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26 febbraio 2015

Tubenomics: 26%

La vignetta di Mauro Biani per il Manifesto


Secondo l’ultimo rapporto “Noi Italia” dell’Istat il 26% dei giovani tra i 15 e i 29 anni sarebbe catalogabile come Neet (Not in Education, Employment or Training). In altre parole un under 30 su quattro nè lavora, nè studia. Questo dato preoccupante arriva poco prima del Jobs Act, preceduto, a sua volta, dal decreto Poletti sui contratti a termine e l’apprendistato (legge 78/2014). Evitando di entrare nella discussione che ha generato critiche (sacrosante – ops non dovevo esprimere giudizi) sulla gestione poco democratica dell’iter che ha portato al Jobs Act da parte del governo, qualcosa la si può dire sul nuovo assetto del mercato del lavoro. Intanto, finalmente la riforma è arrivata. Ce lo chiedevano le istituzioni europee (il termine Troika era mainstream già prima che Tsipras lo mettesse al bando) e soprattutto ce lo chiedeva quel 26% di Neet e quel 40% di giovani disoccupati. Bene, il regalo è arrivato ed è incartato anche bene (leggi contratto a tutele crescenti), ma una volta scartato si rimane abbastanza delusi. Innanzitutto c’era da eliminare il dualismo tra chi è già dentro il mondo del lavoro e chi ne è fuori, o è appena entrato. Ecco, prendiamo l’esempio dei licenziamenti collettivi, che si configurano quando l’azienda licenzia, per motivi economici, almeno 5 dipendenti in quattro mesi. Nel caso in cui il giudice decreti l’illegittimità del licenziamento, la riforma prevede il reintegro per i lavoratori assunti a tempo indeterminato con il vecchio contratto, mentre per coloro che rientrano nella nuova disciplina si dispone la sola indennità monetaria. Certo, a lungo andare, quando tutti i contratti a tempo inderminato saranno disciplinati dal Jobs Act, questo dualismo finirà. Tuttavia, nel breve periodo un certo dualismo rimane, almeno per quanto riguarda il licenziamento collettivo. Se  l’applicazione della nuova disciplina fosse stata posticipata, il mercato del lavoro sarebbe stato meno ingiusto. L’altro punto discutibile è legato al contratto a tutele crescenti e alla diminuzione del precariato. Di per sè il contratto a tutele crescenti è cosa buona e giusta: mette fine allo scontro intergenerazionale tra insider e outsider del mercato del lavoro e, soprattutto, si tratta di un contratto uguale per tutti, che unito all’introduzione graduale di forme di protezione dell’impiego dovrebbe spingere le aziende ad essere meno riluttanti nei confronti di percorsi lavorativi duraturi. Però c’è sempre il decreto Poletti, salutato dall’esecutivo come panacea di tutti i mali, il quale non fa altro che rafforzare la precarietà. L’accoppiata Jobs Act-decreto Poletti potrebbe determinare il seguente scenario. Nel breve periodo si potrebbe assistere ad un aumento delle assunzioni, dovuto non tanto al Jobs Act, quanto al taglio delle tasse, previsto dalla legge di stabilità, per chi assume a tempo indeterminato, che renderebbe più conveniente il contratto a tutele crescenti, rispetto ad un’altra forma contrattuale. Tuttavia, come fatto notare dall’economista Pietro Pellizzari, svanito l’effetto dello sconto fiscale, potrebbe tornare vantaggioso per l’azienda adottare il decreto Poletti. Il lavoratore vedrebbe così l’avvicendarsi di 5 rinnovi contrattuali a termine per tre anni (come previsto dal decreto Poletti), seguiti, a partire dal quarto anno, da un contratto a tempo indeterminato con tutele molto deboli nei primi due anni (come previsto dal Jobs Act). E gli anni di precariato diventano cinque. Oh poi c’è sempre il discorso che tolto l’articolo 18, l’unica cosa certa del Jobs Act è che licenziare diventa un gioco da ragazzi. Ma, a quanto pare, ora quello che più conta è emanare decreti. Al contenuto ci pensiamo dopo.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

Stop al calcio in Grecia: il pugno di ferro di Tsipras

Nel mondo del calcio capita sempre più spesso che le sane rivalità sportive si trasformino in faide fratricide, fatte di scontri e di vittime. E la situazione diventa drammatica se queste fratture si sviluppano in un sistema già saturo di nervosismo e di disperazione, causati da una crisi economica e politica che va avanti da anni. 
Un'immagine degli scontri in campo ad Atene | lastampa.it


La situazione è dunque diventata drammatica in Grecia, dove i fattori di crisi sono portati all’esasperazione. Già due volte solo in questa stagione i campionati sono stati sospesi a causa delle violenze: la prima volta a settembre, dopo la morte di un tifoso aggredito al termine di una partita di terza divisione, e poi a novembre, quando Christoforos Zografos, ex arbitro e vicepresidente del comitato nazionale arbitri, venne selvaggiamente picchiato. Gli incidenti poi si sono susseguiti, fino ad arrivare a domenica scorsa. Ad Atene andava in scena probabilmente la partita più pericolosa, il derby tra Panathinaikos ed Olympiacos Pireo, e il match non ha disatteso le aspettative, con incidenti prima, durante e dopo la partita. Gli scontri, che poi si sono diffusi per le vie della città, hanno portato alla fine solo ad 11 arresti. Il peggio, tuttavia, si è visto all’interno dello stadio. I tifosi di casa hanno più volte invaso il terreno di gioco, preparando le invasioni al riparo da sguardi indiscreti sotto dei grandi striscioni, per poi entrare sul campo armati di bastoni e petardi.

Olaitan, nigeriano dell’Olympiacos, nel primo tempo è svenuto ed in ospedale gli è stata diagnosticata una miocardia, causata dallo stress e dallo spavento. Kasami, ex Lazio e Palermo, anche lui all’Olympiacos, è stato colpito alla testa da un petardo, mentre l’allenatore del Panathinaikos Anastasiou è stato centrato da un bicchiere pieno lanciato dalle gradinate. Il video é impietoso soprattutto nel mostrare le difficoltà della polizia, pesantemente sotto organico. E questo é uno specchio importante per capire le reali difficoltà della Grecia, incapace di pagare uomini sufficienti a mantenere l'ordine in una partita considerata storicamente a rischio oppure, ancor peggio, cieca di fronte alla necessità di rafforzare la sicurezza. La partita è arrivata con difficoltà fino al termine con il risultato di 2 a 1 per i padroni di casa, anche se é improbabile che il risultato maturato sul campo venga riconosciuto e che non venga sostituito con un 3-0 a tavolino.
Scene simili sono avvenute nella stessa giornata anche su un altro campo, nella partita 
tra Olympiacos Volos e Larissa, dove i tifosi ospiti hanno attaccato i padroni di casa e la polizia. 
La tensione non è certo smorzata da giocatori e società. Martedì, alla riunione di lega, i presidenti delle due squadre di Atene se le sono date di santa ragione, con quello del Pireo che ha tirato un bicchiere di vetro al pari del Pana. Non proprio quello che si definisce un buon esempio. 

Gli scontri di Atene sono il punto di non ritorno, e la sospensione era l’unica strada sensata. Questa volta però, rispetto alle altre due precedenti sospensioni, c’è una importante differenza. Il governo Tsipras ha un disperato bisogno di mostrarsi forte agli occhi dell’Europa e del mondo. Ed ecco perché ha deciso di intervenire con decisione. 
I campionati professionistici sono stati interrotti a tempo indeterminato, e sono a rischio anche per la prossima stagione. Il viceministro dello Sport, Kontonis, ha infatti spiegato che serve reagire con fermezza ai violenti e che è fondamentale l’aiuto di tutte le società. E’ in arrivo per tutti e 18 i club che formano la Serie A greca l’obbligo di usare i ticket elettronici nominali e l’introduzione di un piano di sorveglianza attraverso telecamere di sicurezza nel corso delle partite. In più un altro argomento molto dibattuto è l’introduzione di una sorta di tessera del tifoso, ma più rigida rispetto all’omologo italiano. Qualsiasi nuova introduzione sarebbe chiaramente a spese delle squadre, perché il governo non può permettersi un tale dispendio di denaro. 

