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30 novembre 2014

EU 013 - L'ultima frontiera: il primo documentario dentro i CIE

“Al nostro vicino è sempre più richiesto di essere uguale a noi, e ogni sua minima differenza in eccesso è vissuta con intima delusione, come un segno di ingiustizia”.
René Girard

L’Hôpital général nel quale venivano internati i folli nel XVI secolo era una realtà di ambigua natura, spiega Foucault nel suo Storia della follia nell'età classica. Non era un'istituzione medica, come un'ospedale, ma piuttosto una struttura che si frapponeva tra i poteri costituiti e la società civile; spesso ricavati da lebbrosari dismessi. Un limbo all'interno del quale i miserabili venivano esiliati e dimenticati, costretti a trascorrervi un'intera esistenza, colpevoli di un solo reato: la loro diversità.

I CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) nei quali vengono internati i migranti oggi sono realtà di ambigua natura. Non sono istituti di pena, come le carceri, ma piuttosto strutture che si frappongono tra i poteri costituiti e la società civile; spesso ricavati da caserme, ospizi e fabbriche dismesse. Sono un limbo all'interno del quale gli stranieri vengono esiliati e dimenticati, costretti a trascorrervi buona parte della loro esistenza, colpevoli di un solo reato: illecito amministrativo.
Foto di Giulio Piscitelli.

Dal momento della loro istituzione (legge Turco-Napolitano del 1998) nessun esterno era potuto entrare per effettuare delle riprese, sebbene da anni numerosi giornalisti avessero tentato di raccontare queste realtà attraverso inchieste e reportage. Tra questi, Alessio Genovese e Raffaella Cosentino (che è stata nostra ospite a Bologna lo scorso settembre per il primo evento di TBU a tema immigrazione, NdR), inseguivano un obiettivo preciso: raccogliere immagini che potessero rivolgersi ad un pubblico più ampio possibile, non il solito pubblico di specialisti, per educarlo e per far sì che nessuno più potesse pronunciare le parole “io non lo sapevo”. Così nell'autunno del 2012, in un momento in cui l'allora governo Monti si avviava verso la sua prossima fine, l'ex ministro Cancellieri ha deciso di ascoltare la loro proposta e di sottoporla al Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione. Dopo tre mesi di processo che ha coinvolto Ministero, Viminale, Dipartimenti interessati, Prefetture sul posto e Questure, i cancelli si sono aperti, modificando però le condizioni della proposta iniziale: dai tre mesi all'interno dei Centri, l'autorizzazione ministeriale concede non più di due giorni consecutivi, ovvero 2-3 ore di riprese per struttura. “Non sono niente – spiega il regista Alessio Genovese – se consideri che stai entrando in luogo nel quale non sai cosa potrai trovare. Non abbiamo mai avuto la possibilità di lavorare sul set, scegliere le inquadrature: è stata tutta improvvisazione. Dovevamo riuscire ogni giorno a portare a casa parte di un racconto costruito in pochi attimi: è stato un lavoro da equilibristi, dove l'esperienza ha contato tantissimo”.



Iniziano così le riprese di quello che diverrà EU 013 – L'ultima frontiera: il primo documentario girato all'interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione. All'arrivo della troupe la reazione comune degli “ospiti” è stata quella di “ammassarsi sulle sbarre, sulle porte, sui cancelli, per cercare di attirare l'attenzione, per cercare di avere il tempo, la possibilità di far sentire il proprio grido, la propria storia”. Eppure non vedrete queste immagini, molto distanti dall'intento del progetto. Così come non sentirete parlare gli agenti di servizio, non certo per una scelta narrativa, ma poiché è venuta a mancare totalmente la loro collaborazione.
Sentirete piuttosto le storie di persone sottoposte a veri e propri “ergastoli bianchi”, individui esiliati in luoghi dove il tempo sembra non passare mai, privati di ogni cosa: accendini, tappi di bottiglia, nomi di battesimo. Sì, nomi di battesimo sostituiti con numeri, vi ricorda qualcosa? Se questi sono uomini. Molti di loro sono in fuga da Paesi dove imperversa povertà e guerra, dove i diritti umani vengono violati ogni giorno, alla ricerca di uno Stato in grado di accoglierli. Tanti altri invece in Italia ci vivono da anni, qui hanno pagato i contributi, qui sono cresciuti e hanno frequentato le scuole. Questi Centri nei quali oggi si trovano, sono delle vere e proprie “linee di frontiera, l'anticamera di quello che sta già avvenendo nella società italiana”. 

Foto di Giulio Piscitelli.
Tutti gli episodi di intolleranza nei confronti degli immigrati hanno una matrice comune, basti pensare a ciò che è accaduto a Tor Sapienza. In un contesto di violenza crescente, quando lo Stato e l'errato sistema di welfare che esso porta con sé dovrebbero essere nell'occhio del mirino del cittadino medio italiano, diventa molto più facile scaricare la propria insoddisfazione nei confronti di un elemento esterno. Per dirla con Girard: il migrante è il perfetto capro espiatorio costruito attraverso il mito di alcuni partiti politici che negli ultimi anni hanno distolto l'attenzione degli italiani da problemi irrisolvibili nel breve periodo, per concentrarla su questioni che gli consentissero di aumentare la propria popolarità. Da qui si sviluppano tutta quella serie di credenze che vogliono lo straniero come colui che viene in Italia per rubarci il lavoro, quello al quale lo stato dà chissà quanti soldi al giorno per vivere a carico nostro e che passa avanti a tutti nelle liste per le case popolari. Per non parlare delle mistificazioni legate all'afflusso di immigrati in Italia, quando il nostro è tra i Paesi europei con la minore percentuale di accolti (9,4% è la percentuale di stranieri sulla popolazione nel 2013 secondo l'ISTAT, rispetto al 13,8% della Spagna o al 15,9% dell'Irlanda). 


“Noi combattiamo quell'idea per cui il CIE è indispensabile in una società moderna. Una società moderna deve avere dei funzionamenti diversi di apertura e di transito, deve rivedere il sistema di concessione dei visti, deve ripensare il sistema di richiesta d'asilo, modificare il sistema di welfare. A quel punto io penso che si potrà ovviare all'esistenza di questi centri”. Per il momento tutto ciò che si è ottenuto è stato la riduzione del tempo di trattenimento da 18 mesi a 90 giorni, “un risultato di facciata, però pur sempre un risultato. Da festeggiare ma non di cui accontentarsi”, conclude Genovese.

Roberta Cristofori

Per chi volesse contattare gli autori, è possibile scrivere al seguente indirizzo email: distribution@zabbara.org

26 novembre 2014

Emilia-Romagna, dietro l'astensione c'è l'assenza di competizione

Le analisi del giorno dopo sulle regionali in Emilia-Romagna non hanno tenuto conto di un fattore fondamentale, che dovrebbe essere il punto di partenza da cui sviluppare tutti gli altri. Nonostante gli scandali recenti, nonostante una politica che, non certo da ieri, si muove molto di più nei talk-show e nei social media che non sul territorio, nonostante i partiti vengano sempre più identificati nel leader, nonostante tutto, non si può non tenere conto che mancava uno stimolo fondamentale agli elettori per recarsi alle urne: la competizione.

