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31 marzo 2015

Cos’è cambiato nel passaggio da Mare nostrum a Triton?

Non c’è pace per coloro che tentano la traversata del Mediterraneo dalle coste libiche. L’UNHCR, Alto Commissariato ONU per il rifugiati, ha riportato che dall’inizio dell’anno sono 470 le persone che hanno perso la vita o che sono scomparse nel mar Mediterraneo, rispetto alle 15 dello stesso periodo dell’anno scorso. Secondo l’Alto commissariato per i Rifugiati questi numeri sarebbero legati al fatto che dal 1 novembre 2014 l’operazione Mare nostrum è stata sostituita dall’operazione Triton, che possiede capacità di ricerca e soccorso molto più limitate. L’UNCHR , il Consiglio d’Europa e numerose ONG hanno fortemente criticato Triton, definendola inadeguata, e fatto appello all’Unione Europea affinché si doti di un sistema di monitoraggio e salvataggio più efficace. Ma qual è la differenza tra le due operazioni?

Mare nostrum è stata un’operazione, militare e umanitaria, iniziata ufficialmente il 18 ottobre 2013. Nata dopo il tragico naufragio, al largo delle coste di Lampedusa, che causò ben 366 morti, fu creata per rispondere all’aumento dei flussi migratori via mare. All’operazione partecipavano personale e mezzi navali e aerei della Marina Militare, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Capitaneria di Porto. Si trattava di un’operazione volontaria di salvataggio che superava notevolmente gli obblighi internazionali ed europei che gravano sull’Italia. La convenzione di Montego Bay (1982), che costituisce la fonte primaria del diritto del mare, impone sì di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare, ma certo non di inviare appositamente delle navi, per di più in acque internazionali.
L’Italia ha invece deciso di intervenire ovunque il centro satellitare di Roma segnalasse un problema, coprendo ben 175 miglia (compresa la zona maltese, arrivando fino alle acque territoriali libiche). Con Mare Nostrum il centro satellitare di Roma non si limitava più a chiamare le navi che durante il loro tragitto incontrassero persone da salvare, ma segnalava direttamente alle navi militari la presenza di un problema. L’obiettivo primario era salvare le persone e portarle in un cosiddetto “place of safety” (il luogo sicuro più vicino). Questa operazione unilaterale dell’Italia, che è costata circa 9 milioni di euro al mese, ha soccorso più di 150 mila migranti. Numerose sono state però le critiche di altri paesi europei; in particolare il Regno Unito l’ha definita un “pull factor”. Per chi sostiene questa posizione, Mare Nostrum avrebbe avuto un effetto boomerang incrementando l’immigrazione irregolare. La certezza di essere salvati avrebbe spinto più migranti a prendere il largo e, se in condizioni precarie, a buttarsi in mare piuttosto che rimanere sulla nave, in modo da essere portati sulla terra ferma.

repubblica.it
Quando si è deciso di sollecitare l’intervento dell’Unione Europea, ci si è imbattuti in un grosso equivoco. Se è vero che l’UE ha una politica in materia di immigrazione e di asilo, non si può dire lo stesso per quanto riguarda il salvataggio in mare. È chiaro che l’UE non può violare i diritti umani nell’esercizio delle sue azioni, ma tra le sue competenze non vi sono quelle di assicurare ovunque la protezione della vita umana. Più semplicemente, c’è un obbligo, che deriva dall’accordo di Schengen e dalla base giuridica dei trattati, di sorvegliare la frontiera esterna comune. Questo compito è stato attribuito all’agenzia FRONTEX, che deve coordinare, su richiesta di uno stato membro, le politiche di controllo delle frontiere esterne. FRONTEX però non possiede degli strumenti propri, ma utilizza i mezzi messi volontariamente a disposizione dagli stati membri a favore del cosiddetto paese ospite che li sollecita. Le possibilità dell’agenzia sono quindi limitate, si tratta più che altro di un network per facilitare lo scambio di informazioni fra gli stati membri in materia di sicurezza esterna e per favorire la formazione del personale addetto al controllo delle frontiere esterne. Quando ne è stato richiesto l’intervento dal ministro Alfano, FRONTEX ha fatto subito capire che qualunque operazione sarebbe stata messa in atto, non sarebbe mai potuta diventare, per deficit di competenze e mezzi, equivalente a Mare nostrum.

L’operazione Triton è partita il 1 novembre 2014 e ha sostituito Mare Nostrum. Si tratta di un’operazione di natura completamente diversa. In primis, a “Triton” partecipano 19 paesi, ed è stata finanziata dall’Unione europea con 2,9 milioni di euro al mese: circa due terzi in meno di quanti erano destinati a Mare Nostrum. Inoltre, Triton prevede il controllo delle acque internazionali solo fino a 30 miglia dalle coste italiane, il che vuol dire solamente 6 miglia oltre la zona contigua: il suo scopo principale è quindi il controllo delle frontiere e non il soccorso. Le navi hanno un raggio di azione e un obiettivo molto limitato rispetto a Mare Nostrum. E’ chiaro che se una nave interviene nell’ambito di Triton deve rispettare il principio di non-refoulment (divieto di respingimento di una vittima di persecuzione) e l’obbligo di salvataggio, ma non si tratta dell’obiettivo prioritario. Ora si interviene solo se c’è un problema collegato al controllo delle frontiere esterne.
Il malinteso, in tutte queste critiche a Triton, sta nel pensare che una missione dell’UE possa essere equivalente a Mare Nostrum. Triton avrebbe dovuto essere un’operazione di sostegno a Mare Nostrum se si fossero voluti realizzare determinati obiettivi. Quello che è necessario è uno sforzo in più da parte dei 28 stati membri, in modo da europeizzare un’operazione come Mare Nostrum. L’UNHCR ha recentemente proposto all’Unione l'istituzione di un’importante operazione di ricerca e soccorso europea nel Mar Mediterraneo, simile a Mare Nostrum, e la realizzazione di un sistema europeo per compensare le perdite economiche subite dalle compagnie di navigazione coinvolte nel salvataggio in mare di persone in pericolo. Non resta che aspettare e vedere se questo suggerimento sarà colto.

29 marzo 2015

SundayUp - The Go! Team, "The Scene Between" (2015)

Ieri, o forse un giorno che assomigliava terribilmente a ieri, ma che poteva essere qualsiasi giorno degli ultimi 10-12 mesi, salendo sul solito regionale veloce che negli ultimi 10-12 mesi, oltre che portami in Veneto, mi fa da ufficio, da pub, da disco e da divano, ho notato che c'era qualcosa che non andava. Non l'aria condizionata rotta, non il macellaio (lo spero almeno, perché per venti minuti ha parlato al telefono con sua madre di lingue, cotechini e interiora spero di animali) con la sindrome di Tourette che mi faceva compagnia nei posti vicino. Niente di tutto questo. Quando mi si è avvicinato caracollando il solito capotreno pugliese di mezz'età che non ha mai voglia di controllare i titoli di viaggio, stavolta, invece che strizzare gli occhi e chiedermi se il biglietto fosse già stato visto, l'ho sentito dire: “Caro signore viaggiatore, ho ascoltato l'ultimo dei Tortoise e devo dire che nonostante le vetuste accuse di freddezza e matematicalità che vengono rivolte all'avantjazz-postambient, Beacons of Ancestorship colpisce dove vuole colpire, è un disco che ti fa dire 'Pajo chi?!'”. Io ho trasecolato e ho pensato di essermi addormentato con la mascella ad angolo ottuso, come spesso accade in queste situazioni, e che il capotreno pugliese di mezz'età avesse bofonchiato come al solito qualcosa di comprensibile solamente a un'isoglossa ben distante dalla mia. 
Pensandoci un attimo, nel dubbio, quando gli ho urlato dietro “Ma che cazzo dici, capotreno, l'ultimo dei Tortoise è del 2009, per l'amor del cielo!”, lui si è girato un attimo, come se avesse sentito un'eco lontana e ha proseguito a trotterellare come se nulla fosse.