Siamo di fronte quindi ad una sorta di ricatto ad opera del neo-premier: o le squadre pagano per modifiche imposte dall'alto, o niente campionato. La Lega ellenica rema contro questa decisione, tanto che il presidente Borovillos ha bollato questa scelta del governo Tsipras come inutile. Le malelingue sono tutte dalla parte di Borovillos, e voci di corridoio riferiscono che la tempestiva decisione del governo sia causata dall'impossibilita economica di proseguire il campionato in condizioni di sicurezza. In questo caso sarebbe una scelta strana, dato il volume di denaro mosso dal sistema calcio. 

La situazione é diventata insostenibile: gli ultras in Grecia finora hanno avuto totale libertà, troppa. Un ulteriore fattore sarà l'intervento della UEFA: l'Europa del calcio non potrà esimersi dall'intervenire per fermare il fenomeno (nei giorni della devastazione a Roma attuata dagli ultras del Feyenoord), forse escludendo le squadre greche dalle competizioni europee. E un'altra volta la Grecia sarà in balia delle decisioni europee, ma é improbabile che Platini sia disponibile come l'Europa economica si è parzialmente dimostrata, ed anzi sarà ben felice di dettar legge e imporre le decisioni.

Certo é che di fronte al ricatto del governo, le squadre dovranno accettare le costose innovazioni ed introdurle quanto prima. La cancellazione del campionato sarebbe una pena molto pesante, con un danno economico incalcolabile. Ma se al contrario decidessero di far fronte comune, magari non solo le grandi squadre di prima divisione, ma tutti i campionati professionisti, il governo di Tsipras ne uscirebbe fortemente indebolito, sia economicamente, data l'assenza del giro d'affari calcistico, che nella popolarità. La storia del governo di Syriza é a un bivio, e l'ago della bilancia é, inaspettatamente, il pallone.

25 febbraio 2015

Cento metri per battere i giganti: la leggenda infinita di Kim Collins

Tutti pensano che, per battere Bolt, devi correre in 9‘‘5. No, devi solo essere lì quando corre più lento di te. Potrebbe arrivare e correre in dieci secondi netti, e tu potresti vincere in 9‘’99.

“Everyone thinks, in order to beat him you have to run 9.5. No, you just have to be there when he runs slower than you. He might come and run 10 flat, and you could win in 9.99“.

Kim Collins


Tanti corrono per sfogarsi, per vincere, per realizzare un sogno. Kim Collins no: «Ho scoperto che alle ragazze piacciono i ragazzi che corrono forte».
Alcuni si allenano duramente, fanno sedute infinite, rinunciano alla vita sociale. Kim Collins no: «Se non mi va, avverto l‘allenatore».
Molti velocisti vivono in palestra, sono alti quasi due metri, pesano 95 chili di muscoli. Kim Collins è uno e settantacinque per 68 chili: «Non è indispensabile massacrare il proprio fisico per ottenere risultati nello sport».
La famiglia tradizionale prevede marito, moglie e – dice papa Francesco - massimo tre figli. Kim Collins è il sesto di undici fratelli: «Ma mamma non li ha fatti tutti in una volta. Mio padre non lo conosco, lei ogni tanto aveva un fidanzato diverso».
Nell’atletica leggera, soprattutto nella velocità, non ci dovrebbe essere posto per Kim Collins, ma lui se ne frega. È nato nel 1976 a Saint Kitts and Nevis, due minuscole isole delle Piccole Antille da 50 mila abitanti che erano conosciute, fino al 2001, solo come paradiso fiscale. Poi sono arrivati i Mondiali di Edmonton, e con loro un nanerottolo capace di fare lo sgambetto ai giganti.
Nella città canadese, quando si presenta alla partenza dei 200 metri, Collins ha 25 anni ed è quasi sconosciuto. Supera il primo turno, fa il personale ai quarti, passa le semifinali con il secondo peggior tempo tra i qualificati. In finale corre in prima corsia, la meno favorevole. Uno dopo l’altro, riprende quasi tutti. Vince Kostantinos Kederis, ma dal secondo al settimo posto sono tutti raccolti in cinque centesimi di secondo. Il fotofinish assegna a Collins la terza posizione con 20‘’20, primato personale. È la prima medaglia di Saint Kitts and Nevis ai Mondiali.



I campioni sulla cresta dell’onda, però, restano altri: per esempio, ai giochi del Commonwealth del 2002 i protagonisti annunciati sono i britannici Dwain Chambers e Mark Lewis Francis. Nei 100, tutti gli occhi sono puntati su di loro. Ma vince Kim Collins, mentre i due favoriti sprofondano alle ultime due posizioni. All‘antidoping è positivo al salbutamolo, una sostanza che si trova nel farmaco con cui cura l’asma. Evita la squalifica perché in buona fede.
A 26 anni, è già eroe nazionale. Gli intitolano un’autostrada (la Kim Collins Highway), che percorre a bordo della macchina con autista che da quel giorno lo aspetta in aeroporto tutte le volte che torna in patria. Passa il tempo tra casa e Stati Uniti, ha due fidanzate, è padre, si diverte a fare il deejay dilettante. Quando gli va corre, senza esagerare. In inverno vince un’altra medaglia mondiale, argento nei 60 metri indoor.
Arriva l’estate, arrivano i Mondiali di Parigi. Collins supera le qualificazioni dei 100 senza grossi problemi, è in finale. Come a Edmonton, in prima corsia. Ma nei 100 la strada è dritta, stare al margine non è un problema. È quasi meglio: nessuno ti vede. Guardano tutti il centro della corsia, verso i più forti. Chi sta ai margini può scappare, provare il colpaccio. Il piccolo Collins fa così. Quando gli altri si avvicinano, è troppo tardi: è campione mondiale con 10‘’07, un tempo altissimo. Dicono che ha vinto perché è una gara pulita, o perché mancano i più forti. Falso. In finale ci sono Chambers e Tim Montgomery, poi squalificati perché dopati. E i più forti partecipano quasi tutti, ma quelli che non escono prima (come il primatista mondiale Maurice Greene) si fanno schiacciare dalla tensione della finale. Collins è sempre più eroe della patria: «A casa staranno ancora tutti cantando, bevendo e fumando. Sicuramente la più bella festa dal giorno della conquista dell' indipendenza». Qualche anno dopo il 25 agosto diventerà festa nazionale, il Kim Collins Day.




Nel 2004 va alle Olimpiadi di Atene, ma i riflettori sono puntati su altri: Greene vuole bissare l’oro di Sydney, stanno esplodendo Asafa Powell e Justin Gatlin, Francis Obikwelu è in stato di grazia. Vince Gatlin, in una finale spaziale. Collins è sesto, gli esperti considerano l’oro dell’anno prima un un incidente di percorso nella storia dell’atletica. Ha dato due medaglie mondiali a un paesino minuscolo, basta così. Il tempo passa, gli atleti diventano sempre più grossi. Non c’è più spazio per Kim Collins.
Forse.
I Mondiali di Helsinki 2005 si disputano senza Powell, il nuovo primatista del mondo, infortunatosi poche settimane prima. Gli altri ci sono tutti, e vanno dannatamente forte. Collins li guarda sfrecciare, sornione. Ai quarti di finale ottiene l’ultimo tempo di ripescaggio. Nella sua semifinale chiude quarto, ultima piazza disponibile per la finale, con un centesimo sul quinto. In finale non lo guarda nessuno. Lui ringrazia ed è terzo, dietro a Gatlin e Frater. Altro sgambetto, altra medaglia.