Tutti sapevano chi avrebbe vinto, non c'era una concreta alternativa. 
Basti pensare che nessun leader dei grandi partiti italiani ha sentito la necessità di spendersi particolarmente a favore del proprio candidato, ben consci del fatto che fondamentalmente i verdetti erano già stati scritti. Tutti tranne Matteo Salvini. Nelle ultime settimane ce lo siamo trovati praticamente ovunque, ed infatti le sue energie sono servite a contribuire all'unica, parziale sorpresa di questa tornata elettorale. Alan Fabbri, il candidato leghista del centrodestra, è riuscito ad arrivare secondo con quasi il 30% in una regione in cui  la Lega Nord non ha mai goduto di particolari simpatie, ma non ha né la statura politica né la considerazione necessaria per essere davvero in competizione.
 Il 62,7% degli aventi diritto che non si reca alle urne è un dato indubbiamente negativo, ma c'è stata troppa superficialità nell'interpretare questo dato senza tenere conto delle circostanze in cui si è sviluppato. In un contesto con un unico vero candidato, viene meno la possibilità di esercitare il “voto utile”, o “voto strategico”, che consiste nel dare il proprio voto non al candidato di maggiore gradimento ma a quello preferito tra quelli con concrete possibilità di vittoria. Per questo è anche chiamato “voto contro”, perché può anche essere interpretato come un calcolo per evitare che vinca il candidato meno gradito. La strategia del “voto utile” è quella seguita dalla maggioranza degli elettori, a maggior ragione dagli elettorati più ideologizzati come quello della regione rossa per antonomasia. Date le premesse, vedo l'alta astensione come il segnale che si, una grossa fetta di elettorato emiliano-romagnolo non nutre molto entusiasmo per il PD e per Bonaccini, e non c'è da meravigliarsi dopo gli scandali “spesepazze”, “terremerse” e il caos delle primarie, ma non ha fatto nulla per fare in modo che la regione cambi amministrazione, perché evidentemente gli sta bene così. È un po' come dire “non farò niente per impedirvi di governare, ma stavolta non vi darò il mio esplicito consenso”
Tuttavia i mass media si alimentano di catastrofismo e sensazionalismo e si sa, gli italiani vanno matti per i tormentoni come appunto è stata la parola astensionismo in questi giorni, riportata ossessivamente e soprattutto interpretata superficialmente e in maniera spesso strumentale un po' da tutti gli insoddisfatti di questa tornata elettorale. Per carità, molte cose sono vere, a cominciare da questioni “ambientali” come il fatto che si potesse votare un solo giorno e che non c'erano altri tipi di elezioni per cui recarsi alle urne fino ai fattori più strettamente politici. È vero che la politica fatta sul territorio sta perdendo terreno in favore di una politica ad immagine e somiglianza dei ledaer, ma questo processo non è iniziato domenica e soprattutto è naturale in una società sempre più digitalizzata. Non significa tuttavia che questa nuova politica debba essere per forza peggiore della precedente. Sebbene sia innegabile che non basta l'assenza della competizione diretta dei leader di partito per giustificare un così netto calo dei votanti, ma lasciarsi andare ai catastrofismi, soprattutto all'interno del partito che governa 18 regioni su 20, denota forse una certa voglia di strumentalizzare la questione.
 Questo ci porta dritti all'"effetto Renzi", fattore a mio avviso sopravvalutato perché letto in chiave assoluta e non alla luce di quello principale, la già citata assenza di reale competizione. Ha ragione l'ala sinistra del PD a dire che l'alta astensione nella regione rossa per eccellenza può essere interpretata come insoddisfazione verso il lavoro del segretario e soprattutto della sua svolta centrista, ma è solo uno dei tanti fattori. Cercare di convincere che sia l'unico è una strumentalizzazione troppo forzata. Ha anche ragione l'ala renziana a dire che la partecipazione diretta del premier porta voti extra rispetto a quelli della base, come dimostrano le europee di sei mesi dove innegabilmente il famoso 40% è stata una sorta di plebiscitaria approvazione al nuovo governo Renzi, ma non si possono nascondere i problemi reali dietro al consenso nella figura del leader. Entrambi i fattori hanno spinto le persone a restare a casa, ma sono comunque secondari rispetto all'assenza di competizione, vero fattore dominante e condizione peculiare di queste elezioni regionali, quindi bisogna muoversi molto cautamente sia nell'estendere il discorso su scala nazionale sia nel dare un giudizio assoluto sull'interesse e sulla fiducia nella politica dei cittadini dell'Emilia-Romagna. L'affluenza alle urne in occasione delle europee è stata del 70% (13% in più della media italiana), pensare che gli emiliano-romagnoli si siano disaffezionati alla politica in sei mesi è francamente assurdo. E è altrettanto esagerato sostenere che un elettorato fedele e radicato come quello del PD metta tutto in discussione dopo qualche mese di gestione discutibile da parte del segretario.Basti pensare alla vittoria alle amministrative 2013, svoltesi in uno dei periodi più bui della storia del partito, quello della non-vittoria di Bersani e dei 101 franchi tiratori, che tuttavia non ha impedito agli elettori di recarsi massicciamente al voto quando il verdetto era tutt'altro che scontato.


25 novembre 2014

#noallaviolenzasulledonne : rendi il tuo futuro più arancione

Dal 1999 il 25 novembre è stato designato dalle Nazioni Unite come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La data è stata scelta per ricordare l’assassinio delle tre sorelle Mirabal che, il 25 novembre 1960 su ordine del dittatore dominicano Rafael Trujillo, furono torturate e gettate in un burrone da agenti militari. Lo scopo della giornata è sensibilizzare l’opinione pubblica sulle violenze che vengono ancora perpetrate sulle donne di tutto il mondo. Il 25 novembre è anche l’inizio degli Orange days (che si concludono il 10 dicembre nella giornata ONU per i Diritti Umani). La campagna, il cui slogan è “Orange your Neighbourhood”, invita tutti a rendere l’ambiente che ci circonda più arancione, il colore designato per simboleggiare un futuro senza violenza. Molti personaggi illustri hanno deciso di aderire alla campagna e farvi da testimonial, tra questi l’attrice Nicole Kidman.

Nicole Kidman: I wear orange because violence against women and girls is an outrage that I will never accept

Secondo UN Women: una donna su tre è vittima di violenza fisica o sessuale nell’arco della sua vita, nella maggior parte dei casi per mano del proprio partner; 133 milioni di donne hanno subito mutilazioni genitali femminili; 120 milioni di ragazze sono state forzate in un rapporto sessuale; di tutte le donne uccise nel 2012, quasi la metà è stata uccisa dal suo partner o da un membro della famiglia (come qui viene spiegato proprio bene).
In questa giornata anche United Colors of Benetton ha lanciato la propria campagna (ideata da Fabrica) a sostegno di UN Women. Nel video, una donna vestita di arancio è circondata da sei uomini. Nel momento in cui gli uomini alzano le braccia per lapidarla, le pietre si trasformano in fiori. La campagna parte dall’inflazionato cliché della “donna che non si tocca neanche con un fiore” per creare un’immagine forte e dire basta a ogni forma di discriminazione e sopruso. Fabrica ha inoltre creato un’installazione formata da una serie di tavole metalliche che rappresentano i volti di donne sfigurate. L’acido, in questo caso, viene utilizzato per “creare” la bellezza e non per distruggerla. Le tavole saranno messe all’asta nel 2015 e i ricavi devoluti a UN Women. 


Vale la pena di segnalare il Festival “La violenza illustrata” organizzato dalla Casa delle donne per non subire violenza ONLUS (associazione nata nel 1990 che a sede a Bologna), un evento unico nel panorama italiano, il cui obiettivo è informare attraverso immagini, video e altri mezzi artistici che parlino della violenza sulle donne. Il festival, giunto alla nona edizione, è iniziato il 4 novembre e terminerà il 6 dicembre. Il calendario, ricco di eventi, quest’anno ruota intorno al tema dell’accoglienza, grazie anche al contributo dell’illustratrice Daniela Tieni che ha saputo rappresentare questo concetto attraverso delle mani felici di incontrarsi per auspicare un lieto finale che ogni donna avrebbe il diritto di scegliersi. 

Sabrina Mansutti 

24 novembre 2014

Calcio - Top e Flop della 12^ di Serie A

TOP


Paul Pogba (Lazio – Juventus 0-3)


Non sono tanto i numerosi gol segnati dalla lunga distanza a fare di Paul Labile Pogba un campione, paragonato ad altri grandissimi del calcio. Non è la straordinaria maturità, non è la lucidità costante. Non è il fatto che nonostante tutto abbia appena 21 anni. E’ l’insieme di tutte queste cose, unito alla straordinaria semplicità con cui gioca, o meglio, sembra giocare. Infatti il francese fa sembrare qualsiasi gesto di una semplicità disarmante. Osservate il primo gol fatto contro la Lazio. Tevez lancia palla dalla fascia e Pogba mette fuori gioco l’avversario e si posiziona davanti al portiere. Tutto ciò con un unico fluido movimento atto a controllare la palla. La storia di Pogba alla Juventus è piena di questi episodi, in qualsiasi fase di gioco ed in qualsiasi posizione del campo. La crescita, da quando è arrivato in Italia (dal Manchester United, dove era arrivato per espresso ordine di Alex Ferguson e da dove era partito a parametro zero) è stata esponenziale. Fin dalle prime partite il talento si è visto subito, ma la visione di gioco e la capacità di interpretare la manovra di squadra crescono giorno per giorno.

Le vere provinciali in Serie A: Empoli e Sassuolo (Parma – Empoli 0-2 e Torino – Sassuolo 0-1)
Empoli e Sassuolo sono le uniche due squadre di Serie A a non avere sede in una città capoluogo di provincia. Ecco perché, per la prima volta, si può parlare veramente di calcio provinciale. E il calcio provinciale, in Italia, rende. Rende tanto che sia Empoli che Sassuolo mostrano un calcio avvincente, propositivo e frizzante, ben diverso da quello che ci si aspetterebbe –erroneamente- da due squadre che, agli albori del campionato, sembravano candidate alla retrocessione. Sono squadre diverse, con filosofie societarie diverse (l’Empoli coltiva, il Sassuolo spende) ma con risultati simili. Entrambe infatti vincono contro avversarie, sulla carta, più forti. Entrambe viaggiano su binari tranquilli, ben lontani dalla bagarre per salvarsi. Entrambe segnano con tutta la squadra, senza avere un marcatore definito (unica eccezione Berardi, comunque a tre gol). Non resta che vedere dove potranno arrivare.