Poi, dato che ormai, m'ero svegliato, tanto è valso per ascoltarmi l'ultimo dei uno dei miei gruppi preferiti, The Go! Team, che dal lontano 2004 fa sballare gli amanti delle cose caotiche, dolci ed adrenaliniche.
Batterie ciccionissime e distortewall of sound, fiati e flauti per melodie facili che sembrano venire da quando si sponsorizzava ancora il burro dicendo che lubrificava le arterie: l'effetto, come direbbero allo Zecchino d'oro, è vitamina.
Un "fffssssssss" si ode nell'intro della title track, The Scene Between, che si presenta come il pezzo più forte, coinvolgente ed emozionante del pacchetto: una lattina di soda che si apre e frizza. Se vuoi qualcosa di retrò, qualcosa di Bollywood, qualcosa di twee (ma filtrato da quel vecchio stereo che hai trovato in soffitta) , The Scene Between potrebbe funzionare alla grande. Le melodie pop erano l'obiettivo compositivo di Ian Parton e il risultato è sicuramente adeguato, anche se forse un po' troppo infantile e filastrocchico per la sensibilità contemporanea. Certo, al Go! Team non è mai interessato troppo di risultare moderno, qualsiasi cosa questo potrebbe voler significare. Ma forse questa volta il versante Sixties e oldie del progetto ha preso nettamente il sopravvento sulle altre caratteristiche che avevano reso, dal mio punto di vista, la miscela vincente. Parton ha dichiarato che si era stancato di ripetere il solito giochino, effettivamente durato 7-8 anni, che con pochissime variazioni lo aveva portato al successo planetario: questa volta il disco non è quello di una band, ma di un solista che si è appoggiato a cantanti raccattate in giro per il mondo e per il web. Non a caso chi conoscesse già i nostri eroi, rimarrebbe esterrefatto dall'assenza della voce di Ninja, la vocalist-rapper nera che è uno dei trademark di casa Go!. Uno dei brani del vecchio corso che preferisco è Voice Yr. Choice (2011), che rappresenta bene il versante energico e caciarone (ma sempre orchestrato con scienza dall'alto) della band. Il lavoro di sampling e collage di Parton questa volta voleva superare il mero mettere un rap femminile sopra a dei fiati, ecc. È tempo di darsi al pop.
Ninja, un tizio e Ian Parton che con una definizione ostensiva mostra la forma dell'India
The art of getting by inizia come una versione più epica di Aggiungi un posto a tavola (da apprezzare le note bassissime raggiunte durante la strofa) e continua ipnotica attraverso cambi armonici che sanno di già-sentito, ma contestualizzati in modo disorientante - specialmente se si considera che il testo parla di un suicidio di massa a sfondo religioso. (a posteriori sono ancora più convinto della felicità dell'analogia con Aggiungi un posto a tavola, aka il mio nuovo progetto hardcore parallelo The Giovannini&Garinei-town Massacre).

The Scene Between è un disco che consente di entrare, a cavallo di un razzo colorato, in un mondo dipinto a secchiate e forse un po' artificiale, dove i livelli del banco di missaggio toccano il rosso e l'adrenalina giovanile si mescola a sentimentalismi vissuti con leggerezza e un tocco di nostalgia. Un paio di ascolti, si salvino le tre-quattro gemme (The Scene Between, Blowtorch, The Art of Getting By, What'd you say?) e si passi a conoscere il Team del passato: Thunder, Lightning, Strike (2004), Proof of youth (2007), Rolling Blackouts (2011) (qui il full album), anche in ordine sparso. Nel dubbio, uno short film (dieci minuti) consigliatissimo per entrare nel mondo dei calzetti arcobaleno. 

Filippo Batisti
@disorderlinesss

28 marzo 2015

Costa Rica al 100% di rinnovabili. E l'Italia?

costa rica
Foto: internazionale.it

Notizia di questa settimana: la Costa Rica è il primo paese al mondo a coprire il proprio fabbisogno energetico utilizzando esclusivamente fonti così dette rinnovabili.

Tutto questo è vero solo in parte.
Senza nulla togliere all'impresa del piccolo stato Americano (a cui va tutta la mia stima e simpatia per l'impegno in questo campo) va specificato che questo dato è relativo alla soddisfazione della sola domanda per l'elettricità, senza quindi contare settori importanti quali i trasporti e riscaldamento a gas.
L'Italiano, medio e di tutte le dimensioni, non può non lanciarsi in lunghe e articolate analisi di come sia invece diversa la condizione nel Bel Paese e io mi sento quindi in dovere morale di accodarmi alla massa. Mi propongo tuttavia di variare prospettiva e cercare di vedere come sia effettivamente la condizione a sud delle Alpi senza partire da tonnellate di luoghi comuni e autocommiserazione nazional-popolare.

La Costa Rica ha un sesto della superficie dello Stivale e 4 milioni di persone, contro i 60 milioni di santi, poeti, navigatori e CT. Questi dati, scolastici, servono come benchmark di rifermento, infatti:
quelli che ci hanno sbattuto fuori dai mondiali producono 7190 Gwh di energia idroelettrica ogni anno, rispetto ai 43256 Gwh dell'Italia. Questo vuol dire che, a livello di km2, il suolo italiano è più produttivo, sotto questa ottica, rispetto a quello Costaricano. Inoltre in realtà già altre nazioni avevano raggiunto, nel corso degli anni, il pieno soddisfacimento del proprio fabbisogno elettrico sfruttando l'acqua. Ad esempio l'Italia.

Questa condizione si è mantenuta fino ad un intorno degli anni '50 quando il boom economico ha creato un inevitabile mismatch tra domanda ed offerta di energia. Ma allora si dirà, tra i più critici, perché non continuare sull'umida strada? Un motivo valido potrebbe essere che in realtà tutte le riserve di potenziale energia idrica, in Italia, sono già state sfruttate e che, ovviamente, non si può aumentare questa capacità. E il solare? Sarebbe bello, ma funziona il giusto. Qua da noi si ha la seconda capacità installata in Europa per quanto riguarda il fotovoltaico ma purtroppo questa tecnologia, benché molto popolare, ha ancora una resa piuttosto ridotta e soffre dell'enorme problema di essere attiva (di giorno) nel momento sbagliato della giornata rispetto a quando la domanda cresce (di sera-dopo il tramonto).

Ma allora, se abbiamo tutta questa produzione di rinnovabili, perché siamo ancora così dipendenti rispetto ai combustibili fossili? Notando l'energia consumata e rapportandola al numero di abitanti si nota come ogni abitante nostrano consumi come 2,68 simpatici e sorridenti costaricani. Quindi magari, se ci si vuole lamentare dell'arretratezza dell'Italia, sarebbe bello non farlo su Facebook, tramite PC, collegato ad Internet, con la luce accesa. 


Che poi oh, a parte il pippone, bravi davvero anche solo per la volontà politica.

