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30 ottobre 2013

Il senso delle primarie


Dopo innumerevoli, noiosi e, francamente, alquanto fastidiosi contrasti interni tra poco più di un mese il Partito Democratico eleggerà attraverso lo strumento delle primarie il suo nuovo segretario. Nonostante gli immancabili tribolamenti dovuti all'altissimo coefficiente di frammentazione in correnti e correntine legate alle differente personalità nel panorama del centrosinistra, l'8 dicembre il PD, riconfermerà il suo status di unico grande partito democratico e inclusivo in Italia. Da qualche giorno sono state rese note anche le candidature ufficiali. Quattro contendenti per il posto che fu del dimissionario Bersani: Matteo Renzi, Giuseppe Civati, Gianni Cuperlo e Gianni Pittella. Le regole sono chiare e, bene o male, sono state accettate da tutti i protagonisti.
Insomma si preannuncia un'altra grande opportunità per il Partito Democratico per autocelebrare la sua “eccezionalità”(riaffermando una sorta di superiorità culturale rispetto ai partiti personali e padronali), recuperare il contatto con la propria base e, più in generale, con l’elettorato italiano e ottenere le luci della ribalta mediatica per qualche settimana.

Fermi tutti! Non è tutto oro quel che luccica. Permettetemi una breve riflessione.


Qual è lo scopo di queste primarie? Risposta facile, giusto? L’ho affermato qualche riga fa. Il senso di queste primarie consiste nell’elezione di un nuovo segretario, coinvolgendo iscritti e simpatizzanti. Perfetto, dunque al termine dell’elezione di questa carica monocratica, ad urne chiuse, il vincitore dovrebbe godere di un notevole e predominante peso specifico all’interno del partito, derivante da questa peculiare investitura popolare. Una legittimazione che lo rende qualcosa di più di un primus inter pares, qualcosa di più di un semplice coordinatore delle attività politiche, qualcosa di più di un “rappresentante politico, garante dell’ordinamento e responsabile del programma” come è scritto nello statuto. Ovviamente la nozione di democrazia interna implica anche il rispetto e, soprattutto, l’ascolto del dissenso e delle differenti opinioni. Rifuggo assolutamente dal sostenere un’interpretazione della legittimazione popolare radicale ed estrema e l’abuso di quest’ultima per perorare la propria causa di fronte all’avversario (tanto per chiarirci, la manipolazione e distorsione berlusconiana del concetto). Tuttavia non si possono non prendere in considerazione le preferenze del milione di persone che si reca nelle sedi del PD per questo appuntamento e, perciò, non attribuire un potere “speciale” e risolutivo alla figura del segretario.
Beh, voi direte, ma infatti è proprio così. Il segretario è la figura di riferimento del partito e, in accordo con gli altri organi principali, ne detta la linea politica. 
A me non pare affatto e il caso di Bersani mi sembra emblematico.

Pierluigi Bersani era stato eletto a segretario del PD nel 2009, attraverso lo strumento delle primarie aperte. Nonostante ciò, all’alba delle ultime elezioni nazionali, al fine di ottenere una rinnovata e autoimposta fonte di legittimazione, si è rimesso in discussione, indicendo nuove primarie per scegliere il candidato della coalizione di centrosinistra per Palazzo Chigi. È risultato vincitore anche in questa tornata. Addirittura, per rinforzare ulteriormente la sua posizione (che evidentemente anche lui sapeva non essere così solida), si è inventato un assurdo maggioritario a doppio turno con all'incirca lo stesso elettorato e sapendo di poter contare sui voti dei contendenti esclusi.
Nonostante ciò soltanto qualche settimana più tardi la sua figura si è rivelata fragilissima. Dapprima sono emersi svariati malumori non proprio velati riguardo il suo tentativo di inseguire il Movimento 5 Stelle per formare un’alleanza di governo. Successivamente mi sembra che sia stato evidente quanto, nella vicenda dell’elezione del Presidente della Repubblica, Bersani abbia perso il timone del partito, preda delle  divergenti correnti (di cui lui, probabilmente, era meramente il compromesso), smentendo la sua strategia precedente e scivolando in una serie di surreali figuracce.