 

Nel 2008, Mondiali indoor, è ancora argento nei 60 metri. A Pechino, nello show di Usain Bolt, arriva sesto nei 200. È il canto del cigno. Ormai ha 32 anni, troppi per un velocista. Nel 2009, ai Mondiali di Berlino, esce ai quarti di finale sia nei 100 che nei 200, mentre Bolt sbruffoneggia e polverizza record. A fine anno, si ritira. La sua fiaba è finita.
Anzi, no.
La sindrome di Jordan colpisce anche gli eroi minuscoli dei Paesi minuscoli. Nel 2011, Kim Collins rimette le scarpe chiodate. Ha 35 anni, è fermo da molti mesi. I presupposti per un fallimento epocale ci sono tutti. Va ai Mondiali di Daegu. Nelle graduatorie 2011, ci sono venti atleti più forti di lui nei 100. Ma la fortuna tifa Saint Kitts and Nevis, e interviene. Asafa Powell e Tyson Gay, i due avversari di Bolt, si fanno male prima di partire. Collins ringrazia e arriva in finale facilmente. Tutti aspettano lo show di Bolt, che non dovrebbe avere rivali. L’unico che può mettergli i bastoni tra le ruote è il connazionale Yohan Blake. Pochi puntano sul ventunenne francese Christophe Lemaitre, primo bianco nella storia a scendere sotto i dieci secondi nei 100 metri.
Bolt è rilassato. Scherza sui blocchi, attira le telecamere, indica gli avversari e fa segno che no, non vinceranno loro. Vincerà lui. È tranquillo, anche perché il regolamento sulle false partenze è cambiato. Ora, si viene squalificati già alla prima. Il sistema, pensato per le televisioni, impedisce ai più incoscienti di scattare sul filo dei millesimi. Così vincono i più forti. Sempre che non abbiano troppa fretta. Usain Bolt è un cannibale, tutti lo chiamano così. Usain Bolt mangia il pollo fritto, lo diceva lui stesso a Pechino. La logica conseguenza è una sola. Lo starter spara due volte. Bolt impreca, il pubblico urla. Falsa partenza, è fuori. Si ritorna sui blocchi. Kim parte come una scheggia e resta in testa per 60 metri. Vince Blake, secondo Walter Dix, Collins è terzo. L’ennesimo sgambetto, l’ennesimo squarcio di gloria. 


Peccato non far parte di un Paese più grosso, con tre compagni decenti si potrebbe provare la staffetta. Ma la fortuna, si diceva, adora Saint Kitts and Nevis. E nel 2011 ha donato a Collins tre soci passabili. Nel primo turno, i quattro moschettieri fanno il record nazionale e agguantano l’ultimo posto disponibile per la finale. La loro corsia è quella interna, le curve sono strette. Ma nessuno ti vede, se sei in prima corsia. Fino all’ultimo cambio, Gran Bretagna e Stati Uniti sono lontani anni luce, alle calcagna della Giamaica. Poi, prima dell’ultima frazione, si eliminano a vicenda. Bolt fa l‘ennesimo record del mondo, la Francia è seconda. Kim Collins arriva un centesimo davanti al polacco. Un Paese che ha meno abitanti di Imola è terzo in una staffetta mondiale.



L’anno dopo c’è Londra. Kim Collins, alla quinta Olimpiade, ci crede. Ormai, ci credono anche gli appassionati: stavolta la medaglia olimpica può arrivare. Basta essere lì, pronti per un altro sgambetto, la staffetta è abbordabile. Collins è il portabandiera, e non potrebbe essere altrimenti. Ma il giorno dei 100 non scende in pista. La federazione gli ha revocato l’accredito, cacciandolo via da Londra. Motivazione: ha saltato qualche allenamento e ha passato la notte in albergo con sua moglie. «Persino i detenuti ricevono visite dalla moglie. Non correrò mai più per il mio Paese».

Fine dell’idillio. Collins non è più un atleta di Saint Kitts and Nevis. A inizio 2013 la polizia uccide suo fratello, perché ha accoltellato la moglie e aggredito la polizia. Collins, tornato in patria per il funerale, viene arrestato e accusato di non aver pagato gli alimenti ai figli. Non è più un eroe. Non va sotto i dieci secondi nei 100 dal 2003. A 37 anni, la fiaba di Pollicino che faceva lo sgambetto ai più forti è finita.
Certo, come no.
In estate Gay, Powell e tanti altri vengono squalificati per doping. Intanto, un atleta piccolissimo torna sotto i dieci secondi. Kim Collins, indomabile, migliora il suo primato personale datato 2002. L‘aveva siglato ai Giochi del Commonwealth, diventando un eroe nazionale. Stavolta fa 9‘’97. Nel 2014 un altro ritocco: 9‘’96. È l’uomo più vecchio di sempre sotto i dieci secondi. Quest’anno ne fa 39, e nelle sale di tutto il mondo sta andando in scena l‘ennesimo show. In febbraio ha migliorato due volte il suo primato personale sui 60 metri, prima 6‘’48 e poi 6‘’47. Finora ha siglato i quattro migliori tempi mondiali dell‘anno.
Molti ci provano, ma non vincono e lasciano perdere. Kim Collins no: ha un oro e quattro bronzi mondiali all’aperto, due argenti mondiali indoor e un oro ai Giochi del Commonwealth, e continua a correre. Corre perché a casa mangiano, coi soldi che guadagna nei meeting. Corre perché si diverte. Corre, perché alle ragazze piacciono i ragazzi che corrono forte.


 (Kim Collins e Jesse Owens. GIURO.)

Riccardo Rimondi

24 febbraio 2015

Antisemitismo in Europa: le ragioni della nuova fuga degli ebrei in Israele

A seguito degli attentati di Parigi dello scorso gennaio e di Copenaghen di quasi 10 giorni fa, che in totale hanno visto la morte di 5 cittadini di religione ebraica per mano di fondamentalisti islamici, si è riacceso forte il dibattito intorno al rifiorire dell’antisemitismo nel Vecchio Continente. 

Ancora prima infatti di questi atti di terrorismo, il livello di allarme per nuovi slogan e nuove azioni violente contro gli ebrei era salito pesantemente, e in alcuni casi dalle minacce si era passato definitivamente ai fatti, come per esempio l’assalto armato al museo ebraico di Bruxelles, dove quattro persone erano state uccise, o l’incendio appiccato alla sinagoga della città di Wuppertal, in Germania, nel luglio dello stesso anno. Tra i fattori determinanti nel far risorgere il sentimento anti-ebraico, sicuramente possiamo annoverare la crisi economica e lo scoppio delle ostilità tra Israele e Hamas nel luglio 2014. La recessione e le politiche di austerità dell’Europa hanno dato linfa vitale ai movimenti populisti di estrema destra, i quali, oltre a dare voce alla polemica feroce contro l’immigrazione, hanno sicuramente sfruttato l’usato sicuro dello stereotipo "ebreo banchiere ed affamatore dei popoli" come una delle cause fondamentali del crollo dell’economia e dell’aumento della povertà in molti strati della popolazione. 
La rinascita dilagante del mai del tutto scomparso “complotto giudaico-massonico” che  guarda agli ebrei come agli organizzatori della crisi economica globale e all’elaborazione delle politiche della Troika per il risanamento dei debiti, ha avuto un peso determinante nell’aumento delle aggressioni ai danni di cittadini di religione ebraica. Aggressioni non solo fisiche, ma anche attraverso il mondo del web, dove ormai da tempo siti di estrema destra stilano liste di proscrizione pubblicando nomi di personalità di spicco del mondo della cultura e dello spettacolo, alcune delle quali spesso non sono nemmeno di religione ebraica. Ostilità e rancore che sono stati alimentati anche dall’escalation militare che Israele ha scatenato contro la striscia di Gaza, in risposta ai lanci di missili in territorio israeliano da parte dei militanti di Hamas. Un’operazione, quella del governo di Gerusalemme, che ha scatenato numerose proteste in tutto il Continente a causa di un uso della forza giudicato sproporzionato rispetto alle forze militari di cui disponeva il nemico. Indignazione che ha visto, dall’altro lato, aumentare la rabbia contro gli ebrei e contro i loro simboli, dai cimiteri, come quello alsaziano di Sarre Union profanato negli stessi giorni dei fatti di Copenaghen, o contro negozi appartenenti ad ebrei. La rabbia per i fatti di Gaza ha generato un senso di ribellione in alcuni gruppi di giovani musulmani, abitanti di periferie ai margini delle grandi città e dove povertà, assenze di prospettive per un futuro migliore e criminalità, generano una forma di identificazione tra loro e le cause palestinese o dell’Islam, due cose di cui prima sapevano poco o nulla ma che ora sono lo strumento nella lotta contro l’Occidente e il senso di esclusione che questo rappresenta. 

