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31 luglio 2014

Lo scontro nello scontro


Sul campo del superamento del bicameralismo paritario presente nella Costituzione si sta consumando a Palazzo Madama una dura battaglia tra i promotori della proposta (la maggioranza di governo insieme a Forza Italia in virtù del celeberrimo e contestato “Patto del Nazareno”) e chi invece la ripudia (le restanti opposizioni ed in particolare Sinistra Ecologia e Libertà), lamentandone in primo luogo l'assenza di elezione diretta degli eventuali nuovi membri del senato. Ma se la battaglia vera non fosse questa? Se lo scontro non vedesse da una parte i pro-Renzi, pro-governo, pro-riforma del senato, pro-italicum contro tutti i contestatori possibili ed immaginabili, bollati come “difensori dello status quo e nemici del cambiamento”? Se invece questo non costituisse altro che un ultimo, ma solo in ordine di tempo e non in senso assoluto, atto di una ventennale ostilità istituzionale tra governo e parlamento per determinare chi prende le decisioni in Italia?

Il titanico scontro è iniziato probabilmente con la presunta “seconda repubblica”. Precedentemente il problema dei governi italiani di piegare alla propria volontà il parlamento era meno pressante. Il più grande partito di allora, la Democrazia Cristiana, sapeva sempre che, a prescindere dalle sue performances in carica, sarebbe stata il perno del governo successivo. Di conseguenza non si preoccupava di se e quanto le sue proposte fossero approvate dalle camere. In un certo senso esisteva sempre una seconda chance. Se poi una legge o una riforma non veniva mai alla luce e rimaneva solo un buon proposito non era affatto una tragedia, dato che non c’era nessuna avversione per lo “status quo”.


Dopo tangentopoli e l’improvvisa estinzione della DC si è configurato presto una sorta di bipolarismo. Da una parte questo esito è stato il frutto della contingenza e dell’emergere di Silvio Berlusconi sulla scena politica. D’altra parte però è stato anche l’esito di una forzatura (allo stato delle cose oserei dire fallimentare) da parte degli stessi attori politici in nome dei propri interessi ma anche di una certa aspirazione a migliorare la governabilità di questo paese. In altri termini di dare più forza al governo. Ma se qualcuno guadagna forza qualcun’altro la deve perdere. In questo caso il parlamento. Insomma la logica ispiratrice di questa trasformazione, desunta da altre democrazie occidentali in cui l’alternanza tra due partiti o coalizioni è la prassi, si poteva sintetizzare così: chi vince le elezioni ottiene la maggioranza parlamentare per tutta la durata della legislatura e impone le sue decisioni e, successivamente, il suo destino verrà deciso alle urne dal popolo sovrano. Il parlamento in questa concezione diventa così poco più di un inutile orpello.

Tuttavia il piano è andato storto. Le coalizioni si sono rivelate litigiose e precarie e, nonostante l’uso smodato e crescente dei decreti leggi, il parlamento e i suoi membri hanno identificato degli stratagemmi per rivendicare le proprie funzioni. Così è cominciato questo conflitto istituzionale. Un conflitto che ha diviso e continua a dividere osservatori, accademici e la stessa classe politica. Da un lato dello schieramento, quello governativo, decisionista e “autoritario”, fin dall’inizio si trovava l’allora cavaliere Berlusconi, la sua formazione “Forza Italia” e i vari alleati. Proponendosi come alfiere di una imprecisata rivoluzione liberale e modernizzatrice, l’ex imprenditore (ecco anche la mentalità aziendalistica forse ha pesato) lombardo non poteva che privilegiare l’istituzione del governo, in rottura con la tradizione. In fondo la stessa spinta innovatrice oggi spinge Matteo Renzi su questo lato del campo. Dall’altro lato, quello “parlamentarista”, storicamente si è posizionato il successore del PCI, in linea con la tradizione che vedeva nella istituzione più rappresentativa il luogo in cui i comunisti potevano fare valere le loro ragioni. Mano a mano che la sinistra si è spostata al centro diventando partito di governo, si è avvicinata alla posizione filo-governativa lasciando ai piccoli partiti estremi la difesa del parlamento. Questi ultimi appunto l’hanno utilizzata spesso in funzione strumentale dato il loro scarso peso politico. Gli osservatori e i giornalisti si sono diligentemente schierati secondo i loro orientamenti politici. Tra gli specialisti, invece, i costituzionalisti tendenzialmente sono più parlamentaristi mentre i politologi tendenzialmente più pro-governo

Nelle ultime legislature però la temperatura di questa guerra è salita enormemente. La ragione sostanzialmente risiede nella pressione sulla nostra classe politica da parte dell’opinione pubblica interna e della comunità internazionale, in particolare le istituzioni dell’Unione Europea, di agire rapidamente per far uscire l’Italia dalla sua pessima situazione finanziaria. Urgono dunque interventi per ammodernare il paese e per ottenere risorse economiche ed il governo è incaricato di partorirli. In questo clima di frenesia legislativa, il parlamento, invece, dovrebbe semplicemente piegare la testa e ratificare, quando ne ha il tempo e non è sostanzialmente bypassato. Ovviamente questa condizione di minorità non è stata accettata e si sono verificati sussulti di ribellione come le pratiche ostruzionistiche che oggi vediamo messe in atto dalle opposizioni. In un certo senso, presentare tonnellate di emendamenti e/o allungare in maniera spropositata i tempi del dibattito serve quindi fondamentalmente per ribadire la centralità dell’organo parlamentare nel processo legislativo. Un organo parlamentare che nel nostro paese, inoltre, continua a rappresentare un rifugio sicuro per i piccoli partiti in cerca di gloria. Non è un caso infatti che questi ultimi ne siano proprio i più strenui difensori.



Dunque, a cosa siamo di fronte in questi giorni? Ad una “svolta autoritaria” di Renzi che vuole sopprimere il dibattito parlamentare e uccidere la democrazia? Oppure è un’altra dimostrazione di come l’Italia sia ancora affetta da “assemblearismo” ovvero una degenerazione del parlamento, presente nella quarta e poco longeva repubblica francese, che impedisce ai governi di dettare la propria agenda e li tiene sotto il proprio giogo? Oppure, infine, magari tutto rientra nella normalità fisiologica di una dialettica esecutivo-legislativo? Intanto questa guerra istituzionale continua e diventa sempre più politicamente violenta, in attesa di un’eventuale e risolutivo scontro decisivo.