Se concordate con questa lettura, qual è stato il senso delle scorse primarie e di quelle precedenti? Eleggere democraticamente un leader? Decidere una personalità in grado di guidare il PD? Ne siamo sicuri? Non è che forse le primarie sono uno specchietto per le allodole? Non è che magari gli obbiettivi latenti delle primarie sono altri? Per esempio fare in modo che il proprio partito ottenga per un periodo prolungato i riflettori dei principali media nazionali. Oppure l’allargamento del selettorato (ovvero il particolare elettorato per eleggere cariche di partito)  è un tentativo disperato del PD per recuperare un rapporto, in un certo senso compromesso definitivamente, con il proprio bacino elettorale ed, eventualmente, andare alla caccia di nuovi voti.

In conclusione, ritengo che le primarie siano uno strumento importante per tutti i soggetti politici per dare voce e possibilità di esprimersi a tutti coloro che si identificano in tali organizzazioni. Ma questa voce deve essere (e)seguita. Questa voce non può essere una tra le tante. Questa voce deve essere più forte e più rilevante dell’opinione dei singoli dirigenti nazionali, dei parlamentari o dei gerarchi che nelle retrovie, senza apparenti incarichi, continuano a plasmare a loro piacimento il PD. Altrimenti le primarie inclusive, aperte, non hanno senso. Oppure ne hanno degli altri.

Valerio Vignoli


P.S. Qualcuno sicuramente obbietterà che, nel caso (molto probabile) in cui Renzi, ottenendo la suddetta legittimazione popolare, diventerà segretario, si impadronirà totalmente del partito, trasformandolo radicalmente. A parte che questa ipotesi è tutta da verificarsi, ciò significherebbe che il grado di potere politicamente coercitivo del segretario dipende dal carisma e dalla dirompenza delle sue proposte. Credo sinceramente che anche questa versione dei fatti svilisca lo strumento delle primarie e ne trasli il significato autentico.

25 ottobre 2013

Maradona e «l'ombrello» che ha unito la politica

È tempo di larghe intese nel mondo politico e, come nello sport, Diego Armando Maradona ha unito gli uomini della politica italiana con un gesto tecnico estraneo al rettangolo verde. Si, perché domenica a Che tempo che fa, Maradona ha mostrato non uno dei suoi inarrivabili tricks con la palla ma un più diffuso e nazionalpopolare «ombrello» rivolto ad Equitalia.
Nei giorni scorsi i funzionari di Equitalia hanno recapitato al Pibe de Oro un avviso di mora di oltre 39 milioni di euro grazie al quale l'ente potrà procedere al pignoramento dei beni dell'ex calciatore. Per tutta risposta Maradona, ospite da Fazio, ha dichiarato che non ha intenzione di sottrarsi alla giustizia e che andrà infondo alla controversia. Quando Maradona sottolinea che non porta orecchini né orologi per evitare che gli vengano pignorati (come accaduto in passato) il Pibe de Oro si altera, si tocca le orecchie, mostra i polsi e fa tié suscitando il plauso del pubblico. L'intervista è proseguita tranquillamente e il pubblico, alla fine, ha regalato un'ultima ovazione al Pibe de Oro e al soddisfatto Fazio.
Se il pubblico in studio non ha lesinato gli applausi al fuoriclasse, i politici che domenica sera hanno seguito il programma alla TV non hanno certamente gradito e, anzi, hanno fatto gioco di squadra con una serie di dichiarazioni che hanno stigmatizzato (direi, malignamente, con l'indignazione morale di chi sa di essere in malafede) il gesto di Maradona accusando il campione di aver offeso Equitalia e gli italiani che pagano le tasse: il viceministro dell'Economia Stefano Fassina ha definito “miserabile” il gesto; il premier Letta ha garbatamente dichiarato a Otto e mezzo: “Non mi è piaciuto per niente, proprio per niente. Perché l'Italia che paga le tasse tutti i giorni va rispettata. Come ha fatto Maradona ieri, sono tanti gli italiani che fanno così, troppi”, infine, Brunetta (che pare soffra la nostalgia della poltrona di Che tempo che fa da lui stesso occupata una settimana prima non senza polemiche) oltre a deprecare il gesto ha sottolineato che: “Più grave del comportamento dell'ex calciatore, appare quello di chi gli ha approntato il palcoscenico. Se Maradona è infatti noto per le sue intemperanze, e dunque non stupisce si sia esibito nel gesto dell'ombrello contro Equitalia, davvero offensiva è la condiscendenza manifestata dal conduttore Fabio Fazio che ha lasciato che il suo pubblico tributasse un'ovazione per quell'atto di volgare offesa, che irride la legge e gli italiani onesti” aggiungendo, inoltre, che avrebbe sollecitato un'interrogazione della Commisione di vigilanza RAI.

