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28 gennaio 2014

Uno spettro si aggira per la Siria… anzi due! (pt. 1)

Questo è il primo episodio di una serie di articoli che ci porteranno dietro le quinte dello scacchiere mediorientale. I successivi capitoli saranno pubblicati nel corso delle prossime settimane! - TBU

Durante la Seconda guerra mondiale, nel periodo che intercorse tra l’invasione della Polonia e la campagna di Francia, ci fu una pausa nei combattimenti tra le diverse super potenze dell’epoca (il Regno Unito, la Germania e per l’appunto la Francia). Questo momento di sostanziale rilassatezza tra i belligeranti venne in seguito etichettato dagli storiografi d’Oltralpe come drôle de guerre e cioè la “guerra strana”.

Quella che si svolge in Siria probabilmente potrebbe ricadere sotto la stessa identica etichetta della guerra combattuta oltre settant’anni fa, se non fosse che a Damasco, Homs, Aleppo e molte altre città piccole e grandi, bombe e pallottole continuano a fischiare senza tregua. E allora perché “guerra strana” per descrivere gli scontri che oramai da tre lunghi anni martoriano la Siria e i suoi abitanti? Poiché raramente – forse mai – si è visto un conflitto alimentato da così tanti attori internazionali, al punto che paradossalmente questi ultimi sembrano aver quasi rubato la scena a quelli che dovrebbero essere i protagonisti, e cioè i siriani stessi.

“Guerra strana” perché i principali tra gli attori internazionali – la repubblica d’Iran e la monarchia saudita – sopra menzionati, sembrano aver deciso di testare per la prima volta (anche se la guerra civile in Afghanistan, antecedente all’intervento americano del 2001, potrebbe essere presa a riferimento come una sorta di capostipite per questo nuovo tipo di conflitto) le rispettive potenzialità e forze a disposizione, utilizzando la Siria come un enorme campo da gioco e i siriani come incolpevoli comparse di questa immane tragedia.
Per gli amanti del gergo tecnico si chiamerebbero proxy war quelle guerre nelle quali due potenze – nel nostro caso regionali ma può trattarsi anche di giganti, basti pensare ad USA e URSS durante la Guerra fredda – passano alle maniere forti nel dietro le quinte, quando ufficialmente e alla luce del sole dialogano o stringono trattati di non proliferazione.

Mappa tratta da Limes
Nel caso siriano, ma come sempre accade nei corsi e ricorsi della storia umana, gli interessi economici si intrecciano inestricabilmente con le differenti visioni religiose. Ciò perché il regime di Bashar al Asad non costituisce soltanto uno dei pochi alleati su cui può contare il regime degli Ayatollah nella zona, ma poiché rappresenta anche un ramo cadetto (quello alawita) del non particolarmente robusto albero dello sciismo, a sua volta ramo minoritario dell’Islam. Ma se il ramo è nato corto, i frutti sono caduti lontano. E così, propaggini e minoranze più o meno consistenti (quando non vere e proprie maggioranze) dell’albero sciita si possono ritrovare anche in Qatar, Bahrein, Kuwait, Iraq e nella stesso regno degli al Saud. E se dal dato sull’appartenenza religiosa si fa partire una linea che colleghi direttamente questi paesi ai membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (organo nato soprattutto dall’impulso di Arabia Saudita e Stati Uniti) si potrà notare che parecchi nomi sono gli stessi per entrambi gli elenchi.

A ciò si aggiungano diversi altri punti a favore dell’Iran: una popolazione numerosa, giovane e istruita (fattore che però, come dimostrano le proteste del 2009, può anche costituire un problema di non poco conto), produzione e riserve di petrolio e gas naturale che temono pochi rivali, un nuovo presidente, Hassan Ruohani, su cui Obama ha scommesso tutte le sue residue speranze di scongiurare un ennesimo conflitto tra Israele e il mondo arabo e che ha saputo dare ossigeno ai negoziati sul nucleare iraniano, sbloccando così diversi miliardi sparsi in diversi conti esteri prima vincolati dalle sanzioni occidentali e necessari a far fiatare la sempre più asfittica economica di Teheran.