Il senso di insicurezza che molti cittadini ebrei stanno vivendo, non sentendosi più ben accetti in molte città europee, sta sfociando in nuova “Aliyah” (“salita” in ebraico), ovvero si sta verificando un incremento del flusso migratorio dal continente europeo verso lo Stato d’Israele. Nel 2013 le persone che erano arrivate in Israele sono state 19.200, con un +7% rispetto al 2012. Secondo l’Agenzia ebraica per Israele, oltre un terzo proveniva dall’Europa occidentale. Sempre per stando ai dati dell’Agenzia, nei primi sei mesi del 2014 erano stati 7192 le persone ad emigrare nello stato ebraico, con picchi provenienti da Francia ed Ucraina. E nel gennaio di questo anno, sull’effetto degli attentati alla rivista “Charlie Hebdo” e al negozio di alimentari Kosher, si è toccato quota 1835. C’è anche chi contesta questi dati, ricordando che, nonostante i numeri in crescita, questi hanno rappresentato circa l’1% della popolazione ebraica in Europa, tanto basta per non aver trasformato questo fenomeno in un vero e proprio esodo. Il disagio per la crisi economica si unisce anche all’insicurezza che i cittadini ebrei, sia laici che religiosi, provano per la loro incolumità. Tanti considerano l’Europa, che per anni e anni è stata la loro casa, come un continente dove ormai sono guardati con sospetto e disprezzo, considerati come degli stranieri in patria. Un senso di paura che il governo israeliano di Netanyahu sta alimentando abilmente, anche in vista delle elezioni anticipate che si svolgeranno il 17 marzo. Inoltre, il primo ministro potrebbe giocare la carta dell’immigrazione per arginare i tassi di natalità favorevoli alla popolazione araba. Il rischio infatti è che gli israeliani, fra un paio di anni, possano trovarsi in una condizione di minoranza, e i movimenti migratori potrebbero essere usati dal Governo proprio per fronteggiare questa ipotesi. Sia dopo Parigi che dopo Copenaghen, il capo del governo israeliano aveva esortato gli ebrei europei ad immigrare in Israele, dicendosi certo che gli attacchi terroristici continueranno e che l’Europa è divenuta una sorta di trappola dalla quale gli ebrei dovrebbero scappare per stabilirsi nella loro "vera casa", pronta ad accoglierli tutti. Affinché ciò sia possibile, Gerusalemme ha preparato per l’occasione un piano da 40 milioni di euro circa per coprire il totale assorbimento dei nuovi arrivati, garantendo case, lavori e incentivi fiscali, basandosi anche sulla cosiddetta “Legge del ritorno”, varata nel 1950, la quale garantisce automaticamente la cittadinanza israeliana a qualsiasi individuo con discendenze ebraiche. Le parole di Netanyahu hanno ovviamente suscitato reazioni negative nei Capi di Stato e di Governo europei, i quali in poche parole si sono sentiti dare degli incapaci dal primo ministro di Gerusalemme sul tema della lotta all’antisemitismo e sulla protezione dei loro cittadini. Pareri negativi riguardo l’esodo paventato dal premier sono stati espressi anche da figure di spicco dello stesso mondo ebraico, come proprio il Rabbino Capo della Danimarca, Jair Melchior, il quale ha giudicato un errore l’appello di Netanyahu, definendo impensabile il trasferirsi in Israele per paura.

La paura, tuttavia, insieme alla speranza di un futuro migliore sta spingendo molte famiglie a lasciare i loro paesi. Moltissime persone hanno addirittura il timore che, complice la crisi economica, possano verificarsi congiunture simili agli anni ’30, quando il collasso dell’economia mondiale segnò la strada per l’avvento dei fascismi e della conseguente persecuzione e sterminio pianificato degli ebrei. La società europea sembra possedere ottimi anticorpi per scongiurare una tale ipotesi, ma gli attacchi portati avanti contro le comunità ebraiche e la propaganda antisemita portata avanti dai movimenti populisti, oltre alle dimostrazioni di solidarietà con il popolo palestinese, sembrano aver minato il senso di fiducia che i cittadini, sia religiosi che non, nutrivano nei confronti degli Stati. Facendo muovere tante persone verso una terra che potrebbero considerare come più accogliente e protettiva. 


23 febbraio 2015

Conservatrice e cattolica, la signora Grabar-Kitarović è il nuovo Presidente della Croazia

Quella presidenziale croata è stata una campagna senza esclusione di colpi, animata dalle decisioni del governo, guidato dal centro sinistra, di cancellare il debito per sessantamila persone, le più povere, e dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja che ha stabilito che i croati non hanno né subito né perpetrato atti di genocidio durante le guerre balcaniche dei primi anni Novanta. Nonché dall'arresto del sindaco di Zagabria e di uno dei candidati alla presidenza, il leader del piccolo partito di sinistra Zivi Zid, il Movimento per la Casa, Ivan Sincic.
Il Presidente uscente, il social-democratico Ivo Josipovic sembrava saldamente in testa ai sondaggi e destinato ad una riconferma per un secondo quinquennato. La strada si è complicata a causa degli autogol de suo stesso partito e della rimonta della sfidante, Kolinda Grabar-Kitarovic, candidata del partito conservatore (HDZ) e, da domenica, ufficialmente prima presidente donna del paese.

Kolinda Grabar Kitarovic Zagreb
Kolinda Grabar-Kitarovic il giorno del giuramento, con uno stile da qualcuno paragonato a quello di Kate Middleton.

La vittoria si è decisa al ballottaggio, quando il 50,5 % dei croati si è schierato a favore della Grabar. Un sorpasso sul filo del rasoio, una differenza di 32.435 voti e un aumento della partecipazione elettorale che ha superato il 60%, più di dieci punti percentuali rispetto al primo turno. Una elezione così combattuta è un ottimo indicatore rispetto allo stato di salute della democrazia croata, il più giovane membro dell'Unione Europea.
La campagna della Grabar è stata caratterizzata dalla ferrea organizzazione del suo partito in supporto e dalla pacatezza nelle dichiarazioni. Non ha infatti preso una posizione netta su nessuna delle principali questioni dibattute in Croazia, ponendo piuttosto l'accento su grandi questioni etiche dai toni vagamente populistici. Nessuna dichiarazione sulla legge che prevede la monetarizzazione delle autostrade né sulla proposta, sempre dell'HDZ, di obbligare le donne a parlare con un sacerdote prima di ricorrere ad un'interruzione della gravidanza. Parlare invece di povertà, di giustizia e di amore per la Croazia le ha attirato le simpatie di molti. Compresa Ruža Tomašević, leader dell'HSP, il partito di estrema destra che ha sostenuto la neo-presidente nella doppia tornata elettorale.

Kolinda Grabar-Kitarovic è nata a Rijeka, che in Italia conosciamo come Fiume, nel 1968 e, dopo aver studiato letteratura, diplomazia e relazioni internazionali in America, Austria e Croazia, si è avvicinata al mondo politico come assistente al Ministero della Scienza e della Tecnologia. Solo in seguito è diventata parte della Croatian Democratic Union (HDZ), il partito conservatore fondato da Tudjman, il primo presidente croato. La Grabar ha accompagnato il suo paese nel percorso verso l'indipendenza, ma anche attraverso la sanguinosa guerra con la Serbia che ha provocato circa ventimila morti. È stata assistente per la Public Diplomacy del Segretario Generale della NATO, Ambasciatrice croata negli Stati Uniti e Ministro per gli Affari Esteri. Sostenuta esplicitamente dagli Stati Uniti, la Grabar-Kitarovic ha uno stile e una personalità particolarmente marcati, si presenta come una donna forte, indipendente e piuttosto aperta su questioni delicate come l'aborto o l'omosessualità, senza mai tradire la profonda fede cattolica che la contraddistingue.
Il Presidente della Repubblica in Croazia non gode di particolari poteri, tuttavia una vittoria così sentita potrebbe fungere da forza trainante per il partito conservatore in vista delle elezioni politiche che si svolgeranno in autunno. Ora l'HDZ spera più che mai di strappare il governo di mano al partito social-democratico, sfruttando l'effetto Grabar.