Antonio “Totò” Di Natale (Udinese – Chievo 1-1)
400 presenze in Serie A, 300 gol tra i professionisti, 200 reti in Serie A. Tutti questi record raggiunti in una sola gara farebbero impallidire chiunque. Totò Di Natale invece non si lascia spaventare dai suoi stessi numeri e guida ancora l’Udinese alla veneranda età di 37 anni. La carriera di Totò, cominciata ad Empoli, lontana sia da Udine che da casa, Pomigliano D’Arco. Le prime delle numerose reti arrivano nell’Iperzola, squadra (che ora non esiste più) del comune di Zola Predosa, in provincia di Bologna. L’arrivo ad Udine è datato 2004, dove gioca insieme all’Ariete di Crotone Vincenzo Iaquinta e a David Di Michele. Dopo la prima stagione con Spalletti, arrivano annate difficili. La vera consacrazione arriva con Pasquale Marino prima e con Francesco Guidolin poi. Contando tutte le competizioni, dal 2009 alla stagione scorsa segna 132 reti (29, 28, 29, 26, 20). Al termine della scorsa stagione sembrava pronto ad appendere gli scarpini al chiodo, ma nell’ultima partita (contro la Samp, finita 3-3) ha segnato una tripletta. Dopodichè, ha rifiutato una offerta dal Guangzhou di Lippi e ha deciso di continuare a giocare e segnare a Udine. Ora Baggio dista solo cinque reti.

FLOP


Il conflittuale rapporto tra Torino e i rigori (Torino – Sassuolo 0-1)

Uno degli elementi che più ha rappresentato in questi anni il Torino di Ventura è l’attaccamento del pubblico alla squadra. Nemmeno nei momenti più bui, i granata in campo sono stati fischiati o insultati dall’intera tifoseria granata sugli spalti. Eppure è proprio ciò che è successo al termine della sfida persa con il Sassuolo, che ha ricacciato la squadra della Mole sempre più verso la zona rossa della classifica. E la sconfitta assume i contorni della beffa, pensando che ancora nel primo tempo ed ancora sullo 0 a 0 al Torino era stato fischiato un rigore a favore. Ma i rigori da queste parti non sono più ben accetti. Dal dischetto è infatti andato Sanchez Miño, che si è fatto ipnotizzare da Consigli ed ha sbagliato. Proprio come El Kaddouri prima di lui. E Larrondo. E proprio come Cerci ed Immobile la stagione scorsa. Sono infatti cinque i rigori consecutivi sbagliati dal Torino, tutti parati dal portiere avversario. E ad aprire la serie fu proprio Consigli la scorsa stagione contro il nuovo attaccante del Borussia Dortmund. Poi fu il turno dell’attuale panchinaro all’Atletico Madrid, che sbattè contro i guantoni di Neto facendo infrangere i sogni granata d’Europa all’ultima partita della scorsa stagione (Europa poi riguadagnata grazie ai guai ben peggiori del Parma). In questa stagione invece sono già tre i tiri sbagliati dagli undici metri, prima contro Handanovic e poi contro Rafael del Verona. C’è da sperare che ora Consigli abbia chiuso il giro, altrimenti la situazione del Torino diventerà ancora più grottesca e più in bilico.  

Il Parma, ovvero la B sempre più vicina


Dieci sconfitte su dodici partite non è proprio uno score esaltante. Qualsiasi squadra sarebbe in seria difficoltà se, dopo appunto 12 incontri, si trovasse già a cinque punti dall’ultimo posto utile per salvarsi. Ecco, ora a questa squadra verranno tolti anche (almeno) tre punti, per mancati versamenti degli stipendi ai giocatori. La situazione è decisamente disperata. Ecco, a questa squadra ora aggiungete una rosa non all’altezza, una società in dissesto economico ed un allenatore che o non ha più le redini della squadra o non ha più le motivazioni. Una soluzione tra le più gettonate in questi casi è cambiare allenatore. Solo che una società incapace di pagare gli stipendi dei giocatori come può permettersi di assumere un altro mister, lasciando a libro paga Donadoni, aggravando così ancora di più il dissesto societario? Gli allenatori costano, quindi o ci si affida ad un esordiente (si vocifera di Crespo) o ci si affida ad una soluzione interna, ma entrambe queste soluzioni possono effettivamente cambiare la situazione di squadra? La situazione è più grigia che nera.

La noia in mondovisione del derby di Milano

Era certamente la partita più attesa da un paio di settimane. Da una parte i milanisti, per vedere effettivamente se la loro squadra può puntare a qualcosa di più dell’Europa League, e per osservare Pippo Inzaghi davanti ad una delle partite più sentite della stagione. Dall’altra gli interisti, reduci da un periodo sicuramente deprimente con Mazzarri alla guida (non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello psicologico. Un allenatore dare la colpa del cattivo stato di forma alla pioggia non si può sentire.) che speravano nella Riforma di Mancini, allenatore mai dimenticato e che ha risollevato (insieme a Calciopoli) gli animi nerazzurri dalla pareggite che aveva colpito la squadra prima del suo arrivo. A guardare tutto il mondo del calcio, italiano e internazionale, con quasi 80.000 persone allo stadio. E tutte le attese sono state deluse. Il mondo ha assistito ad uno dei derby più brutti degli ultimi 20 anni, con poche emozioni ed ancor meno tiri in porta. Le due squadre in campo hanno subito una ridimensionata, tanto che da più parti sono piovute accuse e critiche. Se doveva essere lo specchio del nostro calcio, così non va.


Marco Pasquariello

23 novembre 2014

SundayUp - Raymond Queneau e gli "Esercizi di stile": la sostanza della forma

Volendo comporre una nuova frase su un libro, un disco, cuffie, acqua e freddo, castagne, spolverini e una maniglia, mi trovo qui costretto ad ingegnarmi per cavarne qualcosa di sensato.

No, non sono uscito di senno improvvisamente. Riscrivo in altra forma (!) le precedenti righe:

Volendo comporre una nuova frase
su un libro, un disco, cuffie, acqua e freddo,
castagne, spolverini e una maniglia,
mi trovo qui costretto ad ingegnarmi
per cavarne qualcosa di sensato.

Improvvisamente una sequenza di parole che nelle prime righe non aveva (almeno non volontariamente) un senso, ci costringe a trovarne uno quando viene sistemata in bell’ordine evidenziando gli endecasillabi che la compongono. Ora, in questo preciso caso non credo che, nemmeno sistemate ordinatamente, queste parole abbiano un senso, ma l’esempio (ripreso, nella sua impostazione, da un articolo del Sole 24 Ore di troppi mesi fa perché mi ricordi la data precisa) spero faccia capire quanto sia importante la forma nella presentazione di un testo.
In tutto ciò una delle più ammirevoli e geniali realizzazioni di questi “giochi di forma” sono gli Esercizi di stile di Raymond Queneau: una raccolta di variazioni stilistiche su un unico (e semplicissimo, quasi banale) testo base.
Parigi. Verosimilmente anni ’50. Un tizio sale su un autobus, assiste a un litigio tra due passeggeri, uno dei quali scende. Qualche ora più tardi il narratore lo rivede in un altro punto della città mentre parla con un conoscente. Fine della storia. Entusiasmante, vero?
Sgomberato qualsiasi dubbio sull’effettivo interesse della storiella originale, possiamo affermare con una discreta certezza che la sostanza degli Esercizi è poco più di nulla, uno scherzetto letterario che definire semplice sarebbe anche troppo. Ciò che conta, in questo caso, è la forma, con buona pace dell’equilibrio con la sostanza di aristotelica memoria.
Nelle 98 variazioni, infatti, Queneau si scatena in una vertiginosa serie di divertentissimi colpi da maestro: si possono leggere divertissement di ogni tipo, da quello con sole parole derivate dal greco (chi l’avrebbe mai detto che la parigina stazione Saint-Lazare sarebbe diventata il “siderodromo agiolazarico”?) a quello esclusivamente costituito da litoti, da quello nebulosamente esitante (“Non so bene dove accadesse… in una chiesa, in una bara, in una cripta?”) a quello ossessivamente preciso (che pedantemente ci informa che l’autobus è “lungo 10 metri, largo 3, alto 3,5” e che si trova “a 3600 metri dal suo capolinea”). Dall’haiku al gastronomico, dal ripetitivo al botanico, e via dicendo, con più variazioni di quelle che potreste mai immaginare.

