellissima differenza fra le due campagne: nella prima ci avevano aiutato molto parenti ed amici, mentre nella seconda la maggior parte non li conoscevamo di persona!

Noi oltre a suonare proviamo a crearci altre vie, chi con l' università, chi con progetti paralleli. Lo si fa perché la musica è sempre un' incognita: oggi magari piaci e la gente ti segue, ma un domani chissà...C'è da specificare però che, ora come ora, stiamo dando la priorità al progetto perchè ci crediamo, tentiamo il tutto per tutto e questo sforzo sta dando i suoi frutti. Poi ci siamo sempre detti che smetteremo quando non ci saranno più possibilità di crescita. E lo capiremo. Per l'età non vogliamo entrare nel dettaglio perché sennò vuoi sapere troppo e sarebbe illegale, ma abbiamo un' età media di 24 anni (quanti anni ci davi?)


Sarò sincero, il vostro genere si inserisce in una tradizione con una lunga e popolare storia ma che per limiti miei, non frequento più di tanto. Se dovessi dire a qualcuno cosa fate, gli direi che vi ispirate, tipo, a Brunori Sas meno l'essere meridionali, alla Bandabardò meno il terzomondismo, alle Youtube stars meno il non saper suonare (o meno le tette, perché spesso le youtube stars hanno le tette o gli occhi azzurri) a De Andrè meno la complessità di certi arrangiamenti (e un po' di altre cose, credo. Purtroppo [?] non sono un appassionato del Faber). 
Ora, non vorrei tanto che mi diceste se siete d'accordo o meno, ma vorrei che mi diceste la vostra sul fenomeno che possiamo sintetizzare con "Brunori ha aperto i concerti dell'ultimo tour di Ligabue" & con "Bugo ha fatto un album dove sembra Jovanotti sotto Roipnol". Come mai, secondo voi? Perché? Hanno fatto bene?

I paragoni che ci hai additato ci piacciono e ne siano lusingati! Per rispondere alla domanda possiamo citare l'esempio che hai fatto: Brunori ha aperto i concerti di Ligabue e secondo noi è stata un'ottima mossa mediatica; questa estate era arrivato da un tour invernale con “sold out” dappertutto e, per spingersi ancora più su, ha avuto l'opportunità di andare a cantare i suoi brani davanti a migliaia di persone. Per arrivare al mondo mainstream una via è questa, infatti come dice lo stesso Brunori in un'intervista: “..quel che conta è che oggi mi sta offrendo un'opportunità di visibilità che in altri ambiti “grandi” mi è praticamente preclusa..” e siamo perfettamente d'accordo. Anche noi nel nostro piccolo abbiamo avuto l'onore di aprire dei grandi come Vinicio Capossela o gli Zen Circus e questo aiuta sempre, anche un Brunori già famoso nel panorama indipendente.

Passando alla seconda parte di domanda, secondo noi un'artista deve evolversi nella sua carriera musicale, anche cambiando sonorità, come è successo per esempio con Brunori (poveraccio, lo stiamo nominando troppe volte!). Ogni tanto questa crescita musicale non avviene più in modo naturale, ma è “forzata” per riuscire a piacere a più orecchi possibili. Noi pensiamo che non sia il caso del buon Brunori e non diventerà mai un caso nostro... La musica devi sentirla come la senti tu, non come la sentono gli altri.

E a proposito della comunicazione fra artista e pubblico, ragionavo un po' sui testi. Mi sembra di capire che voi puntiate (qualsiasi cosa l'espressione voglia dire) sul “sociale”. Penso a pezzi come All you can eat. Ora, visto che sono entrato nel loop dei paragoni, quanta parte di merito pensate che il contenuto “sociale” dei testi abbia nel vostro successo? Step successivo: secondo voi, questo tipo di canzoni influenza veramente chi le ascolta? Oppure si è condannati al “la domenica tutti guardano Report e si indignano e il lunedì non succede mai un cazzo”?

Domanda interessante! Come dici giustamente tu puntiamo molto sul sociale, questo però avviene in maniera abbastanza inconscia e spontanea. Infatti i nostri testi, nascono prevalentemente da ispirazioni per strada. Guardando i passanti e cercando attenzioni, riusciamo ad avere un riscontro immediato quando catturiamo la loro curiosità. Questo ci aiuta molto ad essere diretti e appunto “sociali”. Il nostro obiettivo però non è quello di schierarci a favore del popolo e coccolarlo, bensì quello di pungere la società proprio nelle sue contraddizioni. L’ironia è l’arma che preferiamo per arrivare nella testa delle persone. Non vogliamo cambiare il mondo e non pensiamo sia compito delle canzoni farlo. Vogliamo provare a cambiare, iniziando da noi, i paradossi delle abitudini con cui veniamo a contatto ogni giorno.
Generare l’effetto indignato/menefreghista è abbastanza rischioso, quindi semplicemente quando decidiamo di toccare un tema è perché in qualche modo ci sentiamo noi stessi vittime di quel modo di fare, atteggiamento. Diciamo che scrivere è un buon modo per purificarci e cercare di cambiare le poco per volta partendo dall’autoconsapevolezza.