Sebbene il gesto di Maradona sia stato indubbiamente fuori luogo anche per il postribolare decoro della televisione italiana pare che a offendersi siano stati più i politici che i comuni cittadini italiani, questi ultimi d'altronde perdonano facilmente i loro miti, mentre per i politici hanno giusto qualche difficoltà in più. Per alcuni uomini politici come Brunetta, offendere Equitalia corrisponde a offendere gli italiani che pagano le tasse, secondo una strana equivalenza per cui l'ente di riscossione dei tributi sia motivo di orgoglio patriottico per i cittadini italiani, dimenticando invece il clima di terrore che l'operato di Equitalia ha creato a partire dagli anni del governo Monti, clima di cui non hanno sofferto solo gli evasori fiscali impenitenti ma anche, e soprattutto, i comuni cittadini che le tasse, per quanto alte, le hanno sempre pagate. Difficile dimenticare che nel ricevere una lettera firmata Equitalia gli italiani si sentivano trasalire come i contadini inglesi davanti agli sgherri di Re Giovanni e dello sceriffo di Rottingham. Chissà quanti italiani avranno visto realizzato il loro sogno di fare un ombrello a Equitalia. Se non si può dire che Maradona sia il nuovo Robin Hood (la questione con Equitalia va comunque chiarita, inoltre, preferirei non immaginare Maradona in calzamaglia) sicuramente domenica sera c'è andato vicino.


Matteo C. M. Cutrì


Per approfondire:

L'intervista completa: http://www.youtube.com/watch?v=LYmlb0IL2O8
Il Sole 24 Ore: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-10-21/ecco-perche-maradona-deve-ancora-40-milioni-fisco-italiano-190015.shtml
Gazzetta dello sport: http://www.gazzetta.it/Calcio/21-10-2013/maradona-il-gesto-ombrello-era-satirico-non-sono-evasore-201406311143.shtml

 

24 ottobre 2013

Incontro "Europa in città": riflessioni sulla cittadinanza europea

L’idea di cittadinanza europea è stata al centro dell’incontro di venerdì 18 ottobre tenutosi a Bologna in occasione di “Europa in città”, un’iniziativa che promuove il dialogo tra studenti ed europarlamentari in occasione dell’anno europeo dei cittadini. L’evento, che si è svolto presso la sede della regione Emilia Romagna, si è articolato intorno al tema della cittadinanza europea, attraverso l’intervento di due parlamentari, Salvatore Caronna e Vittorio Prodi, con la partecipazione di due funzionari della commissione europea Francesco Laera e Gianfranco Coda e la mediazione delle docenti Daniela Piana e Pina Lalli. Dall’altra parte del tavolo sedevano studenti delle scuole superiori e dell’Università, in particolare del corso magistrale di Relazioni Internazionali della facoltà di Scienze Politiche di Bologna.
Il Magnifico Rettore Ivano Dionigi ha aperto la giornata introducendo il tema principale con la riflessione: “Cosa saremmo senza Europa”.
L’Europa, ha detto, dalle sue origini mitologiche ha sempre simboleggiato un ponte tra culture, il passaggio tra oriente ed occidente e dunque “l’Europa contiene l’altro in sé”, un elemento che torna prepotentemente nei avvenimenti degli ultimi giorni in cui il sud dell’Europa ha, seppur tragicamente, continuato a rappresentare un porto di salvezza per tanti.
L’Europa, continua Ivano Dionigi, è libertà dai vincoli doganali e libertà di viaggiare ed imparare nuove lingue. L’Europa e la sua integrazione hanno favorito il dialogo tra culture diverse e hanno creato un benessere ed una situazione di pace nel nostro continente come mai prima.
Ma l’idea stessa di Europa, nelle parole del Magnifico Rettore, è un’idea che non basta mai, è una declinazione d’integrazioni culturali ed è stata un grande atto di pace dopo le guerre che nel XX secolo hanno dilaniato il nostro continente.