Merita almeno un paragrafo il lavoro che un qualsiasi traduttore deve affrontare per portare in una qualsiasi lingua l’opera di Queneau. Di fatto non si può nemmeno parlare di traduzione, e sarebbe più pertinente definirla una riscrittura. Questo perché i giochi di parole, i trucchi enigmistici e le capriole linguistiche di Queneau non sono traducibili direttamente, costringendo a impadronirsi man mano di gerghi, modi di scrittura, in una parola di stili sempre diversi. L’edizione italiana è stata riscritta dall’inossidabile Umberto Eco, che ha – come è giusto – aggiunto del suo alla struttura base creata da Queneau. Va notato che, a detta dello stesso autore, gli Esercizi di stile sono un’opera aperta: egli stesso indica un lungo elenco di “esercizi di stile possibili” (sono decine!), senza tuttavia scriverli, come una sorta di invito agli scrittori che si approcciano alla sua opera, un’idea lanciata nell’arena della letteratura. Eco accoglie alcuni suggerimenti, per esempio scrivendo ben cinque diversi lipogrammi (testi in cui manca una particolare lettera), uno per ogni vocale, mentre Queneau si era fermato a uno (in cui manca la lettera e); adatta il gergo campagnolo francese rendendolo con un italiano approssimativo e sgrammaticato con palesi influenze dialettali piemontesi (un paio di “giüda faus”, tra le tante cose); quello che nell’originale è “Italianismes” naturalmente diventa “Francesismi” (“Allora, un jorno verso mesojorno egli mi è arrivato di rencontrare…”); traduce l’esercizio “Alexandrins” (un tipo di verso tipico della letteratura francese, ma di fatto sconosciuto in Italia) con una “Canzone” che fa bonariamente il verso al “Passero solitario” di Leopardi (“Sulla pedana d’autobus antica / pollastro solitario sopra l’Esse / sussulti e vai nel pieno mezzogiorno…”); per tacere degli anagrammi, delle sineddochi, degli omoteleuti, onomatopee, poliptoti, aferesi, sincopi e altri malanni di stagione del genere, che richiedono ben più di una semplice traduzione per essere comprensibili in un’altra lingua.

Naturalmente, appurato che la sostanza è poco più che nulla, resta il 50% di quel che un liceale medio tende a ricordarsi di Aristotele una volta finita la terza: la forma, questa sconosciuta. Passata spesso sotto silenzio, soffocata dalle ripetizioni di schemi fissi (non solo in ambito letterario, basti pensare a tutte le forme musicali) e offuscata dall’ossessione per la sua amica sostanza, che il senso comune vuole veicolo del messaggio vero. Espressioni come “in sostanza” oppure l’abusato (e da me profondamente odiato) “la sostanza delle cose” lo dimostrano.
Ebbene, Queneau ha scritto un libro decisamente “in forma” e in cui ci evidenzia con perizia e leggerezza notevoli quella che è “la forma delle cose”. Un bellissimo modo di avvicinarci a un nuovo modo di intendere l’opera d’arte: come contenitore, non esclusivamente come contenuto.

Alessio Venier

20 novembre 2014

Il Referendum in Catalogna, visto da un Catalano

Domenica 9 novembre si è tenuto nella regione autonoma della Catalogna un referendum “informale” riguardo all’indipendenza catalana dal governo centrale di Madrid. 
Si è trattato di un referendum prettamente consultivo, senza alcun valore giuridico, considerato incostituzionale dalla Corte Costituzionale spagnola.
I cittadini dai 16 anni in su sono stati chiamati alle “urne” dove si troveranno davanti una domanda: “Volete che la Catalogna sia uno Stato?” In caso affermativo, bisognerà rispondere alla seconda domanda: “Volete che questo Stato sia indipendente?”.
I risultati del referendum dicono che circa l’80% dei votanti (circa due milioni) si è espresso a favore dell’indipendenza del governo della Spagna. C’è però scetticismo nell’accogliere l’esito del voto, dato che l’organizzazione, lo scrutinio e il conteggio delle schede sono stati svolti prettamente da volontari catalani appartenenti, per la maggior parte, a movimenti e associazioni pro-indipendenza. Ma è comunque un segnale importante di cui il governo madrileno dovrà, per forza di cose, tenere conto. 
(Per saperne di più, leggete qui.)


Alcuni giorni prima del referendum, per capire un po’ che aria tirasse da quelle parti, ho chiacchierato con un mio “collega” catalano, Andreu Arenas, 27 anni, dottorando in Economia a Firenze.
Ecco cosa ci siamo detti. 

Andreu, perché sei in Italia? Di cosa ti occupi e da quanto?











Sono uno studente di dottorato di ricerca in Economia presso l'Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Sono a Firenze da 3 anni ma ho anche vissuto per un anno a Bologna grazie al progetto Erasmus, quando ero ancora uno studente.
In cosa ti sei laureato? 

In economia all’Università di Barcellona.  

Come è vista, in questo momento difficile, l'Italia dall'estero? Nel tuo caso, ovviamente, la Spagna. 

Dalla Spagna, l’Italia è vista con simpatia dato che ci sono molte somiglianze sociali, culturali ed anche economiche. Politicamente invece, per un periodo abbastanza lungo, gli spagnoli faticavano a capire cosa stesse accadendo nel vostro Paese. 
Il nostro stupore aveva un nome ed un cognome: Silvio Berlusconi. 
Di solito tutti gli italiani che vivono all’estero (a Barcellona ce ne sono tanti!) sono anti-Berlusconiani, e proprio per questo motivo la gente si chiedeva: ma se nessuno lo vota, o lo voterebbe, come fa a vincere? 
Ora che invece l’Italia ha iniziato un periodo di riforme, la politica italiana si guarda con più attenzione, anche perché tanti problemi sono simili, e a volte si cerca anche di copiare qualcosa.
Sei di Barcellona e quindi catalano. Ti senti più catalano o spagnolo?











Io mi sento catalano.
La mia comunità politica e culturale di riferimento e appartenenza è la Catalogna, anche se ovviamente i vincoli di affetto con la Spagna sono forti.
Il 9 novembre si sarebbe dovuto tenere, in Catalogna, un referendum per testare il volere del popolo catalano riguardo ai temi scottanti di indipendenza e autonomia. (Il referendum è stato solo consultivo è ha visto la vittoria degli indipendentisti con l’80% dei consensi).
L'esito del referendum scozzese, che ha dato la vittoria agli unionisti, e cioè coloro contrari all’indipendenza da Londra, ha contribuito a raffreddare gli animi catalani?











Sì e no. 
No perché quello che i catalani maggiormente vogliono non è l’indipendenza, ma semplicemente quello di fare un referendum, anche solo per vedere come tira il vento.   
Il solo fatto che in una nazione europea, una regione con caratteristiche simili alle nostre, abbia avuto il diritto di celebrare un referendum legale e che tutto si sia svolto in maniera civica e democratica, ha dato legittimità e forza al movimento che difende l’autodeterminazione (che è molto più ampio rispetto a quello che rivendica l’indipendenza). 
Sì, invece nel senso che ci sono alcune domande a cui è veramente difficile dare risposta, parlo degli indipendentisti, soprattutto per quanto riguarda le relazioni internazionali e, in seconda battuta,  l’appartenenza a spazi di integrazione economica che la vittoria del SI in Scozia avrebbe risolto. Questo non vuol dire che dopo il referendum scozzese la voglia di indipendentismo sia venuta meno nel popolo catalano, ma semplicemente che sarebbe salita ancora di più se avessero vinto i SI. 

Quindi in Catalogna la maggioranza non vuole l’indipendenza bensì l’autodeterminazione?











Un’ampia maggioranza, intorno all’80%, è favorevole all’autodeterminazione e, per esprimere il loro ideale vorrebbero avere la possibilità di votare tramate referendum. Riguardo all’indipendenza invece i sondaggi dicono che il SI sarebbe leggermente sopra il 50%. 










La rivista Internazionale parla della regione catalana come la prima area produttiva spagnola e la quinta europea. Il maggior distacco che vorreste da Madrid,  è dovuto anche a fattori economici o invece solo a quelli tradizionali, culturali ed identitari?











In Catalogna c`è tanta gente, (sicuramente la maggioranza) che vorrebbe uno Stato spagnolo plurinazionale, con  più autonomia locale o regionale sia a livello culturale che a livello economico. Qui, quando parlo di autonomia economica, non parlo necessariamente di più risorse, ma del potere nel decidere come spendere i nostri soldi, come guadagnarli e nell’avere più chiarezza nei conti pubblici, cosa che oggi non accade. 
In inglese si direbbe più accountability. 
Nel 2006 si è iniziato un processo di riforma della costituzione regionale catalana, lo Statuto di Autonomia,  dove sembrava che la strada presa fosse quella giusta. 
In Catalogna, la sinistra indipendentista aveva dato il governo al Partito Socialista Operaio (PSOE), con l’obiettivo di fare una riforma federale dallo Statuto. Zapatero, segretario del partito e presidente del Governo sembrava incline nel perseguire la strada delle riforme, soprattutto quelle riguardanti le questioni regionali.Ha infatti promesso che avrebbe accettato lo statuto di autonomia che il Parlamento della Catalogna stava per approvare, e che avrebbe chiuso una volta per tutte la “questione catalana”. Zapatero però non ha rispettato questa sua promessa ma ha cambiato il processo di riforma escludendo la Catalogna dal processo autonomista ormai in divenire. 
Questo ha fatto si che tanti federalisti e autonomisti, in particolare votanti e militanti dei due partiti centrali in Catalogna fino a quel momento,  CIU (una sorta di democrazia cristiana catalana) e il PSOE, siano diventati indipendentisti.
La crisi economica ha spinto la preferenza dei catalani e degli spagnoli su l’organizzazione territoriale dallo stato ancora più lontane di quello che erano già.  In Spagna si sono create correnti di pensiero riguardo al fatto che la crisi economica spagnola sia stata agevolata dall’eccessiva decentralizzazione e quindi per colpa delle regioni, e il Paese ha orientato la propria preferenza verso una maggiore centralizzazione del potere. 
In Catalogna, invece, la crisi ed i tagli alla spesa pubblica insieme ai conflitti per competenze autonome con il governo centrale hanno portato a più indipendentismo, un trend inverso rispetto al resto del Paese.