Messi in fila, questi elementi non possono illustrare l’intero quadro, ma almeno aiutano a cogliere alcune tra le cause del nervosismo di Riyad nei confronti di qualsiasi progetto iraniano che guardi a questa sorta di riedizione del “cortile di casa” in salsa mediorientale.


L’Arabia Saudita, sfuggita al controllo (davvero mai esercitato?) di Washington, suo principale sponsor internazionale, sembra oramai appoggiare in toto i ribelli islamisti in Siria che spesso si rifanno più o meno esplicitamente ai gruppi qaedisti come il Fronte al Nusra e che, sempre più violente e spietate, sono sfuggite a loro volta al controllo del loro più importante finanziatore (nonché supposto mentore religioso), scatenando così la reazione di un’ampia coalizione di forze anti Asad “laiche”, come l’Esercito libero siriano e altri gruppi moderati. Dettaglio questo, che tra l’altro ha permesso ai lealisti di Asad di riconquistare molto del terreno perso negli ultimi tre anni di guerra civile.

E se dal lato militare gli ostacoli non sembrano mancare, neanche sugli altri fronti la petrolmonarchia può dirsi tranquilla: le minoranze sciite delle province orientali e i primi vagiti di un’ancora acerba società civile costituiscono preoccupazioni minori per la casa regnante, ma rappresentano anche evidenti spie di un malcontento che richiede risposte nuove, soprattutto se l’Arabia Saudita vuole ottenere quello status di potenza regionale che aspira a rivestire. 
A tutto ciò si deve aggiungere il raffreddamento nei rapporti con l’amministrazione Obama, meno propensa dei suoi predecessori a concedere l’ennesima apertura ai venti di guerra provenienti da Israele e che di certo vuole seguire con sempre maggior convinzione il sentiero della diplomazia e dei negoziati per risolvere la scottante grana del nucleare iraniano.

Ma ora il giocattolo sembra essersi rotto per entrambi i principali poli di influenza regionali, sfuggendo di conseguenza dalle mani dei suoi creatori e così, se da un lato abbiamo esplosioni di violenza sempre più incontrollabili e ampie, dall’altro il monstre irano-saudita-siriano ha generato tanti altri casi minori di “guerre strane”; in primis Libano e Iraq, anche se non molto lontano si agitano diverse altre zone turbolente, solo geograficamente distanti da Riyad o da Teheran come l’Afghanistan, la Palestina e l’Egitto. 

Marco Colombo

19 gennaio 2014

SundayUp: Tutto sulla Finlandia - Erlend Loe (2008, Iperborea, naturalmente)


Addentrarsi nella filosofia dell’umorismo è già un viaggio pericoloso, figuriamoci nella sua geografia. Tuttavia è curioso (e sarebbe interessante indagarne i motivi) che tre paesi così vicini come la Norvegia, la Svezia e la Finlandia coltivino tre tipi così diversi di umorismo letterarioIn questo variegato microcosmo, prendiamo per ora in esame il primo e più occidentale dei tre paesi, la schiena e la testa di quel cane stilizzato che, quando esisteva ancora l’arcana materia scolastica denominata “geografia”, ci facevano intravedere nella forma della Scandinavia. Il norvegese Erlend Loe è quasi commovente nel suo tratteggiare, sempre col sorriso e spesso con una sonora risata, le moderne nevrosi dei giovani nordici, un po’ spaesati tra derive neonaziste, un ordine pubblico quasi straniante e un’interiorità tormentata che pare opprimere un po’ tutti, ma sempre – e paradossalmente – con una certa allegria.



