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28 novembre 2013

L'accordo di Ginevra: vincitori e sconfitti


La prima intesa raggiunta sul negoziato Iran-5+1 (Russia, USA, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) sulla questione del programma nucleare di Teheran è stata raggiunta. Dopo anni di stallo e di muro contro muro, dovuto alle intransigenze sia dell’una che dell’altra parte, il primo accordo, il quale dovrebbe rappresentare il punto di partenza per incontri più significativi tra le due parti, prevede i seguenti punti chiave:

•alla repubblica islamica è consentito l’arricchimento dell’uranio, purché non si vada oltre un arricchimento del 5%

•l’Iran dovrà eliminare le scorte di uranio arricchito oltre il 5%

•Teheran dovrà garantire l’accesso ai siti nucleari di Natanz e Fordo agli ispettori internazionali, anche quando si svolgeranno controlli a sorpresa

•in virtù di questi impegni, gli Stati Uniti assicureranno la sospensione della sanzioni economiche per sei mesi e forniranno al presidente iraniano Hassan Rohani aiuti tra i 6 e i 7 miliardi di dollari. Inoltre il 5+1 si adopererà a sbloccare dei fondi iraniani congelati in banche estere, e permetterà il commercio di determinati prodotti, come metalli preziosi, produzioni del settore petrolchimico e ricambi per aerei.

La conferenza di Ginevra è stata salutata da molti dei suoi protagonisti come la vittoria della diplomazia e del dialogo, armi che stando alle voci di molti avrebbero impedito, momentaneamente, i progetti dello stato mediorientale di dotarsi dell’arma atomica. Più in generale la cosa sta in questi termini: l’Iran, fiaccata da anni di restrizioni economiche e dalle scelte scellerate in politica estera dell’ex presidente Ahmadinejad, è stato costretto a prendere atto che si doveva operare una svolta radicale sulla questione del nucleare. Svolta favorita anche del riformista Rohani, il quale ha deciso di tendere il ramoscello della pace e riprendere contatti diplomatici con il “diavolo yankee” per risolvere una volta per tutte la contesa. Interessante sarà vedere come questa scelta di Rohani influirà sul suo operato in politica interna: negli ultimi mesi la sua linea moderata è stata molto contestata dai settori più conservatori e intransigenti della repubblica, dai temibili e potenti “guardiani della rivoluzione” ad addirittura la guida suprema del paese, l’Ayatollah Khamenei.



Ancora più interessante sarà vedere come si muoverà Israele nel campo della contesa. Le parole di “Bibi” Netanyahu non lasciano trapelare dubbi: l’accordo con l’Iran è un terribile errore, le rinunce secondo lui sono solo operazioni di facciata e lo stato ebraico farà tutto ciò che riterrà necessario per la sua sicurezza. L'anatema lanciato dal capo di stato israeliano  sull'intesa è un'ulteriore conferma della rilevanza dell'accordo stesso, che, seppur temporaneo, è da interpretare come una svolta nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potenza in medio-oriente. Con tutta probabilità impedire la costruzione di armi atomiche costituirà una della priorità assolute di Gerusalemme. Perciò non bisogna escludere un’escalation della guerra clandestina che da alcuni anni i vertici politico-militari israeliani hanno scatenato contro il programma nucleare dell’Iran. È intuibile che sull’uccisione di molti scienziati iraniani coinvolti nelle operazioni governative ci sia la mano del Mossad e dei suoi agenti segreti. Anche queste ipotesi potrebbero portare ad un notevole raffreddamento dell’asse Israele-Usa.

Il deterioramento dei rapporti con lo storico alleato israeliano (con il quale i legami superano la mera geopolitica e debbono essere rintracciati in questioni identitarie) e al contempo con i sultani Sauditi, potrebbe minare la ricezione a Washington di questo successo inatteso dell'amministrazione Obama in politica estera. I falchi repubblicani e il tea party affilano le unghie per accusare il presidente di porgere l'altra guancia ai terroristi e tradire l'appoggio dei tradizionali partner Americani nella regione. La realtà è che questo sembra in tutto e per tutto configurarsi come un trionfo diplomatico da attribuire completamente al primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti. Un compromesso frutto di 4 anni di contatti segreti e  incontri frequentissimi al riparo dai riflettori. Solamente alla luce di questa intesa si può motivare l'atteggiamento ambiguo e indeciso nella questione siriana. Inoltre l'accordo tende una mano anche a Mosca, cercando di stemperare i recenti dissidi.

Proprio la Russia emerge da questo avvenimento come il vincitore morale della trattativa. Lentamente ma inesorabilmente Putin e il suo diligente ministro degli esteri Lavrov stanno imponendo la loro linea riguardo alla polveriera mediorientale. La Russia si sta muovendo su questi complessi tavoli negoziali con grande acume politico-strategico, costruendo un ponte tra i regimi che supporta finanziariamente e non solo da lungo tempo e l'occidente. A dispetto di Pechino che si muove con circospezione ed è, il più delle volte, interessata agli eventuali profitti commerciali derivanti da queste trattative, Mosca cerca le luci della ribalta e il riconoscimento del proprio status di attore decisivo nello scacchiere internazionale.


Tutti vincitori insomma? Un classico caso di win-win situation? Beh a dirla tutta un perdente c'è: l'Unione Europea. A tal proposito la presenza di Catherine Ashton, alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE, in più o meno tutte le foto di rito è piuttosto fuorviante. L'UE è perdente perché non si è presentata come tale, ma frammentata nei suoi tre attori economicamente e politicamente più prominenti, dimostrando le solite divergenze. Proprio per questa ragione non può che rimanere un attore marginale in un contesto globale sempre più interconnesso e transnazionale. Non c'è da sorprendersi quindi che la Francia tenti di sfuggire a questa marginalità attraverso azioni irresponsabili e prive di senso come l'irrigidimento improvviso nel precedente round di negoziazioni (su cui si dovrebbe stendere davvero un velo pietoso).

Mattia Temporin

Valerio Vignoli

26 novembre 2013

SundayUp - Talk About the Passion, ep. 2 - Elia Billoni e Nick Cave



Non sarà un fanatico, come si difende lui, ma sicuramente io ed Elia Billoni abbiamo passato giorni a scriverci su un artista che è paradossalmente più celebrato che celebre, considerando che comunque è in giro da trent'anni e fa ancora tour mondiali (fra poco a Roma e Bologna). Probabilmente avete sentito parlare di Elia come unico interprete ufficiale di Dino Fumaretto, presso la Famosa Etichetta Trovarobato di Bologna. Oggi però parla per sè e non di sè, ma di lu lé (ho dovuto ricorrere al dialetto per non inficiare la dubbia musicalità della frase): Nick Cave and the Bad Seeds. Buona lettura del lunghissimo, secondo e sempre più lanciato episodio di Talk About the Passion (qui l'ep.1)


Elia, intanto grazie per aver accettato. Come sai, la finalità o per meglio dire la modalità di questa rubrica consiste nel far parlare (più che chiedere) qualcuno di un artista, musicista, interprete, quello che vuoi (vorrei dire performer, ma dopo quella volta che inizia la mia controversa carriera musicale iniziò per colpa di uno mi chiese se volevo fare una "performance” alla festa della scuola, quella parola mi suona sempre un po' strana) che lo tormenti, lo conforti, lo abbracci nel profondo. Deve essere qualcosa di personale, così sincero che vorrei che tu, un giorno, quando la tua pelle sarà grinza e, oltre al resto, anche la memoria farà cilecca, riguardassi quello che andremo a scrivere e dicessi: “ah, ecco perché mi piaceva [x] !"
Prima di tutto, dimmi di chi si tratta e dimmi perché.