Subito dopo l'elezione, la neo-presidente ha speso parole entusiaste per il futuro della Croazia che da sei anni soffre una pesante recessione. “Basta con le divisioni, ora dobbiamo lavorare tutti assieme per una Croazia migliore e prospera”, un paese ricco e vuole appartenere ai più sviluppati paesi del continente. Tuttavia i rapporti della Grabar con Belgrado non sembrano altrettanto floridi. Il presidente serbo, Tomislav Nikolic, non era presente alla cerimonia di insediamento svoltasi lo scorso 15 febbraio nella città alta di Zagabria. Sebbene la motivazione ufficiale riguardi una festa nazionale serba nello stesso giorno, pare che Nikolic non abbia apprezzato alcune dichiarazioni della presidentessa, conservatrice e nazionalista, che si è rivolta ai serbi di Croazia come croati e ha definito la Vojvodina (una regione settentrionale serba al confine tra i due paesi) come uno stato a sé. Dichiarazioni che non hanno certo fatto piacere a Belgrado dove lo spettro di un nuovo Kosovo è tutt'altro che sopito. Nikolic aveva boicottato anche l'insediamento di Josipovic cinque anni fa poiché sarebbero stati presenti degli esponenti politici kosovari.

Un ulteriore elemento di interesse riguardo a questa elezione è l'analisi del comportamento dei croati all'estero. La “diaspora” si è rivelata determinante. Il 91,1% si è espresso a favore della candidata dell'HDZ. Particolarmente attiva è stata la campagna dell'Unione in Bosnia-Erzegovina dove sono 17.229 gli elettori croati regolarmente iscritti alle liste elettorali, ma un comportamento simile è stato riscontrato anche in Germania e Australia, altri due paesi dove la “diaspora” è presente in maniera significativa.

In conclusione, l'affermazione della Grabar segna il ritorno sulla scena politica croata dell'HDZ e apre una profonda crisi nel SPD che, agli occhi dell'opinione pubblica, non è stato in grado di salvare il paese dalla crisi. L'ambizione della neo-presidente è duplice: lavorare per la Croazia al fine di ridurre il tasso di disoccupazione e spingere il paese sempre di più verso una crescita e uno sviluppo armonici nell'Unione Europea, un'Unione Europea dove la Serbia continua a non essere considerata troppo la benvenuta, almeno da parte del suo vicino croato.

22 febbraio 2015

SundayUp: Boyhood (2014) e gli Oscar

So what’s the point?
Of what?
I don’t know, any of this. Everything.
Everything? What’s the point? I mean, I sure as shit don’t know.


Ci siamo. Il tanto atteso 22 febbraio è arrivato, e noi con lui. Mi raccomando di puntarvi la sveglia perché l’orario potrebbe certo non essere dei più comodi, si rischia di crollare addormentati molto prima. Per di più oggi è domenica e il tasso di sonnolenza aumenta, si sa. Ricapitolando: alle 2.30 tutti davanti allo schermo, pop corn e camomilla alla mano.
Ma come “perché”? Ragazzi non siete sul pezzo. C’è La Notte degli Oscar, sveglia.

A questo proposito vorrei dedicare questo articolo un po’ unconventional rispetto al mio standard a tutte quelle persone che nei giorni scorsi mi hanno chiesto cose del tipo: “Ma Boyhood è quello del ragazzino sdraiato sull’erba?”, “Oh ma tu cosa ne pensi degli Oscar?”, “Secondo te chi vince?”, “Ma Selma è quello della tipa con l’Alzheimer?”. 
Quel che posso dire per il momento è che purtroppo non ho ancora le grandi capacità del polpo Paul, quindi non posso predire nessun risultato. L’altra brutta notizia è che non posso nemmeno curare l’ignoranza generalizzata che vige in relazione alla quinta arte, ma ci sto lavorando. Quindi eccomi qui, pronta a regalarvi quindi qualche delucidazione in merito a questi Oscar.


Per la statuetta d’oro come Miglior Film concorrono otto lungometraggi, la metà dei quali sono opere di registi candidati anche per la Migliore Regia: Boyhood di Linklater, Birdman di Inarritu, Grand Budapest Hotel di Wed Anderson e Morten Tyldum con The Imitation Game. Ovviamente ve ne sono altri che non ho citato, ma poiché potete tranquillamente trovare tutte le altre candidature su Wikipedia, non starò qui a tediarvi con elenchi infiniti. L’assegnazione di un premio dovrebbe trascendere il gusto personale, direi che su questo siamo d’accordo tutti. Dovrebbe trattarsi di una scelta basata su criteri ben specifici ed oggettivi, a dimostrarlo per contrasto vi è l’orgia di commenti entusiasti che spopolano sui social (in particolare su Twitter) dedicati a Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, ritenuto un capolavoro. Ma su che basi? Stiamo chiaramente parlando di un grandissimo artista, che ha dato vita ad uno stile unico e dai tratti immediatamente riconoscibili. Eppure non mi sento di dire che con questo film abbia aggiunto qualcosa di più al tracciato cinematografico che sta segnando da anni, oltre ad essere divenuto, a tratti, la caricatura di se stesso. Talvolta la grandezza di un autore sta proprio nel cimentarsi in generi che non gli appartengono, rischiare, sperimentare; e, diciamoci la verità, Anderson avrà sicuramente rotto gli schemi all’inizio della sua carriera, ma poi si è dimenticato come si fa. Lo stesso discorso si potrebbe fare per Clint Eastwood, che grazie al cielo non è stato candidato per la Miglior Regia. Di contro, questa è stata proprio l’operazione compiuta dal temerario Inarritu, che ha abbandonato il suo noto registro drammatico per dedicarsi a un’opera che sì, fa anche ridere. Ed oggi ridere al cinema - mi rivolgo a chi non si sganascia con le battute di Checco Zalone - non è scontato.


Poi c’è Boyhood. Che non va guardato perché “è candidato all’Oscar”, ma perché ha segnato una nuova tappa nella storia del cinema. Si tratta di un film che scavalca tutte le convenzioni attualmente conosciute: girato in 11 anniper pochi giorni all’anno (45 complessivamente), con attori che si sono letteramente messi nelle mani di Linklater. Questo perché non avevano un contratto, dal momento in cui in America per legge non si possono firmare contratti cinematografici superiori ai 7 anni. Boyhood è un esperimento unico di racconto di vita durante la vita vera: i protagonisti sono cresciuti con il film, i loro cambiamenti lo hanno plasmato, trasformato e condotto a divenire il prodotto finale che è oggi. Una saga familiare americana che ruota attorno alla figura del protagonista, Mason Jr., interpretato dall’attore Ellar Coltrane. E proprio in virtù della sua natura di saga familiare mi sento di azzardare che forse Linklater avrebbe potuto strutturarlo in due parti, realizzando un progetto simile a La meglio gioventù. Addirittura il progetto avrebbe previsto inizialmente una durata totale di 120’, suddivisi in 10’ di riprese per anno. Boyhood è stato prima di tutto un’idea folle, quell’opera unica per un autore, che costruisce piano piano nel corso della propria vita mentre si dedica ad altro. E Linklater di idee folli ne ha avute tante durante la sua carriera, per capirci meglio vi consiglio la visione di Waking Life (2001) e A Scanner Darkly (2006). Da non dimenticare che, per aggiungere altra carne al fuoco, questo lavoro è una riflessione sulla trilogia dei “Before” (Before SunriseBefore SunsetBefore Midnight) dove costante è la figura di Ethan Hawke, ormai attore feticcio del regista. Boyhood è un film lento, pieno di vuoti e momenti apparentemente inutili, è il resoconto dello spoglio di un diario scritto durante la crescita di un individuo, dove a costituire un elemento di svolta spesso non è l’evento determinante. Non imita la vita, ma la evoca, attraverso silenzi e canzoni che segnano periodi della storia di Mason Jr., ma soprattutto periodi della storia del popolo americano. Non ha la presunzione di dare una risposta, d’altronde solo gli scemi, gli stronzi e i profeti la trovano, nella vita.

Ed io non ho una risposta da dare alla domanda “Secondo te chi vince?”, ma una speranza sì.



