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28 maggio 2014

Un altro Bush


John Ellis è un uomo d'affari ed politico statunitense nato nel 1953 nell'arida terra dei cowboy, il Texas. Suo padre George è un discendente di una facoltosa ed influente famiglia dell'aristocrazia finanziaria della costa est che, al ritorno dal servizio militare durante la seconda guerra mondiale, decise di accrescere il proprio patrimonio grazie ai giacimenti petroliferi. John è il terzo di sei fratelli, il secondo maschio dopo George Walker. Nel 1974 sposa Columba Garnica Gallo, che ha avuto i suoi natali oltre la frontiera, a Leon, Messico. Per questa ragione John parla correntemente lo spagnolo. Si convertirà anche al cattolicesimo in seguito, per motivi elettorali più che spirituali o sentimentali probabilmente. La coppia ha tre figli. La sua carriera personale si sviluppa nell'afosa e vivace Miami, Florida, dove si trasferisce con moglie al seguito. Con il supporto del padre e di un socio milionario di origine cubana di nome Armando Codina, si lancia nel settore immobiliare con cui ben presto accumula ingenti capitali. Questa però è solo la rampa di lancio per John che vuole candidarsi come governatore dello stato della Florida per il Partito Repubblicano nel 1994. Il suo sfidante democratico è il governatore in carica, tale Lawton Chiles. La campagna elettorale è senza esclusione di colpi, la battaglia per i voti è serrata, John fa una gaffe parlando ad una platea di afroamericani e perde la corsa per una manciata di schede. Ci riprova nel 1998. Questa volta vince. Viene poi riconfermato fino al 2007. A causa di una legge della Florida che vieta più di due mandati consecutivi per la carica di Governatore non si può più ricandidare. Torna perciò ai suoi redditizi business.
Nessuno però lo conosce negli Stati Uniti come John o John Ellis. Tutti invece lo conoscono con un acronimo: Jeb. John Ellis Bush.


Ormai è qualcosa di più che un rumour: il prossimo candidato repubblicano alla Casa Bianca alle presidenziali del 2016 potrebbe essere un Bush. Un altro, il terzo dopo le esperienze del padre George, schiacciato dall'eredità ingombrante di Ronald Reagan e protagonista del collasso della minaccia sovietica, e, più recentemente, del suo primogenito George Walker, il comandante in capo risoluto e fiero tra le macerie di Ground Zero ma anche il fautore truffaldino e sciagurato dell'invasione all'Iraq di Saddam (ancora l'oro nero che spinge i Bush nelle loro avventure e si intreccia ai loro destini).
In realtà era Jeb il prescelto in famiglia. W. era considerato troppo impulsivo, irruento e in passato aveva sperimentato il vizio dell'alcool. Jeb invece è più pragmatico, brillante, freddo, carismatico. Qualità essenziali per uno statista. Il padre aveva disegnato per lui un futuro luminoso. La sua preferenza per il secondo maschio si è palesata nel giorno in cui George vinceva in Texas e Jeb perdeva in Florida. “La nostra Gioia è in Texas ma i nostri cuori sono in Florida” dichiarò l’ex presidente USA dall’ ’88 al ’92. Sarebbe dovuto essere quindi proprio Jeb a raccogliere la sua eredità politica, la sua legacy e a continuare la dinastia (termine che se associ ai Kennedy o ai Bush trasmette autorevolezza e tradizione ma se lo associ ai Berlusconi assume una connotazione farsesca e ridicola), non il fratello maggiore.
Il passato è passato però. Il presente è una storia tutta da scrivere. La sfida delle primarie repubblicane si avvicina. Il partito sembra essere molto diviso e frammentato. In tanti potrebbero farsi avanti e partecipare alla competizione interna il prossimo anno. Per lo più personalità relativamente giovani, come Paul Ryan o Rand Paul, che tenteranno di presentarsi come repubblicani di una nuova generazione. Ci sarà anche Jeb Bush forse. Sì, perché alcuni dicono che sia ancora indeciso. Ma i sondaggi lo vedono già tra i favoriti qualora scendesse in campo. Realisticamente parlando, quante chance ci sono di vedere un altro Bush candidato a guidare gli Stati Uniti d'America, magari in uno scontro all'insegna di cognomi pesanti contro Hilary Rodham Clinton, la moglie dell'uomo che ha spodestato il padre vent'anni fa?Abbastanza ma non troppe direi. Ci sono fattori che giocano a suo favore e altri contro.


Innanzitutto Jeb potrebbe godere del supporto degli stessi finanziatori che sono stati vicini prima al padre e poi al fratello e quindi mobilitare somme di denaro inarrivabili per altri contendenti alle primarie. In secondo luogo, l’ex governatore della Florida ha mantenuto profondi legami con l’establishment del Partito Repubblicano e anche con le fazioni più radicali vicine alla chiesa evangelica. Nonostante ciò è anche percepito all’interno del Grand Old Party (come viene soprannominata la formazione politica a cui appartenne anche Abramo Lincoln tra gli altri) come un riformatore che potrebbe svecchiare l’immagine del partito. Jeb potrebbe riconquistare il voto Latino perso sotto l’amministrazione Obama, grazie alla credibilità che si è costruito presso la comunità ispanica e alle sue posizioni aperte in tema di immigrazione che lo distinguono dal mainstream repubblicano. Infine potrebbe essere percepito sia dalla base che dai vertici del partito come una sorta di federatore di una coalizione conservatrice sempre più frastagliata e incapace di esprimere talvolta una voce unica e coesa sui temi salienti di politica domestica e internazionale.

Molteplici sono anche gli elementi di criticità in una sua candidatura alle primarie. In primo luogo la memoria degli errori compiuti da George W. forse è ancora molto fresca, troppo fresca, nelle coscienze collettive dei cittadini statunitensi. Due guerre estenuanti e concluse con una ritirata più che una vittoria definitiva sul campo hanno messo alla prova il proverbiale patriottismo americano e la loro fiducia nelle istituzioni federali di Washington. Il cognome Bush potrebbe risultare come uno svantaggio anche in un altro senso. In un’America sempre più lacerata dalle disuguaglianze economiche e sociali, Jeb potrebbe pagare a caro prezzo l’essere membro di una famiglia così abbiente ed abituata a frequentare le stanze del potere della capitale. Da questo punto di vista le critiche provengono anche dalla frangia più estrema del suo schieramento, ovvero il movimento populista e ultraconservatore del TEA party (TEA è acronimo anch’esso e sta per Tax Enough Already in italiano “già abbastanza tasse” oltre ad evocare il rovesciamento delle barche piene di thè inglesi che ha dato avvio alla guerra d’indipendenza nel 1773). Inoltre il suo riformismo attrae e stuzzica parte dei repubblicani ma allo stesso tempo preoccupa chi teme l’abbandono dell’elettorato medio repubblicano: bianco, tendenzialmente di sesso maschile, cattolico praticante, residente negli stati centrali o meridionali e privo di un alto livello di istruzione. C’è anche chi lo accusa di non essersi esposto a sufficienza contro le riforme di Obama negli ultimi anni, standosene in disparte.
In conclusione, sempre nel caso in cui l’ex governatore decidesse di candidarsi alle primarie, vedremo se aveva ragione il vecchio Bush Sr.. Verificheremo con in nostri occhi se Jeb è davvero un predestinato ad essere un grande leader o se si rivelerà soltanto un altro Bush.