Esilaranti a dir poco le irrazionali paure della voce narrante, inspiegabilmente (ma è poi così inspiegabile?) terrorizzato dal cambiamento e da quello che è il suo simbolo universale, sin da Eraclito: l’acqua. Quale peggior obbligo lavorativo per lui, dunque, che il dover scrivere una brochure sulla Finlandia, paese tra i più ricchi d’acqua al mondo? Il tutto, naturalmente, senza mai essere stato in Finlandia, e senza conoscere nulla di quel paese, tranne alcuni discutibili luoghi comuni sull’abuso di alcool e sulla depressione. Parte così una disperata ricerca di informazioni, compito arduo per il narratore, un vero campione nel procrastinare gli impegni (e soprattutto gli obblighi). In più pare singolarmente dotato nel finire irrimediabilmente a parlare di argomenti “acquatici” che lo fanno continuamente fuggire inorridito dal compito che gli è stato assegnato. Evita così di parlare di Jean Sibelius (compositore finlandese) solo perché la sua musica gli sembra “fluire” (verbo continuamente evocato con un’aura di terrore, nel tentativo di esorcizzarlo, in tutto il romanzo). Ecco un esempio dei contorti ragionamenti che colgono il protagonista mentre valuta se ascoltare la radio alla ricerca di informazioni: “è possibile che NRK Classica trasmetta Sibelius stasera, ma non conta, perché Sibelius non sono dati di fatto sulla Finlandia, Sibelius è acqua, Sibelius è un getto d’acqua ad alta pressione e trasmettere Sibelius equivale a riempire le case e gli appartamenti della gente di acqua […]” e così via, finendo per non accendere la radio.
Naturalmente non nomina nemmeno le decine di migliaia di laghi finlandesi, per non parlare dei porti, dei fiumi, della neve e di qualsiasi cosa abbia anche lontanamente a che fare con l’acqua. Il tutto espresso in un lungo flusso di coscienza di più di duecento pagine senza capitoli, in cui pare di assistere di persona ai periodici attacchi di “idro-panico” che colgono il narratore e che costellano il libro come leitmotiv contrassegnati dalla presenza dell’acqua o del “fluimento”, condizione propria dell’acqua e quindi, per traslato, di chiunque si trovi a subire, suo malgrado, i tanto temuti cambiamenti.


Si tratta di una sorta di incontro con il bøig, l’entità invisibile, informe eppure ostacolante con cui anche l’eroe teatrale norvegese per eccellenza, Peer Gynt (protagonista dell’omonima opera di Henrik Ibsen, nella foto in una realizzazione cinematografica), deve scontrarsi. Si tratta di qualcosa che è dentro ognuno di noi, ma che viene proiettato all’esterno dall’insorgere di situazioni di instabilità, diventando un vero e proprio ostacolo fisico. “Fa’ il giro” dice il bøig a Peer Gynt, ma lui risponde “voglio andar dritto”, non riuscendo naturalmente nel proposito e venendo condannato ad andarsene per cinquant’anni in giro per il mondo, alla ricerca del suo vero io. Non a caso al suo ritorno in patria anche lui, come il narratore di Loe, teme di annegare nel mare in tempesta.
L’efficacia di questo romanzo sta innanzitutto nel fatto che (e il lettore se ne avvede subito, mentre il narratore evidentemente – e funzionalmente – no), sforzandosi di evitare il cambiamento, il protagonista vi si ritrova completamente immerso. In un certo senso, si ostina ad “andar dritto” incontro al suo
bøig.  Cercando di evitarlo, accelera il processo di mutamento che lo condurrà, con l’aiuto (forse un po’ scontato) di una figura femminile, a una nuova e più appagante condizione. Diremmo, con termini psicanalitici passati di moda, che ha superato le sue nevrosi ed è pronto ad aprirsi alla vita, se non fosse che il finale del romanzo rimane aperto a numerose interpretazioni, anche contrastanti. E non fosse che si tratta pur sempre di un romanzo, a cui probabilmente non ha alcun senso applicare categorie troppo “reali”.

Umorismo norvegese, dunque: di un tipo tutto particolare, in cui le situazioni divertenti emergono quasi a sbalzo da situazioni di difficoltà. Uno stile fresco, incalzante e rapido, quasi ansiogeno, per una storia tutto sommato comune a molti, in cui nessuno stenterà troppo a riconoscersi. 