Sempre sullo stesso argomento: è un bene che la musica abbia una dimensione pedagogica? Ad esempio, a titolo personalissimo, ritengo che i Modena City Ramblers abbiano fatto più danni all'immaginario di sinistra rispetto a due decenni di Veltroni (oddio. forse ho esagerato, ma siamo lì.). Ma anche uscendo dalla politica, ci sono due livelli di pedagogia che la musica leggere può trasmettere. Il primo corrisponde a certe cose dei Baustelle. Penso a La Malavita (La guerra è finita, A vita bassa, ecc.) (o Baudelaire, da Amen) fino a sfociare in Monumentale, che se vogliamo è un po' la Everybody Hurts italiana. Su un livello leggermente inferiore colloco Caparezza, che ha sempre unito una grande voglia di inserirsi in certi discorsi con un certo mordente a una altrettanto forte voglia di mettere in chiaro che non vuole ergersi a capopopolo proprio di nessuno.

L'altro livello è quello entro il quale si iscrivono tutti gli artisti italiani che hanno inserito il sintagma “social network” nei loro testi, tipo gli Amor Fou [o BettiBarsantini, che sono Fiori + Parente] o che, in generale, si ergono a castigatori dei costumi corrotti o a interpreti del disagio di una generazione (senza che nessuno glielo potesse aver mai chiesto, tipo Cristicchi Studentesse universitaria). Un esempio più virtuoso di questo è Viva degli Zen Circus (già solo per il fatto che se l'è presa con i 5S). 
Non so, come vi collocate in questo panorama? Magari lo vedete molto diversamente da come lo vedo io. Sarebbe interessante sapere che ne pensate.

Il vero problema delle canzoni pedagogiche è che rischiano di essere strumentalizzate come manifesto di un pensiero, e che chi le ha scritte possa perderne le redini completamente. Ecco che una canzone antimafia come Cento passi è diventata “la canzone dei comunisti” secondo la maggior parte dei miei coetanei.
Noi non parleremo (forse) mai di politica in una canzone, rientra piuttosto nelle nostre corde parlare della psicologia che sta dietro ai vari comportamenti umani, che siano questi legati alla politica o alla società. Forse in questo senso siamo molto più simili a Caparezza e alle sue riflessioni da nerd di Fuori dal tunnel.
Altre nostre canzoni si avvicinano di più all’approccio dei Baustelle che più che essere pedagogico secondo noi, tenta di descrivere e fotografare da un punto di vista esterno la vita del nostro tempo. Con un’unica forte differenza: il loro racconto tenta di essere il più oggettivo possibile, come se a parlare fosse un cantastorie lontano; il nostro “narratore” invece spesso parla in prima persona plurale “noi”, cercando di instaurare un rapporto narratore/ascoltatore più “compatito”.

Tutto questo per dire che il risvolto pedagogico, diventa positivo se l’ascoltatore si trova a rivivere determinati momenti di una canzone durante le sue azioni quotidiane, e lì, cascandoci dentro, le capisca a fondo, cambiando i propri atteggiamenti per evitare di commettere contraddizioni o seguire strane abitudini.

Grazie, a presto! 

Eugenio in via di Gioia suonera(nno) il 29 aprile in uno showcase acustico precedente al secondo evento di The Bottom Up a Bologna, all'Articioch (v. Mascarella 84/b), fra le 18.00 e le 18.30 puntualissime! QUI TUTTE LE INFO SULL'EVENTO

Filippo Batisti
@disorderlinesss



25 aprile 2015

Proposta di riforma del 25 aprile

25 aprile italian

Di questi tempi il termine “riforma” in Italia va molto di moda. Infatti in cima alla lista delle priorità dell'attuale governo targato Matteo Renzi ci sono proprio le “riforme”. Riforma della costituzione, riforma del sistema elettorale, riforma della pubblica amministrazione, riforma della scuola, riforma del mercato del lavoro (il “jobs act” perché in inglese fa più fico e più Obama), riforma delle pensioni eccetera eccetera.