Valerio Vignoli





25 maggio 2014

La tragedia dell'ascolto - Riflessioni sulla ricezione della musica - Pt. II

LA TRAGEDIA DELL'ASCOLTO 
Parte II – Galeotto fu il vinile

Nella prima parte di questa specie di reportage dalla sala-da-concerto-italiana-media sono arrivato a incolpare noi musicisti della scarsa attenzione con cui spesso il pubblico segue gli spettacoli musicali. Non ritratto, ma aggiusto il tiro. Perché, come sempre, la verità (assieme alla virtus) sta in medio. E se la musica è un’arte, allora deve comunicare, e ogni comunicazione ha bisogno di due estremi: smascherate le colpe di chi la fa, è ora il momento di chi la ascolta.
A questo proposito, il nostro Filippo Batisti mi consiglia un interessante articolo del Post, a firma di Filippo Facci. Leggendolo, mi colpisce quella che sembra un’ovvietà: “non ascoltiamo più come un tempo”. Dico “ovvietà” perché nel 2014 non si fa proprio nulla come un tempo. Non solo la lettura e l’ascolto, ma qualsiasi altra cosa, dalla cucina al giardinaggio, fino ai viaggi e allo spolverare gli scaffali. E allora? Rassegnarci all’evoluzione dei tempi o trincerarsi nella turris eburnea del “come si stava bene” (e da lì a “non ci sono più le mezze stagioni” e “si stava meglio quando si stava peggio” il passo è drammaticamente breve)? Andiamo un po’ più a fondo nella questione.

Che non si ascolti né si legga come un tempo è una verità indiscutibile, e di per sé non sarebbe un problema. Ma con alcune forme di arte, come la letteratura e, appunto, la musica, il cambiamento del tipo di ricezione (non parlerei ancora di “degenerazione”) genera un gap sempre più ampio tra quella che è la sostanza immutabile e, piaccia o no, antica dell’opera e il suo pubblico. Un’opera d’arte musicale è stata scritta in un periodo storico ben preciso, è figlia della sua epoca (come, tra l’altro, tutte le altre forme artistiche). Si può innovare fino a un certo punto, ma non si può reinventare all’infinito: c’è un limite alle interpretazioni della musica. Ci stiamo quindi avvicinando alla morte della musica? Prima o poi giungeremo all’inevitabile lacerazione tra pubblico e interpreti, i primi incapaci di ascoltare e gli altri incapaci di farsi comprendere? La stessa cosa accade con gli autori classici: senza traduzioni le persone in grado di leggere, che so, Lucrezio o Aristofane sarebbero pochissime. E la musica, purtroppo, non può avere traduzioni, è sempre l’originale che viene evocato sul palcoscenico.

Indagando sulle cause di questo progressivo scollamento mi vedo costretto a risalire fino a epoche relativamente remote: la seconda metà dell’ottocento. Siamo precisamente nel 1877, quando il buon Thomas Alva Edison avvia una rivoluzione nel campo musicale paragonabile a quella copernicana per l’astronomia: inventa il fonografo, incidendoci la storica e pregnante frase “Mary had a little lamb” (mi chiedo perché non abbia invece detto “lamp”, sarebbe stata una doppia pubblicità formidabile). Questa data segna ufficialmente un momento di svolta epocale nella storia dell’esecuzione musicale. La musica diventa improvvisamente riproducibile quasi a piacimento, dove si vuole, quando si vuole, quante volte si vuole. Da avvenimento rituale e raro diventa un fenomeno di massa. Dal punto di vista dei musicisti questo ha causato tutta una serie di problemi legati al condizionamento, conscio o inconscio, della propria interpretazione da parte delle sempre più numerose incisioni disponibili sul mercato. Al giorno d’oggi abbiamo accesso a talmente tante esecuzioni che diventa più facile imparare un brano a memoria ascoltandolo a ripetizione piuttosto che studiandolo a tavolino. Gli effetti nell’esecuzione si avvertono benissimo, ma questa non è la sede per discuterne.

Diamo invece un’occhiata agli effetti che la massificazione della musica ha prodotto sul pubblico (il pubblico medio, naturalmente: sono consapevole delle dovute e notevoli eccezioni). Saltando di un secolo e un quarto, ci troviamo ai giorni nostri: la musica è dappertutto (non la classica, ahimé, ma la musica in generale), ne siamo completamente circondati. In radio, in televisione, diffusa nei supermercati e persino nei parchi cittadini: non c’è quasi luogo pubblico in cui non sia presente. Rivolgiamoci alle tecnologie digitali: Youtube, iTunes e Spotify monopolizzano le nostre orecchie mettendoci a disposizione di fatto l’intera produzione musicale mondiale di tutti i tempi. Potrebbe essere una risorsa incredibile, uno straordinario strumento di cultura capillare. E invece? Invece è accaduto quello che è il rischio delle massificazioni incontrollate: un aumento della quantità si accompagna a una diminuzione della qualità.


Quindi si ascolta musica sempre e dovunque, ma proprio per questo la musica ha perso quella valenza comunicativa profonda e quell’unicità da evento irripetibile che aveva per il pubblico dell’ottocento (quello che assisteva senza battere ciglio a opere liriche di cinque ore, citato da Facci), diventando una forma di intrattenimento banalizzata e troppo comune per poter essere considerata davvero interessante. Trasportiamo tutto ciò nella nostra sala da concerto: il pubblico, anche quello relativamente selezionato che assiste ai concerti di musica classica (ipotizziamo per semplicità che chi va a un concerto ci vada per la musica, e non per una sorta di abitudine sociale, cosa che purtroppo accade abbastanza spesso), non presta più l’attenzione che avrebbe prestato anche poche decine di anni fa. Ciò si traduce, oltre che nei citati colpi di tosse, in un generale rilassamento critico che fa accogliere con entusiasmo sincero esecuzioni non dico mediocri, ma anche pessime. Si applaude per abitudine, come se non farlo fosse un’offesa ai musicisti, e come se per noi una critica non fosse un’occasione di crescita costruttiva!

Non so se tutto questo finirà per degenerare fino al punto di non ritorno, cioè alla profetizzata lacerazione definitiva tra interpreti e pubblico, e non so nemmeno cosa si può fare per arginare un fenomeno che ha assunto proporzioni incontrollabili. Forse nessuno riuscirà a fermare la tosse durante il concerto, ma a volte accadono piccoli miracoli che mi fanno ben sperare: l’altra sera, nel brano dello Schiaccianoci in cui una campana, sola con tutta l’orchestra che tace, suona i dodici, lenti rintocchi della mezzanotte, ho sentito dal pubblico il silenzio più bello della mia vita.