Nick Cave mi piace perché raccoglie un po' tutti gli spicchi diversi di altri artisti che mi piacciono: la "malattia" di Neil Young, la caverna più scura di Leonard Cohen, l'incubo dei Doors e dei Velvet Underground, la violenza, la dolcezza, l'angoscia, l'invenzione mitica, il tutto espresso con un'intensità senza pari, a mio avviso, in Nick Cave. O meglio, in Nick Cave and The Bad Seeds, poiché - specie quelli di Mick Harvey - costruiscono scenografie musicali romantiche o apocalittiche non cadendo quasi mai nella retorica didascalica. Insomma un grandissimo songwriter e una grandissima band.
Questo in sintesi. (questa è l'ultima volta che vedrete qualcosa in sintesi in questo articolo, ndr)
Dino Fumaretto


Anche se va leggermente contro lo spirito di Talk about eccetera, hai scelto un artista che sollazza molto e bene anche il sottoscritto, perciò non potrò fare a meno di inserire, nelle domande, anche alcune mie considerazioni. Prima di tutto, vorrei che mi facessi qualche esempio tramite dei brani di che cosa intendi per malattia di Young e caverna oscura di Cohen (sull'incubo dei Doors e dei VU penso che ci capiamo tutti) e di come Cave abbia fatto meglio – o abbia fatto simile-ma-a-modo-suo. Poi, so che hai una teoria cronologica attraverso la quale dividi la ventennale discografia dei Bad Seeds che, sono d'accordo, potrebbero vantarsi di essere la migliore band di supporto al mondo, forse giocandosela con E-Street Band (sbaglierò io, ma dio mi fulmini se ho mai volontariamente ascoltato qualcosa di Springsteen, quindi parlo per sentito dire) e i Planet Funk (nah, scherzo), considerando anche che non è facile individuare delle band di supporto con una identità propria, anche se cangiante durante gli anni, rispetto al suo solista, eppure così uniti e inseparabili. 

Il Neil Young "malato" è quello degli album "On the beach" e di "Tonight's the night" (i suoi vertici), in cui emerge tutta la sua paranoia, il suo blues bianco lamentoso. Proprio in riferimento a Tonight's the night, la canzone, c'è un grado altissimo di dolore che sfocia nel grottesco che mi ricorda il primo album di Nick Cave.
Lì Young canta più "maleducato" che mai, la voce è sempre sul punto di rompersi e anche l'anima sta per collassare. Proprio come in From her to eternity di Nick Cave. Inoltre non è un caso che il brano più intenso dell'ultimo disco di Cave (mi riferisco a Higgs Boson Blues) sia proprio quello che fa il verso a "On the beach" (la canzone).

Invece per quanto riguarda Cohen, credo sia evidente il suo lato oscuro in canzoni come "Avalanche", che sempre il Cave di From her to eternity canta rantolando e deragliando, evidenziandone la componente apocalittica.
Diciamo che in generale Nick Cave ha fatto emergere al massimo le tensioni che spesso sono sottotraccia oppure solo episodiche in altri musicisti.
Nick Cave è per me una sorta di unione dei lati oscuri di tutti. Ma il risultato - e questo è il bello - non è un annichilimento totale come i Joy Division, ma è anzi un vulcano, la disperazione è costantemente accompagnata dalla vitalità, per questo uso spesso la parola "intensità" riferita a lui. Perché me ne vengono in mente molto pochi così intensi, così esplosivi e al tempo stesso sfumati.

I Bad Seeds hanno continuamente cambiato elementi, ma diciamo che i due pilastri della prima fase sono essenzialmente due: Mick Harvey e Blixa Bargeld. Bargeld è molto meno coinvolto e suona male la chitarra, ma proprio questa sua "estraneità" regala guizzi inaspettati e idee che contribuiscono a rendere singolare il sound. Mick Harvey è invece il polistrumentista, quello che costruisce il vero scenario del mondo immaginario di Cave. Il genio di Mick Harvey si può sentire specialmente nell'album Your funeral my trial, dove ha praticamente fatto lui tutti gli arrangiamenti, disseminando il disco di "suonini" e "suonacci" visionari, raffinati e grezzi allo stesso tempo (si ascolti The Carny). 
Per sintetizzare, i Bad Seeds sperimentali di Harvey, arrivano fino a The Good Son, poi si apre un'altra fase, con qualche picco, ma molto diversa. Nel frattempo Nick Cave è anche diventato un grande cantante pieno di sfumature, pur mai diventando "leccato", mantenendo però la sua vocalità particolare.

Certo, Harvey, Bargeld e Warren Ellis sono sicuramente tre pezzi da novanta e farli convivere (e/o sostituire l'uno all'altro) senza calare in qualità è qualcosa di eccezionale, secondo me. Vorrei però che tu entrassi più all'interno del discorso, ad es.: che ne pensi di Push the Sky Away? Dopo il grande tema degli ultimi album (Abattoir Blues / Dig Lazarus Dig !!! / i Grinderman / ci metto anche Bunny Munro) che secondo me era quello esemplificato magistralmente in Abattoir Blues (il pezzo) e More news from nowhere, cioè insomma quello dell'uomo contemporaneo come stanco naufrago in un mondo col quale ha poco da spartire e del quale, in ogni caso, non riconosce il senso, se non nella sua brutalità; dopo questo dicevo, la svolta di Push the sky away mi sembra più eterea, visionaria e introversa.. se non fosse che le frasi sono di senso compiuto mi parrebbe di stare leggendo testi di certi periodi di Michael Stipe
. Che ne pensi?
Support shilipoti.blogspot.it (la copertina è quella di Push the sky away)


Inoltre, so che l'ultima fase da Good Son in poi la definisci "manierista" e sono d'accordo, ma non trovi che ultimamente, tipo in Higgs Boson Blues, Cave stia diventando anche piuttosto didascalico? cioè, citare Robert Johnson with a 10-dollar guitar, Lucifero, Miley Cyrus e così via, non ti sembra un po' misero rispetto all'immaginario, che so, di Time Jesum Traseuntum, ma anche della stessa More News From Nowhere ? 

Push the sky away mi ha quasi entusiasmato quando è uscito, ma poi la passione è scesa. Credo sia un disco con un buon grado d'ispirazione che secondo me doveva essere maggiormente particolarizzato, e invece alla fine risulta un po' piatto, pur con vari momenti toccanti. Con tutto il rispetto per Warren Ellis, manca qui proprio uno come Mick Harvey che scombini un po' le carte. Invece ho l'impressione che, con Ellis, Cave si sia ultimamente accomodato su qualche ideuzza che piace ad entrambi, costruendo un rock-blues di classe o un cantautorato post-Dirty Three sofisticato lievemente cupo (e un po' monotono) a seconda dei casi. Quindi la svolta, come dici tu, in realtà è mancata, anche se Push the sky away conserva comunque un fascino strano e inafferrabile. Forse proprio perché è un capolavoro mancato.
E per quanto riguarda i testi sono d'accordo con te: il testo di Higgs Boson Blues se lo leggo così pare più furbo che delirante. Non mi entusiasmano nemmeno i testi dei pezzi che mi citi, non li trovo meno manieristi. Trovo però interessante la tua sintesi tematica degli album precedenti, quella dell'uomo contemporaneo come stanco naufrago eccetera, tuttavia non dimentichiamoci che questi sono album di musica, e dal mio punto di vista in questi album la musica non è sufficientemente interessante. Il testo di The Carny, per dire, secondo me non è che sia questo gran testo, ma è un grandissimo pezzo, stupefacente, che può anche suscitare repulsione. Ma a me piace quella roba lì, del blues e del folk di per sé non me ne frega quasi nulla, a me piacciono le storture, i depistamenti. 


Poi - e finisco - dopo The Good Son c'è, com'è naturale che sia, un po' di manierismo, ma c'è ancora grande ispirazione; fino a No More Shall We Part ritengo che i livelli siano stati molto alti, con episodi sorprendenti.


Bargeld, nonloso, Sclavunos, Cave, Casey, Savage, Harvey, Sclavunos di nuovo, Ellis senza barba.


Ora, Elia, vorrei sapere dove sei nato, dove sei cresciuto e in che modo hai cominciato ad ascoltare Nick Cave durante la tua giovinezza / adolescenza / infanzia (spero di no) ti ha portato, insieme a tutto quell'insieme di reti causali che completano un mosaico di casualità che i filosofi chiamano 'sorte costitutiva', ad essere quello che sei oggi. E non parlo del tuo stile o carriera musicale, anche se indubbiamente avrà influito anche quello. Questo tuo tipo di ascolti suscitava l'ammirazione o la ripugnanza dei membri dell'altro sesso che per motivi diversi e non so in che ordine ti interessava interessare? Ascolti Nick Cave quanto spesso? In che situazioni?