27 marzo 2015

Televisione, omosessualità e stereotipi in Italia

malgioglio

L’Italia è un paese molto particolare: agli occhi del mondo siamo “Pizza, Pasta, Mandolino, Mafia e Berlusconi”, mentre in casa nostra ci definiamo in base a dei preconcetti regionali o addirittura provinciali. Per un veronese il vicentino sarà sempre un magnagatti, per uno di Milano un pugliese sarà un terùn e per un siculo l’emiliano sarà un polenton.
Ma qual è il minimo comune denominatore del nostro paese? La televisione. Nata negli anni Cinquanta per diffondere cultura, informazione ed educare alla lingua italiana, oggi, è arrivata ad essere un mezzo che serve per pubblicizzare prodotti e lobotomizzare cervelli. Ciò che si vede in televisione si compra: dal giocattolo del bambino alle pillole che fanno dimagrire, da Mastrota che vende materassi (ultima occasione da 20 lunghi anni) allo Chef Tony che vende i coltelli (solo per oggi a 49,99 – offerta che dura da una decade). La TV non rientra più tra i media di informazione perché è talmente permeata dalle influenze politiche che fare il telegiornalista ormai significa essere il lecchino di qualcuno.
La questione che mi interessa trattare, però, è quale sia l’immagine dell’omosessualità in televisione. Per la massa noi omosessuali siamo lasfranta, la shampista, la checca, il femminiello, che dir si voglia. Non possiamo negarlo, io per primo, a volte, mi rivedo in queste definizioni. Moltissimi gay – e non solo – sono particolarmente curati nell’aspetto, amano divertirsi e parlano almeno due toni sopra l’uomo medio. Allo stesso tempo, però, ci sono anche persone dotate di un’infinita cultura, uomini impegnati e in carriera, che occupano posizioni di potere o di notorietà.
Ma quali sono gli esempi che appaiono in televisione? Faccio alcuni nomi: Cristiano Malgioglio, Enzo Miccio, Platinette, Alfonso Signorini. Ovviamente non li conosco personalmente. Ho vagamente presente Malgioglio con un completo rosa e ciuffo biondo in qualche salotto mediatico; ho presente Platinette, con tutta la sua bellezza di drag queen, che lancia opinioni; ricordo Miccio con la sua amica Gozzi in Ma come ti vesti? oppure in qualità di organizzatore di matrimoni (dopo aver scaricato la Carla) e Signorini con le sue sentenze sul pettegolezzo italiano. Questo è quello che mi è rimasto di questi attanti del piccolo schermo. Ma l’italiano medio che li vede: cosa pensa di loro? Il mondo gay, composto di almeno 6 milioni di individui nostri connazionali è rappresentato in TV da persone che hanno alcuni tratti caratteristici in comune: sono effemminati, modaioli, pettegoli e opinionisti. Con la loro stravaganza divertono chi li guarda e fanno sentire il maschio più virile.
Qual è la ripercussione che ha quest’immagine stereotipata sulla nostra società? Si può arrivare a una conclusione logica, correggetemi se sbaglio. Poniamo che io sia un bambino di 8 anni, potrei chiedere a mia madre: “Chi è quell’uomo?” riferendomi a uno qualsiasi di questi “vip” – definiamoli – sopra le righe. La mamma, un po’ in difficoltà, nella più rosea delle ipotesi, potrebbe spiegarmi che quell’uomo che vedo in TV è un signore omosessuale, un uomo che si innamora di un altro uomo. Ed ecco che il primo esempio della mia infanzia di uomo gay è proprio figlio dello stereotipo più eccentrico che la televisione poteva scovare. Altri esempi non ce ne sono. E se ci fossero dubito che la mamma in questione andrebbe ad approfondire con il figlio anche dettagli sul loro orientamento sessuale.
Quale può essere la soluzione? Di certo non eliminare la TV (rifugio di tanti bimbi, tanti genitori e tanti nonni). Tanto meno eliminare il povero e apprezzabilissimo Malgioglio. Però, proprio questo mezzo di comunicazione, che sfrutta tanto lo stereotipo gay, potrebbe sensibilizzare le persone sull’argomento, ma, ad oggi, non lo fa.
Parte della “colpa”, tuttavia, è anche nostra. Noi omosessuali non amiamo la visibilità. In pochi siamo dichiarati in famiglia, a lavoro o con gli amici. Rarissimi i casi di gay che raggiunta la notorietà condividano col grande pubblico la loro affettività o il loro orientamento.
Il film Milk di Gus Van Sant ci fornisce un importante suggerimento: in una delle sue campagne, il futuro consigliere statunitense Harvey Milk, propone alla comunità lgbt di uscire allo scoperto, di mostrare la faccia, di mettere tutto il quartiere e la città di fronte al fatto che esistono delle persone che vengono considerate diverse, ma che in realtà non lo sono.
Non è facile. Uscire dall’armadio in cui ci si nasconde non è un passo semplice e va sempre ben ponderato: bisogna scegliere gli amici su cui contare e preparargli un terreno adatto, prima di sganciargli la “novità”. Se tutti noi affermassimo di essere gay, allora sarebbero moltissime le persone che cambierebbero idea e smetterebbero di affidare il proprio giudizio sull’omosessualità agli stereotipi della TV. Chi ha fatto il suo coming out sa, che dopo il grande sforzo iniziale, si ha solo tanto da guadagnare: un’amica, un fratello, un collega.
Come possiamo generalizzare l’aspetto e il comportamento di 6 milioni di persone? È scorretto considerare il maschio gay una femmina mancata, così come sarebbe scorretto dire che gli uomini italiani sono tutti sciocchi e macisti.
Quel ragazzo carino che vedi sempre in tram, quella seducente donna che lavora nel tuo ufficio, quello zio un po’ scemo ma simpatico potrebbero essere tutti persone omosessuali.
Viviamo in un paese in cui il pensiero individuale spaventa, il pensiero stesso è pericoloso; un paese in cui il giudizio degli altri è caustico e porta alla solitudine; un paese in cui la televisione occupa troppo spazio e non riusciamo più a stenderci con un buon libro (cartaceo, non kindle). Fortuna nostra – gay intendo – è che a livello mondiale le cose stanno cambiando, i diritti aumentano e ad un certo punto, anche da noi, l’opinione pubblica smetterà di giudicare e proverà a conoscere.
A voi la riflessione.


EscoPazzoDalMazzo


Io sono minoranza 

Attualità, curiosità, politica, testimonianze e non solo. iosonominoranza.it è un progetto di think community nato per contribuire alla costruzione di una società più aperta e rispettosa della diversità.

26 marzo 2015

Sono andato ad un comizio di Matteo Salvini

Ieri sera Matteo Salvini era a Firenze, la città nella quale ho la fortuna di vivere dall'anno scorso, per la presentazione delle liste e del candidato governatore Claudio Borghi della Lega in vista delle regionali del 31 maggio. Era lunedì, quindi ho deciso di fare la pazzia e andare, un po' per vedere fuori da un tubo catodico l'uomo nuovo della politica italiana, un po' per provare il brivido di stare in mezzo ad un mondo a me quantomeno distante e incomprensibile come quello dell'elettorato leghista. Inoltre era curioso vedere l'impatto che poteva avere il Carroccio in una regione che non solo non è propriamente una sua roccaforte, ma fa anche parte di quel centro-sud Italia dal quale, punto primo del manifesto ideologico leghista, bisognava dividersi assolutamente fino a un paio di anni fa.