Alessio Venier


23 maggio 2014

Perché votare? #IamEuropean e #Iamvoting

#IamEuropean and #Iamvoting. Questi due tra gli hashtag più popolari negli ultimi giorni su tutti i social network, semplici espressioni lanciate dalle pagine web del Parlamento Europeo e diventate subito virali che sottolineano due concetti così importanti eppure così poco discussi dai nostri leader politici in queste settimane di accanita campagna elettorale.
Bisogna allora ricordare, a pochi giorni dalle elezioni, di cosa parliamo quando parliamo di elezioni europee.
La grande falla della rappresentanza europea è caratterizzata dal fatto che è la politica nazionale a chiamare a raccolta gli elettori, opacizzando le grandi questioni delle quali si fanno portavoce i partiti europei. Sanno gli elettori di Forza Italia che con il loro voto eleggeranno Junker, l’uomo appoggiato dalla Merkel per continuare ad avere un Euro forte, alla tedesca, sfavorendo in parte le esportazioni, anche italiane? E quanto pesa la destra italiana nel PPE di Junker che si è definito, solo un mese fa, nauseato dalle affermazioni di Berlusconi sul negazonismo dell’olocausto da parte dei tedeschi?
Sanno gli elettori del M5S dove siederanno nel Parlamento Europeo i loro cittadini eletti? Con chi dialogheranno? Riusciranno a creare un gruppo europeo così ingente con tutti i partiti populisti dei vari paesi europei da riuscire ad imporre l’agenda europea? Marine Le Pen non è di questo parere.
Le istituzioni europee sono diverse e ben più articolate di quelle nazionali, non serve, in termini pratici, “battere i pugni sul tavolo”, sono stati i padri fondatori a non permettere un sistema di questo genere. In Europa non c’è una vera opposizione, il potere decisionale è nelle mani di chi decide l’Agenda Setting, ovvero dei commissari, e di quei paesi che sono rappresentati da gruppi compatti e numerosi a Bruxelles.
Per questa ragione l’unico partito italiano al quale va riconosciuto il merito di aver fatto passi avanti in tema di rappresentanza europea è il PD. Il suo corrispettivo naturale a livello europeo è il PSE di Martin Schulz, un partito che si basa sul principio di uguaglianza sociale e solidarietà, un partito che ha messo come punto fondamentale del suo programma la lotta alla disoccupazione e che solo da quest’anno viene appoggiato dal Partito Democratico italiano. Per la prima volta dunque, il più grande partito italiano verrà rappresentato in sede europea da un grande partito storico, come il PSE, rappresentante di tutti i movimenti socialdemocratici europei.
Questo è il significato delle elezioni europee. Una delega ad un partito che ha radici ben salde nei valori condivisi dei paesi membri europei, una voce unica che si fa portatrice di interessi comuni di più paesi, e che presenti un’agenda politica che metta in primo piano obiettivi europei e non nazionali. L’importanza legata al voto di domenica 25 maggio risiede proprio in questo straordinario diritto di cittadinanza europea che va esercitato nel voto, un voto costruttivo per portare un vero cambiamento in Europa, ma un cambiamento che dovrà essere condiviso da tutti e ventotto i paesi membri, un cambiamento in nome di quella cultura europea che ha radici nello stato ma che trova sfogo in quello spazio ben più ampio qual è l’Unione Europea, le scelte politiche che verranno prese dalla nuova Commissione e dal nuovo Parlamento europeo dovranno trovare un ampio grado di coesione per potersi trasformare in azioni concrete.
Non importa, dunque, per chi si voterà domenica, se per una grande famiglia partitica europea o per i nuovi movimenti nati dalle urgenze degli ultimi anni; la cosa importante è votare pensando che nelle grandi aule che ospiteranno i delegati nazionali e i commissari europei prevarrà chi è compatto e chi sarà capace di far approvare proposte concrete che siano condivise da 28 paesi. Andate a votare, anche se siete delusi dalla politica italiana e nauseati dalla campagna elettorale dai toni sempre più bassi, andate a votare pensando ai vostri valori di cittadini europei che ancora risplendono da qualche parte tra le varie promesse elettorali dei partiti italiani.

Gaia Taffoni

22 maggio 2014

Opportunità, Cultura e Diritti: l'Europa di Elly Schlein (PD)

Concludiamo, questa volta definitivamente, la nostra serie di interviste con i più giovani candidati alle prossime elezioni europee con gradito fuori programma: Elly Schlein, nata in Svizzera nel 1985, bolognese d'adozione ed europea per natura. Dopo aver "occupato il PD" con l'obiettivo di stimolare una reazione nell'entourage del partito in seguito alle ultime elezioni politiche e alle vicende che hanno portato alla ri-elezione di Giorgio Napolitano come Presidente della Repubblica, ha sostenuto Pippo Civati nella sua corsa per la segreteria del Partito Democratico. Oggi la Schlein è una delle voci "fresche" del centro sinistra italiano che ha ricevuto (meritatamente) attenzione, grazie anche alla peculiare campagna elettorale, denominata #slowfoot e composta da una serie di incontri "in marcia" attraverso l'Emilia-Romagna, ma anche il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige. 
 Da candidata per il Partito Democratico, come hai deciso di spiegare l'Europa a chi non la percepisce come qualcosa di tangibile se non quando si parla di austerity?

Durante questa campagna, abbiamo avuto l'opportunità di stare tanto a contatto con i cittadini. Abbiamo scelto di farla a piedi per poter stare più possibile all'ascolto. Oltre all'Europa delle scelte disastrose di questi anni da cambiare radicalmente, c'è un'Europa che non dicono, un'Europa delle opportunità che troppo spesso siamo noi a non riuscire a cogliere. In Italia si parla spesso di fondi, solo per dire che torneranno indietro. Invece, l'Europa che non ci raccontano è quella di “Europa creativa”, un programma che sostiene chi in questo Paese vuole fare cultura. In un Paese in cui ci dicono che con la cultura non si mangia e che nel frattempo si è mangiato la sua cultura e vede le sue più grandi bellezze cadere a pezzi come Pompei. L'Europa che non dicono è anche “Garanzia Giovani”, un programma con cui l'Europa si raccomanda che gli stati si adoperino affinché chi esce da un percorso di studi abbia un'opportunità lavorativa entro quattro mesi. L'Europa ha stanziato 6 miliardi di Euro che a fronte di 5 milioni e 6 mila giovani disoccupati europei è ancora poco, ma è una prima risposta forte che dimostra la sensibilità dell'Europa sul tema. Incontrando persone che fanno progettazione europea durante questo lungo viaggio a piedi, si scopre che spesso siamo noi a non cogliere queste opportunità perché ci mancano le competenze per poter scrivere i progetti e leggere i bandi. Dobbiamo svilupparle e chi va in Europa deve essere capace di raccontare meglio questa opportunità europea affinché possa trasformarsi in benefici per le nostre comunità e i nostri territori. Così i cittadini potranno sentire l'Europa più vicina, capendo che l'Europa stessa è anche questo.

Oltre ai giovani che rappresentano il futuro dell'Europa, come spiegare l'Europa ai nonni?

Due settimane fa ho fatto 29 anni e un minuto prima ho pubblicato il mio umilissimo “Manifesto di Ventottenne” che vuole recuperare lo spirito iniziale. Questa non è l'Europa sociale e dei diritti e delle maggiori opportunità per le nuove generazioni. Il disegno iniziale è rimasto incagliato a metà per mancato coraggio degli stati di fare l'Europa davvero. A chi ci chiede un passo indietro, domani rispondere con coraggio con due passi in avanti e farla davvero l'integrazione politica ed economica che è mancata fino ad adesso. Credo che la nostra generazione che è cresciuta con l'Europa, dando per scontato le conquiste, ma interiorizzandole, ha ora doppia responsabilità nel portare a termine quel disegno che i nostri nonni hanno contribuito a far nascere e che, adesso, ha bisogno di tutti i nostri sforzi per essere portato a compimento.

Questa volontà esiste?

Sicuramente le forze che chiedono l'uscita dall'Euro viaggiano su percentuali allarmanti, dal punto di vista di chi crede invece che l'Europa debba semplicemente rispondere meglio ad una crisi a cui non è riuscita a dar risposte. Per farlo deve ritrovare quel coraggio, deve uscire dagli egoismi dei singoli stati e pensarsi finalmente comunità. I Paesi da cui questa crisi è partita sono usciti più in fretta di noi, perché il “compagno” Obama ha capito prima di noi che se non lotti contro le diseguaglianze, se tu non aiuti le fasce più deboli della società, tutta la società non può ripartire. Quindi bisogna fare delle politiche di investimenti pubblici per far ripartire l'Europa, investimenti verso un futuro sostenibile. Verso un nuovo modello che si basi sulla produzione di qualità e anche sulla produzione immateriale. Investendo in innovazione, ricerca, informazione, ambiente, cultura, nella valorizzazione dei nostri territori straordinari.

L'immigrazione è uno dei temi centrali per l'Europa nel presente e nel futuro. Con che approccio andrebbe affrontato, secondo Lei? Cosa pensa delle condizioni nei centri di accoglienza in Italia e all'estero? Cosa pensa di poter concretamente fare per affrontare il problema?