Valerio Vignoli

28 luglio 2014

Les liasons dangereuses - Cosa dovrebbe cambiare dopo l'incidente aereo del 17 luglio

Il 17 luglio 2014 l’aereo di linea malese MH17 partito da Amsterdam direzione Kuala Lumpur viene abbattuto da un missile terra-aria operato dai separatisti filo russi mentre sorvolava lo spazio aereo ucraino. Nell’incidente hanno perso la vita 298 persone e l’Olanda ha registrato il maggior numero di vittime insieme alla Gran Bretagna, il Belgio, la Francia e la Germania.
Questo tragico evento riporta alla mente quanto accadde il primo settembre di 31 anni fa, quando il Boeing 747 della Korean Airlines, che da New York volava verso Seul, venne abbattuto da un missile sovietico sopra il mar del Giappone, era il 1983 e il mondo bipolare era tornato in una fase di inasprimento delle relazioni tra le due superpotenze in particolare della percezione che una aveva dell’altra. Se è vero che la Guerra Fredda è stata più di tutto una guerra di parole, idee condivise e percezioni allora è emblematico ricordare come Reagan reagì all’incidente aereo denunciando “un massacro barbaro, una brutalità disumana, un crimine contro l’umanità”.
Oggi il mondo bipolare ha lasciato spazio all’emergere di nuovi attori globali e l’Unione Europea, che si è imposta nella governance mondiale a piccoli passi, è più che mai la vera artefice e responsabile delle difficili relazioni con la vicina Russia. Manca però una posizione univoca dei 28 paesi membri nei confronti di quanto accaduto il 17 luglio. Si possono sollevare questioni sul fatto che l’Europa non abbia ancora una voce unica in merito alla sua politica estera, ricordando ancora una volta quanto gli stati membri siano restii a trasferire sovranità alle istituzioni europee in merito a temi tanto delicati, ma è indubbio che i rapporti filo russi di molti paesi subiranno un inevitabile cambiamento di rotta.


Nella impossibilità, dunque, di analizzare le relazioni bilaterali tra Unione Europea e Russia è bene guardare ai rapporti tra l’Olanda, il paese che maggiormente ha sofferto per il tragico evento di luglio e la Russia, e quello dell’Italia che, forte della sua presidenza del semestre europeo, sta presentando i suoi candidati alla presidenza della PESC anche sotto la lente delle scomode relazioni con la Russia.
Entrambi questi paesi per molto tempo hanno strizzato l’occhio a Putin per poter ricavare benefici economici dal commercio di risorse naturali. L’Olanda è uno dei paesi membri che più di altri investe in Russia. Nelle raffinerie di Rotterdam, infatti, quasi il 40% del greggio proviene dalla Russia.
L’importanza di mantenere buoni rapporti con Putin ha portato anche a chiudere un occhio sull’arresto dell’equipaggio olandese della nave di Greenpeace, Artic Sunrise, che si trovava nel Mar di Barents lo scorso settembre e sulle insofferenze espresse da Putin, in visita ad Amsterdam lo stesso mese, nei confronti dei diritti omosessuali e della liberalizzazione delle droghe leggere.
E’ ancora presto per dire se l’Olanda, così legata da interessi economici alla Russia, sia pronta per una risposta ferma nei confronti di quanto accaduto lo scorso 17 luglio, certamente la sua posizione non sarà facile perché da una parte la sua economia dipende fortemente dalle importazioni di gas russo, ma allo stesso tempo le relazioni tra i due paesi si basano su ricatti e passi falsi. Basti pensare al progetto Sakhalin 2 di estrazione e distribuzione energetica, che prevedeva una joint venture della Royal Dutch Shell, la giapponese Mitsui e la compagnia russa Gazprom passata poi quasi totalmente nella mani della Gazprom in seguito ad un’ambigua manovra di accuse di barbarie ecologiche nei confronti della Royal Dutch Shell da parte della Gazprom. Anche allora l’Olanda ha chinato il capo alla Russia pur di garantirsi una, seppur minoritaria, partecipazione al progetto.

Non solo ad Amsterdam si riscontrano comportamenti dicotomici nei confronti di un paese che tiene sotto scacco gli approvvigionamenti energetici europei, mostrando apertamente una politica opposta ai valori etici e alle pratiche economiche europee.

In Italia si sta discutendo delle nomine per la presidenza della Pesc, una poltrona influente e di prestigio anche se, come già sottolineato, priva di una vera forza decisionale (parliamo dell’Alto rappresentante per gli affari esteri). Sul nome della Mogherini, fortemente voluto dal premier Renzi, è stato messo il veto da parte della Lettonia, Estonia, Lituania e Polonia che non accettano le posizioni filo russe della ministra degli esteri italiana e chiedono, anzi, un inasprimento delle sanzioni nei confronti della Russia. Ancora una volta, quindi, ci troviamo davanti ad un paese, l’Italia, che in modo quasi schizofrenico porta avanti una politica accomodante nei confronti della Russia di Putin per garantirsi un posto nella realizzazione del gasdotto South Stream. Questo progetto è fortemente avversato da Bruxelles che sta cercando di bypassare la Russia sfruttando, invece, il gas dell’Asia centrale grazie a nuove relazioni con l’Azerbaijan e il Turkmenistan; ma il South Stream, di fatto, fa gola tanto alla Russia quanto all’Italia per via della partecipazione dell’Eni e della Saipem al progetto.


Quello che ci si aspetta dall’Unione Europea non è certamente una reazione reaganiana all’incidente aereo e a chi ha veramente la responsabilità di quanto accaduto, ma una posizione più assertiva da qui in avanti nei confronti della Russia.
L’Unione Europea, in quanto attore globale, deve unirsi intorno ad una simile tragedia e ripensare anche la sua politica energetica per non dipendere più dai ricatti delle compagnie di estrazione russe. Per fare ciò è necessario un rafforzamento dell’identità europea, dei valori comuni tanto diversi da quelli dell’ex gigante sovietico, e questo è possibile attraverso un riconoscimento della propria identità di unione di paesi democratici ed attenti ai valori iscritti nel Trattato della Costituzione europea. L’Unione Europea forte di questa sua coscienza di rispetto dello Stato di diritto, della democrazia, dei diritti dell’uomo non può tollerare le costanti trasgressioni di quei valori da parte della Russia. In questo senso l’Europa può dare una risposta diversa a quella data dagli Stati Uniti nel lontano 1983 ad un tragico evento dimostrando, a dispetto di quanto ancora si è portati a pensare, che è possibile assumere una posizione comune.

Gaia Taffoni


20 luglio 2014

L'Esercito Israeliano è più #social di te: guerra & nuovi media

Questo è un pazzo mondo - e lo è per davvero, dovremmo ringraziare Dio o qualche allineamento geopolitico per il fatto che il nostro paese è, almeno macroscopicamente, esente da guerre e devastazioni da settant'anni. E' un mondo così pazzo che, come nei migliori sogni bagnati degli scrittori della seconda metà del Novecento, i militari di uno dei paesi più militarizzati del pianeta hanno più followers, condivisioni e likes di tutte le band in cui hai suonato e in cui potrai mai suonare nell'arco di tre o quattro vite. 

Sto parlando delle Israel Defense Forces, che sono l'esercito (principalmente reclutato grazie alla leva obbligatoria) di sicurezza nazionale dello stato di Israele. Per i dati tecnico-militari vi rimando ad altre fonti, perché non è quello di cui si parlerà qui. Le statistiche che mi interessano sono invece altre: ad oggi contano 888.764 likes* su Facebook a cui vanno aggiunti 352.211 della pagina scritta in lingua ebraica; sull'uccellino azzurro, dove sono presenti dal 2009, vantano 316k followers, 1200 tweets e 1500 video postati; su Flickr hanno più di 5000 foto; hanno 486 seguaci su Instagram e hanno colonizzato persino Google Plus, il tutto condito da un blog in stile Wordpress aggiornato costantemente sulle attività dell'IDF.