Parliamo per ipotesi. 
Nel caso in cui doveste giungere all'indipendenza, la scelta sarà quella di restare con l'euro e con l'Unione europea? 

L’indipendentismo catalano è un movimento europeo,  e vorrebbe restare sia con l’euro che con l’Unione Europea. Questo però non dipende solo da noi catalani. Sembra infatti che la Spagna, nel caso in cui dovessimo raggiungere l’indipendenza, negherebbe al nuovo Stato di entrare a far parte della Comunità europea. Le incertezze sono comunque molto alte, e dal mio punto di vista il movimento indipendentista è fin troppo ottimista su questa questione, ponendo l’enfasi sugli incentivi ex-post. La loro argomentazione principale, che in parte condivido ma considero debole, è quella che la Catalogna non avrà problemi in termini economici, dato che ha un bacino di utenze, specie nel turismo, che non è destinato ad esaurirsi, almeno nel breve periodo, e che quindi è possibile avviare partnership importanti, durature e molto redditizie. 
D’altra parte coloro che difendono l’unione, sia quella del Regno Unito che quella della Spagna, vedono solo una pericolosità insita nell’isolamento di una regione, senza alcuna causa logica, spaventando l’opinione pubblica e i cittadini enfatizzando la propria capacità di veto.
Se in Scozia avesse vinto il SI, si sarebbe creato un precedente, e forse ne sapremmo qualcosa in più.


Alcuni esponenti della Lega Nord (qui il nostro viaggio nel mondo di Salvini) hanno partecipato a manifestazioni pro indipendenza a Barcellona, affermando il loro totale appoggio alla vostra battaglia. Cosa pensi di loro e della loro presunta rivendicazione?











I catalani non appoggiano per nessun motivo la Lega Nord, ma al contrario la condannano. La condannano innanzitutto per il suo carattere xenofobo ed omofobo che si trova all’opposto delle idee e delle opinioni del dal movimento catalano. 
Poi la Padania e una entità inventata che non è mai esistita e che mai esisterà, ma è solamente un pretesto nato per una rivendicazione prettamente economica. 
I movimenti, in questo caso i partiti, come la Lega sono estremamente negativi per delle lotte di rivendicazioni presenti in Scozia e in Catalogna, i quali hanno radici culturali, storiche ed istituzionali solide e fanno si che questi siano percepiti negativamente in Italia, per esempio. 
La Lega contribuisce ad una banalizzazione dal diritto di autodeterminazione che io invece credo alcuni popoli europei dovrebbero meritare. 











Dove lo vedi il tuo futuro? Spagna o Italia?











Sono innamorato dall’Italia e potrei viverci per sempre, ma a un certo punto della mia vita  mi piacerebbe ritornare a casa, dove ho gli amici di sempre, la famiglia e una città meravigliosa come Barcellona. Purtroppo però, in un momento di difficoltà per i ricercatori universitari, non è facile trovare opportunità nelle università italiane o spagnole e forse bisogna andare un po’ più nord. Vedremo.

Giacomo Bianchi

18 novembre 2014

L'outsider che piace alla Merkel è il nuovo Presidente della Romania

Nonostante fosse lo sfavorito, il ballottaggio di domenica 16 novembre ha visto trionfare Klaus Johannis alle elezioni presidenziali rumene. Ma quali sono le ragioni di questo risultato inaspettato e le conseguenze della vittoria del centro-destra sulla politica rumena?


Johannis, laureato in fisica ed esponente della minoranza tedesca, ha iniziato la sua carriera politica nel 2000 quando è stato eletto sindaco di Sibiu (capoluogo della regione in cui maggioranza magiara e tedesca sono numerose). Ben quattro mandati da sindaco in cui si è fatto conoscere come colui che “mette in ordine i conti” della città. Durante questo periodo Sibiu è perfino riuscita a diventare Capitale Europea della Cultura (2007). Nel 2014 viene eletto alla presidenza del Partito Nazionale Liberale (PNL) e designato come candidato alla presidenza della Repubblica. Protagonista di qualche scandalo di minor portata collegabile prevalentemente all’incompatibilità tra cariche, Johannis è riuscito sempre a mantenere un’aurea di correttezza ed efficienza (retaggio forse delle sue origini tedesche?). Ed è proprio quest’immagine che ha portato Johannis alla vittoria: viene visto come l’oppositore della corruzione che potrà dare una svolta al Paese, a differenza del candidato socialista Ponta, simbolo (nonostante la sua giovane età, 42 anni) del vecchio sistema corrotto. 

Al ballottaggio ha partecipato il 64% degli aventi diritto. Al primo turno Ponta, attuale premier socialdemocratico, era in vantaggio su Johannis di ben 10 punti percentuali (40% rispetto al 30%), al ballottaggio invece il candidato vincente ha conquistato il 54,5% dei consensi. La chiave di questa svolta? Il voto all’estero. Si stima che i romeni all’estero siano circa 3 milioni. Se nel primo turno c’erano stati parecchi disguidi con lunghissime code e addirittura lanci di lacrimogeni a Torino e Parigi (le malelingue dicono “favoriti” da Ponta, poiché tradizionalmente la comunità romena all’estero vota per i conservatori), nel secondo turno il numero di votanti all’estero è raddoppiato. Tuttavia la differenza non è tanto data dal numero di voti (360 mila, numero certamente esiguo), bensì dalla catena di solidarietà verso i propri connazionali all’estero che ha portato migliaia di rumeni in patria ad andare a votare per difendere il loro diritto al voto. L’11% di affluenza in più rispetto al primo turno è stato decisivo per la vittoria di Johannis. La logica sembra quindi questa: la difficoltà nel votare all’estero è stata interpretata come simbolo di un sistema fallimentare, di conseguenza l'aumento della partecipazione al voto è stato percepito come protesta e solidarietà verso i propri connazionali all’estero. Il risultato? Un voto per il candidato conservatore come messaggio all’establishment.  La vittoria non è tanto da attribuire a Johannis come candidato del centro-destra, bensì come outsider che può riportare una sorta di “purezza” nel sistema politico rumeno. 

Il mandato di Johannis non sembra iniziare però nel più facile dei modi. Ponta ha dichiarato di non volersi dimettere da Premier perché convinto che il dialogo con il nuovo Presidente e una linea di continuità porterà maggiore stabilità. Questo potrebbe essere vero, ma potrebbe anche creare uno scenario altamente instabile se questa “convivenza” tra Presidente e premier fosse infruttuosa. La mossa di Ponta è politicamente molto scaltra, egli ammette la sconfitta e dichiara di aver capito il messaggio del popolo e la necessità di rinnovamento. Starà quindi a Johannis decidere se collaborare o no. 
Il nuovo Presidente ha già dichiarato quali saranno i primi passi del proprio operato: indipendenza della giustizia, aprire un dialogo sul voto elettronico e per corrispondenza in modo da assicurare il diritto di voto all’estero in futuro, economia liberale, potenziamento dell’istruzione, modernizzazione dell’agricoltura. La vittoria del centro-destra porterà invece sicuramente benefici alla Romania  a livello europeo. Johannis è apertamente appoggiato da Angela Merkel e questo potrebbe favorirne la posizione all’interno dei vertici UE. La Merkel aveva inviato una lettera di sostegno a Johannis in cui dichiarava che riconosceva nel candidato del PNL virtù apprezzate in Europa, competenze amministrative e un forte spirito europeista. 
Essendo un outsider è difficile prevedere se Johannis sarà all’altezza dei suoi compiti. Si può auspicare che riesca a traslare le sue capacità di buon amministrare nella politica nazionale. Ha le carte in regola per dare alla Romania ciò che ha bisogno. Un sistema scevro da corruzione e con una buona amministrazione che possa farle fare quel salto di qualità che in questi ventiquattro anni di democrazia ancora non si è compiuto nella sua totalità. Nonostante l’ingresso nell’Unione Europea risalga al 2007, la Commissione europea ha sempre fatto presente la necessità di progressi nel settore sociale e nella lotta alla corruzione. Questo mandato per dirsi di successo dovrebbe compiere questi ulteriori passi e magari dare la possibilità alla Romania di essere considerata uno stato con le caratteristiche per far parte dell’area Euro. 