Io credo che sbagli chi dice: “Dov'è l'Europa davanti a Lampedusa?”. Sono stati gli stati nazionali ad essere troppo gelosi delle loro competenze in tema di gestione dei flussi migratori, che non sono state mai davvero cedute a livello europeo. Ci vuole una vera politica dell'asilo europea. Dobbiamo superare il tabù dei corridoi umanitari perché non possiamo accendere ad intermittenza i riflettori sulle tragedie di Lampedusa e dimenticarci che Lampedusa è lì anche quando non ci sono i riflettori. Il problema nasce dal fatto che viviamo in un mondo così diseguale che il 70% delle risorse è nelle mani del 30% delle persone, è evidente che noi non siamo esenti da responsabilità perché siamo parte di quel 30%.
Questo nome strano che ho, Schlein, deriva da mio nonno, partito da un piccolo paesino, che oggi sarebbe in Ucraina, per andare negli Stati Uniti a cercare più opportunità dove ce n'erano di più. Quelli che partono oggi aspirano alla stessa cosa, cercano di andare dove le opportunità sono concentrate. I Cie, come quello di Gradisca dal quale è partita una delle nostre campagne a piedi nei giorni scorsi, sono dei lager che accettiamo in casa nostra, i Cie sono un monumento alla nostra insufficienza, alla nostra incapacità di avere memoria di chi prima di noi, come i nostri nonni, ha passato questo quando emigravano. Non dovremmo, quindi, far sopportare ad altri tutto ciò, come quando i nostri nonni erano visti come capro espiratorio di ogni male sociale. 
Bisogna assolutamente affrontare la tematica a livello europeo, ma senza pensare che sia colpa dell'Europa. Questo paese, l'Italia, è terzultimo per numero di rifugiati accolti e ospitati ogni mille abitanti. Chi dice che li accogliamo tutti noi, sbaglia e dimostra di non aver mai guardato davvero le statistiche. Altri paesi ne ospitano molti di più e noi riceviamo molti più fondi dall'Europa per l'accoglienza, solo che evidentemente li spendiamo male. In Italia c'è da rivedere un'intera normativa, la Bossi-Fini, che è criminogena. Il punto è questo: bisogna accettare la sfida di essere già una società multiculturale. E siamo noi che siamo resistenti e dobbiamo affrontare la nostra incapacità di produrre legislazioni migratorie più lungimiranti che ci permettano di affrontare un processo che è del tutto naturale, lo stesso dei nostri nonni quando, appunto, partivano alla volta dell'Australia, dell'America, della Germania, della Svizzera.

Infine, se gli Europei del passato immaginavano un’Europa senza confini tra Paesi che per secoli si erano combattuti a vicenda, e poi un’Europa con una moneta unica, e poi un’Europa aperta ad Est. Come immagini l’Europa nel 2024? Che tipo di Europa sogni?

Noi abbiamo fatto il mercato unico e la moneta unica pensando che tutto il resto sarebbe venuto da sé, purtroppo non è andata così. Manca quella parte fondamentale. Abbiamo ancora 28 politiche economiche e fiscali troppo diverse tra loro. Siccome l'Europa non l'abbiamo fatto per questo, ma per costruire un'Europa dei diritti, anche dei diritti dei migranti, delle donne, della comunità LGBTI, dobbiamo fare quel passo ulteriore. Tra dieci anni, mi immagino un'Europa che abbia il coraggio di avere una sola voce, in politica estera, così come nell'ambito della difesa. Immagino un'Europa finalmente politica, un'Europa in cui si cominci a capire che o ci risolleviamo insieme da questa crisi e insieme gettiamo le basi per un futuro diverso e sostenibile, oppure non si salva nessuno. La mia speranza è che i prossimi cinque anni (la legislatura del Parlamento Europeo che sarà eletto domenica, ndr) siano decisivi per rendere l'Europa ciò che doveva essere sin dal suo principio. 

Angela Caporale (@puntoevirgola_) e Roberto Tubaldi (@RobertoTubaldi) 

Photo credits: ellyschlein.it 

L'Altra sinistra di Alexis Tsipras: una nuova speranza?

Lunedì 19 maggio, in piazza Maggiore a Bologna, si è tenuto il comizio finale in vista del voto delle elezioni europee del 25 maggio da parte di Alexis Tsipras, il leader della coalizione dei partiti della sinistra greca “Syriza”, e candidato alla presidenza della commissione europea alla testa della lista che lo sostiene “L’altra Europa con Tsipras”. L’obbiettivo per gli organizzatori era alto: per l’ultima tornata della campagna elettorale si puntava a riempire la storica piazza bolognese con minimo 5000 persone, anche se la capienza può arrivare anche fino a 10.000-12.000 presenze. L’obbiettivo di portare il popolo della sinistra in massa al “Crescentone” sembra essere stato raggiunto, con una folla piena di entusiasmo e di speranza, come da un po’ non si vedeva nel mondo della sinistra italiana. 

Il giovane greco, che alle elezioni politiche del 2012 ha portato Syriza a divenire il secondo partito greco nel parlamento, punterà a convincere il popolo degli indecisi e dei delusi del Partito Democratico sull’utilità di dare al voto ad una piattaforma politica che si propone di rompere definitivamente il sistema dell’austerity che sta mettendo il cappio al collo a parecchi paesi dell’eurozona, di mettere un freno al potere della finanza e di mettere al centro dell’agenda europea concetti come beni comuni per una crescita sostenibile che riduca il peso dell’inquinamento ambientale, redistribuzione uguale del reddito come guerra alle disuguaglianze, politiche del lavoro che contrastino la piaga della disoccupazione giovanile europea. Una politica dei diritti che contrasti quella della demagogia, una politica dell’accoglienza dei migranti che contrasti con il sempre più pericoloso vento della xenofobia e del revival nazionalista che stanno calvacando i partiti populisti e di estrema destra. Basta anti-politica, ma ritorno alla politica costituita dalla partecipazione attiva dei cittadini europei per rilanciare il progetto che di quella Unione Europea che si sognava con il manifesto di Ventotene. 



A questo programma si affida la sinistra italiana per tentare di risollevarsi dal baratro nella quale è caduta dopo la fine del governo Prodi nel 2008: durante quell’anno ci fu il disastro della “Sinistra arcobaleno” di Bertinotti alle elezioni politiche, con la conseguente esclusione dell’area radicale che dura fino ai giorni nostri. Nel mezzo di questo psicodramma collettivo, scissioni, nuovi partiti, malumori, allontanamenti, progressivo allontanamento di una fetta di elettorato che, non sentendosi attratta dal riformismo del Partito democratico, in assenza di risposte a sinistra virò il suo voto verso Italia dei Valori e, infine, Movimento 5 Stelle. L’arrivo di questo giovane greco sembra abbia ridato una risposta ad un popolo e ai suoi esponenti, i quali negli ultimi anni avevano perso la bussola: il miracolo compiuto da Tsipras nel coalizzare in un unico movimento l’intera galassia dei partitini che formano la sinistra radicale in Grecia e portare Syriza ad essere il secondo partito ellenico nelle elezioni politiche del giugno 2012, ha spinto numerosi intellettuali italiani, tra i quali spiccano Andrea Camilleri, Barbara Spinelli e Luciano Gallino, a firmare un appello nella quale si abbracciano le idee di Tsipras e Syriza nel respingere il fiscal compact che punisce i paesi del sud Europa, additati come capro espiatorio della crisi, e nel creare un nuovo tipo di Europa dove al centro ci siano il superamento delle disuguaglianze, lo stato di diritto, e la comune difesa del patrimonio culturale e artistico dell’Italia, il settore che dovrebbe essere il nostro fiore all’occhiello ma che in questi ultimi anni è stato spesso calpestato e accusato di “non dare da mangiare e non produrre profitti”. Una cosa interessante è un’altra delle motivazioni che vengono date per sostenere l’abbraccio a Tsipras: il sentirsi vicini e solidali con la Grecia, la quale per prima ha sperimentato la fallimentare politica fallimentare dell’austerity imposta dalla Troika e dal Fondo Monetario Internazionale, con il conseguente disastro che tutti noi conosciamo.