Sono nato a Mantova e cresciuto in provincia. 
Nick Cave l'ho scoperto a 15 anni con Murder Ballads, il suo maggior successo commerciale, tramite MTV (il video di Where the wild roses grow, con Kylie Minogue [dove Cave sfoggia la sua peggiore mimica di sempre, e fidatevi che nella vita ne ha sfoggiate tante, ndr]), e mi colpì subito: mi sembrò un Leonard Cohen cimiteriale. Mi ricordo che un vj, presentando la classifica, nominando Nick Cave lo prese in giro facendo finta di addormentarsi, per dire come l'australiano fosse comunque un pesce fuor d'acqua; il vj mi pare fosse Silvestrin
Comprai Murder Ballads, che ha una prima parte straordinaria (sarebbe stato un capolavoro di Ep se si fosse fermato alle prime 5 canzoni). Poi arrivai al resto. Rimasi disturbato e affascinato dai primi tre dischi, fino a Tender Prey. Rimasi invece un po' deluso da The Good Son, pensa un po': lo trovavo troppo morbido (invece poi l'ho amato). E il mio disco preferito fu - ed è rimasto - Your Funeral my trial.
Approfondii i testi, mi comprai i libri con le traduzioni perché non sapevo e non so l'inglese.
Ho avuto una fase in cui scrivevo poesie facendo il verso a Cave, ma facevano veramente schifo. Però non è che fossi così fissato come può sembrare, ascoltavo anche altro, e di molto diverso, Nick Cave mica lo ascoltavo sempre, lo abbandonavo per vario tempo, poi ci ritornavo. Non ero fissato.
Ma ci sono sempre ritornato. Difficile dire quanto abbia influito, non saprei proprio dirlo. 
La domanda sull'altro sesso mi fa sorridere. Guarda, ti dico solo che Nick Cave piace alle donne. Ma davvero, non è direttamente collegato ai miei rapporti interpersonali.
Quando e quanto ascolto Nick Cave... in realtà ho già risposto: di tanto in tanto, ritorna. Poi dipende anche QUALE Nick Cave. Adesso sto in una fase "sperimentale", perciò ascolto il Nick Cave degli anni 80. Tra le altre cose. Non sono un fanatico.

Ora ti parlo un attimo di me. La prima volta che ho visto Nick Cave sapendo di vederlo è stato a 15 anni circa, quando vidi un paio di volte in tivù, quando ancora esisteva il canale Brand:New sul satellite, il video di Nature Boy, un pezzo tutto sommato innocuo ma sicuramente catchy e ben fatto. Poi, un paio d'anni dopo, a scuola ho visto il Cielo sopra Berlino dove Cave appare con la sua band. Tutto il film mi prese e colpì, a quell'età è impossibile il contrario, ma insomma Nick Cave coi Bad Seeds che suona From Her to Eternity, completamente consustanziale all'atmosfera wendersiana, insomma, non puoi rimanere indifferente. Mi ricordo che spiegai a una mia compagna l'etimologia di "shoegazers", mentre passavano quelle scene e l'altra del club. Pensandoci, a me quello che, a conti fatti, trascina di più dei suoi testi è quando è disperato. Gli immaginari satanici, malati e biblici mi prendono solo secondariamente, tipo Mercy Seat o Deanna. Per questo trovo veramente commoventi certi episodi come The Good Son (tutto l'album), The Train Song, What Can I Give You?, Oh My Lord o anche Papa won't leave you Henry. Forse - e arrivo al punto - conosci il testo di quella lezione che Nick Cave tenne nel 1999 su La canzone d'amore: lì, fra le altre cose, indica come centrale il sentimento del duende, cioè la saudade per capirci, qualcosa che io intendo come malinconia splendida. Ecco, per me Nick Cave è essenzialmente questo, è questo che lo rende un grande. Ne convieni? Per te è lo stesso? Ovviamente, io intendo la saudade come un prodotto inscindibile di musica e testi. E se dovessi far iniziare qualcuno ad ascoltarlo, con cosa lo faresti cominciare? E, mi interessa molto, come lo interesseresti alla faccenda?

Condivido tutto quello che dici (anche se il testo di The mercy seat è magistrale, che si apre a più interpretazioni). Non avevo mai pensato al duende associato a Nick Cave, e trovo sia un'associazione calzante. 
Nick Cave è sempre tra la vita e la morte, anche (specialmente) nelle canzoni d'amore, ma questo fuoco lo sa elaborare con saggezza, come si legge nell'illuminante testo che citi: molti cantautori neoromantici che giocano con le minuzie dovrebbero imparare da Nick Cave come si scrive una canzone d'amore, imparare a scottarsi davvero e non a rifugiarsi in una finta ironia. Ma se lo fai e se non sei Nick Cave il rischio è naturalmente di risultare patetico.
Tra gli esempi che citi io ci aggiungerei anche l'album The Boatman's Call, che magari musicalmente è meno avvincente, ma racchiude alcune delle più belle canzoni d'amore di Nick Cave, Far From Me su tutte (e mi pare che in quella lezione Cave parlasse proprio della costruzione di questa canzone, che è stata scritta all'inizio, durante e alla fine di un rapporto, cioè la canzone ha seguito la relazione dal principio alla fine, eppure già nei versi si anticipavano le ombre future, la catastrofe).
Si, malinconia splendida, l'hai detto tu e io non saprei aggiungere altro di meglio.

Billoni/Fumaretto che suona davanti a donne nude
Ora, ogni volta che mi sono trovato a consigliare a qualcuno un album di Nick Cave mi sono sempre poi successivamente pentito della mia indicazione, perché ognuno è diverso e ha corde sensibili diverse. 
Mi è capitato di consigliare Let Love In perché - pensavo - per iniziare è meno faticoso, ha delle canzoni belle ma classiche. E naturalmente in quel caso sbagliai perchè il mio interlocutore era molto più interessato a particolarità evidenti, e così con quel disco si fece l'idea parziale di Cave classic rock. Per ragioni simili un'altra volta ho consigliato Henry's dream, e il mio interlocutore si è fatto l'idea di Nick Cave come un rocker texano, un'altra volta ho consigliato The Good Son e il mio interlocutore rimase deluso trovandolo simile a Frank Sinatra. Ora che ci penso però costoro avevano qualche problema. 
Diciamo che ora come ora consiglierei semplicemente quello che sta a cuore a me, senza preoccuparmi se sia più o meno adatto come introduzione a Cave.
Quindi consiglierei Your funeral, my trial e come va va. E non gli (o le) direi proprio niente, consiglierei solo d'ascoltarlo in comodità, senza fare altro, con calma tutto d'un fiato.

L'aneddoto sui consigli fa molto ridere, ma è indicativo di come un grande per restare tale debba cambiare negli anni (insomma, NON come gli Editors per capirci).  Ci lasciamo con questa: hai mai fatto, sul palco, una cover di Nick? Se sì, quale? Se no, quale vorresti fare? Pensaci attentamente e spiegami perché faresti/hai fatto proprio quella.

No, mai fatto cover di Cave, e credo che mai lo farò, anche perché la mia pronuncia inglese è imbarazzante. Ma se proprio dovessi scegliere di farne una, ne farei due: From her to eternity e Far from me. Sono gli apici della disperazione personale di Cave ma con approcci opposti: la prima è il tormento primordiale, un essere sul punto di esplodere; la seconda è dopo l'esplosione, dopo tanto tempo, con più disincanto ma eguale intensità.
Sono due lati che mi toccano con la medesima forza.
Non so ancora scegliere, e probabilmente non voglio.

Filippo Batisti

a titolo esemplificativo, un pezzo piuttosto inquietante e narrativo un po' alla Cave (questa considerazione è mia, non sua) di Dino Fumaretto interpretato da Elia Billoni: 



25 novembre 2013

Story telling all'americana: quando un racconto conquista la Città

Un capitolo della storia di New York City si è chiuso lo scorso 5 novembre, ma c’è un nuovo racconto che il neo eletto sindaco Bill De Blasio ha da tempo iniziato a comporre.

NEW YORK - “In so many ways, New York has become a Tale of Two Cities: con queste parole Bill De Blasio annunciava la sua candidatura all’inizio del 2013, presentando ai newyorkesi il suo impegno per una città che fosse nuovamente di tutti.

Di ritorno da un’esperienza di tre mesi come volontaria nel Field Organizing Team dei New Yorkers for De Blasio, dopo aver condiviso una piccola parte della fatica, e poi della soddisfazione, di una campagna elettorale vincente, mi chiedo quali elementi si trovino racchiusi in quel “tale of two cities” e in che maniera essi abbiano contribuito alla costruzione di una strategia comunicativa impeccabile. E la risposta può essere identificata in tre parole chiave che raccontano una missione, molto più che una semplice campagna elettorale.