Considerando il marasma tematico che è apparso sui nostri newsfeed in queste settimane di guerra (un dato interessante: sono forse questi i più grandi movimenti di guerra fra Israele e Palestina da quando esistono i social su larga scala, cioè dal 2008/2009 ?), poter contare su 1 milione e più di persone che hanno accesso diretto alla tua propaganda governativo-militare è un'arma da annoverare a pieno titolo a fianco di quelle più tradizionali - considerando anche il fatto che non esiste una contropartita social da parte palestinese, o almeno non l'ho trovata, il che nel mondo di internet è equivalente a dire che non esiste (se escludiamo i meme jihadisti che ci segnalano quei dritti di Motherboard). 

Ma quali sono i contenuti - e le forme - della comunicazione delle forze militari israeliane? (Sicuro non questi).
La scelta comunicativa su Facebook (ci limiteremo a questo) spazia lungo un continuum che comprende situazioni quali il bollettino di guerra, l'infografica, il meme, la pubblicità progresso e la pura propaganda (sia ben chiaro, considero normale il fatto che su una pagina del genere ci sia sostanzialmente della propaganda, che per definizione è di parte). 
Alcuni esempi, per categoria.

Bollettino di guerra:

Comandanti dell'IDF a colloquio sulle prime linee.
Risultati dei razzi lanciati da parte di Hamas
una curiosa caccia al tesoro Allarme aereo in Israele
L'infografica: 





Propaganda:

Citazioni sconvenienti da parte del nemico.
Questo è un colpo niente male, devo ammettere.
La gnocca:
#Instagaza
"Niente di meglio che un po' di pompelmo sciroppato dopo tutto quello sparare ai fottuti arabi!"
Vabbè.


Puro #social: 

#instaparachute
Il cortocircuito peggiora se consideriamo che l'abusato meme del "Keep Calm and..." 
trova le sue origini durante i bombardamenti nazisti di Londra.
Reclutamento:
Fra i commenti: "Fuck intel, go infrantry!!!"
Questa ultima immagine che posto qui sotto riassume la mission originaria di un'operazione del genere (la quale immagino richieda, ed è un fattore non secondario,  uno staff dedicato e ben coordinato di chissà quante persone fra grafici, creatori di contenuto, portavoce, ecc. ecc.). Si tratta di un'operazione di immagine ma a un livello più alto di quello che potrebbe sembrare superficialmente. L'idea del web 2.0 (concedetemi l'uso di quest'espressione nella sua accezione originaria, una volta tanto) è sfruttata al livello più alto possibile: coinvolgere chi sta dall'altra parte del contenuto da te creato affinché ti sostenga politicamente e ti protegga nella tua web reputation. E solo che qui non stiamo parlando di un'azienda di fazzolettini da naso, ma dello stato nazionale più discusso in quanto tale nell'ultimo secolo. Il bello qual è? E' che, come potrete evincere dalla lettura dei commenti, ci stanno riuscendo alla grande e, soprattutto, su una scala decisamente worldwide - proprio grazie a internet, ça va sans dire.

Vale la pena soffermarsi anche su un dato che abbiamo avuto sotto gli occhi sin dall'inizio, cioè il fatto che sia tutto inglese è spia del fatto che la ricerca di consenso e appoggio internazionale è vitale per la politica israeliana - senza anche dimenticare il dato etnogeografico della diaspora, per cui è naturale rivolgersi alle varie comunità ebraiche sparse per il mondo, in primis quella statunitense. Un'altra interessante asimmetria che quantomeno segnala che la cura di questi dettagli comunicativi è ben ponderata, è quella che vede il blog sopracitato avere due versioni distinte: una in inglese (che viene tradotta identica in spagnolo e francese), mentre quella in ebraico è completamente diversa e viene tradotta pari pari solo in arabo.


Che mi ricordi le tartarughe ninja è una distorsione veramente troppo grossa.
Se fossi nei creatori di Winnie chiederei almeno i diritti.
Inoltre, c'è un sito, gestito da "giovani studenti e professionisti volontari", ma in collaborazione col Ministero per la Interactive Media and Public Diplomacy, www.israelunderfire.com , tradotto in seimila lingue che si propone di filtrare le notizie sulla guerra "attendibili" da quelle incomplete, parziali o faziose. Aprendo la pagina in italiano, il primo video che parte è della Rai. Il secondo, in attesa di un mio play, vede il volto corrucciato di Renato Brunetta. In fondo alla pagina ci sono delle foto propagandistiche come quelle che vi ho fatto vedere addirittura tradotte in italiano, con risultati come quelli che ho messo a inizio paragrafo, che fanno rimpiangere i manifesti elettorali della Democrazia Cristiana in Italia del 1948.


A parte caratterizzarsi come un villaggio vacanze più che come un esercito, l'IDF punta il dito sul ruolo dello stato di Israele come auto-difendente e non come invasore. Da qui discende una caratterizzazione di se stessi come "buoni" e razionali e del nemico come irrazionale e sanguinario. Ripensate alla citazione del portavoce di Hamas che ho messo sopra. Quel post ha come destinatario non tanto il popolo israeliano, quanto l'opinione pubblica internazionale o addirittura lo stesso popolo palestinese, sottintendendo un invito a ribellarsi ai propri capi che manda la sua stessa gente a morire spregiudicatamente seguendo una razionalità perversa.

Dite quello che volete, ma sicuramente l'immagine di Israele come impero del male teocratico parassita invasore ecc. ecc. è stata, almeno un po', ridimensionata da questo bagno di propaganda #social. 

Filippo Batisti (con la collaborazione di Angela Caporale)
@disorderlinesss


* nell'arco di mezza giornata sono già diventati 892.654 .

Cosa fa l'Europa mentre si stanno ridefinendo gli assetti globali?

Alcune giornate sono autentici punti di rottura nella storia dell'umanità, spostano il corso degli eventi da un'ipotetica linea A ad una linea B, cambiando il destino di milioni di vite. Il 17 luglio 2014 rischia di essere una di quelle giornate. In particolare, ci sono stati tre eventi che potranno avere enormi ripercussioni.
Nel tardo pomeriggio italiano un aereo di linea malese è stato abbattuto da un missile terra-aria mentre sorvolava l'Ucraina e i suoi 298 passeggeri hanno perso la vita. Il razzo è partito dal confine ucraino-russo e fa parte degli ordigni in dotazione dei separatisti filo-russi, che ricevono armi e aiuti direttamente dal Cremlino. Il Presidente ucraino ha parlato esplicitamente di azione terroristica, il sospetto è che i ribelli abbiano abbattuto l'aereo sbagliato e resta da capire il ruolo di Mosca. La sensazione è che ci troviamo di fronte al primo step (andato storto?) di un'escalation che modificherà non di poco la posizione geopolitica della Russia.