Nell'Auditorium al Duomo di via Dè Cerretani c'erano circa duecento persone, quasi metà figuravano come candidati dalle varie province per le regionali, composizione piuttosto eterogenea, molti 50-60enni ma non pochi giovani, mi ha colpito soprattutto la forte presenza femminile, forse più della metà, sicuramente più di quanto mi aspettassi, quasi tutte in età matura.
Il "capitano" (così è chiamato da tutti nell'ambiente) è arrivato con un'ora e mezzo abbondante di ritardo perché, con inossidabile coerenza, aveva partecipato ad un talk show. Prima di lui ha parlato il candidato governatore Claudio Borghi Aquilini, milanese, ex professore di economia ed ex dirigente di multinazionali, che ha aperto il discorso raccontando il suo stupore meneghino per la “connotazione mafiosa” assunta dal PD in questa regione, dove, a detta del professore, se alzi la testa e dichiari la tua diversità politica vieni isolato e messo in evidenza in modo che tu sia da esempio, ed in particolare “se hai una bottega perderai tutti i clienti”. Il più colpito di tutti ero io, tristemente conscio di non essermi mai reso conto di vivere sotto un regime autoritario-intimidatorio-regionale. Il resto del discorso riportava tutti i punti principali della nuova Lega salviniana: sicurezza, immigrazione, scandali, no Renzi, no UE, no Euro, no tasse, no banche, crisi, carcere. Devo essermi distratto mentre faceva proposte concrete su come governare la regione, però ero attento quando ha fatto dichiarazioni interessantissime che riporterò testualmente:
  • Qua bisogna tenere pulito, bisogna evitare che arrivi di tutto”.
  • (sui negoziati Grecia-UE) “.. c'erano dei tizi stranissimi, tipo Tusk” (attuale Presidente del Consiglio europeo)
  • Indipendenza della Toscana”
  • Ha chiesto di uscire dall'Euro persino la Danimarca, che è un posto del piffero e c'hanno solo una statua di una sirena
  • Juncker è un ubriacone (…) il Lussemburgo è lo stato che ruba più di tutti in Europa, per questo hanno messo lì Juncker”
  • Chi cazzo l'ha mai votato Juncker?” (gli elettori dell'Unione Europea, il 25 maggio 2014, ndr)
  • Noi siamo qua per vincere..” -voce dal pubblico- “..e vinceremo!” - Borghi ammicca.
Poi, alle 22.35, l'arrivo del capitano tra uno scroscio di applausi (volevo contare quanti ce ne sarebbero stati in totale ma ho fallito miseramente dopo 5 minuti). Ha parlato per 45 minuti, era circondato da amici e adulatori quindi non ha mai urlato né alzato particolarmente i toni (dire che parlava come una persona qualunque al bar potrebbe risultare offensivo, ma la percezione era quella, nel bene e nel male). Riporto brevemente i temi principali, tutti trattati abbastanza velocemente e superficialmente, nonché intervallati da copiosi applausi. Sono le stesse cose che chiunque può leggere sulla sua pagina Facebook o avere altissime probabilità di ascoltare accendendo la televisione in qualsiasi momento su qualsiasi canale:
  • retorica anticasta corrotta e arraffona.
  • distribuzione ai cittadini italiani di un milione di moduli per fare richiesta di asilo politico.
  • immigrazione: solo 3600 su 170000 sbarcati (non precisate le tempistiche) sono rifugiati politici. “Quei 3600 sono miei fratelli”. Applausi. 
  • a Mineo (Sicilia) più di 50 mln di euro all'anno stanziati per centro accoglienza immigrati. Comune governato da NCD. L'immigrazione è un business per la sinistra.
  • (I have a dream) “esodati al posto dei richiedenti asilo”.
  • polemica anti Fornero e contro la cancellazione del referendum (incostituzionale, ndr) proposto dalla Lega.
  • Stato vero evasore.
  • tassare la prostituzione.
  • caso ASL di Massa Carrara.
  • apertura degli ospedali fuori dall'orario d'ufficio.
  • contributo economico ai genitori divorziati (“diversi dagli 80 euro di Renzi, pagati da chi non lavora”).
  • contrarietà ad IMU sui terreni agricoli e sulle case terremotate ed inagibili in Emilia.
  • nel mio paese normale (idea che si presenta quasi sempre nelle sue argomentazioni) la casa non è tassata
  • governati da cretini”.
  • polemica contro i giornalisti (del cui ordine dichiara, vergognandosi, di fare parte) per la distorsione dei risultati della Le Pen in Francia.
  • polemica contro i poteri forti “che ci vorrebbero più moderati, ma io ho incontrato tantissima gente normale e vi assicuro che non è moderata”.
  • Renzi ha l'obiettivo di distruggere l'economia italiana”.
  • in un paese normale, tra guardie e ladri io sto con le guardie”.
  • sicurezza, aneddoti raccontati da poliziotti su criminali stranieri liberi dopo pochi giorni (una signora dal pubblico grida che gli algerini sono tutti degli infami, Salvini risponde ironicamente che “ce ne sarà uno a posto” ).
  • polemica contro la depenalizzazione di 150 reati, tra cui la corruzione, operata dal governo Renzi.
  • criminali in galera e lavorare (standing ovation).
  • in un paese normale, asili nido gratis, non bonus bebè che con i parametri del governo va solo agli stranieri e ai disonesti.
  • non sono xenofobo” aneddoto personale sulle sue gite a Chinatown a Milano da bambino. Dice che adora il confronto culturale e parla un po' di genovese e di sardo grazie all'ascolto di De Andrè. Ma è questione di numeri e proporzioni: adesso a Chinatown sono (sorprendentemente) tutti cinesi.
  • Integrazione è possibile solo se cultura ospitante è orgogliosa.
  • sinistra complice del fenomeno dell'islamofobia.
  • la sinistra odia l'Italia e la Toscana.
  • Renzi ha amici forti ed è peggio di Berlusconi, ma lui ha grande rispetto per i valori di sinistra e la gente di sinistra (una signora scatta in piedi ad applaudire ma si risiede mestamente dopo pochi secondi accorgendosi di essere l'unica).
  • “Noi abbiamo aperto gli occhi per tempo”. Dichiara di non volere qualche voto in più, ma di voler salvare tutto.
  • l'immigrazione si può fermare”.
  • questi parlano di fascismo quando i primi squadristi sono loro”.
  • finale sulla sicurezza: chiudere i campi rom come priorità, poi centri sociali abusivi.
  • finale sull'economia: con tassazione al 63% se evadi fai bene. Flat tax tra 15% e 20% per “convincere anche i più ricchi a pagare le tasse”.
Par condicio: anche Stewie e Brian Griffin sono leghisti
Prima di andarmene ho assistito all'ennesima lunghissima ovazione e all'inizio della fila per fare le foto col leader. È mancata, completamente, solo una cosa: l'interazione. Il pubblico non era diverso da quello dei talk show: nessuna domanda, nessuna osservazione, nessuna critica. Solo applausi e manifestazioni di consenso (“c'ha proprio ragione”, “non se ne può più”) dette al vicino o magari anche urlate ma senza la pretesa di uno scambio, un po' come mettere like su Facebook o fare un retweet su Twitter. Lungi da me fare il nostalgico, ma avevo un'altra idea di comizio politico.
Infine, mi ha colpito soprattutto una cosa dell'aspetto comunicativo dell'<altro Matteo>. La costruzione retorica del “paese normale” (utilizzata diverse volte anche da Borghi) è emersa almeno una decina di volte. Consiste nel prendere un caso isolato ed eccezionale, innalzarlo a caso medio riportandolo come se fosse una cosa ordinaria e abituale per poi commentare con un'ovvietà come “questo non succede in un paese normale”. Allo stesso tempo, il “paese normale” è una sorta di utopia leghista dove tutto è efficiente e i cittadini godono di diritti ed agevolazioni assoluti (no tasse sulla prima casa, asilo nido gratis, fisco amico, giustizia efficiente, ritorno alla cara vecchia Lira, sicurezza sempre garantita) e questo si verifica in un contesto assolutamente irreale e anche abbastanza inquietante dove le diversità sono annullate e c'è totale omologazione culturale/etnica/religiosa/politica. Salvini propone ad un pubblico profondamente conservatore e xenofobo quella che effettivamente è la loro idea di normalità, un paradiso di destra nazionalista ed impermeabile ad ogni scambio col mondo reale, con preoccupanti elementi totalitari come il costante rifiuto della diversità, presentati però in maniera bonaria e nostalgica, nascondendo la violenza intrinseca di quelle parole. È la sua forza, ma anche il suo limite: solo Ned Flanders (minuto 14) e pochi altri hanno questa concezione irreale e distorta di normalità.



25 marzo 2015

La House of Cards di Hillary Clinton

Lo scorso 27 febbraio Netflix, l’emergente casa di produzione e distribuzione di serie tv online, ha messo in rete l’attesissima terza stagione di House of Cards, per la gioia dei numerosi fan sparsi per il mondo. La nuova stagione, senza fare uno spoiler clamoroso, entra nelle pieghe del rapporto tra Frank Underwood e sua moglie Claire, seguendoli nella loro vita di coppia tra le mura della Casa Bianca e nella loro solita lotta senza scrupoli per il successo. In particolare i nuovi episodi si concentrano maggiormente sulla figura della nuova First Lady, sospesa tra aspri litigi e tentativi di preservare il matrimonio, esigenze di realizzare le proprie ambizioni ed obblighi a stare sempre un passo indietro ad un marito così ingombrante, attimi di comprensibile emotività e necessità di mantenere una freddezza degna di una carica ufficiale. È fondamentalmente Claire il personaggio più enigmatico della serie. Infatti, mentre Frank è un rullo compressore, alimentato da un’inesauribile sete di potere, la sua inseparabile compagna, complice di mille trame, ha contorni decisamente più sfumati.