Come insegnano i libri di comunicazione politica, e come dimostrano le esperienze di tante campagne elettorali ben riuscite, è la realtà il miglior punto di partenza per la costruzione di una buona strategia e di messaggi concreti ed efficaci. Conoscere il contesto del territorio in cui la campagna si inserisce può sembrare scontato e persino banale agli occhi di chi si propone per governare una città, ma il caso di New York dimostra che un’analisi profonda e accorta della situazione locale costituisce il primo e il più grande passo verso la vittoria.
L’approccio del team De Blasio si è dimostrato attento in primo luogo proprio alla conoscenza dei sentimenti e dei bisogni degli elettori, identificando i vuoti lasciati dalle amministrazioni precedenti come gli spazi da riempire per raggiungere quei gruppi di cittadini rimasti a lungo inascoltati.
Grazie al coinvolgimento della sondaggista Anna Greenberg, vice presidente dell’istituto Greenberg Quinlan Rosner Research, lo studio dell’opinione pubblica newyorkese condotto tramite sondaggi interni ha permesso di definire un messaggio incentrato sull’idea che la città meritasse finalmente un sindaco capace di unire e portare fuori dalla crisi tutti quanti, ma soprattutto quella metà– che costituisce in realtà una maggioranza della popolazione – finora lasciata in disparte a beneficio dei ricchi inquilini dei palazzi con portiere.
Nel codificare un messaggio di cambiamento e progresso per tutti, De Blasio avrebbe potuto commettere tuttavia il facile errore di opporsi nettamente e totalmente al passato, andando a sovrapporre proposte politiche a questioni già affrontate e finendo per rinnegare o ignorare quanto di buono era già stato fatto.
 Se sicurezza, lotta al crimine, efficienza e contabilità amministrativa sono stati gli ambiti di massimo interesse per Giuliani così come per Bloomberg, De Blasio ha scelto di concentrarsi invece sulle questioni care alla classe media, ai neri e ai latino-americani, e a quella grande parte della popolazione che soffre gli effetti della crisi scoprendosi sempre più povera.
Al contrario, il suo avversario Joe Lhota si è dimostrato eccessivamente attento alle issues di tradizionale dominio repubblicano, come la sicurezza, dando prova di una conoscenza solo superficiale dei sentimenti e dei bisogni dei cittadini. Ne offre una prova uno spot diffuso poche settimane prima del voto, che ha scatenato non poche polemiche e ha finito per allargare ulteriormente il margine di vantaggio di Bill De Blasio.
Proponendo alcune immagini di violenza e disordini urbani, lo spot intendeva mostrare che l’elezione di un sindaco democratico avrebbe riportato la città in un clima di pericolo e insicurezza, lo stesso che si respirava  negli anni precedenti le due amministrazioni repubblicane. Oltre alla polemica sorta a causa delle presunte irregolarità nelle pratiche di assunzione e diffusione delle immagini - per alcune delle quali non sono stati corrisposti i diritti d’autore dovuti - lo spot si è dimostrato scarsamente efficace perché attaccava le posizioni dell’avversario su un tema considerato non più problematico dall’opinione pubblica, molto più preoccupata delle questioni economico-sociali e piuttosto critica su alcune misure adottate a garanzia della sicurezza, come il cosiddetto “stop and frisk”.

La conoscenza profonda delle priorità degli elettori da parte del Team De Blasio si è dimostrata essenziale al fine di costruire non solo una comunicazione ben assestata ed efficace,  ma anche un’agenda politica coerente e capace di restare in primo piano durante la campagna elettorale. Quello che in termini tecnici viene definito “effetto agenda setting” si è manifestato concretamente nella posizione di dominio occupata sia nel racconto proposto dai media, sia nel confronto diretto con l’avversario.  Ed ecco un secondo punto di forza racchiuso nel tema della campagna elettorale di Bill De Blasio, che emerge evidente nel confronto con il suo rivale. Con un programma politico incentrato su proposte quali l’aumento delle tasse sui grandi patrimoni per finanziare corsi pre-scolastici universali e la revisione della pratica di “stop and frisk”, De Blasio ha saputo attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media, alimentando il dibattito ed enfatizzando la debolezza programmatica e comunicativa dell’avversario. Già in difetto di popolarità e notorietà dai tempi delle primarie, Lhota è stato dunque caratterizzato “in negativo”: se De Blasio ha proposto i figli Dante e Chiara come protagonisti dei suoi spot elettorali per raccontare un impegno verso bambini e famiglie, Lotha ha presentato scenari drammatici come conseguenze dell’elezione dell’avversario. De Blasio ha costruito i propri messaggi intorno all’idea di un cambiamento propositivo, in una visione “progressive” della città, mentre Lotha si è mostrato spesso rivolto al passato e orientato su posizioni ormai superate. Pur correndo il rischio di allontanare da sé gli elettori più ricchi e privilegiati, De Blasio ha proposto una linea di netta discontinuità con alcune delle misure adottate dall’amministrazione Bloomberg in termini di urbanistica e abitazioni; costretto alla critica serrata, Lotha ha perso più volte l’occasione di costruire un’opposizione propositiva, preferendo rassicurare quella piccola porzione di cittadini preoccupati di perdere benefici e vantaggi.

L’idea di unità e opportunità per tutti, centrale nel “racconto delle due città”, è stato declinato infine in un continuo stimolo alla partecipazione e al coinvolgimento dei newyorkesi, resi protagonisti di uno sforzo comune verso il cambiamento. Attraverso la costruzione di una efficace rete di contatto tra i vertici del Team De Blasio, i coordinatori delle attività sul territorio  e i sostenitori, sempre più elettori sono stati attratti dentro il sistema della campagna elettorale diventando a loro volta un punto strategico della struttura organizzativa. Se le operazioni sul territorio, principalmente porta a porta e telefonate dirette agli elettori, rivestono un’importanza cruciale nella tradizione americana, ancora maggiore è la rilevanza che il contatto diretto con i cittadini assume in una elezione locale, in un contesto variegato e fluido come quello di New York e in un’epoca di generale disinteresse verso la politica e sfiducia verso la classe dirigente. Per un candidato che ha fatto della necessità di ritrovare unità e uguaglianza il tema centrale della sua campagna elettorale, inoltre, la possibilità di raggiungere direttamente il maggior numero di elettori possibile non rappresenta solo un bisogno strategico, quanto piuttosto un impegno volto ad accompagnare con i fatti un messaggio già tradotto in parole e proposte politiche.
La capacità di coinvolgere migliaia di volontari è stata fondamentale infatti per innescare un circolo virtuoso per cui le attività pianificate sul territorio, finalizzate al contatto con i cittadini, permettessero di raggiungere elettori particolarmente entusiasti e disposti ad offrire il proprio tempo per suonare campanelli o comporre numeri telefonici a loro volta, aumentando così progressivamente le possibilità di identificare nuovi potenziali volontari. Parallelamente, i messaggi trasmessi attraverso e-mail e profili ufficiali sui social network stimolavano ed enfatizzavano il contributo dei volontari, coinvolgendone di nuovi e motivando quelli già impegnati, e offrivano al tempo stesso informazioni tecniche e testimonianze fotografiche sulle attività in corso.
Pensando ai diecimila volontari coinvolti nelle operazioni di Get Out The Vote, concentrate negli ultimi cinque giorni prima del voto e finalizzate a portare quanti più elettori possibile alle urne, è possibile allora comprendere come il successo del messaggio proposto da Bill De Blasio non sarebbe stato possibile se ad un’analisi profonda della realtà e ad un programma politico efficace e coerente con il contesto non si fosse affiancata la creazione di una rete sempre più fitta di volontari e sostenitori, mossi dalla volontà di essere parte attiva di un grande movimento verso il cambiamento e di essere loro stessi co-autori di un nuovo racconto, scritto questa volta per tutti.

Due settimane dopo la sua elezione a sindaco di New York, Bill De Blasio si prepara ad assumere la guida della città con il sostegno di una larga maggioranza suoi abitanti ed un carico di aspettative direttamente proporzionale al successo ottenuto lo scorso 5 novembre. Ma come ha ricordato nel suo discorso di ringraziamento alla chiusura dei seggi, non ci sono problemi che una città unita non sappia affrontare.

“The people of our city come from so many different places, with so many different stories. By our nature, we are clear eyed and realistic. Yet we stand united – united by a shared hope, a shared optimism, a shared faith that there’s no problem bigger than our city, no adversity more powerful than the might of our collective ideas and action.”