Il secondo evento in ordine di tempo è stata l'incursione dell'esercito israeliano nella striscia di Gaza, avvenuta verso le dieci di sera, ora italiana. Dopo giorni di bombardamenti (reciproci, ma Israele ha intercettato e abbattuto tutto grazie al suo sofisticatissimo scudo anti-missili) e centinaia di vittime civili (quasi unicamente palestinesi), dopo il secondo tentativo di mediazione fallito dall'Egitto, Israele ha posto un ultimatum ad Hamas, che ha risposto ad una provocazione con un'altra provocazione, dando il pretesto allo stato sionista di passare dai raid aerei all'operazione terrestre, che ha come obiettivo quello di individuare e distruggere i tunnel usati dai terroristi per entrare clandestinamente in Israele.

Quasi in contemporanea all'incursione israeliana c'è stato il terzo evento, o forse sarebbe meglio dire presunto evento, dal momento che per qualche ora la Casa Bianca è stata bloccata e isolata a seguito di un allarme bomba che si è poi rivelato falso. Alla fine non c'è stato alcun tipo di danno o conseguenza pratica, ma in una situazione come quella che si era creata nel panorama internazionale ieri sera anche un falso allarme può far impennare la tensione.

Non c'è un collegamento diretto tra gli eventi di ieri, se non il fatto che tutte queste situazioni sono in qualche modo sintomo di un vuoto di potere nella governance globale, dove l'egemonia statunitense che ha caratterizzato il post guerra fredda è sempre più messa in discussione e ostacolata da problemi interni e scelte di politica estera scellerate (ad esempio, la situazione attuale dell'Iraq, dal punto di vista degli Usa è ben più svantaggiosa di quanto non fosse prima della guerra voluta da Bush Jr.). La pax americana, se mai sia esistita, è messa a rischio dall'incapacità del gigante americano di imporre il proprio ordine mondiale nelle zone di conflitto e dall'avanzata dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che dopo la prosperosa anche se contraddittoria crescita economica degli ultimi decenni sono sempre più intenzionati a giocare un ruolo da protagonisti nel contesto internazionale. La foto rituale dei capi di questi stati dopo il convegno tenutosi in occasione dei mondiali brasiliani nella quale  cinque tra gli uomini e le donne più potenti al mondo si stringono la mano facendo cerchio è quantomai emblematica. Tuttavia, ipotizzare attacchi diretti agli Stati Uniti, non solo nei prossimi anni ma persino per decenni, sarebbe quantomeno fantasioso. I futuri equilibri globali saranno definiti dai focolai di guerra e i conflitti interni come quelli sopra elencati e dagli altri scoppiati negli ultimi anni in Siria, Iraq, Libia, Mali, Thailandia, Sudan. In questi contesti gli Usa rischiano di trovarsi isolati e accerchiati dalle potenze emergenti, con conseguente sconvolgimento degli assetti mondiali.


In tutti questi eventi e considerazioni non è emerso un attore internazionale che per grandezza e prestigio potrebbe essere assoluto protagonista ma continua a perdere tempo nel tentativo di capire la propria identità. Questo attore è l'Europa, tanto vicina a Ucraina e Gaza quanto impotente nel poter far evitare questi conflitti o quantomeno afflievolirli. A tal proposito, ci sarebbe dovuto essere un quarto evento, primo in ordine temporale, da raccontare in questo articolo, e sarebbe dovuto essere la nomina dell'Alto Rappresentante dell'Unione Europea per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, ma il summit tra i capi di stato europei ha portato ad un nulla di fatto sintomo della scarsa unitarietà dell'Unione. La figura dell'Alto Rappresentante è quantomai controversa: membro sia del Consiglio che della Commissione, si trova a metà strada tra le aspirazioni federaliste di chi sogna un unico blocco europeo e la vocazione intergovernativa che ha contraddistinto da sempre l'effettiva governance dell'Unione. Inoltre bisogna tenere conto della cronica incapacità degli stati membri di affidare la propria politica estera ad un organo sovranazionale e della mancata adozione della Costituzione Europea che doveva portare grossi sviluppi da questo punto di vista. Per questi motivi la figura dell'Alto Rappresentante è più prestigiosa da  un punto di vista teorico che pratico: si occupa della politica estera dell'UE, ma la politica estera dell'UE, sul piano dei conflitti internazionali, quasi non esiste.

In quest'ottica si registrano la volontà di Renzi di imporre a tutti i costi l'attuale Ministro degli Esteri Federica Mogherini nel ruolo che apparteneva a Lady Ashton e il rifiuto della Merkel di affidare senza contrattare un ruolo così decisivo ad un'italiana dopo che le ultime elezioni hanno già fatto aumentare notevolmente il peso strategico del bel paese (il PD è il maggior “azionista” del PSE e il partito nazionale con più rappresentanti a Bruxelles dopo il CDU del cancelliere tedesco) e con il Semestre di Presidenza. Entrambi i comportamenti sono ugualmente specchio della cronica mancanza di unitarietà dei paesi dell'Unione. Entrambi i premier cercano di influenzare la nomina di un'istituzione comunitaria con una figura che porterebbe vantaggi al suo paese di appartenenza. L'immagine che l'Europa dà di se all'esterno è quella di un insieme di piccoli staterelli litigiosi e gelosi, ancora infestati da venti di nazionalismo e privi di un sentimento comune, di una vocazione comunitaria. 


Se ora prendiamo gli eventi citati ad inizio articolo, il declino del grande alleato statunitense e la condizione attuale, ne viene fuori un quadro in cui l'Unione Europea, che nel suo complesso è la prima economia mondiale, oltre ad essere da sempre all'avanguardia a livello culturale e civile, si trova la guerra appena dietro casa ma non riesce in nessuna maniera non solo a spostare gli equilibri, ma neanche a prendere una posizione comune. Avrebbe il dovere morale di bilanciare il nuovo espansionismo russo in Ucraina, fare da mediatore nella contesa mediorientale (magari difendendo la causa dei diritti umani delle popolazioni palestinesi che Israele ignora bellamente) ed essere un punto di riferimento per tutto il mondo occidentale. Invece le nazioni europee preferiscono rimanere distaccate con sprezzante boria di superiorità dalle questioni internazionali e litigare tra loro come tanti bambini viziati, consapevoli del loro benessere economico e della loro avanguardia civile. Sanno che questo periodo storico sarà cruciale nel ridefinire i futuri equilibri globali, ma proprio non riescono a rinunciare ad una parte della loro sovranità in favore di un'Unione forte, coesa e finalmente protagonista.

Fabrizio Mezzanotte

18 luglio 2014

#Gazaunderattack : umanità e guerra

Tutto è cominciato qualche settimana fa, vicino a Hebron in Cisgiordania, tre studenti israeliani sono stati rapiti e uccisi da Hamas, movimento islamista palestinese. Questa è stata la scintilla che ha dato avvio a una delle più violente repressioni del governo israeliano contro la popolazione palestinese. L'obiettivo è, ancora una volta, la striscia di Gaza, uno straccio di terra ampio 360 km quadrati (per capirci il comune di Roma si estende su 1.287,36 km quadrati) nel quale vivono circa un milione e mezzo di palestinesi. Al di là della violenza dei bombardamenti, al di là della crudeltà che porta a distruggere laddove già tutto è perduto, al di là della disproporzionalità della reazione israeliana, il limite di ciò che è chiamiamo umanità è stato spostato ancora una volta più un là dall'IDF e dai suoi supporters.