Robin Wright e Hillary Clinton
La storia recente degli Stati Uniti è costellata di “grandi donne dietro grandi uomini”: Eleanor Roosevelt, Jacqueline Kennedy, Nancy Reagan. Ma nessuna di queste si avvicina al personaggio di Claire Underwood tanto quanto Hillary Rodham (questo il cognome da nubile) Clinton, moglie dell’ex presidente Bill e lei stessa probabile candidata democratica alla presidenza nel 2016. Addirittura all’attrice Robin Wright è stato in passato chiesto se si fosse ispirata alla Clinton nell’interpretazione del suo ruolo. La Wright ha naturalmente negato. Hillary ha scherzato sul paragone attraverso un divertente video per il sessantottesimo compleanno del marito, che vede la partecipazione dell’altro attore principale della serie, ovvero Kevin Spacey.

I punti di contatto tuttavia sono numerosi. A partire da un’influenza straordinaria nella carriera politica del consorte,  al punto che i loro oppositori avevano coniato per deriderli  l’appellativo “Billary”. Ascendenza che si è palesata quando Hillary divenne la prima First Lady della storia ad avere un suo ufficio nella West Wing della Casa Bianca: il luogo in cui di solito il Presidente, insieme ai suoi più stretti collaboratori, prende  le decisioni che contano. In pratica la Clinton è sempre stata materialmente coinvolta nelle attività pubbliche del marito durante quegli otto anni. Molto meno lo è stata in quelle private. In molti ricordano il “Sexgate”, in cui furono trovate  prove incontrovertibili riguardo a ripetuti tradimenti da parte di Bill con la stagista Monica Lewinsky. Hillary in quell’occasione scelse di passarci sopra, anteponendo, esattamente come Claire Underwood, gli interessi materiali della coppia (e magari pure quelli personali) al proprio orgoglio ferito di moglie e di donna. Con i protagonisti di House of Cards, i Clinton hanno condiviso anche una discreta quantità di scheletri nell’armadio. Il primo in ordine di importanza è chiamato “ControversiaWhitewater”. La vicenda, che risale ai tempi in cui Bill era governatore in Arkansas, aveva a che fare con un presunto conflitto di interessi riguardante Hillary. Quest’ultima avrebbe approfittato della sua posizione dell’epoca per finanziare illegalmente una compagnia di credito di proprietà di amici dei Clinton. Il caso esplose durante la campagna elettorale del 1992 e si protrasse per svariati anni. A contrario di quasi tutte le altre persone coinvolte nell’inchiesta, i Clinton ne uscirono puliti. Grazie anche a dei documenti misteriosamente scomparsi durante il trasferimento dall’Arkansas a Washington. Inoltre Hillary, come First Lady, è stata sospettata, all’interno del cosiddetto “Travelgate”, di aver licenziato membri dello staff della Casa Bianca, per rimpiazzarli con suoi conoscenti, adducendo false motivazioni. Last but not least, è stata anche accusata di aver spinto il direttore dell’Ufficio del Personale di Sicurezza, da lei nominato nonostante le scarse qualifiche, ad ottenere file segreti dell’FBI che lei avrebbe letto. Tuttavia non è stata riconosciuta colpevole di illeciti in entrambi i casi.



Dopo gli anni alle spalle di Bill, Hillary si è lanciata nella sua carriera politica. Senatrice per lo stato di New York nel 2000, è stata rieletta nel 2006. Da deputata ha appoggiato sia la missione in Afghanistan nel 2001 che quella in Iraq nel 2003. Nel 2008 ha partecipato alle primarie democratiche per scegliere il candidato presidente, perdendo contro Barack Obama, al termine di una campagna elettorale estremamente combattuta. Proprio il primo presidente afroamericano della storia l’ha nominata subito Segretario di Stato, per tenersela vicina e non inimicarsela ulteriormente, oltre che per sfruttare le sue competenze e la sua esperienza.  Nel 2012, scaduto il suo mandato, Hillary si è dichiarata disinteressata a ricoprire per altri quattro anni la carica, che è finita in mano a John Kerry. Era già evidentemente proiettata verso il 2016.
Nella lotta interna al partito democratico la Clinton dovrebbe avere gioco facile per assenza di altri avversari di spessore. Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts, esponente dell’area più liberal del partito e accreditata come unica potenziale minaccia nella competizione, ha più volte ribadito la sua intenzione di non voler correre. Tuttavia le cose potranno farsi più dure quando la posta in palio sarà la poltrona dello Studio Ovale.

In questi giorni si sta consumando lo scandalo delle email, nel quale si è venuto a sapere che Hillary utilizzava il suo account personale invece che quello ufficiale negli anni da Segretario di Stato (pratica concessa ma abbastanza inusuale), evitando l’archiviazione di molte conversazioni. La sua giustificazione ha lasciato a dir poco perplessa l’opinione pubblica statunitense. Viene quindi spontanea una considerazione:  se i Repubblicani impostassero la campagna elettorale sulla questione della trasparenza, magari presentando un candidato giovane ed estraneo ai giochi di potere di regola nella capitale, come riuscirebbe la moglie di Bill a convincere gli americani, stanchi di una politica lontana dalla gente comune, a votarla?  A quel punto il castello di carte (la “House of Cards” per dirla in inglese), costruito tanto faticosamente dalla Clinton negli ultimi vent’anni  e più, rischierebbe davvero di crollare nel giro di pochi mesi.




22 marzo 2015

La Coalizione Sociale di Maurizio Landini: tanti dubbi, poche certezze


Di questi tempi, tentare, per l’ennesima volta, di federare quell’universo caotico chiamato sinistra radicale italiana, potrebbe comportare come premio per il nostro eroe come minimo un bel TSO. E forse non è quello che vuole ottenere Maurizio Landini con il lancio della sua “Coalizione Sociale”, a quanto pare l’ultimo baluardo contro il Renzismo e le sue proposte politiche e sociali, come ad esempio il Jobs Act.
Tanti interrogativi e dubbi stanno affiorando riguardo all’iniziativa del segretario dei metalmeccanici, che si pone come alternativa rispetto al governo di Matteo Renzi. E, soprattutto, dubbi sorgono a proposito della natura di questo nuovo soggetto politico che sta nascendo: è il preludio alla costituzione di un nuovo partito di sinistra? O dobbiamo credere allo stesso Landini, quando afferma che lui di creare nuovi partiti a sinistra non ne ha nessuna intenzione, ma pensa piuttosto ad una comunione di intenti tra mondo del’Associazionismo (da Libera ad Emergency) per contrastare le politiche dell’esecutivo attraverso una mobilitazione che raccoglierebbe le fasce sociali che si sentono escluse da ogni processo decisionale: dagli operai, agli studenti, ai lavoratori precari? Tali categorie, oltre ad un’avversione per il governo, provano un sentimento di sfiducia nei confronti dei sindacati, quali la CGIL, la quale nei giorni scorso ha avuto un acceso dibattito proprio con Landini, accusandolo di voler trasformare il sindacato in un partito e di non essere stata invitata, per bocca del segretario generale Camusso, alla discussione sul lancio della Coalizione.

Torniamo ai due quesiti.