Già che ci siamo perché non riformiamo il 25 aprile? Non che sia da buttare. Tutt'altro. Dal mio punto di vista è una celebrazione estremamente sottovalutata sia dall'opinione pubblica che dai rappresentanti della politica e della società civile. Il parziale discredito nasce principalmente dalla compresenza di molteplici narrative contrastanti sulla resistenza e su quel determinato momento storico.

Dunque esistono margini di miglioramento. In ottica di breve ma, soprattutto, di lungo periodo.

Poniamoci il problema: quando, per l'inesorabile scorrere del tempo, ahimè, coloro che hanno vissuto con i loro occhi la resistenza, non ci saranno più, quale storiella a scopo educativo noi racconteremo ai nostri figli? Dirli che i loro bisnonni o trisavoli hanno strenuamente combattuto per la loro libertà, suonerà come qualcosa di lontano, scritto solamente sui loro libri (sempre che un domani ne esistano ancora) di scuola, poco tangibile, per non dire poco credibile. La nostra generazione, si troverà in grande difficoltà a parlare di fatti e avvenimenti che già ora appaiono un po' sbiaditi. E se noi li conosciamo male, figuriamoci come potrebbero assimilarli e interpretarli i nostri più giovani interlocutori.

Ecco allora portiamoci avanti con il lavoro e appunto cominciamo a riformare “La festa della liberazione”.

La mia personalissima e, quindi, assolutamente opinabile, proposta in tal senso, prende le mosse dalla semantica. Liberazione sì, ma da chi? Dall'esercito nazifascista, ovviamente. E che cos'erano il nazismo e il fascismo? Due regimi oppressivi, illiberali, antidemocratici, spersonalizzanti, dittatoriali, criminali, disumani, disgustosi, feroci e bellicosi.

Il nocciolo della questione è il seguente: mentre purtroppo le gesta epiche dei nostri avi perderanno inevitabilmente di incisività con la scomparsa di chi le ha compiute, il ripudio di tali forme di esercizio del potere e delle conseguenze che ne dipendono è senza tempo.

Tuttavia l'antifascismo va coltivato e nutrito, focalizzandosi su ciò che è stato il regime guidato da Benito Mussolini: la pagina più buia della storia del nostro paese. Senza se, ma e però. Concentrarsi su questo elemento è cruciale affinché tutto ciò che è successo nel secolo scorso non si ripeta mai più. Affinché chi viene dopo di noi non si faccia abbindolare da leader carismatici con la risposta pronta in tempi di crisi. Affinché gli idioti che si vestono di nero, sdoganati recentemente da Matteo Salvini, scompaiano mano a mano e non ne spuntino di nuovi. Affinché l'antifascismo non sia una bandiera di una sola parte politica ma diventi un bene comune.

Non me ne vogliano i partigiani ma urge una riforma concettuale che metta meno l'accento sulle loro fondamentali battaglie e insista di più sulle nefandezze degli autoritarismi. Magari potremmo avere successo dove loro hanno, incolpevolmente, fallito: attribuire finalmente una funzione mitopoietica e unificante al 25 aprile, oltre a quella “meramente” commemorativa che riveste oggi.