L’integrazione europea è dunque un punto fondamentale nel discorso politico, è forse l’unico asse che divide le due grandi famiglie partitiche europee di cui i parlamentari presenti alla conferenza fanno parte: il PPE (partito popolare europeo) e il PSE (partito socialista europeo).
Quanto bisogna ancora cedere alle istituzioni sovranazionali?
Dagli interventi della mattinata sono emerse due visioni che, seppur ontologicamente diverse, si trovavano d’accordo sul bene che l’Europa ha portato ai suoi cittadini. L’onorevole Prodi ha sottolineato come temi quali il riscaldamento globale e la gestione delle risorse naturali siano importantissimi da sviluppare a livello europeo, anche se sono stati nascosti dalla preminenza che gli interessi economici hanno avuto negli ultimi anni.
Caronna, invece, ha  sottolineato come i cittadini europei  saranno protagonisti del mondo insieme alle altre aree del pianta in crescita e competitive, e dunque la cittadinanza europea aiuterà ad affrontare le sfide del futuro con una grande identità:  quella europea. Mentre, se gli stati nazione torneranno prepotentemente ad imporsi rispetto al concetto di cittadinanza europea, allora le nazioni da sole diventeranno subalterne di altri e più grandi mondi.
Dunque la cittadinanza europea va incrementata. Si tratta di un processo in continua crescita, ed è, come affermava il padre fondatore Jean Monnet, “una bicicletta che, se si smette di pedalare, cade”.
Nell’idea, “c’è ancora molto da fare”, i due parlamentari si trovavano in sintonia.

    Oggi in Europa sta crescendo la presenza di partiti antieuropeisti (The Bottom Up ne ha parlato più volte). Le posizioni anti comunitarie hanno guadagnato consensi in molte delle più grandi ed importanti nazioni europee, ed oggi più che mai si assiste ad una disaffezione da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee. La colpa si può dare ad un deficit di comunicazione o al “bizantinismo”, come lo ha definito Caronna, delle burocrazie e delle istituzioni europee.
Sono, infatti, stati male indirizzati gli investimenti dei fondi europei ed in diverse regioni d’Italia c’è stata una cattiva recezione di questi fondi. Una delle ragioni potrebbe essere la miopia della classe dirigente italiana nei confronti delle istituzioni europee. Ecco dunque la necessità di istruire una futura classe dirigente sui valori della comunità europea e nazionale per generare così un’amministrazione pubblica che guardi effettivamente all’Europa.
Quella definita dai media la “generazione erasmus" deve essere quella generazione. Sono gli studenti che, cresciuti insieme all’Unione Europea hanno goduto appieno delle libertà che l’integrazione ha portato, sono nati cittadini europei e troppo spesso non lo ricordano.
Ma è proprio questo il momento di ricordare che la macchina europea funziona solo se cammina, Caronna parla di un “bivio” al quale ci troviamo e che vedrà la sua fase più esplicativa alle elezioni europee del 2014.
Perché non prevalgano le forze antieuropeiste è necessario, se non di vitale importanza, alimentare la voglia di cittadinanza europea ricordando quanto questa significhi libertà, al di là dei temi economici che purtroppo hanno avuto la più grande colpa nella disaffezione.

    Il funzionario delle Commissione europea Laera ha mostrato quali siano, a tutti gli effetti, i diritti dei cittadini europei che ,come dimostrano i sondaggi più recenti, non conoscono: il diritto di voto, il diritto di presentare una proposta legislativa e di petizione, la protezione dei consumatori e la protezione consolare. Quindi, come ricordava la professoressa Piana, citando le parole di Toqueville, “la partecipazione alla cosa pubblica è strumento di esercizio di libertà”.


Gaia Taffoni

23 ottobre 2013

Dall'Austria all'Europa, i moderati perdono ancora terreno a favore dei populismi

Un po' offuscate da quelle dei cugini tedeschi, il 29 settembre si sono tenute le elezioni legislative austriache. Se è vero che le scelte degli elettori austriaci anticipano le tendenze europee, sono numerosi i motivi di interesse sul piatto.