Sderot, infatti, è un piccolo villaggio vicino a Gaza, sulle colline, abitato principalmente da ebrei israeliani. Sderot, tuttavia, in questi giorni si è trasformato. È diventato la platea privilegiata per chi vuole assistere allo spettacolo dell'estate. Uno spettacolo fatto di aerei, razzi, esplosioni e fuoco come i migliori film d'azione. Sulla sua collina, ogni sera si riunisce un folto gruppo di persone, ognuno con la sua sedia, e si “gode” lo spettacolo. L'attesa è addolcita da bibite ghiacciate che mitigano il clima e chiacchiere in compagnia. Ad ogni esplosione, ad ogni morte del nemico invece la reazione è sempre la stessa: grida di gioia e scroscianti applausi. Ieri sera sulla collina c'era anche la troupe televisiva della CNN per seguire l'avanzata via terra delle truppe dell'IDF, la corrispondente Diane Magnay ha deciso di riprendere la scena e commentarla in diretta TV, ricevendo per questo ripetute minacce denunciate attraverso questo tweet, cancellato poco dopo.


Sempre ieri notte è stato bombardato anche l'ospedale Wafa di Gaza, oltre una decina di pazienti sono paralizzati o in coma, altrettanti i medici e gli infermieri feriti. Israele sostiene di “avvertire” i civili, invitandoli a scappare, così come sostiene di colpire soltanto obiettivi legati ad Hamas. Tuttavia gli abitati non vengono avvisati dell'imminente pericolo per ragioni umanitarie, ma attraverso il “roof knocking” (una tecnica per cui l'esercito colpisce il tetto dell'abitazione-obiettivo con un missile debole e privo di carica distruttiva e, dopo qualche minuto, sopraggiunge il bombardamento vero). Nel tempo che intercorre tra i due missili, gli abitanti della casa hanno, sempre secondo l'IDF, il tempo di mettersi in salvo, chi non ce la fa è considerato un “danno collaterale legittimo”. Come si giustificano allora i colpi che hanno ucciso quattro bambini sulla spiaggia qualche giorno fa? Il giornalista del Guardian Peter Beaumont che si trovava in un hotel poco lontano, sostiene che non ci siano stati colpi di avvertimento, né tentativi di evitare la tragedia nella tragedia. Una troupe di TeleFrance 1 ha filmato la scena, il recupero dei corpi, le operazioni di soccorso. 
(attenzione: immagini crude, NdA)



Israele giustamente piange i suoi quattro studenti morti senza motivo, ma chissà se resteranno lacrime anche per i centinaia di civili palestinesi di cui ignorano (e ignoriamo) nomi, storie, volti. I morti, fino ad oggi a Gaza, sono 260, quelli israeliani 2. Chissà se Israele, Hamas, i loro alleati piangeranno anche per quei quattro bambini uccisi in spiaggia. Chissà se rimarranno lacrime o forse la sensibilità necessaria per interrogarsi sulla necessità di perpetuare la violenza. Chissà cosa resta di quella che chiamiamo umanità.

Angela Caporale

14 luglio 2014

Democrazia 2.0: Populismi e Globalizzazione


Durante l'intervista che ho realizzato qualche tempo fa con il prof. Gianfranco Baldini, per analizzare i risultati delle elezioni europee, era venuto fuori un punto interessante che, per ragioni di parziale incongruenza con il tema dell'articolo, mi sono concesso la licenza di omettere. Il mio interlocutore in quella circostanza aveva menzionato, come una delle cause del prosperare dei partiti populisti in tutti i paesi membri dell'Unione Europea, le accresciute aspettative dei cittadini nei confronti dei governanti. Per aspettative intendo, per esempio, essere presi in considerazione anche nelle decisioni più tecniche e delicate tramite strumenti consultivi come i referendum, pretendere un alto livello di trasparenza delle istituzioni governative oppure, semplicemente, arrogarsi l'insindacabile diritto di giudicare una singola politica positiva o negativa.

Questa inedita autostima postmoderna degli elettorati nelle democrazie occidentali ha due cause principali. In primo luogo le capacità cognitive del cittadino medio sono imparagonabili rispetto a quelle di solo cinquant'anni fa  grazie ad un maggiore tasso di scolarizzazione. Basti pensare che nel 1951 nel nostro paese la quota degli analfabeti era il 12,9% mentre oggi è praticamente inesistente. In secondo luogo la diffusione su vasta scala delle tecnologie dell'informazione permette alle masse popolari di ottenere una quantità e una qualità di notizie senza precedenti in pochi secondi. Se si digita una parola qualsiasi su un motore di ricerca come Google è possibile visualizzare milioni di risultati, anche i più disparati e impensabili.
Una prima riflessione che ne consegue immediatamente è questa: non sono le personalità politiche ad essere diventate sempre più mediocri ma siamo noi cittadini ad essere sempre più “intelligenti” e in grado di valutare le scelte che compiono (o quantomeno pensiamo di esserlo). Detto in parole povere non siamo amministrati peggio, siamo noi che siamo giustamente più presuntuosi. Declinando invece l’assunto in termini più cari all’elettorato italiano: le classi dirigenti non sono più corrotte di quello che erano una volta (locuzione temporale di un passato indeterminato) ma semplicemente la stampa e, addirittura i singoli cittadini, posseggono strumenti di controllo più penetranti ed efficaci. Inoltre appunto ci si attende legittimamente un determinato comportamento da parte delle figure istituzionali che ci rappresentano, elette o meno. Insomma nella nostra epoca il rapporto di potere tra rappresentati e rappresentanti si sta trasformando radicalmente, con i primi che, teoricamente, possono ricattare con più forza i secondi. Ciò tuttavia non sempre succede o. talvolta se succede, non ci se ne rende conto.

Ma cosa c'entrano i partiti populisti? Eccome se c'entrano.
Da una parte tutte queste forze politiche, che vanno dal Front National francese al Tea Party Americano fino ai seguaci di Beppe Grillo, si propongono, esplicitamente o implicitamente, come conservatrici. Se sono di  estrema destra vogliono conservare o, addirittura restaurare, antichi valori (“famiglia”, “Religione”, “Tradizione” etc.) minacciati da una società sempre più laica e sempre più multietnica. Se sono si estrema sinistra invece il baluardo da difendere è principalmente lo stato sociale di stampo postbellico, palesemente in via d’estinzione. Tuttavia l’elemento che accomuna queste tendenze all’apparenza antitetiche consiste nell’appello alle fasce di popolazione più vulnerabili che hanno subito gli effetti distorsivi della celeberrima “globalizzazione”. In altre parole il populismo del ventunesimo secolo si percepisce e si propone sostanzialmente come No-Global.