Sabrina Mansutti


16 novembre 2014

SundayUp - Simone Cristicchi, "Magazzino 18" e gli spettri del recente passato.

Il teatro è, per me, come un luogo sacro. Uno spazio dove si compie un rito laico che, nell'amore per la cultura, acquista una sacralità speciale che lo rende insostituibile e prezioso. Un'isola, lontana dalla realtà, capace di stimolare riflessioni, ma anche di far sorridere. Sì, insomma, ho una visione un po' snob del teatro e, a suo modo, ha pure cambiato la mia vita, ma questa è decisamente un'altra storia. Sicuramente, però, in un contesto così, universalmente, solenne non ci si aspetta di andare ad ascoltare quello che ha da dire Simone Cristicchi. Sì, proprio quello di “Vorrei cantare come Biagio Antonacci”, e, caro Simone, per fortuna che non canti come Biagio, aggiungerei io!, il cantautore romano dalla capigliatura seconda solo a Caparezza che si è fatto conoscere con la leggerezza di un motivetto estivo.
Che Cristicchi fosse capace di molto di più, l'abbiamo capito tutti al Festival di Saremo 2007,  quando si è presentato (e ha vinto), serio serio, cantando "Ti regalerò una rosa", raccontando così la vita nei manicomi con una dolcezza e una sensibilità che ha conquistato anche quella parte di pubblico impermeabile ai jingle da spiaggia. Un artista multiforme, sospeso tra leggerezza e sensibilità sociale. Simone Cristicchi riesce con abilità a bilanciare queste sue due anime, senza tradirsi. E ad esprimerle nella maniera più riuscita in “Magazzino 18”: uno spettacolo teatrale, un concerto, un'opportunità, purtroppo unica, di scoprire qualcosa di più della nostra storia. 
Abbandonato ogni scetticismo all'ingresso, il Politeama Rossetti è colmo come nelle grandi occasioni per accogliere questo spettacolo che proprio qui, circa un anno fa, ha esordito, non senza qualche difficoltà (ricordiamo l'ampio dispiegamento di forze dell'ordine all'ingresso, le contestazioni ricevute in giro per l'Italia, i rifiuti di molti teatri per la messa in scena). Oggi, un anno e oltre 100 repliche dopo, “Magazzino 18” non ha perso un briciolo della sua forza espressiva e, anzi, rafforzato dall'interesse di pubblico e critica racconta con ancora più veemenza la sua storia. 

fonte: ilbureau.com
Un goffo funzionario del Ministero dell'Interno viene spedito a Trieste per catalogare l'ammasso di mobili, oggetti, vestiti abbandonati da anni in un magazzino del Porto Vecchio, il magazzino numero 18, per l'appunto. Proprio lì tra fantasmi e la sensazione di essere finito in un altro mondo, il funzionario Persichetti farà una scoperta che lo porterà a ripercorrere, accompagnato dai proprio fantasmi del magazzino, un pezzo di storia italiana quasi completamente rimosso. Quello che sembrava un trasloco finito male, si rivela come il lascito di un drammatico esodo che ha portato un'intera fetta della popolazione italiana di Istria e Dalmazia a lasciare la propria terra. 
Al semplice funzionario fa da contraltare la presenza, vagamente spettrale, dello spirito del custode del Magazzino 18, interpretata dallo stesso Cristicchi. Il cantautore, accompagnato da canzoni scritte ad hoc e lunghi monologhi, narra una storia che ha le sue radici nell'inizio del secolo breve e prosegue fino agli anni Sessanta. Sul palco si rincorrono storie di soprusi e sofferenza, di faide e vendette, di ingiustizia e paura. All'arrogante amministrazione fascista, seguirà la crudele rappresaglia della neonata Jugoslavia di Tito che in due anni, tra il 1943 e il 1945, farà letteralmente sparire migliaia di italiani d'Istria e Dalmazia, uccisi e abbandonati nelle foibe (a cui è dedicata "Dentro la buca". Da ascoltare.), molto più che semplici buche nel terreno. La fine dei rastrellamenti notturni non ha segnato la conclusione delle stragi, come quella, rimossa, di Vergarolla, spiaggia ai piedi di Pola, dove persero la vita non meno di 80 persone: famiglie, bambini che stavano seguendo una gara natatoria e pranzando sulla riva. Gli episodi e i volti delle vittime scorrono sul palco e trasportano il pubblico tra eventi storici che, ancora oggi, sono balìa di scontri ideologici più che di precise analisi storiografiche.

Chi ha studiato la questione dell'Istria e della Dalmazia a scuola, chi si è occupato dell'esodo giuliano-dalmata, chi ha denunciato le condizioni nelle quali i profughi vivevano nelle centinaia di campi distribuiti in tutta Italia, alzi la mano. Nessuno, o quasi. Finché il ricordo delle foibe verrà considerato un contraltare di destra alla celebrazione della resistenza partigiana, sarà impossibile riscoprire e dare il giusto risalto a questa pagina della storia del nostro paese che, è bene ricordarlo, è fatta di storie di persone normali, di Domenico, Norma, Geppino e tutti gli altri che hanno perso la vita, la casa, la terra, rifiutati anche da quella che solevano chiamare "madrepatria".

Sebbene il monologo talvolta ecceda nel bisogno di raccontare perdendo in incisività, il grande merito dell'ispirato Cristicchi è di portare alla luce con estrema lucidità e senza cedere in drammatizzazioni una storia che assume i contorni della tragedia proprio perché così sconosciuta ai più. 
Sala Assicurazioni Generali - Politeama Rossetti, Trieste
Assistere alla rappresentazione a Trieste, dove è arricchita dalla musica dal vivo dell'orchestra diretta dal maestro Valter Sivilotti e dal, meraviglioso, coro di voci bianche della scuola StarsTs lab, aggiunge un carico emotivo che la rende del tutto unica. La percezione che ciò a cui stiamo assistendo è successo non troppi anni fa a qualche km di distanza, porta, attraverso il grande potere del ricordo, le vittime in maniera quasi tangibile sul palco insieme a Cristicchi. Grazie all'accurata regia di Antonio Calenda e alla suggestiva scenografia, sulla scena trova spazio tutta quella gente comune la cui sofferenza è stata cancellata dalle contrapposizioni politiche e dalla difficoltà del nostro Paese ad affrontare la storia recente con il necessario distacco. Una scelta forte e coraggiosa che fa meritare a Cristicchi la standing ovation del teatro, ma anche le timide lacrime che affiorano sui volti di qualche spettatore qua e là. 
Non c'è alternativa ad applaudire più forte, affinché anche chi non c'è più senta che tu, invece, ci sei e, tardivamente, stai cum-patendo. Non è solo un modo per pulirsi la coscienza. Le storie chiuse così a lungo nel “Magazzino 18” ora sono libere, e sono anche nostre. Raccontarle, raccontare questo spettacolo, scrivere questo articolo che vorrebbe solo continuare ciò che può fare il teatro, è un dovere morale. Non vi è conclusione migliore che farsi cullare dalle dolci note di Sergio Endrigo, nato a Pola e scappato in Italia a 14 anni, che cantava, alla sua terra, “Come vorrei essere un albero che sa, dove nasce e dove morirà...”.


Angela Caporale

Per altre informazioni e le prossime date: http://www.simonecristicchi.it/articoli.cfm?id=24

11 novembre 2014

Mid-term 2014: Obama sotto attacco: intervista a R. Baritono

Il 4 novembre scorso si sono svolte le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti o, per meglio dire, le mid-term, come le chiamano loro. Per i non addetti ai lavori spiegare in cosa consistano non è proprio facilissimo. In parole povere, principalmente, si rinnovano i mandati di tutti i 435 componenti della Camera dei Rappresentanti e di un terzo dei senatori, 33, più quelli resi vacanti, che in questa occasione erano altri 3. Inoltre martedì scorso sono stati eletti 36 governatori e si è votato per alcuni referendum nei singoli stati. Infine sono state assegnate anche le cariche di alcuni sindaci, membri di assemblee legislative e contee e altro ancora. Sembra un po’caotica la questione e in realtà… lo è per davvero. D’altronde gestire una delle democrazie più popolose al mondo può richiedere procedure molto complesse.
Come da pronostico, le urne non sono state favorevoli al Presidente Obama. Infatti il Partito Repubblicano ha confermato e allargato il suo controllo sulla Camera e strappato il senato dalle mani dei Democratici. Bastavano 6 seggi alla destra per ottenere la maggioranza alla camera alta, che, tra le sue funzioni, ha la facoltà di bloccare le nomine presidenziali. I Repubblicani ne hanno conquistato uno in più, rompendo un dominio Democratico che durava da otto anni. Si va dunque verso un governo diviso, prassi piuttosto consolidata nella politica a stelle e strisce.
Per mettere un po’ d’ordine in queste mid-term e interpretarne il risultato, abbiamo deciso di consultare Raffaella Baritono, docente di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti presso l’Università di Bologna.