Il Partito Socialdemocratico Austriaco (SPO) del cancelliere uscente Faymann risulta il primo partito del paese (26,86%), seguito dal Partito Popolare Austriaco (OVP) guidato da Michael Spindelegger col 24,01%. Entrambi i partiti hanno fatto registrare il loro peggior risultato dal 1945. Gran parte dei voti persi sono andati al Partito della Libertà Austriaco (FPO) di Strache (20.55%), vera sorpresa che ha messo in crisi i partiti tradizionali. Da segnalare anche il miglior risultato della loro storia per I Verdi, col 12,34%. Come cinque anni fa, diventa necessaria una coalizione tra SPO (52 seggi) e OVP (47) per raggiungere la maggioranza (183 seggi totali). Per capirne l'impatto sull'opinione pubblica, basta dire che queste larghe intese in salsa austriaca sono state ribattezzate “la coalizione dei perdenti”.

Il vincitore morale infatti è ritenuto da tutti il Partito della Libertà, che ha avuto una crescita netta rispetto al 2008 e ha ottenuto buoni risultati in tutto il paese, non solo nella regione della Carinzia, storica roccaforte. Le caratteristiche di questo partito rispecchiano un brand che si sta affermando in tutte le democrazie europee: destra populista, euroscettico, anti-establischment e anti-immigrazione. Non condivide le idee vagamente filonaziste e nostalgiche dell'Alleanza per il Futuro dell'Austria, il partito fondato da Haider dopo una scissione dallo stesso FPO, che ha risentito troppo della scomparsa del suo leader (3,53% e nessun seggio). Tuttavia non si tratta del miglior risultato nella storia dell'FPO, che sotto la guida dello steso Haider nel '99 era risultato il secondo partito austriaco col 26,91%.

La scelta dell'FPO è stata quella di non “sporcarsi le mani” entrando in una coalizione con il Partito Popolare che gli elettori avrebbero vissuto come un tradimento. Con questa mossa ha costretto i due primi a partiti a formare una coalizione che anche nella passata edizione non ha goduto di molta popolarità, tanto che l'elettorato di SPO e OVP si è ridotto di circa un terzo e un quarto dal 2008 garantendo una grande crescita proprio all'FPO.

L'assetto partitico che prevede un'alleanza di governo tra i partiti moderati di destra e di sinistra con l'opposizione di forze politiche di nascita recente, populiste e antisistema sta trovando sempre più successo non solo in Austria ma in tutte le democrazie europee. A questo punto viene da domandarsi se la frattura destra/sinistra che ha caratterizzato i sistemi partitici almeno dal dopoguerra in poi possa essere la più efficace nel definire l'identità dei partiti stessi. Riassumendo analisi politologiche molto più approfondite, si può dire che i partiti tradizionali di destra e sinistra (popolari e socialdemocratici o forme simili) stanno attuando da diversi anni, in particolare dopo la fine del comunismo, una competizione centripeta che ha di fatto avvicinato notevolmente le loro posizioni. Spostandosi verso il centro hanno però abbandonato le loro frange più estreme le quali, orfane delle ideologie che hanno marcato il Novecento, sono confluite in parte in un nuovo modello di partito che ormai si trova, con sfumature diverse, in tutti i paesi europei.

 I “cugini” del Partito della Libertà  Austriaco sono ad esempio l'inglese United Kingdom Indipendence Party di Nigel Farange, l'Alternative fuer Deutshland che in Germania non è riuscito ad entrare nel Bundestag per un soffio, il Front National che in Francia era arrivato al ballottaggio per le presidenziali con Marine Le Pen e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, numericamente il primo partito in Italia. Si tratta di partiti molto diversi tra loro ma che tuttavia hanno alcune caratteristiche chiare in comune. Populisti, guidati da un leader dalla forte personalità, senza una struttura interna definita, antisistema, avversano genericamente i tecnocrati e le banche, antieuro e molto spesso sostenitori dell'uscita dalla UE dei rispettivi paesi, xenofobi o comunque anti-immigrazione in maniera decisa. Molti di loro sono riconducibili all'estrema destra, ma la maggior parte non vuole prendere una posizione sulla linea destra/sinistra e ripudia alleanze coi partiti tradizionali di entrambe le parti, ritenendoli avversari in ugual modo.