Alessio Venier

13 gennaio 2014

La coerenza dei leader

Cosa accomuna le principali personalità di spicco della politica italiana? Quale filo lega Renzi, Letta, Grillo, Berlusconi e Alfano? Apparentemente questi leader, probabilmente i più popolari  nella penisola (fatta eccezione per il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) non hanno tantissimo a cui spartire tra di loro. Tutti dovrebbero diligentemente contribuire ed impegnarsi attivamente per tirarci fuori dalla stagnante crisi economica e non solo, mettendo da parte le loro legittime e rispettabili ambizioni, costruita ad arte dai loro colleghi a Roma (e a seconda dei casi persino loro stessi)? Magari, ma sfortunatamente non viviamo in un paese governato da una classe politica responsabile ed accorta. No, tutt'altro. A mio parere condividono tutti un destino, quello di avere molteplici vincoli e costrizioni, frutto di altrettanti calcoli e speculazioni.

Fonte: linkiesta.it
Renzi è l'uomo del momento. Sì, ma di questo momento. Ora sbancherebbe le urne, travolgerebbe tutti, centrerebbe il bersaglio più grosso. Ma tra qualche mese? L'elettorato italiano è sempre più stanco, disilluso, disaffezzionato e quindi sempre più volatile, volubile, fluido, inafferrabile. Un giorno ti osanna, il giorno dopo chissà. Puoi essere inizialmente quello nuovo, venuto dal basso, integerrimo e incorruttibile, senza macchie e senza peccati, quello che “lui sì che sa cosa vogliamo, non come quei ladri”, poi, se non gli mostri la bacchetta magica e rimedi alle loro lagnanze, vieni fagocitato dal giustizialismo e assimilato alla casta, quella vecchia, sprecona e, alle volte pure mafiosa. Renzi lo sa. La sua clessidra scorre veloce e la penitenza per ogni sua esitazione potrebbe essere l'associazione alla politica politicante, a chi, come ci tiene (non casualmente) a ribadire è geneticamente diverso da lui. Una sola strada percorribile quindi. Dimostrare che la bacchetta magica ce l'ha per davvero o, come direbbe lui, che bisogna “fare” e non “durare”. Questo nonostante materialmente, non possa “fare” ma piuttosto “spronare” ed “incoraggiare” il presidente del consiglio Letta a “fare”. Inoltre può “minacciare”, “sbraitare” ma non può “sfiduciare” poiché fondamentalmente manderebbe a casa un esecutivo al cui vertice siede un membro del proprio partito. Renzi dovrebbe esercitare, quello che, in gergo politico, viene definito “soft power”, intestandosi i meriti di qualunque riforma che risulti popolare del governo e tentare di smarcarsi da quelle impopolari. Ecco ma quali riforme? Fare cosa? Quello che ha promesso. Mischiando il buon senso e il progetto politico con un pizzico di demagogia e populismo.
Capitolo Letta. Enrico, liberandosi dell'ingombrante e recalcitrante figura del Cavaliere all'interno della maggioranza governativa, si è legato le mani da solo. Ora con chi deve fare compromessi? Con chi può dare sfoggio delle sue qualità democristiane? Con Alfano? Angelino, appena sente parlare di elezioni imminenti, che lo obbligherebbero alternativamente a tornare con la coda delle gambe ad Arcore o a vedere la propria compagine drasticamente (un partito nato tra le mura di Montecitorio con risibile e trascurabile radicamento elettorale) ridotta ad un manipolo di innocui parlamentari, gli viene l'orticaria. Dunque è facilmente ricattabile. Quindi per Letta non è più tempo di compromessi. È tempo di agire, anche perché il sindaco di Firenze scalpita e incalza. Lo si può accontentare, conquistandosi la sua fiducia per sognando una poltrona in un suo futuro governo, oppure lo si può tenere a bada e contrastarlo dall'interno rivitalizzando e ringalluzzendo la strisciante opposizione interna (Giovani Turchi, ex-besaniani, ex-dalemiani, ex-qualcos'altro e compagnia bella). In ogni caso Letta ha bisogno di rinnovato consenso popolare, altrimenti rischia di finire spazzato via dal vento rottamatore.