Lucrezia Lattanzi


24 novembre 2013

TheSundayUp - Piergiorgio Odifreddi, "Come stanno le cose - Il mio Lucrezio, la mia Venere"

Quale mai poteva essere l’opera della classicità capace di destare l’interesse di un matematico? Al di là dei fondamentali e apprezzabili ma – diciamolo – poco artistici Elementi di Euclide, la scelta è quasi obbligata: il De rerum natura di Lucrezio. Non per la matematica in sé (infatti non ne contiene, almeno non in senso stretto), ma sicuramente per la presenza di un metodo di indagine naturalistica che è molto vicino a quello, caro agli scienziati, di Galileo. 
Lucrezio il razionalista, colui che rifiuta le facili superstizioni della religio (giova ricordarlo, la parola viene dal verbo religo, cioè, come ancora nell’italiano “relegare”, “re-imprigionare”) per dedicarsi alla contemplazione ammirata delle meraviglie della Natura. Il poema di Lucrezio è un capolavoro, unico nel suo genere e nella sua capacità straordinaria di presentare contenuti scientifici in una forma artistica di un livello assolutamente strabiliante. I versi di Lucrezio hanno una musicalità rara, sono così solenni in alcuni punti e così leggeri in altri da far sospettare che non siano nemmeno opera dello stesso autore. Ma non addentriamoci in questioni di filologia.

L’opera in sé vuole essere una summa delle conoscenze dell’epoca, indagate e presentate sotto l’onnipresente comun denominatore della ragione. È in ogni caso sorprendente (e sarebbe scorretto non ammetterlo) che molte delle conclusioni a cui Lucrezio (con gli Epicurei) è arrivato con la sola forza della mente sarebbero state raggiunte soltanto molti secoli dopo, e solo dopo complesse conferme strumentali. Basti citare uno dei pilastri della fisica lucreziana: l’atomismo. Si potrebbe obiettare che “del senno di poi son piene le fosse”, e che ora che l’atomismo è stato confermato dalla fisica ci vuol poco a esaltare Lucrezio. Eppure resta quel fascino della scoperta, quell’incessante ricerca tutta puramente mentale, che – per caso o per necessità – ha condotto a una conclusione verificata.


odifreddi lucrezio

In questo universo scientifico, Odifreddi presenta una sua apprezzabile traduzione (molto libera), che ha svariati pregi: innanzitutto non pretende di essere una versione fedele; in secondo luogo il lessico scientifico lucreziano (impreciso, agli occhi di noi moderni) è stato aggiornato portandolo avanti di duemila anni e rendendolo comprensibile senza bisogno di note a piè di pagina. Ne è un esempio l’uso di vocaboli come “geni”, “alleli”, “sistema nervoso”, che certamente non sono presenti nell’originale se non come suggerimento di un’idea che, confermata dalle scoperte moderne, può essere ora resa con un termine preciso.
Il libro presenta una singolare veste che potremmo definire “scolastica”: sulle facciate a destra è presente la libera traduzione, mentre in quelle a sinistra trovano spazio interessanti finestre di approfondimento sui temi enunciati da Lucrezio nei versi corrispondenti. Notevole la scelta delle numerosissime immagini di appoggio al testo: mai didascaliche, sempre pertinenti. Nel complesso il testo risulta abbastanza obiettivo, se si escludono alcuni episodi di ostentato e – diciamolo – un po’ presuntuoso ateismo che si riflette però su aspetti che niente hanno a che fare con la religione in senso stretto (ad esempio l’ostinazione nell’evitare la formula “avanti Cristo”, per cui Lucrezio risulta nato “attorno all’anno -50”, artificio che provoca notevole confusione nel lettore, costretto suo malgrado a dare un significato a quel valore numerico confrontandolo con il “50 avanti Cristo” che Odifreddi tanto si è sforzato di evitare).

Ho scritto prima che questa edizione è “scolastica”, perché pare che la segreta speranza (condivisibile) di Odifreddi sia che il libro venga utilizzato, appunto, nelle scuole, come manuale non tanto di scienza quanto di metodo: non è tanto importante il contenuto quanto il modo in cui esso viene organizzato. Questo, pare dire Odifreddi, dovrebbe fare un sistema scolastico degno di questo nome. Il suo De rerum natura si presenta dunque come un utilissimo trattato sul metodo e sul potere della ragione umana, un trattato utilissimo come strumento didattico di scoperta di un mondo intellettuale non poi così lontano dal nostro, presentato in una veste esteticamente valida e accattivante. È un peccato che Lucrezio, in generale, sia trattato superficialmente nelle scuole medie superiori (non voglio pensare, come forse sembra suggerire Odifreddi, che questo sia dovuto a una formazione di stampo cattolico dei docenti, che tenderebbero ad escludere o a sminuire ogni autore tacciato, a torto o a ragione, di ateismo): ebbene, ecco una buona occasione per recuperarlo! Il testo di Odifreddi si presta senz’altro a una lettura anche da parte di un pubblico giovane, grazie appunto alla sua forma invitante e intelligente. Una buona occasione per rivalutare l’intero mondo classico: non più un’epoca cieca e senza razionalità, ma anzi, il terreno fertile su cui si svilupperà, seppur con quindici secoli di oblio, la scienza moderna.

Alessio Venier

20 novembre 2013

Dentro la crisi: C'era una volta l'inarrestabile Nord Est

La Crisi pare essere arrivata anche nel Nord Est. Nemmeno il tanto elogiato “cuore produttivo” del paese riesce a uscire indenne dalla congiuntura economica negativa che l’Italia, così come altre zone dell’Europa, sta vivendo da qualche anno a questa parte. Tali problemi, che si sono presentati con effetto ritardato poiché fino al 2012 le grandi imprese del territorio non avevano dato segnali allarmanti, si mostrano ora in tutta la loro forza distruttrice.

Il momento in cui ciò accade non è poco significativo: proprio quando il Governo comincia a parlare di ripresa economica accelerata per il 2014 -in parte smentito da Ocse, Istat e Commissione Europea che sembrano meno ottimisti in proposito- la crisi irrompe in settori e territori che fino ad ora erano riusciti a resistervi. Oggi si teme per la chiusura di Ideal Standard e per il disimpegno nel nostro paese della svedese Electrolux. Entrambe aziende di grandi dimensioni, la prima è presente in Italia con tre stabilimenti, Orcenico in Friuli Venezia Giulia, Trichiana in Veneto e Roccasecca nel Lazio, mentre Electrolux è attiva, con diversi settori produttivi,  in Friuli, Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.

Sui tagli e sulle minacce di spostamento della produzione nell’Europa dell’Est da parte di Electrolux si sono accesi i maggiori timori e sollevate le più forti proteste. Le contestazioni hanno preso il via dallo stabilimento di Porcia (nel pordenonese) che conta 1.200 addetti e per il quale sono già stati previsti tagli per circa 200 impiegati, nonché possibili ulteriori riduzioni e trasferimenti di produzione. Alle prime iniziative di sciopero da parte di lavoratori e sindacati si sono uniti i sindaci e amministratori locali del Friuli occidentale, pronti a impegnarsi affinché la voce del territorio arrivi fino a Roma, nel tentativo di far comprendere al governo la gravità della situazione e la necessità di affrontarla con gli strumenti appropriati. Ciò nella consapevolezza che quello friulano difficilmente sarà un caso isolato poiché, come ricorda l’ex direttore generale di Electrolux Ing. Luigi Campello, “rappresenta l’epilogo di una crisi strutturale iniziata un decennio fa’ e che riguarda l’intero sistema manifatturiero italiano”.
Fonte: messaggeroveneto.gelocal.it
Proprio per manifestare le preoccupazioni in proposito, lo scorso venerdì 15 novembre è stato indetto uno sciopero generale di otto ore, proclamato da Cgil, Cisl e Uil, volto a richiedere una modifica radicale all’interno della legge di stabilità presentata dal governo Letta, in particolare per quanto riguarda la diminuzione della tassazione su lavoratori e pensionati e la necessità di maggiore efficienza per la spesa pubblica. Per approfondire ragioni, obiettivi e limiti della protesta, abbiamo intervistato Maurizio Marcon, segretario provinciale della FIOM-Cgil, in prima linea nell'organizzazione e nel coordinamento del dissenso nel pordenonese.

Lo sciopero generale del 15 novembre ha visto la partecipazione di oltre 10.000 persone. Qual è il vostro commento su questo importante risultato?