19 febbraio 2015

Tubenomics : + 1,85%

merkel hollande tsipras eurocrati
Fonte: Gli Eurocrati

Con un +1,85% Piazza Affari è stata la migliore nella giornata di ieri: i mercati sono sicuri che la situazione greca si risolverà con un accordo tra le parti. Intanto, Atene ha prima reso pubbliche le richieste presentate a Bruxelles la scorsa settimana (tra cui spicca il taglio del surplus primario di bilancio – il saldo tra entrate ed uscite, senza interessi per il debito -  dal 4,5% all’1,5%) e poi ha inviato la richiesta di proroga di sei mesi dei finanziamenti internazionali, in scadenza a fine mese. E siamo ancora alla teoria dei giochi in cui Grecia e BCE/Germania cercano di rafforzare la propria posizione. 

Tuttavia, dopo il niet di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, che aveva fatto saltare il tavolo delle trattative lo scorso lunedì, alla Grecia non rimaneva che provare a prendere tempo. Le due settimane di estensione del programma di finanziamenti d’emergenza (Ela), decise dalla BCE ieri sera, sembrano andare nella direzione dell’accettazione della proposta greca di prolungamento del prestito. Prendere tempo, visto che la minaccia dell’uscita dall’euro non funziona più (vedi il monito di Obama al governo ellenico, dopo l’iniziale apertura), sembra significare per Tsipras e i suoi una volontà di dimostrare che un programma di riforme responsabile e alternativo a quello restrittivo della Troika è possibile. Tra sei mesi poi ci si può presentare al tavolo delle trattative con in mano i dati della crescita e magari proporre la conversione di parte del debito in titoli di debito indicizzati alla crescita - utilizzati marginalmente durante la crisi argentina - come vorrebbe Varoufakis e come proposto da diversi economisti, nientepopodimenochè, del German Institute for Economic Research (DIW) di Berlino. In breve, questi growth bond  fanno in modo che il tasso di interesse sia più basso quando la crescita del PIL è sopra una certa soglia e più basso nel caso opposto. In questo modo Atene avrebbe modo di dimostrare se le ricette alternative di Tsipras siano in grado di generare crescita. Inoltre, poichè l’interesse sul debito indicizzato al PIL è più basso durante le recessioni, il surplus primario, che sostiene il pagamento del debito, può essere inferiore, evitando così i traumi dell’austerity. 

Un altro vantaggio, come suggerisce il prof. Cherubini dell’Università di Bologna, è che, se si guarda ai growth bond  come a derivati legati alla crescita del PIL (per i profani, una sorta di scommessa sulla crescita), si nota come questi permettano una riduzione del rischio di credito (ovvero do fallimento della controparte): poichè l’interesse è positivamente legato alla crescita, l’aumento dell’esposizione (perdita in caso di fallimento) avrà una correlazione negativa con la probabilità di default. Infatti, l’esposizione aumenterebbe al crescere del PIL, quando il paese è più stabile, invertendo il paradigma standard dei derivati in cui l’esposizione aumenta al crescere della probabilità di default. Tuttavia, vi sono degli svantaggi non trascurabili che giustificano lo scarso uso dei titoli di debito legati alla crescita. I growth bond, infatti, renderebbero più incerti i pagamenti futuri e aumentando l’incertezza, l’investitore potrebbe chiedere un premio al rischio (interesse) più alto. C’è poi il così detto moral hazard, per cui la struttura di questi bond potrebbe spingere la Grecia a non lavorare per la crescita, al fine di evitare l’aumento degli interessi, sebbene le simulazioni del DIW mostrino l’assenza di incentivi in questo senso. Infine, come sottolineato da Cherubini, ci sarebbe un problema di valutazione di questi titoli, derivante dall’assenza di dati storici disponibili per la Grecia, che genererebbe un prezzo non equo, capace di vanificare tutti i vantaggi sopra elencati. 

Al di là di questa interessante proposta, davanti a noi c’è ancora quel braccio di ferro, che vista la stabilità dei mercati e l’ingerenza statunitense - che, tra l’altro, ha interesse a che l’accordo si faccia, anche per evitare che Tsipras si rivolga a Putin – sembra oggi potersi risolvere senza troppi spargimenti di sangue. Insomma, la soluzione del senso di un gioco della lepre, che auspicavo nel precedente articolo, potrebbe essere vicina.



18 febbraio 2015

Quando l'Unità è solo una festa: piccolo manuale delle correnti del PD

Spesso ci capita di leggere di un Partito Democratico ormai prossimo alla scissione. Perché? A differenza di tutti gli altri partiti, il PD presenta caratteristiche e peculiarità uniche nel panorama politico italiano. 

veltroni partito democratico PD


Innanzitutto non ha mai avuto un leader e segretario che ha mantenuto tale posizione per un periodo di tempo più o meno lungo.  Forza Italia ha sempre avuto Berlusconi, Sinistra Ecologia e Libertà Vendola, la Lega ha avuto dalla sua nascita Bossi e, dopo una breve parentesi di Maroni, ha scelto Salvini che rispecchia in tutto e per tutto caratura, e anche “taratura”, del Senatur.  Pochi leader e riconoscibili, autoritari ed autorevoli. 
Il Partito Democratico invece no. 
Dalla sua fondazione, risalente all’ottobre del 2007, ad oggi, si sono susseguiti ben 5 segretari: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani e Matteo Renzi, con l’aggiunta di Enrico Letta come Presidente del Consiglio.  Cinque segretari in otto anni.  Non è una critica, ma un dato di fatto che cerca di spiegare la peculiarità del primo partito italiano. 
Le questioni “primarie” sono sempre state indice di democraticità all’interno del PD, e il loro abuso, perché di abuso si è trattato, ha agevolato un veloce ricambio ai vertici del partito, sia nel ruolo di segretario che in quello di presidente e candidato premier, carica che molto spesso coincideva.  
Una spiegazione può essere data dalla grandissima scelta di autorevolezza dalla quale il PD può pescare.  Via un segretario, dentro un altro, di uguale valore, più o meno a seconda delle occasioni, e in grado di gestire un partito imbottito di correnti e ideologie per molti aspetti diversi ma per altri molto affini, permettendo così un costante cambio di guida sinonimo di democraticità.
I segretari sono stati cinque, ma personalità di spicco ce ne sarebbero a volontà; a partire dai “vecchi” D’Alema e Prodi, per passare a Cuperlo e Fassina, fino ad arrivare ai “nuovi” Serracchiani e Civati. 

Un altro motivo per cui il PD ha da sempre subito il rischio scissione ha un nome e un cognome: Walter Veltroni. Il primo segretario, con il Partito Democratico, ha voluto creare una coalizione di piccoli e medi partiti in uno solo, raggruppando idee, valori ed estrazioni molto diverse tra di loro.   L’idea veltroniana ha racchiuso in un solo partito un’area culturale, economica, politica e sociale che va dalla ex sinistra democristiana fino ai miglioristi del Partito Comunista, come l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 
Ora vediamo quali sono, e da chi sono formate le aree e le correnti del Partito Democratico. 
Le aree del Partito Democratico sono essenzialmente tre: l’area social-democratica, l’area cristiano-sociale e quella liberale. 


L’area socialdemocratica ha radici molto lontane, a partire dal Partito Comunista, per poi passare dal Partito Democratico della Sinistra con una breve fermata presso i Democratici di Sinistra, per arrivare infine al Partito Democratico attuale.  Al suo interno vi sono diverse correnti per molti aspetti simili ma per molti altri differenti. La corrente più corposa è quella “Bersaniana”, in cui militano, oltre all’ex segretario Pierluigi Bersani, personalità del calibro di Vasco Errani, Enrico Rossi, il sindaco di Bologna Virginio Merola e Guglielmo Epifani.  Il loro pensiero politico consiste nella ricerca di novità che al tempo stesso ricordi e non metta in disparte i vecchi e solidi principi di sinistra e di centro sinistra.
Poi ci sono i “Dalemiani”, tra cui i più importanti, oltre a D’Alema, sono Luciano Violante e Gianni Cuperlo, e probabilmente anche Pier Carlo Padoan.
Chi invece è favorevole ad un rinnovamento della classe dirigente e contrario a qualsiasi tipo di governo cosiddetto “delle Larghe Intese” sono i "Civatiani", il cui condottiero, Giuseppe Civati, è affiancato da esponenti come Laura Puppato. Oggi i civatiani sono il gruppo più ostile all’operato del Presidente del Consiglio Renzi e favorevoli ad un ingresso di SEL nel Partito e di una spasmodica ricerca di laicità dello Stato. 
Infine ci sono i “Giovani Turchi”, una corrente nata nel 2010 che può essere considerata l’estrema sinistra del Partito. Sono fedeli a Bersani. In Parlamento sono rappresentati da Andrea Orlando, Stefano Fassina e Matteo Orfini. 