Fonte: minformo.it
Berlusconi (ah lui le mani legate ce le ha quasi fisicamente) e Grillo stanno fuori dai palazzi-il primo perché vi è stato finalmente bandito mentre il secondo coscientemente, secondo una sua mirata strategia. Fuori da Roma, fuori nelle piazze. Quelle che loro sanno conquistare, arringare, sedurre e manipolare a loro piacimento. Hanno fatto il colpaccio qualche mese fa e presumono di farlo ancora alla prossima tornata. Le europee fanno al caso loro in questo senso. Elezioni in cui si può aggiungere al qualunquismo domestico dei capri espiatori stranieri, i freddi e spietati tecnocrati di Bruxelles, inventori di stratagemmi malefici per impoverirci e sottometterci. Le europee si prestano talmente bene al dispiegamento di queste retoriche prive di contenuti sostanziali ed opportunisticamente euroscettiche, che entrambi vorrebbero alzare la posta, mettendo in palio anche il governo. Si forma così questa strana convergenza tra piazzisti che dovrebbero essere agli antipodi. Convergenza tra “vaffanculo” e “mi consenta”. Convergenza tra chi è sbucato dal nulla e incarna l'antipolitica e chi, sebbene calchi i palcoscenici della politica li da venti anni, con magri risultati, ogni volta si presenta come l'homo novus, venuto dall'imprenditoria, per rinnovare una società oppressa da apparati burocratici e amministrativi retrogradi e opprimenti. Convergenza quindi per andare alle armi subito, per un'altra cavalcata per abbindolare gli astenuti e i delusi. Insomma un'altra campagna elettorale, perché quella sanno fare meglio e quella vogliono. Meglio subito. Anche se l'impressione è che per loro le campagne elettorali non inizino e finiscono mai.
Quindi dati i vincoli e le costrizioni descritte, seguendo una logica razionale, quasi matematica, aristotelica, nel 2014 per qualche mese Letta su pressione di Renzi e consenso di Alfano, in serie approva legge elettorale, riforma del lavoro, superamento del bicameralismo perfetto, qualche diritto civile random e magari strappa qualche concessione sugli ostici ed impervi banchi dell'UE (tutto quello che si dovrebbe fare dal governo Monti, ma estendendo a ritroso l'orizzonte temporale, da vent'anni a questa parte) e poi si va a votare e il fiorentino e i due imbonitori se la giocano di nuovo per formare, per l'ennesima volta, all'insegna di un'instabilità politica da emicrania, un governo.
Tutto facile. Sì ma ci vuole coerenza. Quella che non ha avuto Berlusconi nel sostegno ai governi Monti e Letta. Quella che non ha avuto Grillo fondando un partito su cinque punti e rinunciando a tutti rifiutando la proposta di Pierluigi Bersani di entrare in un esecutivo di Coalizione con il PD. Quella che non ha avuto Letta che da mesi e mesi annuncia una svolta di cui non si percepisce nemmeno l'odore. Quella che non ha avuto Alfano che ha abbandonato il suo “creatore” politico nel suo momento più complicato dopo averlo strenuamente difeso per anni. La coerenza che forse appartiene a Matteo Renzi. La coerenza che la politica dovrebbe riconquistare.
Buon anno.

Valerio Vignoli

12 gennaio 2014

SundayUp: Nuova Grammatica Finlandese - Diego Marani (2000)

Questo è uno di quei libri di cui, francamente, mi stupisco si parli così poco. E visto che scrivo queste righe a fine anno, tradizionale tempo di bilanci, posso spingermi ad affermare che sia il miglior libro che ho letto in questi ultimi dodici mesi. Affermazione pericolosa, lo so, perché a rigore mancano ancora una manciata di ore, che potrebbero farmi scoprire un nuovo capolavoro e ribaltare la classifica a sorpresa. Ma ho buone ragioni per credere che non succederà: questo libro mi si è presentato in modo troppo casuale per credere che fosse solo un caso, se mi si concede il gioco di parole. E, soprattutto, non credo che mi metterò a leggere qualcosa da qui all’anno nuovo.
Venendo al romanzo (naturalmente non è una grammatica!), si tratta di un compunto girare attorno a un colpo di scena che si sa che deve accadere, ma non sappiamo né come, né quando, né dove. Quando infine ce lo troviamo davanti, ci sorprendiamo a pensare “e tu da dove sei sbucato?”, come se avessimo seguito un percorso ad angoli retti girando attorno agli isolati di una città, e ci fossimo imbattuti, all’ultima svolta, in un conoscente. Come spesso accade, il colpo di scena è relativo e non risolve alcunché, perché il proverbiale “succo” del romanzo è situato nel percorso che a quella rivelazione ha portato.