Fonte: ilgazzettino.it
È stata una manifestazione storica che non si svolgeva con queste dimensioni dagli anni Settanta. Ha reso l’idea della gravità della situazione, poichè è in gioco la coesione sociale nel nostro territorio.
Tuttavia, non va confusa l’adesione agli scioperi e alle manifestazioni, che sono comunque importanti, con i risultati che vogliamo conseguire: far ritirare alla Multinazionale le decisioni assunte fin qui; strappare un accordo di programma, con la partecipazione del Governo, che garantisca il futuro degli stabilimenti Italiani.

La manifestazione ha attirato l'attenzione dei media anche nazionali. Il vostro obiettivo era proprio questo, cioè coinvolgere l'intero Paese su questa problematica oppure inseguite altre mete?

Credo che la questione dell’Electrolux, e più in generale la questione del settore manifatturiero italiano, non siano ancora nell’agenda dei media nazionali. Questi ultimi affrontano le questioni, a mio modesto parere, come argomenti scoop che valgono un titolo o qualche minuto di trasmissione per poi tornare subito a discutere del teatrino della politica, disattendendo così le aspettative di milioni di cittadini che si vedono cancellato il futuro.
Confermo che il nostro obiettivo è di far diventare il problema dell’apparato produttivo, il Problema.

Quali risultati avete già ottenuto con il vostro operato?

Fonte: presidente.regione.fvg.it
E’ possibile affermare che i politici locali, a partire dalla grande adesione dei sindaci e del Presidente della Provincia alle nostre iniziative, a cui si unisce la presa di posizione della giunta regionale (con la Presidente Serracchiani in testa), sono consapevoli dell’importanza di questa vicenda e penso siano disponibili a rappresentarla fino in fondo assieme a noi. 
Questo credo sia un importante risultato, perché infonde fiducia nella possibilità di cambiare le cose e di riuscire a coinvolgere il Governo per un’azione più generale di salvaguardia dell’intero sistema produttivo del nostro paese.

In che modo può essere efficace una forma di protesta come lo sciopero o l'occupazione al tempo di internet? Lo sciopero è ancora efficace in quanto tale o soltanto in una prospettiva mediatica?
Quando si muove il paese reale, quello che soffre ma va avanti, quello che protesta, lotta e non si da per vinto,  credo che si metta in moto un potente atto democratico. Internet è uno straordinario strumento di informazione e di collettivizzazione delle idee, ma i processi di cambiamento occorre vengano attuati dai movimenti fisici delle persone e dei popoli. 

Angela Caporale - @puntoevirgola_
Mascia Mazzanti - @masciamazzanti

19 novembre 2013

Una separazione, non un divorzio

È uno sporco lavoro commentare l'attualità politica italiana. Si vive nella speranza di non dover indignarsi più di fronte al parlamentare incompetente e/o fannullone, del ministro complice che favoreggia i suoi amici potenti, del governatore che schernisce un innocente giornalista in una telefonata privata e altro ancora. Ma, soprattutto non si vorrebbe più parlare di Berlusconi. Non si vorrebbe più analizzare la sua ultima infelice e disgraziata uscita, la sentenza di uno dei suoi molti processi o la sua nuova tanto sagace quanto miope strategia per rimanere in sella. E invece tocca farlo. Tocca scavare nell'immondizia, ancora una volta. Che poi in tanti provano un sinistro(ide) e perverso godimento nell'imbrattarsi con questa fanghiglia melmosa e putrida.
Perciò questo articolo tratterà di come la Francia, inspiegabilmente e sconsideratamente, abbia fatto fallire, con il suo irrigidimento, i negoziati di Ginevra tra occidente e Iran. Brusio diffuso, vociare nelle retrovie, qualche fischio, disapprovazione collettiva. Vi sento. Mica sono sordo. Dopo il fine settimana di fuoco, che ha visto la rifondazione farsesca e anacronistica di quella sorta di derelitto brand (mi sembra più appropriato della definizione troppo lusinghiera di “partito”) chiamato Forza Italia e il defilamento dell’ex delfino a cui mancava il quid e ora alfiere della stabilità governativa Angelino Alfano, reclamate un’opinione, un punto di vista, una provocazione, eventualmente, un’ennesima indignazione. Davvero? Siete sicuri di volere sentir parlare ancora di Berlusconi? Ok, va bene, aspettate, mi metto dei pantaloni della tuta malconci, un maglione dai colori esageratamente sgargianti che ho comprato chissà perché in qualche grande magazzino sotto effetto di una martellante hit pop-dance anni ’10, stivali di plastica e sono pronto. Pronto ad immergermi nella spazzatura italica.

In realtà, scherzi a parte, qualcosa ci sarebbe da dire. Si è consumato un altro atto del lento ma, tremendamente inesorabile, declino di Silvio. Ormai le sue vicende politiche (e non solo) paiono stazioni di una infinita via crucis. Sintomi di un tracollo psicofisico (mi riferisco al malore durante il comizio), oltre che politico. Di un impero che si dissolve e che si sgretola. La parola chiave oggi è “decadenza”, in gergo politico-giuridico-istituzionale intesa come decadenza da senatore, in ossequio alla legge Severino, a suo tempo votata anche dal defunto PDL; in senso lato decadenza di un’epoca, di una fase, e, perché no, di un modo di concepire ed interpretare il centro-destra italiano.
Mi sono già soffermato qualche mese fa sull’ipotizzare il centrodestra post-berlusconiano e, incredibilmente, vista la mia proverbiale e intrinseca incoerenza, confermo sostanzialmente le mie tesi. Dunque rimango profondamente scettico riguardo la formazione nell’imminente di un partito “moderato” (termine talmente abusato e strapazzato da B. che ormai non ha più un significato se mai ce l’ha avuto) di stampo europeo. Alla motivazione addotta nel precedente articolo, ovvero la vacuità e l’inconsistenza del modello dei Popolari Europei, si aggiunga che, eccetto la fedeltà alle larghe intese, non si intravedono significative differenze programmatiche tra la riesumata Forza Italia e la neonata compagine composta dalle cosiddette “Colombe”. Magari semplicemente non sono ancora state elaborate e la mia è una diffidenza eccessiva.
Tuttavia sospetto che questa inesistenza di alternatività o il tentativo di celare le differenze abbia uno scopo ben preciso. La spiegazione va ricercata nei rapporti di forza tra Alfano, il figlio ribelle, e Berlusconi, il padre tradito. Mi pare che il secondo abbia ancora il coltello dalla parte del manico. Lo dice la storia di chi ha osato sfidarlo dall’interno, come Gianfranco Fini. Lo dicono tutti i fallimentari tentativi di instaurare un nuovo centro. Angelino riserva ancora parole dolci per il suo mentore poiché è ben consapevole che, se domani si andasse alle urne, il suo nuovo centro-destra (la fantasia è al potere) raccoglierebbe le briciole. Questo semplicemente perché gli elettori del PDL sono diventati progressivamente (o sono sempre stati?) elettori di Berlusconi. Attratti magneticamente dal suo carisma e convinti dalle sue alettanti promesse. In un certo senso, il Caimano è riuscito a riconfigurare il concetto politologico di “voto di appartenenza” in un voto di “fede”. Un po’come si tifa una squadra di calcio, tanto per non scomodare culti vari ed eventuali e non essere accusato di blasfemia. Il PDL e prima di lui (ma evidentemente anche dopo di lui) Forza Italia sono state impostate e plasmate come strutture verticistiche, in cui il capo si rivolge direttamente all’elettorato e il resto- i militanti, gli iscritti e persino tutti i dirigenti- non è altro che un megafono, una cassa di risonanza del messaggio. Senza Berlusconi, senza l’ammaliatore di serpenti, il messaggio è troppo fioco, il megafono è inutile e le croci sulle schede si dissolvono.
Perciò, come ha detto, B. si rimarrà inevitabilmente comunque tutti insieme, nella stessa coalizione, alle prossime elezioni. Anche lui non vuole il distacco in fondo. La frattura definitiva lo relegherebbe ad un ruolo marginale in Parlamento (un secondo Grillo, tanto per chiarirci) e lo priverebbe di ogni potere di veto e di ricatto. Inoltre tra le file dei filo-governativi si trovano molti professionisti della politica e mestieranti dell’amministrazione pubblica che Berlusconi non vorrebbe assolutamente abbandonare. Perciò mi aspetto tentativi ulteriori di riconciliazione e di ammansire gli starnazzanti “falchi” e le inviperite “amazzoni”.
Questo, quindi, è una sorta di balletto, di gioco delle parti al momento. Non è un vero e proprio, divorzio ma una separazione temporanea, in attesa di vedere come si evolve la situazione (e di developing stories, come le chiamerebbero gli americani, che si intrecciano ce ne sono molte). In attesa di capire se davvero ad uno dei due partner conviene divorziare. Intanto Enrico Letta, osserva e gongola.