La sfida che Alexis Tsipras è alta: molti opinionisti hanno considerato le proposte della sua lista alla soglia dei contenuti del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, cioè tutti aria fritta e in odor di populismo e demagogia. Piuttosto sembra che Tsipras abbia una visione molto più razionale dell’Europa, magari in alcuni temi (come i beni comuni e la lotta alle lobby finanziarie) sorgerebbe la critica della solita sinistra “idealista ed utopista”. Tsipras sembra avere però la capacità di compattare un popolo che per troppo tempo ha la frammentazione di un’area politica che per tempo è stata protagonista attiva della politica italiana. Unico interrogativo, cioè il più importante: riuscirà la lista a superare lo sbarramento del 4%? In questi tempi di richiami al voto utile e ondata di movimenti populisti che incanalano la rabbia e la disperazione della popolazione con facili quanto illusorie promesse, la sfida si presenta con notevoli difficoltà. La piazza di Bologna lunedì sera sembra aver urlato tutto il suo senso nei confronti dell’ambizioso e battagliero Tsipras. Ma si sa che non servono solo le piazze a determinare l’esito di un’elezione. Anche se, come nella miglior tradizione della sinistra, la speranza è l’ultima a morire…

Mattia Temporin

21 maggio 2014

La campagna elettorale al ribasso di Renzi

Lamentarsi dei picchi di squallore raggiunti da una campagna elettorale a tre giorni dal voto è un esercizio per ingenui. Sono rimasti liberi solo gli elettori più indecisi/disinformati/a rischio astensione e si sa che bisogna scendere molto in basso per accaparrarseli, tipo andare da Vespa o dalla D'Urso...ma non scandalizziamoci troppo, fa parte del gioco.

Poi c'è il fattore Grillo. La maggior parte di quel poco di credibilità rimasta alla politica italiana si è dissolta sotto i colpi di mouse dei pentastellati, che hanno avuto il merito di portare il luogo comune, l'insulto da bar e le fregnacce al centro del dibattito politico, accaparrandosi le simpatie di milioni e milioni di frustrati di ogni sorta e costringendo chi ha ambizioni maggioritarie a scendere al loro livello perché i frustrati sono tanti e il loro voto vale tanto quanto quello degli altri.

Credits: forexinfo.it
Matteo Renzi ha imparato dagli errori dei suoi predecessori che hanno avuto il demerito di allontanare la sinistra dalla gente comune, dando da subito una linea più pop al Partito Democratico. Fin qui non ci sarebbe nulla di male,anzi. Renzi ha capito da subito che Berlusconi sta inesorabilmente avviandosi al declino e il grande avversario in ottica futura sarà il M5S. Ed è un avversario tosto perché trasversale, versatile ed eterogeneo, dichiaratamente populista e marcato da quel controtuttismo che in tempi di crisi è quanto mai efficace. Per contrastarlo, il nuovo Premier ha puntato anche lui alla pancia degli elettori con quella che è stata definita la “politica degli annunci”, come se negli ultimi settant'anni si fosse badato solo alla sostanza. La vera novità sta nel fatto che Renzi si è tolto la maschera e ha mostrato pubblicamente che nella politica sua e in quella attuale, piaccia o non piaccia, la comunicazione vale tanto quanto i contenuti. Il caso Genovese è l'esempio illuminante. Una sonora sconfitta del PD (un deputato accusato di associazione a delinquere, truffa e peculato), trasformato in una vittoria grazie all'annuncio via Twitter del segretario e premier che assicura che il partito voterà a favore del suo arresto e non contro come li accusava di fare il M5S, affamato come sempre di politici corrotti e partiti complici da mettere alla gogna.

Tuttavia, per quanto l'idea di andare a combattere Grillo nel suo campo di battaglia sia tanto giusta quanto inevitabile, questo non deve portare ad adottare i suoi modi e i suoi contenuti, altrimenti si rischia di innescare una gara al ribasso che può fare solo il gioco dei 5 Stelle. Più si avvicina il 25 maggio, più la linea dei rappresentanti di governo e del PD passa da propositiva a distruttiva. Si è passati dal mostrare con insistenza ma anche con efficacia e orgoglio i progetti e le idee di riforma ad una campagna mirata di delegittimazione del M5S. Anche qui non bisogna essere ingenui, anche se si vota per il Parlamento europeo si tratta comunque di elezioni e si tratta comunque (anche) di guadagnare consenso a livello nazionale per poi poter attuare il proprio programma con maggiore forza. Ma se si gioca solo per eliminare gli avversari non ci si potrà mai imporre completamente. Nelle ultime settimane la dialettica di Renzi e del suo team è stata un susseguirsi di gufi, rosiconi e quant'altro che sviliscono troppo il dibattito politico. Anche la strategia di semplificare la realtà in un “noi buoni” e “loro cattivi” (che esattamente uguale a quella del M5S) sarà pur efficace ma il rischio è quello di degenerare in un populismo che non dovrebbe essere nelle corde del PD. Nella (sacrosanta) ricerca del maggior consenso possibile non si devono perdere le linee guida della propria politica, altrimenti si perde credibilità, e c'è chi è capace di prendere il 25% puntando sulla mancanza di credibilità degli altri.


Credits: ilfattoquotidiano.it
A questo si collega il discorso europeo. L'assioma Unione Europea=Austerity-Spread-Merkel è radicato nella testa di troppi italiani, se non fosse che non c’è nulla di più lontano dal vero. Buona parte della classe politica non si è voluta assumere la responsabilità di decenni di malgoverno e mancate riforme e ha trovato nella lontana e complessa Bruxelles un comodo capro espiatorio. Sull'antieuropeismo in questi mesi i vari M5S, Lega Nord, Fratelli d'Italia e di fatto Forza Italia hanno impostato la loro campagna elettorale. In questo clima di isolazionismo e antieuropeismo è difficile portare avanti le idee europeiste del Partito Democratico, ma il primo partito italiano, membro del PSE e che inoltre si appresta a detenere il semestre di presidenza ha il dovere morale di portare l'Europa al centro del dibattito, a costo di perdere qualche voto ma con l'obiettivo di mostrare al paese che governa come funziona realmente l'UE e i vantaggi che ha portato e che porterà. Non saranno gli altri partiti a mostrarlo e dubito che l'italiano medio possa farlo da solo. C'è bisogno che il governo sia da esempio per il paese nel processo di integrazione europea, senza commettere l'errore di sacrificare l'interesse comune sull'altare di un momentaneo interesse elettorale.

Fabrizio Mezzanotte

L'Europa in 7 punti - Intervista ad Alessandro Marmiroli M5S

Con le elezioni europee ormai alle porte e una campagna elettorale dai toni sempre più accesi, chiudiamo il nostro ciclo di interviste a giovanissimi candidati della circoscrizione Nord-Est con Alessandro Marmiroli, candidato per il MoVimento 5 Stelle. Avevamo iniziato con Brando Benifei, spezzino classe 1986, candidato tra le fila del Partito Democratico, per poi continuare con Simone Venturini, NCD-UDC, veneziano di 26 anni. 

Alessandro Marmiroli, 27 anni, nasce a Reggio Emilia e si laurea in Economia e Politiche Pubbliche presso l'ateneo di Modena-Reggio Emilia. Dopo un'esperienza internazionale nel campo della cooperazione, inizia a scrivere come free-lance in un quotidiano locale, per poi diventare ricercatore presso un centro di studi economici. Già candidato alle amministrative 2009 diviene consigliere presso la Circoscrizione Sud. Risultato il più votato nel Nord-Est alle parlamentarie per le europee si prepara all'esperienza comunitaria presentandosi nè contro, nè a favore dell'euro e con la volontà di sfruttare le possibilità offerte dall'Europa.
  
Cosa succede il 26 maggio se il M5S vince le europee? Vi presenterete da Napolitano chiedendo di sciogliere le camere o affidarvi un mandato esplorativo?
A quel punto diverrebbe evidente il fallimento del progetto portato avanti in questi anni di una alleanza di fatto tra centrodestra e centrosinistra mirante a mantenere lo status quo, progetto dove Napolitano ha un ruolo centrale. Le dimissioni del Presidente della Repubblica e nuove elezioni sarebbero l'unica strada.