Negli ultimi anni, i vari esperimenti di dare vita ad una formazione di sinistra radicale hanno sempre lasciato in eredità nient’altro che un mucchietto di genere. Il via al valzer dello sfascio lo aveva lanciato la Sinistra Arcobaleno nel 2008, coalizione tra Rifondazione Comunista e il Partito dei Comunisti Italiani (i bolscevichi e menscevichi de noantri), non superando la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento. Risultato bissato sempre alle elezioni politiche del 2013 da Rivoluzione Civile, soggetto politico creato dal magistrato Antonio Ingroia che è sparito nel giro di poco tempo. Qualche successo sembrava averlo ottenuto l’anno scorso alle elezioni europee L’Altra Europa con Tsipras, cartello elettorale nato per sostenere la candidatura dell’attuale premier greco alla presidenza della Commissione Europea, avendo eletto tre eurodeputati. Speranze flebili che sono andate dissolte tra liti, contrasti interni e scarsa programmazione politica. Nel mezzo stiamo assistendo al lento declino di SEL e del suo leader, Nichi Vendola, e alla fine del “laboratorio Puglia”, governata proprio da Vendola dal 2005. 
Per tutti questi motivi dovremmo credere a Landini quando afferma che non ha nessuna intenzione di mettere in piedi un nuovo (l’ennesimo) partito di sinistra. Federare una galassia composta da partitini perennemente in lotta tra di loro, con leader preistorici da tempo invisi alla piazza, ma sempre pronti a contribuire con la loro immagine a far si che un nuovo abbozzo di pianificazione unitaria della sinistra italiana precipiti verso l’oblio, sembra appunto un’impresa nella quale solo un pazzo vorrebbe avventurarsi. E Landini è una persona troppo intelligente per rischiare di minare immediatamente le fondamenta di questa sua nuova idea.


Di conseguenza l’Associazionismo dovrebbe essere la via maestra da seguire. Creare un Movimento, non un partito, e combattere il governo sul piano del lavoro. Non rinunciando al suo ruolo da sindacalista e, anzi, affermando che “il sindacato ha sempre fatto politica”. Le battaglie politiche e sociali hanno segnato la storia dei sindacati, e mai come ora dovrebbero essere riprese in mano in maniera concreta e seria, visto il sentimento di sfiducia nei confronti delle maggiori sigle sindacali. Eppure il progetto di Associazione sembra essere messo subito in discussione subito dopo aver mosso i primi passi: Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ha immediatamente negato che l’Associazione nella lotta contro le Mafie aderirà alla Coalizione Sociale, probabilmente per il timore che Libera venga identificata come parte di un soggetto politico. Non un bel segnale, se si confrontano anche i precedenti: dal Social Forum di Firenze, ai movimenti No Global, fino ai più recenti movimenti contro la privatizzazione dell’acqua, hanno rappresentato nel corso del tempo battaglie importanti, ma non sono riusciti a dare seguito a queste lotte delineando un progetto a lungo raggio. Hanno intrapreso un lento declino man mano che l’interesse per le tematiche che rappresentavano ha cominciato a scemare.

Sia l’idea del partito che quella del movimento sembrano quindi incontrare enormi difficoltà in una loro eventuale realizzazione, probabilmente anche a causa di un blocco psicologico: le cocenti delusioni in termini di peso decisionale e risultati raggiunti, unito a leadership ormai diventate le ombre di se stesse, hanno minato profondamente la fiducia dell’elettorato verso qualsiasi tentativo di progettazione alla sinistra del Partito Democratico. Bisognerebbe quindi ricostruire dalle basi un terreno dove far crescere un soggetto e una base che lo sostiene, cercando una volta per tutte di sradicare divisioni ideologiche (se ha ormai un senso parlare ancora di queste) e rivalità personali da bambini delle elementari. Personalmente giudico giusta la scelta di Landini di rinunciare, al momento, all’immagine del padre unificatore della sinistra: troppo rischioso in base di idee e consenso, visto che al momento è l’unico leader sindacale a godere ancora di una solida fiducia. L’Associazionismo però comporta il rischio di non avere peso nel condizionare le scelte dell’esecutivo: influenzare le scelte politiche attraverso le sole manifestazioni di piazza potrebbe essere dimostrarsi completamente inefficiente, la solita protesta fine a se stessa. Non avrebbe quindi il peso necessario per ottenere risultati concreti. Inoltre, il peso carismatico dello stesso Landini potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, formando un entità plasmata intorno alla figura del suo capo, senza però pensare a plasmare militanti ed eventuali dirigenti capaci e preparati.
La nascita della Coalizione Sociale si colloca immediatamente in una zona grigia di insicurezza, incertezza e paure di nuove divisioni. Un pallone pronto a sgonfiarsi rapidamente, secondo molti. Se le critiche però arrivano anche dagli esponenti della minoranza dem, Landini però potrebbe raccogliere già un risultato importante: alzare il consenso intorno alla sua figura.

SundayUp - Musica per tirarsi un po' su

Ammettiamolo, a ognuno capitano con maggiore o minore frequenza dei momenti in cui non si aspetta altro che un’iniezione di serotonina concentrata, o una torta al triplo cioccolato, o una camminata in montagna, o un bacio, o chissà che altro. Che so, magari siete stati appena scaricati dalla/dal vostra/o compagna/o, magari semplicemente piove e fa freddo, o magari avete appena preso un immeritato 18 (in questo caso spesso giova applicare il buon vecchio rasoio di Occam: è più facile che esista un complotto universale volto unicamente a svalutare la vostra persona, oppure forse effettivamente quel 18 non era poi così immeritato?). Ecco a voi qualche brano che non potrà certo risolvere la situazione, ma potrà dare un aiutino alle nostre povere anime smarrite.
La solita premessa: qualcuno, quando si sente giù, non desidera altro che musica che lo porti ancora più giù. Io preferisco evitare questa strategia, e ascoltare qualcosa che possa aprire uno spiraglio al sole e alla gioia. Ognuno faccia come meglio crede, ma avverto che qui elencherò soltanto brani allegri e solari. Spesso ho notato che brani che su alcuni hanno un certo effetto, su altri hanno non dico l’effetto opposto, ma almeno molto diverso – e non c’è da stupirsi, è perfettamente logico. Quindi non me ne vogliate se dopo aver ascoltato qualche brano di questi vi verrà voglia di piangere amare lacrime, non l’ho fatto apposta!

J.S. Bach – Giga fugata BWV 577

È inutile avviare qui un elogio sperticato (ma che sarebbe del tutto sincero) di Johann Sebastian Bach, uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi. Presento in breve questo brano, che si caratterizza per alcune singolari caratteristiche: si tratta di una giga (una forma di danza saltellante tipica del ‘700 e che è sopravvissuta, ad esempio, nelle tradizioni musicali irlandesi e forse, almeno in qualche stilema, anche in certe canzoni italiane come questa) ma anche di una fuga (una forma musicale tra le più rigide e piene di regole rigorosissime). Riuscire a fondere i due elementi non è in sé difficilissimo: farlo con un risultato gradevole all’ascolto però è un’opera di altissima ingegneria musicale.
È un branetto breve, allegro, divertente e non troppo impegnato, qualcosa all’insegna della leggerezza che, spesso dimenticata, è a mio parere il più grande antidoto alla tristezza (assieme alla non trascurabile cioccolata. E al mare. E al sole. E alla cassata. E al camembert. E vabbè, basta).
Sulla musica dell’epoca di Bach l’esecuzione può fare molta differenza: io ho scelto questo video di un ottimo musicista olandese, piuttosto divertente perché permette di capire bene il motivo per cui nessun organista si offenderà mai se lo accusate di “suonare coi piedi”.