Valerio Vignoli
 

17 novembre 2013

SundayUp: Ho fatto il classico e questa è l'occasione per non pentirmene - il mito di Orfeo ed Euridice

Lo dico subito, per me Reflektor è un album della madonna, o comunque molto bello, o comunque gli Arcade Fire sono bravissimi, cioè voialtri non capite un cazzo, è un po' come nel calcio, non si capisce perché Pezzali sia diventato tale oggetto di studio per i laureati nei loro venticinque-trentacinque anni - o meglio - perché lo sia diventato più del dovuto, né perché la gente non si rassegna al fatto che Mario Balotelli è un tamarro bresciano e bona lé.

Ciò detto, non vi parlerò del disco, ma del suo presunto concept, il mito di Orfeo ed Euridice
Prima di tutto, si dice Òrfeo e non Orféo (un po' come quella ragazzina a cui do ripetizioni di latino che si è fissata, nonostante le mie proteste, che si dica Rodàno e non Ròdano, ma sticaz). 

Il mito di Orfeo ed Euridice è stato, come tutti i miti, scritto e riscritto innumerevoli volte e, ovviamente, non è la prima volta che è stato messo in musica, anche restringendo il campo alla musica popolare. I miti e, quindi par excellence i miti greci, sono una cosa figa perché, se ascoltiamo certi filosofi, quando furono creati servivano ad ammonire e ad educare la gente (ciò che avviene oggi con un sacco di arte o musica popolare: ti fa riflettere che dopotutto era meglio morire bambini), ma, proprio per come sono strutturati, hanno portata universale e perciò indifferente al tempo: sia in se stessi, sia come materiale da rielaborazione.
Orfeo Negro Arcade Fire
Una versione del mito originale è questa: Orfeo è un master of ceremonies, sa suonare, verseggiare e farti venire come un dio, tanto che è figlio di una Musa. Va in giro a provocare, secondo Aristotile, pietà e paura tramite la sua arte: la gente si sfoga, gli uccelli si commuovono, i torrenti, alla faccia di Eraclìto (essì, anche questo si pronuncia in questa maniera, dando così voce al dubbio dell'adolescente alle prime armi*) perdono il loro impeto, uomini e donne jizz in their pants e via discorrendo.

Chiaramente, finisce per sposarsi con la ninfa Euridice che però, sfuggendo da quello che oggi grazie a lei  lei chiameremmo uno stalker, si fa mordere da una bestia beccandosi l'hangover della vita, cioè, intendo proprio che muore. Il nostro bomber a quel punto scende nell'Ade per vedere che si può fare: con due o tre sleghi si aprire le porte che si deve far aprire, baci e abbracci, è standing ovation. La parte tragica consiste nella solita curiosità scimmiesca degli uomini, che fa sgarrare a Orfeo il patto di non voltarsi indietro verso Euridice nella risalita dagli inferi: tutto da rifare, la tipa viene risucchiata giù nell'Ade senza il tempo di dire 'cràpula' e death is pretty final.

L'unica, eretica e piena di umorismo adult-oriented (NON in quel senso, nel senso dei Dire Straits) rilettura di cui ero preventivamente a conoscenza, era quella di Nick Cave (di cui abbiamo delle orride diapositive): 



E' la prima traccia di un doppio album dei Bad Seeds Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus (2004), un cd che posso vantarmi di avere comprato, in modo totalmente banale e antieconomico, in un centro commerciale, a Berlino, però, in completo sfregio al periodo berlinese della band. La seconda parte di questo doppio dovrebbe contenere i pezzi più pallosi elegiaci e soft dell'insieme, a partire da questo. La riscrittura, nel pieno rispetto dei canoni di Cave alla luce della sua svolta manieristica (cit.) degli anni 2000, è ben orchestrata e ilare, non mi dilungherò oltre linkandovi il testo con traduzione e permettendomi di porre attenzione a un paio di passi notevoli, quali:

-la rappresentazione di Orfeo come un proto-bluesman rurale;
-quando dice "G minor 7" viene effettivamente suonato un sol-7, in palese ossequio al principio di isomorfismo fra linguaggio e realtà del Tractatus

-tutta la questione sembra più un cheat-code di GTA che un mito riscritto;
-la più grande rima interna nella storia della musica pop: "Eurydice [...] orifice". **




(il video originale è stato rimosso, questa è una cosa apocrifa)
Il video che spero abbiate visto tutti invece è quello dell'Orfeo Nero che gli Arcade Fire hanno saggiamente deciso di mandare fuori come visual per lo streaming dell'intero album. Una accoppiata secondo me perfetta, quasi meglio di quella di Toblerone e pompini.
Il film, vincitore a Cannes nel '59, con le sole immagini e la sola lettura della trama, pare bellissimo: stavolta la leggenda narra che un Orfeo brasiliano faccia sorgere e tramontare il sole grazie alle proprie abilità canore e musicali (tipo la buonanima di Pavarotti con quell'aria orrenda che irradiano insieme ai biscotti) e la morte è impersonata da un uomo in calzamaglia invero molto inquietante che rapisce Euridice, che morirà tragicamente folgorata; Orfeo stesso perirà, un po' all'italiana, per una questione di corna. 

E infine, l'album degli AF, oltre alla copertina self-explanatory, butta qui e là qualche riferimento alla vicenda, ma non sembra esserci una effettiva narrazione dall'inizio alla fine del mito originale, fatta esclusione per la coppia Awful sound (Hey Eurydice) e It's never over (Hey Orpheus), che non aggiunge niente alla trama di base, e un paio di canzoni sulla separazione da aldilà che però possono essere benissimo intese come stand-alone rispetto alla sostanza del mito. Un altro tema dominante è quello del conformismo imposto e di come lo si possa superare (Jean of Arc, Reflektor, Normal Person etc.). Come nella migliore tradizione della banda, i testi non sono epocali, ma non ce ne sono di brutti (applicate questa valutazione statistica a cose che vi interessano nella vita come lo sport, il sesso o gli esami e vedrete come sia una valutazione più che lusinghiera).

Concludendo, avrei fatto meglio a non fare il classico e a fare l'amore come suggerisce una famosa scritta-sul-muro che circola sui social che tanto per spiegarti il mito di Orfeo bastavano gli Arcade Fire o persino Nick Cave dopo i primi segni di arterio? Indubitabilmente, sì.


Filippo Batisti

*non sarò così volgare e didascalico (no, ormai volgare lo sono stato, amen) da spiegarla. Tip: aggiungete un '?' in fondo. 

** L'Italiano offrirebbe un'occasione senza pari per un "Fabrizio/orifizio", che mi risulta non essere stata sfruttata neppure da Immanuel Casto.