Arrivati al Parlamento Europeo su che basi sceglierete i vostri alleati per la formazione di un gruppo parlamentare? Non hai paura di doverti per forza di cose avvicinare ai gruppi di estrema destra? C’è qualche possibilità che confluiate nel GUE/NGL (Sinistra Unitaria Europea-Sinistra Verde Nordica)?
Lo formeremo in base ad un confronto sui programmi e sulle proposte, non vedo quale altra via dovremmo percorrere. Con queste elezioni è probabile che il nuovo Parlamento sarà più eterogeneo di oggi e che ne facciano parte gruppi su posizioni simili alle nostre. Sono convinto che coi Verdi Europei potremo trovare molte posizioni in comune, ma parlare di confluire in questo o quel gruppo per ora è pura teoria. Non ho tuttavia nessuna paura di eventuali approcci con gruppi di estrema destra, perchè tale possibilità non esiste.

Leggo nel tuo programma che ti sta molto a cuore un’alleanza tra i paesi del Mediterraneo. Ti riferisci ad immigrazione e politica estera, o pensi anche al così detto euro a due velocità (più debole/svalutato per i paesi economicamente in difficoltà)?
I paesi dell'Europa meridionale, Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Grecia, sono la parte dell'Unione più colpita dalla crisi e sulla quale stanno ricadendo gli effetti negativi delle politiche del rigore. Proponiamo di fare fronte comune per cambiare le cose. L'euro a due velocità è un'ipotesi, a patto che non si riproducano gli stessi meccanismi e assetti istituzionali dell'euro attuale, le “nuove Germanie” diverrebbero l'Italia e la Francia e saremmo da capo.



In un tuo comizio dici che il tuo obiettivo numero uno in Europa è l’eliminazione del fiscal compact. Si tratta però di un trattato internazionale su cui tecnicamente il Parlamento Europeo non ha giurisdizione. Come pensate di muovervi su questo fronte?
Un trattato internazionale che tuttavia nasce all'interno delle Istituzioni europee e che punta a obiettivi contenuti già in precedenti trattati UE. Il Parlamento Europeo ritengo sia la sede più indicata dove porre questo tema.

Nei 7 punti per l’Europa si nota una contraddizione tra la volontà di adottare gli Eurobond e il referendum per la permanenza nell’Euro. Il primo richiederebbe ancora più integrazione, il secondo avrebbe come possibilità l’uscita dell’Italia dall’euro. Come si coniugano queste due posizioni?
Sarebbe una contraddizione solo se li proponessimo allo stesso tempo, ma non è cosi. Noi chiediamo varie riforme, come gli eurobond, indirizzate a creare una vera comunità solidale tra le nazioni europee dove ci si aiuti a vicenda. Benvenga ancor più integrazione, se fatta su queste basi. Il referendum sull'Euro è l'ultima carta, se ci scontreremo contro un muro di gomma e le nostre proposte di riforma dell'Europa verranno rigettate, allora la giocheremo. Perchè noi non siamo contro l'Europa unita, ma siamo contro un'Europa che per uscire dal tunnel sacrifica per strada i Paesi più deboli. La crisi non è nata in Italia o in Grecia o in Spagna, e non possono essere i popoli di questi paesi a pagare per tutti.

A proposito di referendum sull’euro. Che succede se il referendum portasse ad una richiesta di uscita dell’Italia dalla moneta unica. I trattati non prevedono particolari procedure e soprattutto quale pensi sia la situazione dell’economia italiana (mi riferisco al debito converito nella nuova valuta, alla risposta dei mercati, al ritorno alla svalutazione) all’indomani del referendum?
Io penso che un referendum avrebbe valore non tanto per il risultato, sul quale non faccio pronostici, ma perchè finalmente avremmo in Italia (e forse in tutta l'Unione) un serio dibattito pubblico sui pro e sui contro della moneta unica, e sulle possibili alternative. Dibattito che al momento dell'adesione è invece mancato. Fare previsioni sulle conseguenze di un'uscita dall'Euro in mancanza di tale confronto è azzardato, comunque non aderisco né alle posizioni dogmatiche di chi ritiene che la permanenza nell'Euro sia l'unica strada, né a chi con troppa facilità afferma che tutti i problemi si risolverebbero tornando alla Lira. l'Euro è il frutto di politiche economiche, su queste dobbiamo intervenire. In entrambi i casi, a problemi complessi non dobbiamo dare risposte banali.

Una domanda che ci sta a cuore in quanto studenti Erasmus. La nostra generazione sta proprio attraverso progetti come questo forgiando una nuova cultura genuinamente europea. Non pensi che si dovrebbe lavorare per migliorare l’Europa, rafforzare questa cultura, e spiegarla a chi l’Europa la vede solo come qualcosa di tangibile solo quando si parla di austerity?
Non potrei dirlo con parole migliori.


Per concludere, immaginati nel 2024. Come vedi l’Europa di qui a 10 anni?

Tra 10 anni possiamo arrivarci tutti assieme cambiando le cose, diversamente ci arriveranno solo i più forti. Nel primo caso sarà una bella Europa.

Angela Caporale (@puntovirgola_) e Roberto Tubaldi (@RobertoTubaldi)

19 maggio 2014

Uno spettro si aggira per la Siria...anzi due! (pt. 3 - fine)

Se c’era una cosa di cui i libanesi non sentivano proprio la necessità era di un altro motivo per imbracciare le armi. Se c’era una cosa di cui i libanesi non sentivano proprio la necessità era un altro esodo fatto di profughi provenienti da terre straniere. Se c’era una cosa di cui libanesi non sentivano proprio la necessità erano nuove autobombe nelle loro città.

Il Paese dei Cedri è un luogo dai mille volti e dalle mille possibili descrizioni, impossibili da raccogliere in poche righe eppure tutte in grado di convivere più o meno precariamente in uno spazio più piccolo del nostro Abruzzo. Da un lato i manifesti coi volti giovani e solenni dei martiri di Hezbollah, il “Partito di Dio”, mandati a morire in terra siriana; dall’altro le luci e le sagome dei grattacieli che come moderne Babeli frugano il cielo. Strano destino quello della “Svizzera del Medio Oriente”, simile – anche nella tragedia – a quello dell’altra Svizzera, quella africana, il Rwanda, che continua a piangere i suoi morti nel ventesimo anniversario del genocidio. Forse è giunto il momento di smettere di cercare epigoni della piccola federazione elvetica.

Nelle puntate che hanno preceduto questo articolo abbiamo visto come la guerra civile siriana abbia esondato dai suoi confini storici per investire anche i suoi vicini e ciò è successo anche a causa dei suoi vicini. In realtà, non è di sicuro il Libano a dover prendere lezioni sugli effetti di una guerra, dato il suo pesante passato. Ma, nonostante le ben note pagine nere degli anni passati (tra le quali è impossibile non ricordare i quasi trent’anni di vera e propria occupazione militare imposta dalla Siria al Libano, spesso considerato una sorta di protettorato se non una vera e propria provincia “perduta”al di fuori dei propri confini nazionali), altri attori hanno deciso comunque di salire sul palco: il 19 ottobre 2012 Wissam al-Hassan, capo dell’intelligence libanese e nemico del regime di Damasco, viene investito dall’esplosivo contenuto in un’automobile e muore sul colpo. Il 19 novembre 2013 due kamikaze appartenenti alle Brigate Abdullah Azzam si fanno saltare in aria nei pressi dell’ambasciata iraniana a Beirut uccidendone l’addetto culturale e alcuni membri della sicurezza dell’ambasciata, tutti guarda caso appartenenti ad Hezbollah (che ha portato la sua esperienza di guerriglia urbana in Siria e costituisce l’alleato chiave di Assad assieme all’Iran degli ayatollah). Il 4 dicembre un (o più) sicario uccide nel parcheggio dell’edificio dove vive Hassan Hawlo al-Lakiss, figura chiave dell’organigramma militare di Hezbollah. Il 27 dicembre un’autobomba esplode nella capitale ed uccide Mohammed Shattah, economista, ex ministro delle Finanze libanese, ex ambasciatore presso il FMI ma soprattutto esponente di spicco di quel blocco sunnita che in Libano si oppone ad Hezbollah e all’estero trova nell’Arabia Saudita il mentore principale a cui ispirarsi. L’elenco potrebbe continuare a lungo in un folle balletto di cifre, nomi, date e luoghi che rimandano ad altrettante fazioni. Come abbiamo scritto aprendo questo articolo non sono certo le motivazioni a mancare ad un attentatore, in Libano.