24 aprile 2015

#ijf15 - Nuove avventure in hi-social: tra Radio3 e McLuhan

Per la seconda volta sono stato al Festival del Giornalismo di Perugia, per meno tempo di quello che avrei voluto (neppure una opportunità di chiedere a Beppe Servegnini se fosse appena tornato dall'America), ma oltre a fare un pranzo pantagruelico per euri tredici come se non fossero passati sei anni dall'ultima volta che avevo calcato corso Vannucci e come se l'inflazione e la crisi non fosse mai esistita. Fra le altre cose, ho imparato che tutte le volte che leggiamo che Kim Jong-Un ha fatto della pazza merda (è veramente tempo di trovare una traduzione italiana di "crazy shit". Beppe aiutami tu.) molto probabilmente è falso, ma pur di fare click-baiting anche gli osannati media anglosassoni svendono l'anima al trash; ho imparato che Mattarella è sicuramente un rettiliano con la doppia palpebra e che è difficile entrare nel mondo della cultura senza essere un neomelodico veltroniano; ho imparato che il mondo social è oggetto di interesse per gli altri media novecenteschi.
Pavolini, Di Lazzaro, Aprile, Polacco.
In particolare, mi riferisco al panel che ha visto presenziare Antonella Di Lazzaro (direttrice media Twitter Italia), Marianna Aprile (Oggi), Rosa Polacco (Radio Rai 3) e Alberto Marinelli (La Sapienza di Roma), moderati da Antonio Pavolini (media analyst). Vorrei concentrarmi in particolare su un paio di aspetti, uno più serio, l'altro altrettanto, ma sarò io a prenderlo meno seriamente. Rosa Polacco si è fatta portabandiera del programma di Radio 3 Rai Tutta la città ne parla, che è splendido solo per il fatto di avere come sigla una versione per archi di The Model dei Kraftwerk (qui in versione con David Byrne in versione alienato, diversamente dal solito), ma è meritevole e innovativo perché ha trovato il modo di coinvolgere il proprio affezionatissimo pubblico: la trasmissione è costruita un'ora prima di andare on air sulla base di un paio di telefonate al programma precedente (un commento alla rassegna stampa quotidiana) le quali definiscono così il tema del giorno. 
Non a caso si è detto che il vero committente del programma è il pubblico stesso che - trattandosi di Radio 3 e non degli ascoltatori dello Zoo di 105 - è tendenzialmente colto, competente e molto attivo. La quotidianità dimostra che la comunità degli ascoltatori è molto legata ai suoi conduttori e pure all'interno di se stessa, fra i membri che sul gruppo Facebook dedicato all'intera emittente interagiscono costantemente, brillantemente (e talvolta un poco ossessivamente, se mi è concesso. Ma io che sono della generazione per cui è stato coniato il termine "fanboy" so bene che qui i livelli di pericolo sono ben altri). 

Essendo un pubblico raffigurabile in un range che spazia da pastori sardi che ascoltano tutto il giorno a manetta la radio (true story, l'ho sentita uscire dalla bocca di Paolo Fresu un paio di anni fa) a professori universitari, con un significativo polo d'attrazione verso questi ultimi, Rosa Polacco rilevava che spesso la conoscenza degli utenti è tale da risultare superiore a quella dei giornalisti radiofonici, che vengono perciò bacchettati per le loro eventuali imprecisioni. Questo fatto apre anche alla possibilità di un dialogo au même niveau tra ospiti che di solito parlano ex cathedra e gli ascoltatori da casa, attivissimi e precisi su Twitter, Facebook e gli altri mezzi di comunicazione del caso. Una chiosa un filo triste è arrivata successivamente quando è stato fatto notare che, senza questa montagna di interazioni, da un certo punto di vista, Radio 3 chiuderebbe, perché il suo modello di business è tale che necessita la presenza (e l'attività) di un pubblico ristretto e affezionato. Mentre, purtroppo, grosse fette di pubblico allo Zoo di 105 non mancheranno mai - e per carità di patria non ipotizzeremo certo che il nome rifletta anche il target.

Ero abbastanza felice e soddisfatto, quando la dirigente di Twitter Italia Antonella Di Lazzaro (leggo che era anche ex-vice presidente di Mtv; ho perso un'occasione per rinfacciarle il tragico voltafaccia della MusicTelevision alla musica, in favore dei reality show più beceri) ha, fra le altre cose, citato una ricerca Nielsen che aveva monitorato l'attività neuronale delle persone che usano Twitter mentre guardano la televisione
Con una battuta un po' ingenerosa ho immediatamente pensato che magari prima sarebbe stato meglio misurare il QI di questi soggetti. Dopo aver riso pressoché da solo, per il composto ma sensibile imbarazzo del mio vicino di posto, ho scoperto gli stupefacenti risultati della ricerca: nei punti di maggior pathos della puntata di Empire presa a campione, la persone twittavano di più
A parte vincere un premio GAC di Gazebo (presente all'IJF) e destare molto interesse nel Grande Capo Estiqaatsi di 610, questa considerazione mi ha riportato alla mente l'antica distinzione di Marshall McLuhan, il primo grande teorico dei media novecenteschi, rispetto a media caldi e media freddi. 

Media caldi sono radio e cinema, che prendono uno dei nostri cinque sensi e lo "estendono fino a un'alta definizione, fino allo stato, cioè, in cui si è abbondantemente colmi di dati". Una fotografia è fattore di alta definizione, perché contiene una grande quantità di informazioni visiva, al contrario di un cartone di Topolino. La radio, chiaramente, si appella solamente all'udito e su quello lavora. Media freddi sono telefono e televisione, perché "attraverso l’orecchio si riceve una scarsa quantità di informazioni" e perciò, come ogni forma di discorso in generale, "offre poco ed esige un grosso contributo da parte dell’ascoltatore."