Il protagonista viene ritrovato privo di sensi su un molo di Trieste, nel tempestoso settembre del 1943. Non ricorda nulla, nemmeno come fare ad articolare suoni comprensibili: possiede solo una casacca da marinaio con la scritta “Sampo Karjalainen” e un fazzoletto con le iniziali “S.K.”. Il medico di una nave militare tedesca, un finlandese emigrato in Germania, ritiene (dal nome) che si tratti di un suo connazionale, lo prende in simpatia e gli fa iniziare un’estenuante percorso che lo condurrà a riapprendere da capo la complicatissima lingua finlandese e a ritornare in quella che crede essere la sua patria. In una Finlandia assediata dai Russi, il marinaio ha tempo di riflettere sull’atrocità della sua situazione: privo di memoria, e riuscendo con fatica a comunicare a causa della difficoltà della lingua, si troverà in un assurdo limbo tra i vivi e i morti. Perché, pare accennare l’autore, non c’è molta differenza tra un uomo morto e un uomo sano privato della sua memoria.


Belle, bellissime le riflessioni del protagonista su questioni linguistiche, che aprono insospettabili finestre sulla sua stessa anima: ne è un esempio la sua predilezione, tra i quindici casi della lingua finlandese, per l’abessivo, il caso che traduce il complemento di privazione: dal momento che “in generale sono più le cose che ci mancano di quelle che abbiamo”, “tutte le parole belle di questo mondo andrebbero declinate all’abessivo”. ­­­
La tragica vicenda del marinaio protagonista è un esempio del dramma in cui si può trovare l’uomo che, metaforicamente o realmente, si trovi privato della sua identità, perché questo è un romanzo sull’identità: crisi d’identità, assenza d’identità, creazione dell’identità. Il tutto veicolato, con un’intuizione a mio avviso notevole, dall’elemento linguistico: quanto del nostro essere come siamo dipende dalla lingua che ascoltiamo fin da neonati? E quanto di quello che siamo si può ricostruire, una volta che ogni cosa è scomparsa? Cos’è che rende un uomo se stesso? La domanda è di portata universale e, in quanto tale, senza una risposta univoca. Leggete, meditate, datevi la vostra risposta.

Alessio Venier


7 gennaio 2014

"Scemo chi legge!"