È importante però non lasciarsi ingannare: se le bombe che abbiamo poco sopra elencato sembrano mietere solo i protagonisti di questo dramma, nella realtà neanche le semplici comparse possono dirsi tranquille: dall’inizio della guerra civile in Siria (nel marzo del 2011) si calcola che oltre quattrocento persone abbiano perso la vita in Libano, a causa di violenze riconducibili al conflitto al confine1.
Poco importa allo sciita Iran e alla sunnita Arabia Saudita di queste pedine, l’importante è rafforzare o mantenere le proprie posizioni e indebolire il rispettivo nemico regionale, ovunque esso si trovi. Ribattere ad esso colpo su colpo, attaccarne i simboli – un generale, un funzionario di ambasciata, o addirittura un intero quartiere con una specifica maggioranza religiosa – diventa perciò essenziale in questa lotta che, a chi segue le vicende della criminalità organizzata nostrana, ricorda assai da vicino le modalità delle sanguinose guerre di mafia.

Da alcuni è stata perfino avanzata la perversa ipotesi che gli attentati stiano in un qualche modo aiutando Hezbollah a veicolare quel senso d’assedio e di minaccia vissuto da molti sciiti residenti nel paese. Nulla renderebbe più facile di questo espediente il serrare i ranghi attorno ad una causa come quella del regime di Damasco, giustificando così l’invio di nuovi miliziani del Partito di Dio verso la terra siriana.
Sentimento che d’altronde è ampiamente ricambiato dagli ambienti libanesi di orientamento sunnita i quali sempre più, alla vecchia occupazione siriana sentono essersi sostituita la nuova longa manus iraniana, alimentando così paure e ricordi relativi all’invasione già sperimentata in passato.

Bandiera di Hezbollah e bandiera nazionale del Libano.
Problemi vecchi e nuovi, faide antiche che si trascinano fino ad oggi, vendette trasversali, attentati dalle plurime firme, politica e religioni, potenze regionali e globali, tutto si può trovare al grande mercato libanese, e in grandi quantità. A dare le dimensioni di questa lunga scia di sangue infatti, sono ancora una volta i numeri, nudi e crudi.
100mila morti in una guerra civile che ha devastato il paese tra il 1975 e il 1990.Ai 455mila palestinesi (presenti nel Paese dei cedri dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948) sparsi per i dodici campi presenti sulterritorio libanese si è aggiunto oltre un milione di profughi siriani; e questo su una popolazione totale di meno di sei milioni di abitanti (secondo stime che non trovano conferma nei numeri reali, dato che l’ultimo censimento risale al 1932, dopodiché si decise che la prospettiva di stravolgere l’intero edificio istituzionale alla luce di nuove percentuali che avrebbero significato nuovi equilibri di potere fra le diverse etnie non era poi così allettante e di censimenti ufficiali non se ne parlò più) e su un tessuto socio-economico già duramente provato di per sé stesso. La disoccupazione tra i giovani libanesi è infatti al 34% e 170mila cittadini del Paese dei cedri sono a rischio di povertà secondo stime delle Nazioni Unite.
C’è da chiedersi se sarebbe il caso di portare questi numeri ai leghisti di casa nostra, che fomentano paure primitive cianciando di invasioni bibliche all’approssimarsi di ogni estate.

Abbiamo così visto come la crescente violenza in Siria si sia progressivamente espansa fino a contagiare i paesi confinanti come Iraq e Libano già duramente colpiti dalle loro lotte intestine. Nell’avviarci a concludere questo articolo ci rifacciamo alla domanda posta da Paul Salem, vicepresidente del Middle East Institute: “Riguardo la questione confessionale, molto dipende dalla rivalità tra sauditi e iraniani. Queste due potenze troveranno un accordo o continueranno la loro guerra per procura?”
2. La risposta, osservando l’attuale situazione sul campo, sembra purtroppo essere negativa.

Marco Colombo

1 Meloni L., “Effetto domino”, Internazionale, 1049, pp. 64-69

2 Hubbard B., Worth F. R., Gordon R. M., “Un unico conflitto per Siria, Iraq e Libano”, Internazionale, 1033, pp. 12-13

Qui la pt.1 e la pt.2

15 maggio 2014

La tragedia dell’ascolto – Riflessioni sulla ricezione della musica - Pt. I


LA TRAGEDIA DELL'ASCOLTO 
Parte I – Le colpe degli interpreti ricadono sul pubblico

Di ritorno da un concerto di musica classica nel teatro cittadino, qualche giorno fa, inizio a riflettere su cosa spinge centinaia di individui a imbottigliarsi periodicamente in una sala surriscaldata, costretti per interminabili decine di minuti a un’innaturale immobilità, privati della possibilità di vedere ciò che sta loro attorno, rinchiusi per una sorta di arcano rito misterico, tutti insieme con lo sguardo fisso a un largo altare sul quale, circonfusi di luce abbagliante, compunti sacerdoti con bizzarre vesti officiano una cerimonia tra le meno verbali ma allo stesso tempo tra le più comunicative. A descriverlo così, un concerto sembra davvero qualcosa di surreale. Eppure, a ben guardare, di questo si tratta. Ringraziamo (scegliete se ironicamente o no) Wagner per il buio in sala e la complessiva atmosfera religiosa, che rende legittimo anche lo sguardo di disprezzo che saetta dal melomane verso l’incauto tossitore di turno. Tutto questo per la musica!


Certo, è un’arte che necessita di una ritualità; e non lo dico solo perché sono un musicista. Necessita di una ritualità perché la musica, a differenza di altre forme artistiche, ha bisogno di interpreti, che la devono creare ogni volta da zero. Ma non solo: come la pittura ha una dimensione spaziale, la musica ha una dimensione temporale. Ciascun brano ha, se vogliamo, una propria vita: nasce, si sviluppa, si conclude. L’opera d’arte scompare se ne eliminiamo una parte, e cristallizzare un attimo di musica non si può, non più che comprendere un affresco osservandone un solo centimetro quadrato. In virtù di ciò, non è colui che recepisce l’opera d’arte a condurre il gioco, ma è la musica stessa che impone un numero minimo di regole per la sua ricezione, tra cui, appunto, il fatto che l’attenzione deve estendersi, possibilmente invariata, per una determinata durata temporale stabilita dal compositore.
A simili riflessioni sono stato condotto da un concerto in cui ho percepito chiaramente il calo di attenzione da parte del pubblico durante un Adagio mozartiano che il direttore non è riuscito a sostenere adeguatamente per tutta la sua lunghezza. I cali di attenzione del pubblico sono, purtroppo, all’ordine del giorno nelle sale da concerto, e un loro chiaro segno sono i colpi di tosse. Non quelli, diremmo così, sinceri dei raffreddati, bensì quelli secchi e compulsivi di coloro che Heinrich Böll, in un geniale racconto (Tosse durante il concerto: leggetelo!) chiama “nevrotici”. L’aumentare dei colpi di tosse solitamente segnala un calo di attenzione: non sono uno psicologo e non lo so spiegare, ma credo (a livello del tutto intuitivo) che, se facciamo davvero attenzione a qualcosa, il cervello non permette l’insorgere della molesta tosse da teatro, semplicemente perché è occupato a fare altro.
Una caratteristica spiacevole della tosse da teatro è che è contagiosa. Fateci caso, la prossima volta che assistete a un concerto: qualcuno inizia, e rapidamente l’epidemia si diffonde dalla platea al loggione, in una cacofonica stereofonia, fino a raggiungere, talvolta, livelli imbarazzanti. Mi è capitato di vedere gli orchestrali scambiarsi sguardi stupiti, durante un episodio dei più rumorosi.