Al contrario i media caldi "non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o completare "e di conseguenza comportano una limitata partecipazione; mentre i media freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte del pubblico. In uno slogan: la forma calda esclude e la forma fredda include.
Marshall McLuhan, 1911-1980
Ora, a ben vedere, questo va contro l'intuizione più diffusa nella mia generazione e della precedente, rispetto al fatto che "ci si rimbecillisce", muti, davanti alla televisione, per ore, senza che si senta l'esigenza di completare nulla. Ora, a parte che sarebbe interessante capire come McLuhan avrebbe categorizzato gli smartphone da questo punto di vista, la considerazione da fare è: se la Tv è fredda e lascia spazio al completamento, Twitter a quanto pare funge da ottimo riempitivo. D'altro canto, però, come l'esperienza di Radio 3 insegna, il medium radiofonico si è "raffreddato" notevolmente.
D'altra parte McLuhan, nel 1967, scriveva anche pagine provocatorie ed interessanti rispetto agli effetti che gli strumenti tecnologici hanno sul nostro sistema nervoso centrale, che porta a far sì che, ad esempio, le parti del corpo le cui funzioni sono integrate, amplificate e quindi quasi sostituite da oggetti di tecnologia, finiscano per intorpidirsi, tanto da diventare "servomeccanismi" di questi ultimi. A quel punto si darebbero gli estremi per la sindrome di Narciso, come la chiama lui, che cartesianamente vede come altro da sé il proprio corpo, reificandolo e distorcendone quindi percezione e funzionalità. Limitandomi a constatare che alla verde età di 24 anni il mio indice destro, dopo una vita di cliccate, ormai mi duole in automatico, concludo che non ho proprio voglia di pensare a quello che direbbe McLuhan del mio, di sistema nervoso centrale...

23 aprile 2015

"LE FAREMO SAPERE" - Essere un giovane (dis)occupato oggi

“LE FAREMO SAPERE” – Essere un giovane (dis)occupato oggi

Mercoledì 29 aprile presso l'articiôch in via Mascarella, Bologna, la rivista online The Bottom Up organizza una serata, accompagnata da aperitivo e dj set, dedicata ai temi del lavoro e della disoccupazione. Prenderanno parte al dibattito ospiti impiegati a vario titolo in attività connesse all’ambito del lavoro e, per il dj set, Giacomo Gelati della band bolognese Altre di B e Federico Cataldo.





Per festeggiare il suo secondo anno di attività, The Bottom Up si ripresenta al pubblico bolognese con una serata intitolata “LE FAREMO SAPERE – Essere un giovane (dis)occupato oggi”. Al centro del dibattito che animerà la prima parte dell’evento vi saranno i temi del lavoro e della disoccupazione, affrontati soprattutto in relazione all’universo giovanile. Attraverso la conversazione con vari ospiti che svolgono attività collegate alle tematiche e al mondo del lavoro si tenterà infatti di definire l’attuale panorama occupazionale italiano, cercando di inquadrare i cambiamenti introdotti dal Jobs Act e di mettere in luce gli ostacoli e i problemi che affliggono i giovani in cerca di lavoro, ma anche le principali opportunità di cui essi possono beneficiare. Parteciperanno alla discussione il docente di Diritto del Lavoro presso l’Università di Bologna, Federico Martelloni, la sindacalista della CGIL di Modena, Monica Bolelli, l’associazione Scambieuropei - il primo portale italiano sulla mobilità giovanile - e un esponente di La Foglia di Fico, associazione bolognese nata in contestazione al progetto F.I.CO. (Fabbrica Italiana Contadina).

“Sull’onda dell’esperienza positiva dello scorso anno ci siamo convinti a organizzare un nuovo evento incentrato su un argomento, come quello dell’occupazione, di grande interesse per noi giovani. -  commenta il direttore di The Bottom Up, Valerio Vignoli – L’incontro nasce con l’obiettivo di offrire al nostro pubblico l’occasione di conoscere in maniera approfondita la realtà lavorativa attuale, aspetto che riteniamo sia molto importante soprattutto per chi vi si interfaccia per la prima volta.” Attraverso il confronto fra esperti appartenenti al mondo dell’università, del sindacato e dell’associazionismo sarà infatti possibile sciogliere i principali nodi critici di una dimensione complicata e costantemente mutevole come quella della (dis)occupazione.

L’intero evento sarà a partecipazione gratuita e si svolgerà presso l'Articiôch di Bologna, in via Mascarella 84/b. Il dibattito avrà inizio alle ore 18,30 e sarà seguito da un aperitivo a cura del locale e dal dj set di due ospiti d’eccezione: a partire dalle ore 21, la serata sarà animata dalle note boogie-funk e disco madness di Federico Cataldo e dal ritmo indie rock di Giacomo Gelati delle Altre di B, una delle più note e interessanti band della scena indie bolognese.