Oltre ad avere un carattere locale, le elezioni di medio termine in America sono interpretate anche come un sondaggio di popolarità per il presidente in carica. Mi sembra chiaro che il riscontro sia stato piuttosto negativo per Obama…

Che i sondaggi non fossero molto favorevoli ad Obama in realtà era abbastanza evidente anche prima delle elezioni di metà mandato. Il suo indice di gradimento si attestava intorno al 41%, un dato abbastanza inusuale. A suo parziale discapito, c’è da dire che un Presidente al sesto anno ha un’opinione pubblica molto più critica rispetto a quando inizia il suo primo mandato. Tuttavia, ad ulteriore dimostrazione dello scarso appeal nei confronti degli elettori, si può sottolineare che una parte consistente dei candidati Democratici hanno preso le distanze da Obama e dalla sua amministrazione. 

fonte: vox.com
Quali colpe gli sono imputabili per la sconfitta?  

Ne ha avute probabilmente di due tipi: immediate e di lungo periodo. La principale colpa di lungo periodo è una certa difficoltà a creare un rapporto di comunicazione con il partito. Nel senso che Obama ha costruito una macchina presidenziale derivata dalle campagne elettorali del 2008 e del 2012 e su questa organizzazione ha basato il suo consenso durante la permanenza alla Casa Bianca. Ma in questo modo, secondo me, non ha curato a sufficienza i rapporti con il Partito Democratico che, in questo momento, è più complesso di quello Repubblicano poiché presenta molte più anime ed è meno ideologicamente coeso. Quindi una maggiore cura rispetto alla leadership del partito avrebbe forse giovato, sia dal punto di vista delle politiche e di come i suoi progetti di legge sono stati recepiti dal Congresso, sia da quello della campagna elettorale per le mid-term. Questo elemento si associa alle critiche diffuse di portare avanti una leadership un po’fredda, poco comunicativa e, in particolare, poco decisionista. Nell’immediato c’è stato il problema di non aver saputo valorizzare le cose positive che l’amministrazione ha fatto. Soprattutto in termini di politiche economiche. Il PIL in crescita e la disoccupazione in discesa, avrebbero dovuto costituire punti chiave della campagna elettorale dei Democratici. Specialmente visto che i Repubblicani non hanno un’agenda propositiva significativa. Invece non è stato così, paradossalmente.

Su cosa (non) hanno costruito la vittoria i Repubblicani? L’economista liberal Premio Nobel Paul Krugman sul “New York Times” l'ha definito il “trionfo del male”. Altri opinionisti dicono che è ora che arriva il difficile per il partito Repubblicano. Cosa ne pensa?

In maniera abbastanza semplice il Partito Repubblicano ha adottato una strategia tutta incentrata sull’opposizione all’amministrazione Obama: i presunti fallimenti nel far ripartire l’economia, la serie di promesse non mantenute ma, soprattutto, una certa debolezza in ambito internazionale. Comunque è opinione condivisa da molti osservatori che il Partito Repubblicano sia risuscito a vincere anche perché ha prima giocato la sua partita interna. Nel senso che durante le primarie era riuscito ad arginare l’attacco del Tea Party Movement. Ciò ha permesso di presentare esponenti più moderati che sono riusciti ad intercettare il voto di quell’elettorato centrista insoddisfatto della politica di Obama ma che non sarebbe stato disposto a votare un esponente della destra radicale, accusata di aver prodotto lo stallo politico nel Congresso. Inoltre era già chiaro da  alcuni meeting  di Gennaio che i Repubblicani volessero mettere in luce la sua faccia più accomodante in grado di raccogliere il voto di quel ceto medio impoverito dalla crisi. In altre parole smetterla di presentarsi come il partito del grande capitale dei self-made men. Ora bisognerà valutare se questa leadership moderata è in grado di elaborare un’agenda competitiva per le presidenziali oppure no. 

Se da una parte vince la destra, i sì nei referendum sulla legalizzazione della cannabis, sull'approvazione di un salario minimo e sull'aborto in alcuni stati disegnano un’America sempre più liberale...

Fonte: quotidiano.net
Questa è una caratteristica che si riscontra da tempo nel comportamento dell’elettorato americano. Su alcune questioni appare progressista. Una serie di temi che sono stati al centro dello scontro culturale e dei conflitti ideologici degli anni Ottanta e Novanta in qualche modo sono stati superati. Questioni come il matrimonio tra persone dello stesso sesso sono accettate anche da una parte di elettorato Repubblicano, meno legato alla destra religiosa e populista. Il referendum sui minimi salariali dimostra appunto quell’istanza che i leader del GOP (sigla che sta per Grand Old Party come vengono alternativamente chiamati i Repubblicani) hanno capito di dover cogliere. Una fetta considerevole dell’elettorato americano non è più disposto ad avvallare politiche fortemente orientate al libero mercato. Al contrario comincia a pensare e domandare interventi di tutela sociale garantiti dallo stato. Questa tendenza va inserita in un contesto economico in cui la ripresa sembra non avere inciso sulla redistribuzione della ricchezza.

Come si presenta l'ultimo quarto del presidente? Sarà davvero “un'anatra zoppa” ? Su quali punti potrà raggiungere un intesa con i Repubblicani e su quali no?

Obama ha due strade. Una è quella del confronto con il congresso. L’altra è quella dello scontro. Perseguire la seconda significa, per esempio, esercitare l’arma del veto su proposte del congresso considerate lesive degli interessi Democratici. Ciò avverrebbe probabilmente nel caso in cui il Partito Repubblicano volesse mettere mano alla riforma sanitaria, smantellando o ridimensionando l’impianto dell’Obamacare. Un altro strumento, ma solo su questioni molto specifiche, sono gli Executive Orders. Cioè una sorta di decreti presidenziali. 

Si era vociferato di un intervento di questo tipo in materia di ambiente…

Sull’ambiente sì, ma anche in ambito economico e altro ancora. Attraverso gli Executive Orders il Presidente potrebbe portare avanti un’agenda molto più liberal di quella conseguita finora. Ovviamente l’approccio di Obama dipende anche dal Partito Repubblicano. I segnali che vengono dalla camera sembrano improntati alla distensione. Ciò dipende dall’intenzione del Partito Repubblicano di presentarsi come un attore di governo responsabile, che non ha come obbiettivo lo stallo politico ma, bensì, la creazione di un’agenda costruttiva che può portare come argomento positivo nella campagna elettorale del 2016. Questa è la partita che si devono giocare i conservatori per migliorare la propria immagine. Perché se è vero che gli indici di popolarità del Presidente erano bassi quelli del Congresso a guida Repubblicana erano ancora peggiori.

Spostiamoci sulla politica estera. Quanto può influire il risultato delle mid-term nella lotta allo Stato Islamico? Il senatore Repubblicano dell’Arizona ed ex candidato alla presidenza nel 2008 John McCain aveva promesso i “Boots on the ground” in caso di vittoria… 

Intanto Obama ha già aumentato il contingente. Tuttavia quella di McCain  mi pare più una battuta elettorale che non l’avvio di una nuova strategia di politica estera. Mancano le condizioni. Non mi sembra che l’opinione pubblica americana voglia rischiare un impegno molto più assertivo nei confronti dei focolai che si sono aperti in Medio Oriente. Detto questo il problema della lotta all’ISIS presupporrebbe una azione diplomatica più forte che ridefinisca le alleanze americane nell’area. Gli USA dovrebbero probabilmente rinegoziare tutta una serie di rapporti bilaterali: non solo con l’Iran, ma anche con l’Arabia Saudita e le altre Monarchie del Golfo e la Turchia. Poiché lo Stato Islamico si nutre di posizioni molto ambigue e ambivalenti da parte delle élites di questi paesi, storicamente considerate alleate degli Stati Uniti. Quella potrebbe essere la scommessa di Obama ma anche del Partito Repubblicano che vince la presidenza tra due anni, al di là di queste uscite da campagna elettorale. 

Tocchiamo un tema che ci riguarda più direttamente: è vero che la vittoria Repubblicana potrebbe facilitare la ratifica dell’accordo transatlantico con l’Unione Europea, il Ttip?

Sì, rientra in una visione neoliberista di cui il partito repubblicano è sempre stato un alfiere. Bisogna vedere poi sui diversi aspetti di questo enorme accordo quali sono le posizioni americane e quali sono quelle europee per capire se c’è un’asimmetria o meno tra USA e Unione Europea. Ricordo che qualche settimana fa l’economista Joseph Stiglitz aveva pubblicato un articolo in cui metteva sull’avviso gli europei rispetto alla ratifica di questo accordo che, secondo lui, soprattutto in alcuni settori come quello agroalimentare, finiva per favorire le industrie statunitensi e un certo lassismo su  controlli e tutele per la salute che per esempio non si trovano nel contesto europeo, come quelle sugli OGM. 