Ma c’è, naturalmente, il rovescio splendente della medaglia: accade quando c’è la rara fortuna di ascoltare interpreti di altissimo livello, e che si rivelano in tutta la loro grandezza: sanno mantenere l’attenzione del pubblico dalla prima all’ultima nota, e anche oltre - qui una testimonianza incredibile:



Ciò si evidenzia nell’assoluto e religioso (!) silenzio che accompagna l’esecuzione. L’attenzione è palpabile, si addensa in una specie di aria solida che riempie tutto il teatro. Occasioni emozionanti quanto, purtroppo, rarissime. A me personalmente è capitato non più di un paio di volte, ma è capitato: significa che è possibile.
Ma come spiegare che lo stesso pubblico abbia reazioni così diverse? Cosa è cambiato tra un concerto e l’altro? Semplice: gli interpreti. Sono loro, quindi, i veri responsabili della poca o molta attenzione che il pubblico concede alle esecuzioni? Pare di sì. Un’adeguata gestione del concerto, unita a un’impeccabile preparazione tecnica e a una rara qualità assimilabile a una propensione quasi sciamanica per l’aggregazione, posseduta da alcuni direttori, sono tutti elementi che concorrono alla buona riuscita dal principale scopo di un concerto: comunicare. Come dire: il tuo pubblico si annoia? Colpa tua! Ma naturalmente la questione è più complessa… (continua)

Alessio Venier

11 maggio 2014

Zio Paperone e i Nightwish: "Music Inspired by The Life and Times of Scrooge"

Music Inspired by the Life and Times of Scrooge: il primo album solista del tastierista dei Nightwish, basato sulla Saga di Paperon De Paperoni di Don Rosa

Nel 1992, in Finlandia, il cartoonist americano Don Rosa pubblica il primo capitolo di un’opera che cambierà la sua vita e segnerà la storia del fumetto e della letteratura: The Life and Times of Scrooge McDuck, che verrà pubblicato negli Stati Uniti solo due anni più tardi. In Italia la prima edizione è su Zio Paperone, leggendario mensile Disney Italia dedicato alla pubblicazione dell’opera omnia di Carl Barks, nel 1995 (io avevo 5 anni, e ricordo il momento in cui lessi il primo capitolo della Saga come fosse ieri), con il titolo La Saga di Paperon de Paperoni.
La Saga racconta le avventure giovanili di Zio Paperone (Uncle Scrooge McDuck), personaggio creato proprio da Barks nel 1948, ma lo fa in modo completamente originale e rivoluzionario.
Le storie di Barks, da cui Rosa trae ispirazione (e anche informazioni), per quanto in qualche modo collegate tra di loro, non hanno una continuity interna e non sono collocate in un preciso momento temporale (generalmente si assume che si svolgano negli anni della pubblicazione, quindi gli anni ‘50, ma in alcune storie si vede un’ambientazione futuristica che fa presumere che si svolgano, appunto, nel futuro); lo stile di Barks come disegnatore, inoltre, è piuttosto essenziale, per quanto spettacolare nella rappresentazione dei paesaggi.

Scrooge McDuck


La storia di Rosa, invece, stravolge tutto ciò: le storie sono collocate in un preciso momento temporale (dal 1877 al 1947), con riferimenti a personaggi e fatti reali e storici (su tutti, spicca Theodore Roosevelt) e lo stile di Rosa è particolareggiato e dettagliato, senza perdere però il senso di meraviglia che contraddistingue Barks. Inoltre, lo stile di scrittura è assolutamente diverso: l’approccio di Rosa è simile ai fumetti di supereroi, trasformando Zio Paperone quasi in un “superpapero con superproblemi”, o ai romanzi di avventura di fine ‘800, spesso con un approccio quasi poetico nei dialoghi.
Rosa, poi, introduce la mortalità nel mondo Disney, e la rappresenta vividamente: entrambi i genitori di Paperone muoiono durante la Saga.
Nel primo capitolo viene raccontato come Paperone guadagna la sua prima moneta, il decino Numero Uno, che spesso viene definito erroneamente (specie nelle storie italiane – orrore degli orrori!) il suo portafortuna: in realtà, il decino è l’ispirazione per tutto ciò che Paperone ha fatto in vita sua.


Particolarmente evocativo e poetico è poi l’ottavo capitolo della Saga, “Il Re del Klondike” (“The King of the Klondike”), che racconta di come Paperone abbia iniziato a costruire la sua fortuna, e al tempo stesso a distaccarsi sempre più dai valori che lo avevano animato fino ad allora, portandolo a ritrovarsi, come raccontato nei capitoli successivi, infine, solo e desolato.
Nel dodicesimo capitolo, infine, Paperone ritrova il nipote Paperino (figlio di sua sorella Ortensia) e conosce i suoi nipoti Qui, Quo e Qua, che gli restituiscono la vitalità di un tempo e gli donano le energie per continuare ancora le sue avventure.
Dopo la fine della Saga, Rosa pubblicherà altre storie a tutti gli effetti integrabili in essa, così come è collegabile “L’ultima slitta per Dawson” (“The Last Sled to Dawson”), pubblicata qualche anno prima. Alcuni anni dopo, Rosa pubblicherà un disegno in cui è rappresentata la data di morte (ipotetica) di Paperone: il 1967.
Nel 1995 Rosa vince l’Eisner Award (l’Oscar del fumetto) per la miglior serie (evento eccezionale per una pubblicazione Disney).

Don Rosa e Tuomas Holopainen (non devo dirvi quale dei due è il metallaro, vero?)
Nel 2013, il tastierista dei Nightwish, formazione Symphonic Metal Finlandese, Tuomas Holopainen, dichiara di voler iniziare a lavorare su un progetto che ha in mente da quattordici anni: un concept album ispirato alla Saga di Rosa. Per quanto il fatto possa sembrare eccezionale (e, almeno per me, commovente), in realtà si spiega facilmente: le storie di Rosa, in Finlandia, sono profondamente radicate nella cultura. Rosa stesso, tempo fa, ha dichiarato che mentre in America nemmeno il suo vicino sapeva che mestiere facesse, in Finlandia la gente lo fermava per strada. Infatti, Rosa ha collaborato con Holopainen, disegnando la copertina dell’album e fornendo gli sketch originali del 1992. Insomma, l’11 aprile l’album (Music Inspired by the Life and Times of Scrooge) è uscito, io l’ho ordinato, l’altro ieri è arrivato e ieri l’ho ascoltato.
E mi sono commosso.
Non posso giudicare l’album in maniera obiettiva (posso dire, però, che c’entra molto poco col metal dei Nightwish): l’unica cosa che conta è che Holopainen ha centrato in pieno l’obiettivo. Dall’album si sente chiaramente quanto abbia adorato Rosa da ragazzo e quanto gli sia rimasto nel cuore, colpendo al cuore anche tutti noi che l’abbiamo letto. L’album è il compendio perfetto (lo ribadisco: perfetto) alla Saga.
Per questo, chi non l’ha letta non potrà mai ascoltare e comprendere tutta la bellezza che quest’album sprigiona.
Il mio consiglio, quindi, è di andare in libreria e comprare La Saga di Paperon De Paperoni (o di andare in biblioteca e prenderlo in prestito), prima ancora di ascoltare questo disco.


Guglielmo De Monte @BufoHypnoticus

(psst! Qui potete vedere il video del primo singolo dell’album, “A Lifetime of Adventure”, con Don Rosa che disegna: http://www.youtube.com/watch?v=JWwSVOo5K_k e se siete sensibili vi potete commuovere come ho fatto io.)