Qui il link all'evento Facebook.

Seguite l'evento anche su Twitter con l'hashtag #lefaremosapere e, naturalmente, dal nostro account @TheBottomUp_Mag

The Bottonomics - L’esercito degli speculatori nerd

DiCaprio The Wolf of Wall Street
Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio) che si mangia le mani perchè geloso di Navider Singh Sarao


“So I start a revolution from my bed” cantavano gli Oasis nel 1996. Navinder Singh Sarao, londinese di 36 anni deve aver preso queste parole piuttosto alla lettera. Certo poi la rivoluzione lui la faceva solo per le sue tasche però, oh, la faceva da camera sua. Chi è Navider Singh Sarao? Un simpatico nerd a detta dei suoi amici, arrestato l’altro giorno in Gran Bretagna su mandato del Department of Justice americano per aver contribuito al “Flash crash” del 6 maggio 2010. E no, non si trattava di un sit-in di protesta davanti a qualche banca o multinazionale: con “Flash crash” si indica quel giorno in cui il Dow Jones è crollato del 6% in 20 minuti.

Il buon Sarao, utilizzando tecniche di manipolazione del mercato, avrebbe guadagnato una quarantina di milioni di dollari tra il 2010 e il 2014, scambiando contratti futures sull’indice E-Mini S&P del Chicago Mercantile Exchange. Scordatevi però il Di Caprio urlante nel suo caotico ufficio in The Wolf of Wall Street; Singh Sarao ha fatto tutto dalla sua cameretta, sede della Nav Sarao Futures Ltd, utilizzando software che attraverso complessi algoritmi permettono di scambiare strumenti finanziari in automatico a velocità supersoniche (in gergo, HFT – High Frequency Trading). Per dire, l’HFT sembra aver generato un’altra giornata nera dei mercati finanziari: il #Twitterflashcrash. Praticamente, esattamente due anni fa, il 23 aprile 2013, l’account Twitter (hackerato) dell’Associated Press aveva riportato un’esplosione alla Casa Bianca e istantaneamente il Dow Jones era sceso di 140 punti (1.40%), per poi recuperare in tre minuti. A quanto pare, gli algoritmi di HFT monitorerebbero i news feed e sarebbero impostati in modo da rispondere alla combinazione di parole chiave come “Casa Bianca” ed “esplosione”, per cui l’uscita del tweet avrebbe generato un serie di vendite a catena tali da affossare l’indice statunitense.

Tuttavia, non c’è chiarezza empirica sulla capacità del trading ad alta frequenza di far aumentare la volatilità dei mercati. Ciò che pare chiaro è, però, la possibilità di collegare l’HFT a strategie fraudolente tese a manipolare i prezzi. E di questo è accusato Navinder Singh Sarao. Quei 40 milioni li avrebbe fatti utilizzando delle mosse chiamate “layering” o “spoofing” (in realtà il layering è una sottocategoria dello spoofing), consistenti nel fare grossi ordini di acquisto o vendita a livelli diversi di prezzo, per poi ritirarli prima di eseguirli. Ciò scatena la reazione degli altri attori del mercato che reagiscono e il meccanismo finisce per spostare i prezzi degli strumenti finanziari. Il trader che ha lanciato il layering, potendo anticipare il mercato, riesce a guadagnare ingenti somme eseguendo materialmente altri ordini.

All’indomani del crollo del Dow Jones nel 2010, non è stato puntato nessun dito contro il trading ad alta frequenza. Anzi. L’inchiesta che ha fatto seguito al “Flash crash” del 2010 ha identificato la causa principale del crollo del listino azionario in un singolo ordine di grandi dimensioni eseguito da una società di servizi finanziari del Kansas, Waddell & Reed. Tuttavia, come spiega il professor Albert Menkveld della VU University and Duisenberg School of Finance di Amsterdam, sebbene la vendita massiccia da parte di un grande investitore come Waddell & Reed sia da considerare come causa scatenante del “Flash crash”, di sicuro comportamenti illegali come quelli di Sarao non fanno che esacerbare la situazione.

Quindi l’uso sconsiderato di queste nuove tecniche di trading pone decisamente un problema. Infatti, tutti i regolatori si stanno muovendo nel senso di una normativa più restrittiva sull’HFT, anche se all’orizzone non c’è il progetto di un testo unico come nel caso degli Accordi di Basilea sui requisiti di capitale per gli enti finanziari. La realtà è che non c’è consenso su come gestire questo problema: da un lato le nuove tecnologie sono in grado di generare – in teoria - strumenti utili e non nocivi (il trading ad alta frequenza faciliterebbe l’immissione di liquidità nei mercati), ma dall’altro il rischio frode è dietro l’angolo. Dopo gli yuppies in giacca e cravatta degli anni 80 ci dobbiamo preparare ad una stagione di speculazioni e crolli finanziari in salsa nerd?