Sinfonia definita da Wagner “apoteosi della danza”, ma non molto amata dal suo autore, che le preferiva l’enigmatica Ottava, è oggi una delle più celebri ed eseguite. Questo movimento, l’ultimo della sinfonia, arriva al termine di un vero e proprio viaggio tutto all’insegna dell’eroicità: a un primo movimento caratterizzato dal tipico ritmo di cavalcata (o anche, più prosaicamente, dal ritmo che fanno le casse dello stereo quando ci avvicinate un cellulare) segue il celeberrimo ma indubbiamente tragico secondo (qui usato in una notevole scena), mentre il terzo spezza la tensione con il suo ritmo un po’ da giga (vedi sopra) inframmezzato da interventi che ricordano delle scene alpestri, con corni, jodel e compagnia. Quando arriva il quarto è l’apocalisse: bisogna pensare a come poteva reagire l’uditorio dei primi dell’800, abituato a morigerati quartetti d’archi o, al limite, a opere comiche discutibilmente pruriginose o a sobri oratori (sì, sto esagerando). I sentimenti eroici in musica erano qualcosa di molto poco praticato: in questa situazione di bonaccia arriva Beethoven come una tempesta, scompigliando qualsiasi prassi musicale. Le sue sinfonie sono difficili da suonare (e anche, a dire il vero, da ascoltare) al giorno d’oggi, figuriamoci all’epoca. Si narra di un primo violino che, dopo aver fatto notare al compositore che un passaggio era ineseguibile –a suo dire–, si sentì rispondere “cosa vuole che me ne importi del suo misero violino”. Tanto per capire con chi abbiamo a che fare.
Detto questo, il quarto movimento della Settima ha una carica di energia mostruosa, che si dipana tra arruffate scale degli archi, accordi strappati a piena orchestra, fanfare trionfanti dei corni (che non a caso in questa registrazione sono 4, il doppio di quelli previsti da Beethoven: un espediente per rendere ancora più dirompente e tonante il brano, e anche per mettere al riparo il singolo esecutore da eventuali défaillances, piuttosto probabili vista la difficoltà del brano). Un inno alla vitalità e alla dinamicità, scritto da un uomo – giova ricordarlo – che sarebbe diventato completamente sordo nel giro di poco tempo. Riuscite a concepire una maggior disgrazia per un compositore? Godetevi l’interpretazione (anche visiva) dello smagliante Carlos Kleiber, un gigante forse insuperato.



Mi devo innanzitutto scusare per la non eccelsa qualità audio di questa registrazione, ma si tratta di un’incisione live del 1968 di uno dei più grandi violinisti di tutti i tempi, accompagnato da uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi, e non ci poteva essere altra interpretazione che questa per descrivere questo brano.
La sonata è particolarmente amata da noi violinisti, perché non affoga la bellezza in inutili tecnicismi, ma libera un canto semplice e leggero, privo di particolari difficoltà che non siano di natura strettamente musicale. È una sonata tra le poche francesi di questo periodo (belga, per essere precisi) ed è un fulgido esempio di “sonata ciclica”: gli stessi materiali ritornano, variati ma sempre riconoscibili, in tutti i quattro movimenti, fondendoli in un solo corpo: uniti seppur diversi (la forma ciclica pare abbia ispirato Proust per la stesura della sua monumentale Recherche).
Ho scelto questo quarto movimento, perché, analogamente a Beethoven, corona un percorso che passa attraverso l’etereo sognare del primo, il tempestoso dinamismo del secondo e la tragicità del terzo. Il quarto porta un raggio di sole che spazza via tutte le inquietudini precedenti per offrire un quadro di assoluta e completa redenzione, come se sbucassimo dalla nebbia per trovarci in una valle fiorita. Se avrete la pazienza di farlo, consiglio di ascoltare la sonata completa: così si potrà apprezzare meglio il percorso progettato da Franck.

C. Debussy – Les collines d’Anacapri (Préludes, Premier Livre, n.5)

Un breve preludio pianistico di Debussy, ispirato, come da titolo, alle colline di Anacapri. Si possono sentire echi di tarantelle (anche se di sapore squisitamente debussiano) e persino un sensuale tango nella sezione intermedia, che sembra anche ammiccare a una certa produzione pre-jazzistica dell’epoca. Insomma, un piccolo gioiello.
Propongo l’esecuzione di uno dei più geniali e incredibilmente dotati pianisti di tutti i tempi, l’italiano Arturo Benedetti Michelangeli. Come si può apprezzare nel video, il titolo viene mostrato soltanto alla fine, come da prescrizione dell’autore: è singolarissimo infatti il trattamento che Debussy riserva a questi titoli. Non sono programmatici, non devono influenzare l’ascoltatore prima del brano, ma soltanto confortarlo nel caso il brano abbia evocato esattamente le sensazioni poi rivelate nel titolo, oppure farlo sorridere bonariamente nel caso le sue impressioni non corrispondano a quelle dell’autore. Ma, parliamoci chiaro, chi ascoltando questo brano penserebbe, che so, a una tempesta? O a una tragedia, o anche solo a una tranquilla sera in campagna? Facciamoci un esame di coscienza e ascoltiamo a mente pura: sembra impossibile non percepire il luccichio del mare, il cielo terso e il sole. Ecco, forse è proprio la solarità la caratteristica principale di questo brano (è data dall’uso della scala pentafonica, se volete saperlo), perfetto da ascoltare nei momenti piovosi quando non volete nulla di troppo tonante.



Un capolavoro tra il serio e il giocoso: Ravel era forse l’unico che poteva scrivere un concerto per pianoforte, un brano solitamente serissimo, così pieno di effetti comici e divertenti. Il primo movimento si apre con un colpo di frusta, tanto per fare un esempio. Il secondo invece è uno dei brani più struggenti della letteratura musicale mondiale, almeno a mio parere, di un intimismo e di un’intensità quasi insostenibili (e per questo non è assolutamente adatto a questa playlist! Ma se volete – non dite che non vi ho avvertito! – lo trovate qui). Il terzo movimento scioglie qualsiasi ombra in una luminosissima ma breve cavalcata impetuosa in cui si mescolano con nonchalance fanfarette militari ironiche, assoli di pianoforte che ricordano decisamente il ragtime, atmosfere jazz, soli dei fiati al limite della presa in giro (uno su tutti: i glissandi clowneschi dei tromboni), grancasse impetuose, scrittura pianistica che richiede al povero solista di dare zampate sulla tastiera più che di suonare (si notino le ultime misure nel video!), il tutto condensato in neanche quattro minuti.
Propongo l’esecuzione di Leonard Bernstein, incredibile direttore d’orchestra del secolo scorso, forse l’unico in grado di suonare da solista e contemporaneamente dirigere questo difficilissimo concerto. È evidente che si sta divertendo da matti, fatelo anche voi!

D. Shostakovich – Tahiti Trot

Questo brano in realtà non è di Shostakovich, ma è parte di un musical che venne composto da tal Vincent Youmans, dal titolo "No, no, Nanette". Conosciuto, vero? Io ne ignoravo completamente l’esistenza, se non fosse per questo curioso scherzo del destino che fece comparire questo brano dalla radio di Nikolai Malko, amico di Dmitri Shostakovich, il 1 ottobre 1927 mentre il compositore era in casa sua. Ascoltarono “Tea for two” (qui la versione originale) e Malko scommise cento rubli con Shostakovich che quest’ultimo non sarebbe stato in grado di riorchestrarla a memoria in meno di un’ora (gioverà ricordarlo, il buon Dmitri non aveva mai sentito questo brano prima). Non serve neanche dirlo, dopo tre quarti d’ora “Shosta” uscì dalla stanza in cui si era chiuso con la nuova orchestrazione, che prese il nome di “Tahiti Trot”, e con cento rubli in più in tasca.
Si tratta di un branetto godibilissimo e tipicamente da musical: pieno di educata ironia e con un tema riconoscibilissimo (qualcuno lo noterà: è quasi lo stesso di certi squallidi spot estivi, qui un esempio dei peggiori), è contraddistinto dall’uso di timbri scintillanti come il glockenspiel, la celesta, le arpe, assieme al consolidato uso degli ottoni come richiamo delle jazz band. In tutta sincerità, in tutto questo non so assolutamente cosa diavolo c’entri Tahiti, ma teniamolo buono come un richiamo al sole, al mare e alla bella vita, che il povero Shosta deve aver desiderato con non poco trasporto nel corso della sua vita (chiuso nell’URSS, visse sempre nel terrore di essere deportato, ma magari la sua triste storia la racconteremo un’altra volta).