Ma cos’è la globalizzazione?
Questo termine strapazzato e abusato non ha una definizione consensuale. Indica generalmente una serie di fenomeni che ha condotto all'estremo restringimento, per non dire annullamento, delle distanze spazio-temporali e all'incremento dell'interconnessione tra individui e paesi differenti. Nonostante questa definizione piuttosto neutra la globalizzazione in occidente ha contribuito allo sviluppo di dinamiche estremamente destabilizzanti come la  flessibilità lavorativa, la delocalizzazione e la massiccia immigrazione di persone dai paesi in via di sviluppo.
Nella ormai collaudata retorica populista  gli artefici di questi considerevoli disagi  per i comuni cittadini sono i politici, o, più in generale, l'establishment, che hanno contributo, attivamente o passivamente, a questa, a detta loro, nefasta mutazione della società. Lungi da me affermare l'esatto contrario o che la globalizzazione è foriera esclusivamente di benefici. D'altra parte però va sottolineato che questi stessi movimenti sono figli di questo fenomeno travolgente e dello sviluppo di una rete informatica che fornisce gli strumenti alla comunità globale per contestare, criticare e protestare in maniera più o meno costruttiva. Addirittura i nostri Pentastellati usufruiscono del web per (dis)organizzarsi seguendo (teoricamente) un principio radicalmente egualitario, ovvero il famoso “uno vale uno”. Il movimento di Occupy Wall Street pure trovava nella rete la sua piattaforma di riferimento attraverso il quale poi concordare dei Meet-Up (perché ormai si chiamano così anche in italiano e non più “Riunioni”).  I No-Global, quindi, in un certo senso, sono i più “global” di tutti, seppur inconsciamente. Poiché si inseriscono e prosperano in un retroterra tecnologico, sociologico e culturale intrinsecamente globalizzato che ne rende urgenti e attuali le istanze. Sono lo specchio di questa realtà fluida, dinamica e inafferrabile che ci circonda con tutte le contraddizioni che si porta appresso. Insomma sono l’uovo che arriva dopo la gallina. Ma senza la gallina non ci sarebbe l’ uovo.

Un po’ perché pensano appunto di opporsi alla globalizzazione, un po’ perché bene o male devono raccattare voti alle elezioni, un po’ perché è più facile mettere insieme una part destruens che una part construens, questi movimenti sono per lo più muti riguardo al tema di come ripensare la democrazia nell’era della comunicazione digitale, dei social network, degli open source eccetera. Domande come “la democrazia rappresentativa è  davvero superata?” o “il rischio di una democrazia digitale di sfociare in una sorta di regime plebiscitario è concreto?” diventano sempre più cogenti e rimangono aperte. Aperte perché nessuno si azzarda a rispondere. Né la tanto vituperata “politica politicante” né  tanto meno i populisti. Sempre che gli interessi l’argomento.

Valerio Vignoli

12 luglio 2014

Generazione Erasmus: un altro anno da record per i “fondatori” dell’Europa

Ci chiamano “generazione Erasmus”, una bella definizione, purtroppo spesso usata per coprire la mancanza di Europa (e per chi scrive, di Stati Uniti d’Europa). L’espressione “Generazione Erasmus” è vaga come le stelle dell’Orsa, per citare gli Offlaga Disco Pax.
E allora cos’è davvero l’Erasmus? A dirla tutta, il programma Erasmus è quanto di meglio l’UE abbia prodotto negli ultimi 27 anni. È l’esempio più tangibile non solo della nascita di una cultura europea, ma della presenza di uno Stato europeo. Tuttavia, la partecipazione resta ancora circoscritta ad una élite – sebbene in costante espansione – di studenti.

Poi ci sono i numeri. La Commissione Europea ha rilasciato il 10 luglio una serie di dati relativi al programma. Nell’anno accademico 2012-2013, hanno beneficiato di una borsa di studio Erasmus 270 mila studenti. La scelta più in voga continua ad essere quella di spendere un periodo in un’università partner, anche se uno studente su cinque (55 mila) ha optato per una borsa job placement in azienda. In particolare, c’è stato un aumento della partecipazione del 47% tra l’a.a 2007/08 e il 2012/13. Volendo quantificare il peso della “generazione Erasmus”, le statistiche della Commissione mostrano come, dal 1987/88 al 2012/13, 3 milioni di studenti abbiano partecipato ad uno scambio nell’ambito di tale programma. Quasi l’intera popolazione di Berlino o Madrid, per capirci. Attualmente, circa il 10% degli studenti europei ha la possibilità di studiare o lavorare all’estero grazie all’Erasmus. L’obiettivo dell’Unione Europea è quello di arrivare al 20% entro la fine del decennio.



E le destinazioni? Le mete più ambite nell’ultimo anno sono state Spagna, Germania e Francia; mentre gli Stati membri ad inviare il più alto numero di studenti in proporzione alla popolazione dell’educazione terziaria sono stati Lussemburgo, Liechtenstein, Finlandia, Lettonia e Spagna. L’istituto che ha accolto il maggior numero di studenti è stata l’Universidad de Granada (1959), mentre la prima italiana – quinto posto assoluto – è stata l’Università di Bologna con 1620 studenti ospitati. Università di Bologna che si conferma eccellenza in quanto a mobilità europea, piazzandosi al terzo posto – dietro Universidad Complutense de Madrid e Universidad de Granada – per numero di studenti (1830) inviati all’estero nell’ambito del Programma Erasmus. Il Commissario Europeo all’Educazione, Cultura, Multilinguismo ed Infanzia, Androulla Vassiliou, mostra soddisfazione per i dati relativi al 2012/13, affermando: “Le ultime statistiche mostrano che l’Erasmsus è divenuto sempre più popolare. Oltre a contribuire ad un senso di appartenenza alla famiglia Europea, le caratteristiche promosse dall’Eramsus danno una spinta agli studenti per quanto riguarda occupabilità e prospettive di carriera”.

Tuttavia i numeri nascondono qualche serio problema, che rischia di limitare gli effetti positivi del programma Erasmus. Uno su tutti i fondi stanziati. La Commissione Europea ha fatto sapere che nell’ambito del ristrutturato programma Erasmus Plus, lanciato a gennaio 2014, saranno stanziati 15 miliardi di euro nel settennato 2014-2020. Sebbene si configuri come un aumento del 40% rispetto al periodo precedente, i dati attuali fanno riflettere. La media delle borse Erasmus per il 2012/13 è stata di 272 euro al mese. L’inghippo sta nel fatto che la stessa cifra copre grossa parte delle spese per chi, ad esempio, sceglie la Spagna, mentre è un valore misero per chi opta per il Nord Europa. Constatato ciò, si capisce come si debba parlare più di élite che di generazione Erasmus, con le famiglie chiamate a provvedere alla maggior parte delle spese. Il secondo grande problema è quello relativo al sistema di valutazione: più o meno ogni Stato membro ne ha uno. L’Italia in trentesimi, la Francia in ventesimi, Gran Bretagna ed Irlanda prevedono voti in percentuale, etc. In realtà, un sistema comune europeo esiste; si tratta dello European Credit Transfer System (ECTS), che prevede una scala di voti dalla A (voto massimo) alla F (insufficienza). Tuttavia, alla fine dello scambio, lo studente deve convertire i voti dal sistema dell’università ospitante a quello europeo ed infine a quello dell’università madre. Inoltre, facendo riferimento alla sola Italia, le metodologie di conversione cambiano non solo da ateneo ad ateneo, ma addirittura sono previsti diversi parametri tra le diverse scuole all’interno dello stesso ateneo. Viene da chiedersi dove risiedano le difficoltà nell’adottare un sistema comune europeo che abbia un’applicazione effettiva, quanto meno, in tutti gli istituti che partecipano al programma Erasmus.