Piccole rivoluzioni editoriali: il progetto indipendente di Santiago Edizioni

Le librerie indipendenti chiudono, lomologazione domina e diventa sempre più difficile reperire opere innovative e sperimentali, la qualità del lavoro editoriale si riduce, il concetto di prodotto commerciale prevale su quello di prodotto culturale. Qualcuno si è voluto opporre a questo panorama, aprendo la strada ad un percorso alternativo, nel quale lo scrittore ed il lettore tornino ad essere protagonisti: il Progetto Santiago. Non si tratta di unazienda, non è a scopo di lucro, e si appoggia quindi ai finanziamenti dei soci e al ricavato delle attività collaterali svolte. Noi non abbiamo dei reali intenti polemici spiega il direttore Antonio Paolacci , lidea non nasce per contrastare questa grande rivoluzione, anche perché sarebbe impossibile. Abbiamo dato vita ad un progetto gestito da scrittori e da appassionati di letteratura, per offrire delle opportunità al di fuori degli schemi che governano leditoria italiana attuale. I cambiamenti strutturali, la monopolizzazione del mercato editoriale e laccentramento dellintera filiera stanno mettendo fine alla libertà autoriale. Non esiste più lapprezzamento per la sperimentazione letteraria in Italia. Oggi uno scrittore che volesse realizzare qualcosa di diverso non avrebbe praticamente possibilità di espressione.
books #ioleggoperché
Fonte: guardian.co.uk
Per questo nasce il Progetto Santiago ad ottobre 2014, raccogliendo le adesioni di 30 professionisti delleditoria, mossi da un forte desiderio di cambiamento. Oltre alle attività, è stata inaugurata la Santiago Edizioni, casa editrice indipendente che si propone di scoprire dei talenti nuovima anche di rivalutare testi pubblicati anni fa, che hanno avuto la loro storia editoriale ma non hanno ottenuto il giusto riconoscimento. Il direttore spiega infatti come nelle logiche del mercato attuale esista un pregiudizio rivolto al romanzi recenti, che risulterebbero già vecchi dopo pochi anni. Noi vorremmo tornare alla valorizzazione dei contenuti, indipendentemente dal fatto che lo scrittore sia esordiente o meno, che il libro sia già stato pubblicato o meno. Nonostante gli Autori Autorizzati(nella definizione di Tiziano Scarpa) siano quelli più facilmente soggetti alle logiche commerciali, rimane comunque indispensabile operare sia nel campo dello scouting, che in quello della rivalutazione di professionisti. La casa editrice, per prima cosa, deve porsi come garanzia di qualità”.
Il progetto è chiaramente un work in progress: in questa prima fase si è scelto di concentrarsi sugli addetti ai lavoriper dar vita ad una realtà consapevole, che sapesse in che modo arrivare al pubblico. I manoscritti ricevuti fino ad ora sono stati inviati principalmente da autori già noti, ed in minima parte da esordienti, probabile sintomo del fatto che proprio chi ha già avuto esperienza nel mercato editoriale e ne ha capito il funzionamento a sue spese, è lo scrittore sinceramente interessato a fare letteratura. Tutti i manoscritti ricevuti vengono vagliati da un Comitato di lettori, composto sia da professionisti, che da appassionati. Quando il Comitato si trova daccordo allunanimità in merito al valore di unopera, allora si procederà con la pubblicazione. Questo dimostra come il Progetto desideri dare voce al lettore esigente, colui che cerca qualcosa di diverso rispetto a ciò che gli viene normalmente offerto, senza dimenticare limportanza della mediazione editoriale. Dal punto di vista professionale la figura delleditore è fondamentale; si prenda il self-publishing: si tratta di un sistema che non garantisce la selezione dei testi e questo è un problema molto serio. Così potrà succedere, ed è già successo, che vengano diffusi testi di scarsissima qualità letteraria, con una vita economica migliore di tanti altri. Questo è culturalmente molto grave, poiché nel momento in cui viene a mancare lautorevolezza dellopinione delleditore, viene a mancare la qualità, viene a mancare una selezione a monte.