Non amo, in generale, le manifestazioni di entusiasmo musicale di questo tipo. Però sono consapevole di avere il dovere morale di fare, nelle situazioni che lo richiedono, delle eccezioni. Questa è una di quelle situazioni. È troppo bello vedere dei musicisti divertirsi così: la maggior parte di loro sono bambini (guardate il percussionista che suona il glockenspiel, oppure il primo violoncello! Avranno 8 anni!): questo è il più splendente risultato del sistema di Abreu di cui tanto si parla, un programma per togliere i bambini dalla strada, dal degrado e da un futuro segnato per dar loro in mano uno strumento e farli divertire (il tutto, devo dire, con una qualità eccelsa!).
Il brano fa parte del noto musical “West Side Story”, composto dall’eclettico direttore-pianista di due video fa. Viene eseguito nel momento in cui le due fazioni in lotta, i Jets (americani) e gli Sharks (di origine portoricana) si sfidano a colpi di tacco in un ballo sfrenato che, alla fine, farà incontrare e innamorare Maria e Tony, appartenenti alle due fazioni opposte, Giulietta e Romeo in chiave moderna. Non c’è molto altro da aggiungere, buon ascolto!

19 marzo 2015

Prima di Maduro, Chavez. Dopo Chavez, nessuno.


fidel castro chavez


“Gli unici a preoccuparsi per il miglioramento delle relazioni fra Washington e L’Avana sono stati i venezuelani”. Così John Kerry, attuale Segretario di Stato statunitense, il 24 febbraio scorso ha commentato la proclamazione della fine dell’embargo e il conseguente riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba che mancava dagli anni ’60. 
Ma perché Caracas dovrebbe essere la più colpita? 
Fidel Castro, leader maximo cubano, è sempre stato il figlio prediletto del mondo comunista, considerato un puntino fondamentale nell’oceano occidentale, ha sempre rappresentato quell’avamposto “mandato” da Mosca a spiare le trame e gli intrecci della politica americana. Ma una volta caduto il regime sovietico, Castro ha dovuto guardarsi intorno, capire di chi fidarsi, da chi ricevere le stesse cose procurate negli anni precedenti da Mosca e intrecciare con questo nuovo partner una sorta di silent agreement per potere evitare e quantomeno disturbare l’influenza e il predominio americano.
Negli anni ’90 c’era un personaggio che faceva al caso di Fidel Castro: Hugo Chavez, un fedele esponente della rivoluzione bolivariana che stava bruciando le tappe per arrivare al potere, forte di un ampio consenso e di ben chiari obiettivi.  Chavez divenne per la prima volta Presidente del Venezuela nel 1999, un decennio dopo la caduta del regime sovietico, e restandoci per oltre dieci anni, fino al 2013, anno della sua morte. 
Le strette relazioni tra Chavez e Castro non sono iniziate alle soglie del XXI secolo, bensì avevano gettato le loro basi già nei primi anni ’90, non potendo però mai realizzarsi pienamente. 
I due leader avevano come obiettivo principale quello di costruire un sistema di scambio vantaggioso per entrambi: il petrolio, venduto dal Venezuela a Cuba, e l’invio di un numero consistente di dottori, infermieri e operatori a Caracas per sostenere i programmi sanitari del governo venezuelano. Programmi importantissimi, per non dire fondamentali e necessari al mantenimento del consenso di Chavez. 
Si è trattato di una sorta di stretta e forte partnership che permetteva a Cuba di uscire da una pericolosa impasse e da un difficile isolamento, e dall’altro permetteva a Caracas di avvalersi degli strumenti per sostenere i programmi governativi. Ma entrambe, all’epoca, avevano un unico, vero obiettivo: non guardare agli Stati Uniti azzerando quasi completamenti contatti e partecipazioni commerciali. 

Due anni fa, però, a causa di una terribile malattia, Chavez è morto, e il suo posto è stato preso dall’erede da lui stesso designato: Nicolas Maduro. Eletto con poco più del 50% dei consensi, il delfino di Caracas ha provato a rilanciare e riaffermare i programmi sanitari di Chavez, mantenere i rapporti commerciali e amichevoli con Cuba, e perseguire la rivoluzione bolivariana iniziata dal suo genitore politico. Ma le cose non sono andate per il meglio. Anzi.
Maduro è stato infatti costretto a dimezzare le esportazioni, ad attuare una dura spending review sul programma sanitario che negli ultimi 20 anni è stato il paradigma della collaborazione tra i due Paesi e ha visto scendere il proprio consenso fino al 20 % senza essere in grado di reagire. 
Il problema principale riguarda però il petrolio. Il Venezuela è il classico Rentier State, e cioè uno di quegli Stati che deve le proprie fortune, o a volte sfortune, al petrolio nero. 

Negli ultimi tempi si è assistito ad una precipitazione dei prezzi del petrolio e questa crisi petrolifera ha portato il governo di Caracas a “chiudere i rubinetti” delle esportazioni andando così a minare i buoni rapporti commerciali che Chavez aveva avviato con molta fatica. Cuba ha deciso che era arrivato il momento di fare qualcosa,  e la presenza di Obama alla Casa Bianca e le trattative in corso da qualche anno a questa parte hanno reso il gioco molto più semplice. 
Si, molto semplice, ma non per il Venezuela. 
Oggi il Venezuela sta maledicendo gli anni di clientelismo improduttivo, di corruzione, di deficit d’investimento, di spese pubbliche pazze e infrastrutture ormai troppo vecchie. I programmi “per il popolo” avviati da Chavez non possono essere più supportati economicamente e forse anche politicamente, e Maduro ne sta pagando le conseguenze. Le proteste a Caracas e in tutto il resto del Paese sono esponenzialmente aumentate: si protesta all’ingresso degli ambulatori dove i cittadini cercano invano assistenza per le pessime condizioni in cui si trovano, davanti alle farmacie dove le persone cercano le medicine. Le proteste sono nelle strade e nelle piazze. La delinquenza ha ormai preso il sopravvento sulla civiltà con furti, sequestri e rapine. La mancanza dei beni di prima necessità, come gli alimenti ma anche come le medicine e la sicurezza sta minando il cuore e la mente dei venezuelani. 

venezuela
Guardando le cifre della Polizia Giudiziaria, nei primi 60 giorni del 2014 ci sono stati 2841 omicidi in tutto il Paese, quasi una media di 48 omicidi al giorno. Da questi dati si apprende che è stata superata la cifra del 2013 di 2576 omicidi, record storico per il Venezuela. La situazione è degenerata soprattutto nell’ultimo biennio, ma la colpa non può essere attribuita esclusivamente a Maduro. 
Maduro ha ereditato tutto questo panorama, e a differenza di Chavez non ha avuto e non ha tuttora l’autorità per affrontare una crisi multipla, sul piano economico, su quello politico e su quello sociale. Usa la forza della polizia e dei militari senza limiti, ancor più rispetto a quanta ne usava Chavez, ma non la utilizza per fronteggiare il problema sicurezza, bensì per eliminare e tacitare i suoi oppositori. Maduro ha inoltre adottato una politica discriminatoria nei confronti della popolazione venezuelana, mettendo le risorse a servizio del debito invece che a supporto delle necessità alimentari della gente. 
Infine il 9 marzo scorso, il presidente americano Barack Obama ha dato il via libera ad una serie di sanzioni nei confronti del Venezuela, con l’accusa di violazione di diritti umani e corruzione nei confronti di alcuni suoi funzionari. La situazione venezuelana si sta facendo sempre più dura e difficile, ma forse non lo è maggiormente rispetto al passato. Le uniche differenze sono gli interpreti, prima Chavez e ora Maduro, e si sa come gli interpreti possano fare la differenza.