Renzi VeltroniLa seconda area è quella liberale. Essa si rifà al liberalismo, e cioè a un insieme di dottrine createsi nel corso del tempo e definite in tempi e luoghi diversi che pongono limitazioni al potere e all'intervento dello Stato, così da permettere la protezione dei diritti naturali e di libertà. Gli esponenti dell’area liberale nel Partito Democratico provengono da diverse estrazioni culturali e politiche. 
La prima corrente che ha varcato la soglia del Largo del Nazareno è quella guidata da Walter Veltroni, primo segretario PD, che ha avuto l’idea di un partito a vocazione maggioritaria che possa essere in grado di rivolgersi a tutti i settori della società, compresa la società civile. Veltroni ha da subito percepito la necessità di avviare un dialogo con le varie forze politiche per la creazione di importanti riforme, ritenute necessarie per la modernizzazione dello Stato.
La corrente "Veltroniana" è in via d’estinzione, anche se presenta ancora personalità molto forti come il sindaco di Torino Piero Fassino e il Ministro della Pubblica Amministrazione e Semplificazione Marianna Madia. Oggi, il portavoce dell’area liberale e leader indiscusso del Partito, è Matteo Renzi che però si è sempre detto contrario all’appartenenza a qualsiasi tipo di corrente. 
Il segretario tende ad una volontà che riporti il partito al suo impianto originario, quello di Veltroni, e cioè che non guardi a possibili coalizioni, né a destra né a sinistra, bensì che corra da solo verso l’obiettivo che di volta in volta si pone. 
I “Renziani” si ispirano inoltre alla Terza Via di Tony Blair (per saperne di più leggere qui e qui), e cioè a quelle politiche che cercano di conciliare le politiche liberali tipiche della destra con quelle socialiste della sinistra. È bene non confondere la Terza Via di Blair con le politiche vicine al centrismo. Inoltre i renziani si rifanno all'esperienza riformatrice che sta portando avanti Barack Obama negli Stati Uniti e. almeno inizialmente, sono stati promotori di un processo di rinnovamento della classe dirigente, prendendo il soprannome di “rottamatori”. Gli esponenti principali sono Maria Elena Boschi, Graziano Delrio, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, oltre al già citato Presidente del Consiglio. 

prodi lettaInfine c’è l’ultima area, quella cristiano-sociale, chiamata anche cattolico-democratica, che è arrivata nel Partito Democratico dopo essere passata per la Democrazia Cristiana, per il Partito Popolare e per la Margherita. Il Cristianesimo sociale è una dottrina aperta alle riforme sociali, senza dimenticare gli aspetti più rilevanti della dottrina cristiana, soprattutto nell’ambito di tutela del lavoro e dei ceti lavoratori. Gli esponenti di rilievo della prima corrente, il nucleo più vicino ai valori e alle tradizioni del cristianesimo sociale, sono Dario Franceschini, Franco Marini e l’attuale Ministro della Difesa Roberta Pinotti. Abbiamo poi gli “Ulivisti”, la corrente più vicina all’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi. Al loro interno sono suddivisi ulteriormente in mini-correnti che fanno, o facevano, capo a Rosy Bindi ed Enrico Letta. Gli ulivisti, nel loro insieme, sono favorevoli ad un’apertura quasi totale alla società civile, con l’esempio più eclatante in Giorgio Ambrosoli, nel 2013 candidato alla Presidenza della Regione Lombardia per il PD e di professione avvocato. 
Tante aree, tante correnti. 

Fatto sta che il Partito Democratico per la sua conformazione, la sua storia, la sua mescolanza, i suoi valori, le sue estrazioni e le sue idee sarà sempre e per sempre un partito destinato a subire e a convivere con il rischio di una scissione o di una rottura. 
Solo la presenza di un leader forte che resti tale per un tempo più o meno lungo, può pacificare la situazione e responsabilizzare una vastissima area politica fucina di idee e talenti, spostando l’attenzione sugli obiettivi condivisi e non sulle differenze comuni. 
Forse nemmeno questa è la soluzione migliore, visto che nelle differenze il Partito Democratico ha sempre trovato quella spinta in avanti da tempo caratterizzante la propria identità e la propria forza, arrivando a credere il meno possibile, senza arrivare ad essere eretici, per obbedire il meno possibile, senza arrivare ad essere ribelli. 



17 febbraio 2015

Il doppio attentato di Copenaghen: cosa abbiamo sbagliato stavolta?

All'indomani dei tumulti di Parigi di più di un mese fa ci si era interrogati su come degli individui nati e cresciuti in Occidente potessero abbracciare il fondamentalismo islamico e compiere atti terroristici contro quelle stesse istituzioni di cui magari hanno fatto parte durante la loro vita. Nel caso specifico della Francia si era sottolineato, opportunamente (!), il fallimento delle politiche nazionali di integrazione della comunità musulmana. In altre parole, molti opinionisti avevano rimarcato il disagio sociale presente nelle cosiddette “Banlieue”, le periferie delle metropoli transalpine in cui vivono prevalentemente immigrati, e lo avevano messo in correlazione con la maggiore probabilità di presa di ideologie estremiste. Insomma, si era in un certo senso incolpato le autorità transalpine per aver emarginato e lasciato a sé stessa una certa fascia di popolazione di fede islamica, per lo più di giovane età, non fornendogli opportunità equivalenti a quelle di altri cittadini provenienti da ceti più abbienti.



In questi giorni però scopriamo che anche l’orribile doppio attentato di Copenaghen è stato messo in atto presumibilmente da un ragazzo, tale Omar Abdel Hamid El-Hussein, di origini arabe ma con passaporto danese. Se nel caso della Francia probabilmente qualcosa è stato sbagliato riguardo alla pianificazione di una convivenza civile e serena con gli appartenenti alla minoranza islamica, estendere questa considerazione al paese scandinavo mi sembrerebbe alquanto forzato. Infatti la Danimarca, come è ben noto, costituisce un esempio di stato in cui esistono ampie tutele di Welfare, un'economia che garantisce buone prospettive lavorative e la possibilità di migliorare la propria posizione sociale e, infine, una società inclusiva e tollerante. Queste caratteristiche sono rimaste immutate nonostante la recente ascesa della formazione xenofoba di estrema destra denominata “Partito del Popolo Danese”, la quale ha contribuito all’approvazione di norme particolarmente restrittive per quanto riguardo l’immigrazione all’inizio degli anni 2000, sotto il governo targato Anders Fogh Rasmussen. Ma appunto il soggetto sopra citato non era un immigrato. Era bensì un cittadino danese ed europeo a tutti gli effetti (ricordatelo a Matteo Salvini please!).

Dunque cosa spinge alcuni giovani islamici, partoriti nei nostri ospedali ed educati nelle nostre scuole a rendersi responsabili di gesti che ripudiano i nostri valori? Questa è una domanda la cui risposta è ahimè complicatissima. Mi permetto, in maniera molto modesta, di evidenziare come sussista nel mondo contemporaneo una innegabile tendenza alla riscoperta della propria identità. In particolare, in una realtà globale sempre più liquida (riprendendo la celebre definizione del sociologo Zygmunt Bauman), il soggetto comune, spaesato e spinto al conformismo, sente il bisogno di aggrapparsi a qualcosa di solido e autentico. La religione espleta questa funzione da “àncora di salvezza” in maniera insuperabile. Perciò immigrati di seconda o addirittura terza generazione vengono attratti da credenze e riti che magari erano state messi in secondo piano dai loro genitori, per esempio. Tuttavia questa è semplicemente un’opinione personale, seppur supportata da un testo di rilievo come il tanto criticato “Lo scontro di civiltà”, scritto dal politologo americano Samuel Huntington.