Come mostrato, l’Erasmus presenta molte luci e qualche ombra, ma al di là di tutto resta la più importante risorsa per l’Unione Europea. Da diretto interessato dico che di strada da fare ce n’è ancora molta, ma che una cultura europea si sta pian piano formando - con i tedeschi in prima fila, culturalmente i più pronti per l’Europa a mio avviso; mentre italiani, spagnoli e francesi fanno ancora un po’ fatica - e che dopo tale esperienza ci si sente europei prima che italiani, francesi o tedeschi. Perché a salvare l’Europa dalla crisi, dai populismi e dai beceri nazionalismi non sarà e non può essere solo una politica economica più sensata. L’Europa ha bisogna di trovare le sue radici e la nascita di una cultura europea, aperta alle sfide del futuro, non può che passare dall’Erasmus. La mia generazione è pronta, ha solo bisogno di una spinta in più.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi


9 luglio 2014

Sarkozy: rilancio possibile?

Quella di Nicolas Sarkozy è stata una carriera politica, o più semplicemente, una vita intera costellata di dichiarazioni forti, scandali in rapida successione, mogli nuove e vecchie, prese di posizioni nette e contrastanti. Una propensione naturale a presentarsi come una sorta di superuomo prestato alla politica, un uomo forte, deciso e autorevole, che ad ogni frase non poteva fare altro che scatenare un mare di polemiche. O lo ami o lo odi, “Sarkò” è fatto così. Il gesto teatrale e la propensione a presentarsi ogni volta come un baluardo della nazione lo hanno nettamente smarcato da qualsiasi altro presidente francese.

Sarkozy era pronto ad un rientro in grande stile, stava progettando la scalata per riprendersi l’Eliseo, voleva riapparire sulla scena politica in pompa magna per preparare il ritorno alla presidenza e riprendere in mano una missione nei confronti della Francia che lui non considerava conclusa dopo il primo mandato. La possibile candidatura di Sarkozy era vista come una mossa ad effetto, e in tal senso disperata, per ricompattare un partito, l’UMP, che tra gli scandali giudiziari, le dimissioni del segretario Copè, e le sberle elettorali prese dal Front National, aveva bisogno di proteggersi sotto l’ombra protettiva dell’ex inquilino dell’Eliseo. Sarkò si sarebbe dovuto presentare come l’unico nella destra moderata ancora in grado di scaldare gli animi di quell’elettorato moderato spaventato non tanto dal partito socialista di Francois Hollande (per quel che ne resta poi, al momento non dovrebbe esserci nessun timore), ma dal trionfo elettorale alle ultime europee di Marine Le Pen.
L’affermarsi della formazione di estrema destra come primo partito francese è stato un terremoto elettorale che ha rifilato un gancio terribile tanto ai socialisti - sempre più agonizzanti - quanto ai neogollisti, incapaci di incanalare i timori di parte della popolazione e dell’elettorato di destra riguardo immigrazione ed integrazione europea. Sarkozy, come conferma il pubblicitario e suo grande amico Séguéla, doveva riempire un vuoto lasciato sia a destra che a sinistra, lanciando, o meglio, il rilanciando l’unico politico moderno presente nella repubblica. Magari ritrovandosi come sfidante  quel Manuel Valls, primo ministro che tanto fa storcere il naso alla gauche, quanto ha molti simpatizzanti nel centro destra.

Ma, come è stato accennato, gli scandali, i sospetti, le indagini e le polemiche fanno parte della carriera politica dell’ex delfino di Jacques Chirac. Dopo l’accusa di finanziamento illecito da parte di una vecchia ereditiera (affaire Bettencourt) e dell’amico/nemico Gheddafi, a cui va aggiunta quella di essere stato coinvolto, negli anni ’90, in un giro di tangenti in cambio di armi con l’intelligence pachistano; ora Sarkò è stato colpito dall’accusa di corruzione e traffico di influenze, nel tentativo, secondo i magistrati, di favorire un giudice che si stava occupando di indagini riguardanti l’ex presidente. La questione interessante non sta tanto nello stato di fermo che Sarkozy ha dovuto affrontare negli uffici di custodia cautelare di Nanterre - primo caso in assoluto per un ex capo dello stato - quanto nei toni che Sarkozy ha usato in una sorta di arringa difensiva davanti alle telecamere della tv francese: “accanimento giudiziario nei miei confronti”, “giustizia ad orologeria”, “vendetta dei magistrati”. Dichiarazioni forti, che colgono di sorpresa stampa francese ed internazionale, nonostante si fosse abituati a battute di un certo effetto (i giovani protagonisti delle rivolte nelle banlieu definiti “feccia”). Di solito l’indagine e il capo di accusa bastavano a decretare la fine politica di qualsiasi politico francese: da Strauss-Kahn che, dopo lo scandalo dello stupro (poi rivelatosi fasullo), veniva evitato ai grandi ricevimenti mondani come un appestato, all’ex primo ministro di Hollande Cahuzac, sospettato di evasione fiscale. Ovviamente, ad ogni italiano che si rispetti dovrebbe saltare all’occhio un paragone con qualche nostra vecchia conoscenza. Questa volta l’accostamento è fondato, visto che lo stesso Sarkò citò come “modello” lo stile comunicativo di Berlusconi. Ha imparato abbastanza bene la lezione a quanto pare.

La questione che adesso si pone comunque è una: i francesi come risponderanno dopo questa arringa anti-magistratura? Snobberanno l’appello dell’ex presidente o, quasi a sorpresa visti i precedenti, laveranno le menti e saranno pronti a dargli una nuova chance? Siamo sicuri poi che l’UMP, vista le penuria di altri papabili candidati alla presidenza e di personalità autorevoli, non rinnoverà la fiducia al ritorno del suo leader? In molti sostengono che Sarkozy uscirà più rafforzato e più forte da questa indagine, che la necessità dell’uomo forte in grado di dare sicurezza e stabilità contro rischi di derive di varia natura sia quasi indispensabile. La situazione politica nella Francia di oggi, con i partiti repubblicani sempre più schiacciati dal Front National, potrebbero favorire una rampa di lancio importante a Sarkozy, indagini o non indagini. Forse i francesi resteranno i fedeli alle loro tradizioni e al motto del “chi sbaglia paga”, ma la performance televisiva di Sarkò certo non li lascerà indifferenti in vista delle candidature presidenziali.