Lunghe code, attese alle casse, spostamenti e ordini per ottenere l'oggetto desiderato: non sto parlando dei saldi che ogni anno sembrano far impazzire una quota della popolazione italiana, ma delle librerie, sì proprio delle librerie, durante le feste. La schizofrenica corsa al “regalo perfetto” porta un considerevole numero di persone ad accorrere tra gli scaffali ma davvero un buon libro da cibo per l'anima è diventato una risorsa accessibile e (mediamente) low cost per risolvere le difficoltà delle ricorrenze speciali?
Fonte: professionearcheologo.it
L'indagine pubblicata in questi giorni dall'Istat sullo stato di salute dell'attitudine alla lettura degli italiani dipinge un quadro ancora più desolante, infatti pare che i libri impacchettati e donati non vengano nemmeno letti, ma diventino parte dell'arredamento o, nel peggiore dei casi, un oggetto inutile che occupa spazio. L'indagine non rivela nulla di nuovo: nel 2013 sono stati 24 milioni gli italiani con più di 5 anni che hanno dichiarato di aver letto almeno un libro per piacere personale e non per motivazioni di studio o professionali. Appena il 43% della popolazione: sei italiani su dieci non hanno letto nemmeno un libro, mentre i “lettori forti” (ovvero coloro che leggono almeno un libro al mese) sono soltanto il 13,9%. Sono le donne ad essere delle lettrici accanite più degli uomini e questa differenza di genere emerge sin dagli 11 anni e si mantiene stabile, così come permangono differenze territoriali significative: nelle regioni settentrionali legge oltre la metà della popolazione di 6 anni e più (50,1% nel Nord-ovest e 51,3% nel Nord-est), mentre nel Sud e nelle Isole la quota di lettori è pari solo ad un terzo del totale.
È lecito chiedersi a chi si possa attribuire la colpa di questa ampia disaffezione alla lettura da parte degli italiani, tuttavia è difficile individuare una responsabilità univoca che deve essere, invece, distribuita a vari livelli: la famiglia, innanzitutto, poiché l'abitudine alla lettura è parte dell'educazione, la lettura va incoraggiata e stimolata sin dalla prima infanzia. Gli editori hanno elaborato una propria classifica di concause che vedono in cima la mancanza di efficaci politiche scolastiche di educazione alla lettura, il basso livello culturale della popolazione, politiche pubbliche in incentivazione all'acquisto di libri inadeguate ed, infine, la scarsa promozione dei libri e della lettura da parte dei media.
«Stiamo vivendo una crisi che ha tre aspetti. Il primo è generale: gli italiani hanno meno soldi in tasca e consumano di meno, compresi i libri, che non sono più un bene anticiclico come lo sono stati fino a ieri», spiega il presidente dell’Associazione italiana editori (AIE) Marco Polillo. «Il che si ripercuote nella crisi delle librerie, della grande distribuzione e delle catene: diminuiscono gli ordini e aumenta la resa degli invenduti. Infine la crisi culturale, la mancanza di propensione alla lettura degli italiani ha un responsabile ben preciso: la politica. Oltre a martoriare la scuola, infatti, non si sono mai fatti seriamente promozione e sviluppo della lettura, e scarsi restano gli investimenti in un settore che, invece, è cruciale per lo sviluppo anche economico del nostro Paese»
Per quanto riguarda la responsabilità “politica” sono stati fatti alcuni passi avanti dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Maria Chiara Carrozza che ha incoraggiato i professori a ridurre il carico di compiti per le vacanze natalizie, proponendo di sostituirli con libri e letture, così come durante il Consiglio dei Ministri dello scorso 13 dicembre all'interno del Decreto legge che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, è stata inserita una misura orientata esplicitamente alla diffusione della lettura. Per favorire una maggiore diffusione della lettura dei libri cartacei è stata riconosciuta una detrazione fiscale del 19% sulle spese sostenute nel corso dell’anno solare per l’acquisto di libri muniti di codice ISBN, per un importo massimo di € 2000, di cui € 1000 per i libri scolastici ed universitari ed € 1000 per tutte le altre pubblicazioni.
Questo tipo di incentivo economico alla lettura senza precedenti tuttavia non è sufficiente. Perché non investire maggiormente sulle biblioteche scolastiche, universitarie e civiche, come suggerisce su Internazionale Annamaria Testa? Oppure perché non incoraggiare e valorizzare realtà virtuose, come quella delle Little Free Library ovvero delle piccole biblioteche sparse nelle città dove chiunque può prendere o lasciare un libro? Questo progetto è nato negli Stati Uniti da un'idea di Todd Bol e Rick Brooks, ma si è sviluppato in rete con associazioni di architetti, festival di letteratura, falegnami, artisti, appassionati lettori. Quello che non ci si aspetta è le piccole librerie libere esistono già in Italia: quattro nella provincia di Milano, due in quella di Roma e una a Trento.
Un'altra esperienza positiva è quella del Libraccio che conta 30 punti vendita in tutta Italia e ha un fatturato di oltre i 60 milioni di Euro, la chiave del successo sta nel mix tra usato e nuovo, prezzi spesso ridotti e un'attenzione particolare alla scuola.
Fonte: lj.libraryjournal.com
Lo sviluppo tecnologico che vede una crescita nel mercato degli ebooks così come il fatto che il più alto tasso di lettori si rilevi tra gli adolescenti forniscono qualche ulteriore segnale di speranza per il futuro non soltanto degli editori, ma anche per la salute stessa del Paese. Le librerie restano e, a mio avviso, devono restare un presidio culturale sul territorio, un monito alla crescita, alla ricerca e allo sviluppo personale ed intellettuale perché la lettura può essere racchiusa nel monito del romanziere francese Gustav Flaubert: “Non leggete come fanno i bambini per divertirvi o,come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere.”

Angela Caporale