I libri editi da Santiago Edizioni saranno svincolati dal mercato tradizionale della distribuzione, che sarà invece indipendente; finiranno sugli scaffali di librerie, a loro volta indipendenti, che entreranno a far parte di una rete organizzata. Non è escluso da questa dinamica l’ebook, attraverso il quale la vendita diretta sarà indubbiamente agevolata.



22 aprile 2015

Tra Europa e Sudafrica: un’ondata di xenofobia verso gli immigrati

Negli ultimi giorni un fenomeno particolare ha colpito l’attenzione dei media internazionali. Un fenomeno esploso contemporaneamente tra il tropico del cancro e del capricorno. Un fenomeno politico e sociale terribile. L’ondata di xenofobia nei confronti degli immigrati ha raggiunto, infatti, un picco elevato non solo nei ricchi e benestanti paesi europei ma anche nel paese egemone dell’africa australe: il Sudafrica. La locomotiva economica della regione che per decenni ha rappresentato il polo d’attrazione per l’immigrazione proveniente dalle regioni poverissime confinanti, in particolare dallo Zimbabwe e dal Mozambico.

Photo: Guy Oliver/IRIN


Così, mentre i leader dei partiti europei di estrema destra pensavano alle più insulse soluzioni per evitare l’arrivo dei migranti sulle coste del vecchio continente, a Johannesburg morivano giovani stranieri nel corso dei focolai di violenza riaccesesi negli ultimi giorni in risposta all’esternazione di un leader Zulu (potente tribù sudafricana) che invitava gli stranieri a “fare le valige e tornarsene a casa”.
Il paradigma è lo stesso, parliamo di episodi di xenofobia che vanno di pari passo con la crisi economica di un grande paese e l’individuazione di un capro espiatorio verso il quale puntare il dito per la perdita dei posti di lavoro e del benessere. Che il capro espiatorio siano i superstiti delle traversate del Mediterraneo, coloro che riescono ad attraccare sulle coste italiane per sfuggire a guerre civili nei paesi mediorientali, o che siano i “kwerekwere” gli stranieri, che con la fine del regime di apartheid hanno sperato di trovare condizioni lavorative migliori, il risultato è sempre quello: non vedere al di la della paura atavica nei confronti dell’ “altro”.

Il Sudafrica a metà degli anni novanta rappresentava, per le regioni dell’Africa Australe, il paese che aveva superato la segregazione razziale e che avrebbe offerto condizioni di vita migliori per la popolazione africana. Ma, in risposta ai prime flussi migratori provenienti dallo Zimbabwe distrutto da una tremenda guerra civile, vennero istituite delle leggi sull’immigrazione molto restrittive, che mettevano in una situazione precaria chiunque tentasse di emigrare nelle grandi città industriali sudafricane. Il sentimento di ostilità nei confronti degli stranieri ha avuto alti e bassi ma è stato acchito dalla crisi economica che ha toccato l’economia del continente nero a partire dal 2008. 
Analogamente in Europa il grande virus della xenofobia è tornato a farsi sentire, con le sue semplificazioni populiste, il suo sapore razzista e violento. In risposta a questi eventi le testate giornalistiche europee e quelle africane sono tornate a mettere in evidenza i dati reali sul costo dell’immigrazione: percentuali limpide e di facile lettura sia che si parli dell’economia dell’UE che di quella del paese del compianto Nelson Mandela. La migrazione internazionale gioca un ruolo positivo sull’economia del paese ricevente, creando lavoro e aumentando gli investimenti. 
Oggi più che mai il tema dell’immigrazione è una questione dirimente che trova spazio nei dibattiti politici a livello comunitario, nazionale, locale ma anche nella società civile, tra le persone che interpretano gli eventi atroci di disperazione dei barconi della morte secondo la loro personale sensibilità. Della sensibilità di ognuno di noi e dei nostri punti di vista si fanno, come da tradizione, portavoce i partiti politici o i movimenti che portano le istanze della popolazione nei palazzi, dove vengono prese le decisioni che dovrebbero trovare delle soluzioni negoziate alle problematiche in atto. 


Le soluzioni più semplici, come quelle di puntare il dito verso l’"altro", il diverso, che ruba il lavoro in un periodo nel quale l’impiego scarseggia, sono un espediente antico ma ancora molto di moda. Un artificio propagandistico che però può rivelarsi letale nel momento in cui provoca tumulti come in Sud Africa. Ad ogni esternazione xenofoba e semplicistica bisognerebbe rispondere con un dialogo concreto e moderato che porti alla luce la realtà dei fatti perché, citando il regista Nanni Moretti, “le parole sono importanti”. In politica lo sono ancor di più perché legittimano il comportamento di chi si sente rappresentato da chi, queste parole, le pronuncia pubblicamente.