Quali indicazioni ci arrivano per le presidenziali del 2016? Hillary Clinton esce rafforzata o indebolita dalle mid-term? 

Fonte: edition.cnn.com
Lei è proprio una di quelle che si è smarcata dall’amministrazione Obama. Hillary Clinton in realtà ha dato prova di un grande intuito politico. Infatti dapprima ha dimostrato la sua natura di statista, accettando la carica di Segretario di Stato in apparente cooperazione con il Presidente. Poi però nelle sue memorie e nelle dichiarazioni ne ha preso le distanze. Non so quanto questo risultato possa rafforzarla. Sicuramente non c’è un’altra candidatura altrettanto forte all’interno dei Democratici. Sembra in effetti avere buone possibilità questa volta di arrivare alla Casa Bianca. Però tutti dicevano che ce le aveva anche nel 2008 e sappiamo come è andata a finire…

Sul fronte Repubblicano cosa si sta muovendo?

Sul fronte Repubblicano la situazione è ancora più oscura.

Una specie di lotteria…

Sì davvero sembra proprio una specie di lotteria. Lì il nodo centrale è trovare una persona che sia in grado di dare discontinuità rispetto al passato. Da questo punto di vista la candidatura di Jeb Bush non mi pare praticabile in quanto si ripresenterebbe di nuovo un esponente di una dinastia politica, per di più con alle spalle un’eredità pesante che non può non influire. È possibile che quindi il Partito Repubblicano possa puntare su figure come quella di Marco Rubio per ottenere l’appoggio della comunità latina. Oppure mi pare abbastanza interessante la parabola politica di Rand Paul, che, da posizioni molto libertarie ed isolazioniste, ultimamente sembra essersi mosso verso il mainstream del movimento, per raccogliere i consensi che lo renderebbero un credibile contendente alla corsa di candidato presidenziale per i Repubblicani.

Valerio Vignoli

10 novembre 2014

La Repubblica Centrafricana: tra l'eredità del dittatore cannibale e fiumi di profughi

Di conflitti dimenticati, purtroppo, è pieno il mondo. Così come per trovare una qualche forma di ingiustizia ed iniquità non c'è bisogno di andare poi così lontano dal proprio angolino di mondo. Eppure ogni tanto allungare lo sguardo oltre la siepe è necessario. Non per sentirsi egoisticamente migliori o fortunati, ma perché tutto ciò che l'uomo fa, tutto ciò che l'uomo disfa ci riguarda ontologicamente.  La storia che ho in mente di raccontare oggi non è quella della nostra nemesi, ma piuttosto di un nostro simile, un cugino, un vicino di casa, quello “che salutava sempre e sembrava tanto una brava persona”.  Insomma, non è il colore della pelle quello che fa la differenza tra un uomo e un altro, così come non è perché se si parla di Africa che è lecito pensare che non ci riguardi.
Jean-Bedel Bokassa il giorno della sua incoronazione. Fonte: vice.com
La Repubblica Centrafricana è uno staterello posto esattamente al centro del continente africano (quello che non comincia e finisce con l'ebola, guardare questa mappa per credere). Grande circa il doppio dell'Italia, ci vivono solo 5 milioni di persone, 5 milioni di sopravvissuti ad una delle dittature più feroci tra le feroci dittature africane del Novecento. Infatti, Jean-Bedel Bokassa, ex sergente dell'esercito francese in Vietnam, ha preso il potere, appoggiato dai francesi, nel 1966, un anno di golpe e sconquassi che hanno incrinato il giovanissimo e fragile equilibrio africano. Bokassa non è stato un dittatore come gli altri: soltanto la sua corona è costata alle casse statali più di 5 milioni di dollari e l'intera cerimonia ha quasi mandato in bancarotta il paese. Tra le sue passioni possiamo ricordare il piacere nel far picchiare con martelli e catene i ladri, la bizzarra scelta di dare in pasto ai coccodrilli i presunti criminali e, non ultima, la dedizione culinaria per la carne umana.
Come fosse possibile che un governante cannibale fosse sostenuto dalla moderna Francia è solo parzialmente un mistero. Pare che questa amicizia speciale fruttasse a Valéry Giscard d'Estaing la possibilità di importare diamanti e uranio, inoltre il Presidente amava cacciare elefanti nelle savana e l'amicizia con l'imperatore gli permetteva di coltivare il suo hobby durante il tempo libero. Fu l'opinione pubblica d'oltralpe a premere, nel 1979 affinché questo fruttuoso scambio (che permetteva a Bokassa di ottenere anche armi e aiuti umanitari -sic!-) fosse portato a termine.  
Come spesso accade, però, la fine di un regime brutale non ha come naturale conseguenza un miglioramento a lungo termine delle condizioni di vita di un paese, soprattutto in Africa dove povertà, fame e malattie continuano ad essere minacce concrete. Diamanti e avorio sono ancora oggi le risorse al centro della contesa per il potere, e alla crudeltà del regime di Bokassa si è sostituito lo scontro, fatto di schermaglie e rappresaglie continue, tra ribelli musulmani, Séléka, e ribelli cristiani che vi si oppongono, scatenando un conflitto senza fine.
Fonte: theguardian.com
La continua violenza tra i due gruppi sembra non risparmiare nemmeno le fasce più deboli e fragili della popolazione: di fronte al silenzio della comunità internazionale, è impossibile contare quante donne siano state violentate, e quanti bambini siano stati uccisi per strada, a colpi di macete. Una testimonianza riportata da Brian Klaas su VICE racconta di come in un ospedale di Bangui, la capitale, sia capitato di dover prestare soccorso ad una decina di bambini gravemente mutilati e sotto shock, costretti ad assistere all'esecuzione dei propri genitori e poi feriti a loro volta.
Questa situazione drammatica che non accenna a migliorare ha portato oltre 427.000 centrafricani a scappare dal proprio Paese, richiedendo asilo negli stati vicini. Tra questi, secondo i dati diffusi dall'UNHCR, 187.690 sono quelli che hanno abbandonato la Repubblica Centrafricana nell'ultimo anno, dei quali la maggior parte è composta da un'ampia frangia della comunità musulmana, dettaglio che ha portato alcune organizzazioni internazionali a parlare di genocidio e pulizia etnica. Richiedenti asilo e rifugiati vivono oggi nei campi gestiti dalle organizzazioni internazionali in Camerun, Ciad, e Repubblica Democratica del Congo. Nonostante gli sforzi dell'UNICEF e delle organizzazioni partner, è particolarmente complicato poter assicurare ai Centrafricani sicurezza, acqua, un ambiente salubre dove stare e cibo sufficiente, senza considerare altri bisogni quali l'istruzione o un qualche riconoscimento civile.
Le attività promosse dalle agenzie delle Nazioni Unite mostrano, ancora una volta, quello che è il principale paradosso che ricorre in molte di queste situazioni tanto drammatiche, quanto sconosciute ai più: da un lato, infatti non vengono fatti mancare i finanziamenti (anche se ancora adeguati rispetto alle necessità) né gli operatori sul campo, mentre, dall'altro,  si continua a tollerare una situazione di guerriglia e anarchia di fatto che non farà che accrescere il problema dei profughi e a impoverire il Paese. Sebbene né la via dell'intervento militare né l'imposizione della democrazia si siano dimostrati strumenti all'altezza in altre situazioni, bagni di sangue innocente come quelli che sono oramai all'ordine del giorno in Repubblica Centrafricana non possono essere ignorati e tollerati.
Catherine Samba-Panza nel suo studio. Fonte: theguardian.com
Probabilmente dovrebbero essere proprio questi i terreni dove le grandi Nazioni Unite, vanto del secolo breve, possono fare la differenza, non soltanto con le sue agenzie specifiche che limitano le conseguenze, ma sostenendo, per esempio, con forza la Presidente di transizione, eletta dal Parlamento la scorsa primavera affinché sia possibile ridurre il problema alla radice. Catherine Samba-Panza è la prima donna a ricoprire una carica di tale importanza nella Repubblica Centrafricana, tuttavia le concrete opportunità di migliorare le cose senza l'appoggio internazionale sono ridotte all'osso. 
Così la Repubblica Centrafricana sembra correre da sola una folle corsa verso il baratro, una perdita che i più nemmeno sentirebbero, ma che sarebbe un grande fallimento per l'Africa, proprio quel meraviglioso continente in cui tutto è fluido, embrionale, non cristallizzato. Dove tutto, sessant'anni fa così come oggi, è una possibilità. Perché perdere una tale occasione di essere parte di qualcosa di costruttivo e non, ancora una volta, inani testimoni dell'ennesimo massacro senza un perché?