16 novembre 2013

Medio Oriente: le colonie della discordia

Ogni tanto ci ricordiamo che in Medio Oriente esiste ancora una questione irrisolta chiamata “negoziati di pace” tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. E puntualmente, appena questi negoziati sembrano riprendere quota, puntualmente qualcosa, o qualcuno spunta fuori per spegnerli sul nascere. Attentati terroristici, dichiarazioni sconsiderate di questo o quel leader, la non incisività sul tema della comunità internazionale, ecc. ecc. Il vero “pomo della discordia” però è rappresentato dagli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est. 
 Tralasciando il questione circa la legittimità internazionale o meno dei Territori occupati, conquistati dallo stato ebraico a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967, la costruzione di nuovi complessi abitativi è l’arma che Israele usa ogni qual volta fiuta odore di minacce internazionali che inevitabilmente ricadono sulla politica interna: l’ultima era stata una rappresaglia contro l’ingresso dello stato di Palestina alle Nazioni Unite come stato osservatore non membro nel novembre 2012. Negli ultimi il giorni, il piano che doveva prevedere la costruzione di 24.000 alloggi nella zona E1, i quali nei piani dovevano sconfinare oltre la linea del 1967, hanno provocato la durissima reazione dell’ANP: due negoziatori, Saeb Erekat e Mohammed Shtaye, hanno rassegnato le proprie dimissioni per protestare contro il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Il leader del Likud ha deciso di far rientrare la crisi annullando il piano di insediamento, ma questo non impedisce che gli ennesimi nuvoloni si aggirino minacciosi sopra questo ultimo tentativo di mettere fine ad una questione drammatica e ad un conflitto che imperversa costantemente nell’area da più di 60 anni. 
I principali sponsor dei colloqui di pace, cioè gli Stati Uniti, mantengono una linea dura nei confronti di Gerusalemme: il Dipartimento di Stato americano si era dichiarato profondamente preoccupato per questo annuncio e attendeva spiegazioni da Israele. Si è spinto ancora più in la Jay Carney, il portavoce della Casa Bianca, definendo l’azione del governo Netanyahu illegittima. Se il progetto fosse andato in porto, questo avrebbe comportato con molta probabilità l’annullamento di qualsiasi futuro colloquio tra gli attori sulla base del motto “due popoli, due stati”. 
Le colonie ebraiche, e le minacce di edificare nuove abitazioni in Cisgiordania, sono l’emblema del fallimento del sionismo politico: il potere è sempre più in mano ai gruppi ultraortodossi e al nazionalismo religioso della destra israeliana, i quali non vogliono scendere a compromessi con i palestinesi, influenzano pesantemente l’operato di Netanyahu, il quale per altro non oppone nessuna resistenza alle pressioni dell’ultradestra, conscio del fatto che la vita del governo dipende molto dai loro voti alla Knesset. Il potere dei coloni religiosi è dovuto anche alle solite divisioni che puntualmente si ripropongono all’interno del fronte palestinese, dove Al Fatah e Hamas come sempre agiscono lungo direzioni diverse e spesso in disaccordo tra di loro. La situazione che si presenta alle conferenze internazionali è la solita: israeliani e palestinesi non sono disposti a fare concessioni e scendere a compromessi, uno dei due contendenti vuole la vittoria assoluta. Sempre il solito film, che ci accompagna dagli accordi di Oslo del 1993, quando la stabilizzazione dell’area sembrava una splendida utopia, tramutatasi poi nel solito muro contro muro che ci ha riportati nella vita reale. Il problema degli insediamenti e dei confini del ‘67 poi è sempre riassumibile nella frase di Shimon Peres : «non è che non ci sia luce in fondo al tunnel, è proprio che non troviamo il tunnel». Per il momento la situazione sembra essere tornata sotto controllo. Ma fino a quando?

Mattia Temporin

13 novembre 2013

Conoscere e affrontare i (neo) nazisti greci

La sera del 29 ottobre si è tenuta, al 38 di via Zamboni, la presentazione del libro “Alba Dorata” del giornalista Dimitri Deliolanes. L’incontro con l’autore costituisce il quarto di una serie di appuntamenti a cura della Rete degli Universitari dedicata all’analisi dell’emergere di movimenti neofascisti e neonazisti in Europa.
 Deliolanes ha inteso fare chiarezza, con pragmatismo e competenza, sulla genesi di quel partito e dunque in primo luogo sulla sua precisa identità ideologica, sulla sua penetrazione e azione nella società, sulla sua attività ‘istituzionale’, infine sui suoi rapporti internazionali e le sue prospettive.
Molto - ma non, semplicisticamente, tutto - spiegano alcuni numeri della crisi economica greca: calo del PIL del 26% (- 4% quest’anno, -3,7% previsto per il prossimo) in 6 anni consecutivi di severa recessione, disoccupazione generale al 50% e giovanile al 60%, licenziamenti in massa di pubblici dipendenti ( -12.500 nel solo 2013, -15.000 secondo la programmazione per il 2014).
In concomitanza, ad acuire l’asprezza dello scontro sociale, il transito e in molti casi la permanenza di un numero di immigrati pari al al 70% dell’intero flusso verso l’Unione.


Da ciò il successo di Alba Dorata, movimento nato nel 1980 ma irrilevante sino al 2011, quando entra in Parlamento con 18 rappresentanti a fronte del 7% dei consensi elettorali. L’unico risultato precedente quest’affermazione inaudita era stata l’elezione del leader a consigliere comunale ateniese, dovuta alla violenta azione anti-immigrati svolta nei quartieri popolari della capitale.
Un forte limite era sino ad allora costituito dall’ortodossia ideologica del movimento, dichiaratamente nazista. Dell’esperienza hitleriana non vengono scartati neppure - questa la ragione delle parentesi del titolo - gli aspetti più irrazionali, quali esoterismo, teoria della terra cava abitata da fantomatici maestri ariani, ecc.   L’accoglimento, diremmo, acritico e integrale di tutto questo rende ardui i contatti - irricevibili gli inviti ad esempio per Forza Nuova o Casa Pound, che anzi si sforzano di privilegiare aspetti meno retrivi dell’eredità neofascista e aprire nuovi fronti sul piano sociale e culturale - con la galassia degli  analoghi movimenti europei e tutto sommato improbabile un suo avanzamento significativo sia dentro che fuori i confini della Grecia. 
 La situazione attuale fa registrare uno stallo, dopo che pure Alba Dorata era salita nei sondaggi al 15%, causa l’accoltellamento, da parte dei suoi squadristi, di un noto oppositore politico, un rapper - prima vittima greca, si noti - la cui uccisione ha causato imponenti e condivise dimostrazioni di sdegno. In seguito a questa vicenda gli organi inquirenti hanno avuto modo di accertare il coinvolgimento di vari neonazisti in svariate (35) azioni criminali e al momento sei parlamentari sono in stato d’arresto e tre di essi, compreso il leader, in carcere. L’ampio spettro di reati contestati, che per scelta non contempla accuse politiche quali  sovversione, incitamento all’odio razziale, alto tradimento o simili, include invece racket, assassinio, traffico di donne e di armi e soprattutto associazione a delinquere, per la quale la legislazione greca non prevede forme d’immunità parlamentare.

Per capire le ragioni non solo dei veti politici fino ad allora posti alle stesse indagini, bensì anche della scelta di tanti elettori a fronte di un simile, e ben noto, comportamento, veniamo al cuore dell’analisi politica. È significativo che tutte le rilevazioni indichino al primo posto tra le motivazioni addotte da costoro per il proprio voto il mero desiderio di rivalsa sui partiti di governo, vale a dire i conservatori di Nèa Democratìa e i socialisti, effettivamente responsabili di una gestione del potere miope ed irresponsabile, spesso assistenzialista se non clientelare. Essi si dichiarano cioè anti-nazisti, né auspicano una dittatura nazionalsocialista o, significativamente, una semplice partecipazione del movimento ad un qualche governo. Si dicono spinti dall’odio verso gli stranieri e, letteralmente, disperano della politica. La loro estrazione sociale pare varia: nel quadro di un sostanziale interclassismo emerge un forte coinvolgimento della fascia d’età compresa tra i 24 e i 35 anni. I flussi di voti sono chiari: l’elettorato di Alba Dorata proviene dall’ala destra del partito conservatore e assorbe poi quasi completamente quello proveniente dal Laòs, i nazionalisti clericali compromessisi col penultimo governo e spariti dalla scena politica. Sembra improprio, infine, parlare di una ‘costruzione del consenso’ che esuli dalla coercizione fisica, dato che iniziative come la distribuzione di cibo, medicinali e persino sangue ai soli greci, più che frutto di una ‘rete alternativa d’assistenza sociale’, sono ritrovati mediatici ad uso dei giornalisti stranieri.
Più incisiva invece l’azione antisindacale (aggressioni e assalti alle sedi delle organizzazioni dei lavoratori al Pireo e altrove) e parasindacale (contrattazione diretta con alcuni imprenditori per far assumere greci al posto di immigrati in cambio della garanzia di un adeguato contenimento costo del lavoro) la quale può forse gettare le prime luci sulla questione dei finanziamenti privati al movimento. Il tutto nel quadro dell’impotenza delle forze di sinistra, teoricamente maggioritarie, e di larghe connivenze nel centrodestra che guida il governo.

Ampio e realmente utile è stato infine il dibattito con Deliolanes, a conferma della convinzione che impegnarci nell’affrontare questi fenomeni e difendere gli ideali politici e sociali democratici nati dalla Resistenza - e insieme le istituzioni, gli ordinamenti e le organizzazioni che ne sono espressione - sia un dovere di ogni cittadino europeo e non possa prescindere da una sicura e concreta conoscenza specifica.  

Eugenio Mattioni
Laureato in Lettere con massimo di voti e lode presso l'Università di Trieste, prosegue la sua formazione, specializzandosi in Lettere Antiche, presso l'Alma Mater Studiorum, Bologna. Nel tempo libero, si interessa attivamente di politica.