Quindi il problema non era la Francia un mese fa e non lo è oggi la Danimarca, purtroppo. Il fascino esercitato dalle istanze propugnate da associazioni terroristiche come lo Stato Islamico non dipende dalle singole circostanze domestiche, ma piuttosto da una situazione sistemica. Dipende da un rifiuto di tutto ciò che è “occidentale”. Dipende essenzialmente dal rifiuto della contemporaneità.
Tuttavia parecchi aspetti positivi di questa “nostra” contemporaneità sono il frutto di lotte secolari. Il secolarismo, lo stato di diritto, la democrazia, il pluralismo, la tolleranza religiosa, la libertà di parola eccetera ci sono costati fumi di sangue, sparsi durante innumerevoli battaglie. Il modo migliore per difendere queste conquiste (perché di indubbie conquiste si tratta) ed estirpare il germe del fondamentalismo islamico prima che attecchisca definitivamente è riaffermarle con fermezza. Reagire ai soprusi con orgoglio e senza violenza. Contrastare le pallottole con i diritti. Almeno sul fronte interno. Sul fronte esterno sfortunatamente temo che un atteggiamento non-bellicista ad oltranza si rivelerà controproducente. Ma questa è tutta un’altra storia.


Insomma rispondendo alla domanda iniziale: cosa abbiamo sbagliato noi? Non troppo. Quantomeno non in tutti i casi, mi viene spontaneo affermare. Abbiamo donato a popoli in fuga dalle loro terre native, in cerca di una vita più prospera, ciò che di più prezioso avevamo. Cosa possiamo sbagliare ora? Molto di più se ci priviamo di queste peculiarità che ci distinguono oppure se pensiamo che non ci si debba ancora sforzare di considerarle un bene comune da tutelare e tramandare.

16 febbraio 2015

Scacco al Re: la grande crepa del Sistema Calcio

Magari poi non sarà nulla. Magari poi sarà l’ennesimo scandalo che viene dimenticato e sparisce, insabbiato nel sistema. Magari sarà l’ondata mediatica che sembra travolgere tutto, e invece poi quando la marea si ritira si vede che, ad essere risucchiati nella risacca, sono stati solo i piccoli granchietti, mentre gli scogli sono ancora lì, forse un po’ bagnati, forse no. Ma intanto l’onda c’è stata. E l’onda, o meglio lo tsunami, è rappresentato dalle registrazioni telefoniche di Pino Iodice, d.g. dell’Ischia Isolaverde, al telefono con Claudio Lotito, membro del comitato di presidenza della FIGC e patron di Lazio e Salernitana. 

Iodice, la cui squadra milita nello stesso girone di Lega Pro della Salernitana, ha deciso precauzionalmente di registrare le telefonate con Lotito, e una volta compreso il peso delle parole pronunciate, ha consegnato la registrazione a Repubblica. Per ora una, ma – per stessa ammissione del dirigente dell’Ischia – ce ne sarebbero molte di più e molto più compromettenti. Ma quali sono queste parole? “Ti faccio un discorso - dice Lotito a Iodice - : secondo te in Lega di A decide Maurizio Beretta (presidente della Lega di Serie A)? Sai cosa decide? Zero. E allora: il presidente fra un anno e mezzo va a casa da solo, l'accompagno io, e rappresenta zero.” Non proprio parole istituzionali. E può andare pure peggio. "Ho detto ad Abodi (presidente della Lega di Serie B): Andrea, dobbiamo cambiare. Se me porti su il Carpi... Una può salì... Se mi porti squadre che non valgono un cazzo. Noi fra due o tre anni non c'abbiamo più una lira. Perché io quando vado a vendere i diritti televisivi - che abbiamo portato a 1,2 miliardi grazie alla mia bravura, sono riuscito a mettere d'accordo Sky e Mediaset, in dieci anni mai nessuno -fra tre anni se c'abbiamo Latina, Frosinone, chi c... li compra i diritti? Non sanno manco che esiste, Frosinone. Il Carpi... E questi non se lo pongono il problema!". 


Tavecchio Lotito
tuttosport.com
L’intero mondo calcistico è esploso. Da un lato la dirigenza del sistema, che ha subito preso le distanze dalle dichiarazioni di Lotito, Tavecchio (presidente FIGC) compreso, nonostante Lotito sia il suo principale sponsor. Dall’altra le società, con l’intera B che si è schierata con Carpi e Frosinone, e la stessa squadra modenese, che per ora domina il campionato, ha pubblicato una nota ufficiale invocando l’intervento della Procura Federale (che intanto ha aperto un fascicolo sulla vicenda). Il sindaco di Frosinone, Ottavini, ha invece reagito dicendo che “le dichiarazioni di Lotito dovrebbero porre con urgenza la questione della opportunità o meno di continuare a concedere la scorta ad un uomo che sputa veleno sulla parte più nobile del calcio italiano, oltre che sulle realtà e le istituzioni locali”. Anche Malagò, presidente del CONI, ha condannato le parole di Lotito, e pure Graziano Delrio si è espresso sulla vicenda. 

Ma sono due gli elementi che rendono questa crisi ancora più grave. Da un lato, le dichiarazioni successive di Iodice. Il dirigente sportivo dell’Ischia ha infatti svelato in un’intervista a Radio Ies che di intercettazioni ce ne sarebbero molte di più, e ben più gravi. “Ho altri documenti che attestano come Claudio Lotito mi abbia minacciato, in caso di mancato appoggio all'attuale governance, di togliere i finanziamenti che ci spettano” ha detto Iodice. E questo aprirebbe una voragine nel calcio italiano, perché significherebbe corruzione nell’elezione proprio di Carlo Tavecchio. L’ulteriore stranezza è la reazione di Beretta, definito “zero” dal consigliere federale. “Il dato riferito al presidente di Lega era un modo un po' spiccio per definire la realtà dei fatti, ovvero che tutte le deleghe sono nell'assemblea come previsto dallo statuto” ha spiegato Beretta. “Il presidente è un garante dell'applicazione delle regole, è un'interfaccia verso l'esterno, ma a decidere è l'assemblea. Bisogna guardare alla sostanza delle cose più che alle parole. Poi ci sono modi di esprimersi delle persone che possono essere più o meno divertenti, non scordiamoci che questa era una telefonata presumibilmente privata. Sulle modalità si può discutere, ma non mi pare il caso di drammatizzare". Parole quantomeno strane e sospette, dato che Beretta sarebbe il primo ad “avere diritto” ad attaccare e condannare Lotito, e mentre tutti lo fanno, lui sdrammatizza. Il proprietario della Lazio ha provato a spiegare i toni e gli argomenti della telefonata in una conferenza stampa, che si è tramutato in un monologo di oltre quaranta minuti, ma non ha convinto quasi nessuno. 


reporternuovo.it
C’è un altro importante silenzio, che spaventa per le conseguenze. La Lega Serie A, l’insieme di tutti i presidenti, non ha discusso dell’argomento, con le uniche eccezioni (comprensibili, in quanto avversari a Lotito nell’elezione di Tavecchio) Juventus e Roma. E questo silenzio introduce alle conseguenze che potrà avere il LotitoGate. La prima, possibile, quella che in ogni altro stato sarebbe la più naturale, è il passo indietro di Lotito, ovvero le dimissioni da qualsiasi carica ufficiale in Lega, per poi attendere una eventuale sentenza della Procura Federale. Questa soluzione è stata invocata da più parti, stampa e politica compresa. La seconda, proposta dallo stesso Iodice, prevede le dimissioni di tutta l’intellighenzia del calcio italiano, Tavecchio e Beretta compresi. Opzione inarrivabile. La terza, quella possibile perché si parla di calcio e d’Italia, è il nulla: la totale assenza di conseguenze, l’insabbiamento, il nascondere i problemi sotto al tappeto. E il colpevole silenzio dei presidenti e della Lega fa temere proprio questa via. Qualsiasi cosa succederà, comunque, la telefonata di Claudio Magno (come lo ha definito il direttore della Gazzetta Andrea Monti) rappresenta una crepa nel sistema calcio. Da vedere sarà ora se questa crepa si ingrandirà e magari distruggerà completamente la crosta scura che ricopre il pallone in Italia, per mostrare il futuro luminoso che tutti invocano, o fingono di invocare, oppure se anche stavolta la crepa verrà riparata con lo scotch, per tenere insieme l’ordine precostituito che tutti criticano e nessuno cambia.

Marco Pasquariello