Citerò anche io la frase del politologo transalpino Thomas Guénolé, che tanto è piaciuta a qualche quotidiano del nostro paese: “Prendete un chilo di “È un complotto giudiziario per abbattermi”, aggiungete 500 grammi di “Comunque non ci sono elementi contro di me”, spolverate il tutto con “Uscirò più forte da questa prova” e poi il tocco finale: “Tutto questo non avviene per caso”.



Mattia Temporin

7 luglio 2014

SundayUp: I mondiali della musica in 4 video (NSFW)

Non avrei mai pensato di scrivere qualcosa sui mondiali di pedata (il nome che più propriamente spetterebbe al calcio) o, meglio, non avrei mai pensato di appiattirmi sul trending topic di queste tre settimane di sport qualsiasi altra cosa slegata dal pallone. C'è da dire che, complice l'eliminazione precoce e scriteriata dell'Italia dalla competizione, nel frattempo si è parlato d'altro - non ultima quell'esperienza unica che è stato il furto della pagina (non ufficiale, duole precisare) fb del Papa con tanto di appelli alla jihad estrinsecati in formule tipo "like for islam, comment for 72 vergini". Ebbene, questo pauroso down nell'opinione pubblica italiana fa sì che TBU abbia il dovere di cavalcare quest'onda calante prima che quel grande orinatoio eterodiretto che è quella romantica invenzione settecentesca chiamata opinione pubblica sia invasa dall'imminente sconfitta del Brasile e conseguente Maracanaço 2.0 - con tanto di teorie, per una volta scientifiche, del complotto riguardo Neymar.

Ho deciso, in omaggio ai migliori e più classici metodi di surrealtà (la stessa praticata con commovente abnegazione in questo video virale da arbitri e giocatrici di due nazionali di pallacanestro femminile under) di informarmi su quali squadre dovessero disputare le semifinali della coppa del mondo, aprire Vimeo, che è una comunità rispettosa e che ha sdoganato l'uso dello sfuocato anni orsono, inserire come query "german band" "brazilian band" eccetera, pescare il primo risultato utile che fosse il più vicino nel tempo (al massimo 1 anno fa) e vedere che roba avevo tirato su. Scopo ultimo: passarmi la serata e decretare il vincitore della coppa del mondo di calcio 2014 in Brasile.
(ciao SEO, you could'nt see me!)

SEMIFINALE #1
BRASILE - GERMANIA


Sapevo in partenza che scegliendo Vimeo come campo di battaglia, avrei trovato cose cool, giovani e/o belle da vedere. Nel caso del Brasile è stato sicuramente così. Questo video è una serie di inquadrature statiche della vita quotidianamente anonima di qualche città carioca, alternate a close-ups presi direttamente da instagram, come caffè che scende nella tazzina o una tizia che si spazzola i denti. La riuscita di questo video consiste nel fatto che è abbinato a un pezzo strumentale drum machine, basso fuzz, chitarre e tastiere tutte piuttosto inquietanti, di quell'inquietante tipo poliziesco anni 2000.

(Doppietta in mezza rovesciata per due volte su calcio d'angolo)


Sobre a Máquina - OITO from Betina Monteiro on Vimeo.

Non sarà facile per la Germania superare la prova di questo Brasile sicuramente non imbattibile, altresì assolutamente in forma. Ma i teutonici non si sono fatti trovare impreparati e anzi sono andati a combattere l'avversario nel territorio che tradizionalmente gli spetta: la fica! Praticamente ci troviamo di fronte a una cosa che sembra un lunghissimo (ben oltre la resistenza ormonale dello spettatore maschio medio) spot di lingerie come se ne vedono da anni in tivù. E una brevissima ricerca a posteriori ce lo conferma: musica e immagini vanno a comporre proprio una pubblicità televisiva in una versione da 40 secondi. Purtroppo qua la faccenda ne dura quasi 5, di minuti: senza una narrativa che sia una (a parte l'idea bizzarra di farsi la doccia senza togliersi la biancheria prima) ma con un'unica idea di gioco ben chiara e ben eseguita: quintali di fica. Tuttavia, dopo uno smarrimento iniziale, la rimonta dei tedeschi si ferma prima del 90', a causa dell'impari confronto sul terreno della musica: i brasiliani hanno quel quarto di nobiltà nel sangue che consente loro di superare per classe i crucchi senza possibilità di appello.


(spettacolare palla all'incrocio dei pali da fuori area, ma terribili lacune difensive. Finisce 2-1)


Music video - Forced Movement from Marc Collins on Vimeo.


SEMIFINALE #2
ARGENTINA - OLANDA

Un altro scontro fra titani del gioco. Gli argentini dimostrano da subito di non avere paura e si affidano un pezzo elettronico di facile consumo ma curato, impreziosito da pazzi vocalizzi degni di un Freddie Mercury. Il video blancoceleste scorre senza paura lisergico e allegro come in quella puntata dei Simpson. Dal tiqui taca diretti verso al tiki tiki. Una pacata ma festante voglia di ballare consente all'Argentina di maturare un vantaggio che per quanto meritato non sembra del tutto inscalfibile.

(bagarre in area piccola e, dopo una respinta del portiere, la palla scivola dove i difensori non possono più intercettarla)


Tiki Tiki - Poncho from Plenty on Vimeo.
I tifosi olandesi non nutrono troppe speranze, dopo il meritato vantaggio alla ripresa conquistato dall'Argentina. Ma non bisogna mai sottovalutare il cuore dei campioni e, nonostante nel nordeuropa capitalista e protestante la classe e l'allegria nel gioco non siano di casa, i tulipani cacciano fuori una reazione rocciosa e inaspettata: la buttano sulla violenza! Gioco pericoloso, gamba tesa, una voglia invincibile di rivalsa animano la rimonta arancione. Un punkettino spiritato accompagna un video veramente delirante e che lascia veramente poco all'immaginazione. Una folle narrativa a base di no pussy blues che riprende uno dei classici dell'infanzia di tutti noi , vede delle improbabili e tarantiniane Charlie's Angels mutanti, dotate di una sessualità archetipica e straripante, salvare ancora una volta la giornata grazie a capezzoli che nascondono mitragliette spara-proiettili. Nel gran finale del video ci si gioca persino la carta freudiana della riduzione a neonato perverso polimorfo del lupo cattivo iniziale. E' un K.O. tecnico.

(da un recupero difensivo nasce un'azione concitata e inarrestabile: spazzata via la difesa, il portiere non può nulla nell'uno contro uno in area: è pareggio. I tempi supplementari si disputano con un'Argentina allo sbando che si difende fino all'ultimo, quando su rigore gli olandesi sanciscono l'accesso alla finale!)




Orgaanklap - Ik mis je // music videoclip from Staas Kirligitsis on Vimeo.

Non c'è polpo Paul che tenga, la finale della coppa del mondo sarà Brasile - Olanda, niente come la cultura musicale di un paese è specchio di come gioca a pallone. Sarà meglio per gli olandesi organizzarsi meglio per affrontare la schiacciasassi padrona di casa. 
Ma questa è una storia che, nella remota ipotesi che se ne sentisse il bisogno, vi racconterò nel weekend.

Filippo Batisti
@disorderlinesss