Nonostante alcune prestazioni abbondantemente sopra il 20%, nessuno di questi partiti ha mai avuto esperienze di governo, proprio per il rifiuto di alleanze e coalizioni, ritenute un male da combattere invece che un mezzo per raggiungere obiettivi. Questa ostinata coerenza, assieme alla crisi che ha colpito duramente l'Europa alimentando un malcontento diffuso, è garanzia di un afflusso crescente di tutta quella parte dell'elettorato che ha perso fiducia nelle istituzioni (nazionali ed europee) e si sente delusa dalla politica. Anche nel Parlamento Europeo si va verso la situazione paradossale di una presenza massiccia di forze antieuropee, che non dovrebbero ancora mettere in discussione la maggioranza delle forze tradizionali ma che stanno assumendo un ruolo sempre più centrale e sempre meno trascurabile.

Fabrizio Mezzanotte

22 ottobre 2013

La Francia spaventa l'Europa

La periferia della Francia potrebbe risultare decisiva nella corsa alle comunali del marzo 2014 e, soprattutto, alle elezioni europee del successivo mese di aprile? Se guardiamo a Brignoles, piccolo capoluogo di 17.000 abitanti situato nella regione della Provenza- Alpi- Costa Azzurra, non saremmo ovviamente d’accordo. Però quello che è successo tra domenica e lunedì della scorsa settimana dà un forte segnale sul campo della politica francese: nelle elezioni cantonali, cioè quelle per il capoluogo del dipartimento del Varo, il Front National ha vinto in maniera netta, surclassando con il suo candidato Laurent Lopez l’esponente dell’Ump Catherine Delzers, appoggiata in questo caso dal partito socialista, quello del presidente della repubblica François Hollande. Si, perché quando in Francia vedono che la formazione politica di Marine Le Pen è in vantaggio durante una tornata elettorale, gli altri partiti fanno appello alla difesa della democrazia e della repubblica con la costituzione del “Front républicain”. Questa volta però l’appoggio socialista alla candidata della formazione dell’ex capo di stato Nicolas Sarkozy non è bastato ad evitare la batosta elettorale. Con questo risultato Marine Le Pen fa tremare l’Eliseo, e fa tremare pure l’Europa. La figlia di Jean Marie sta portando avanti l’opera di trasformazione del partito, rifiutando persino l’etichetta di “estrema destra”; la forte confluenza di voti dal mondo della sinistra e anche da una consistente parte di immigrati sta rendendo il Front un partito trasversale, che si vuole fare portavoce delle classi più umili e colpite dalla crisi economica. Marine poi sembra volersi distaccare dalle uscite discutibili del padre: pur essendo a favore di uno sbarramento sull’immigrazione, evita il più possibile di lasciare dichiarazioni xenofobe e antisemite (vi ricordate quando Le Pen bollava l’Olocausto come un “piccolo dettaglio” della seconda guerra mondiale?). E ora l’Europa trema: i sondaggi danno il Front National come primo partito alle consultazioni elettorali di aprile per il parlamento europeo. Marine Le Pen ha annunciato che in caso di vittoria percorrerà tutte le strade necessarie per rendere di nuova la Francia “un paese sovrano”: in poche parole, uscita dall’Unione Europea e uscita dalla moneta unica. Una eventuale vittoria della destra radicale potrebbe sortire una sorta di effetto domino sui paesi dell’Europa periferica, dove il vento dell’euroscetticismo non accenna a diminuire. La capacità della Le Pen di cogliere le preoccupazioni e lo stato d’ansia in buona parte della popolazione falciata dalla recessione è dovuta anche alla situazione di stallo di cui soffrono la sinistra, a causa della caduta libera nei sondaggi del presidente Hollande, e i neogollisti, costretti a rimettere in campo Nicolas Sarkozy per far fronte alla crisi di leadership. Il Front National potrebbe rappresentare alle prossime elezioni quello che in Italia ha rappresentato il MoVimento 5 Stelle, una forza anti-sistema che sta sfruttando in pieno la rabbia dei cittadini contro la crisi e i poteri forti dell’Unione Europea e della Banca Centrale e la crisi dei maggiori partiti tradizionali. Marine Le Pen sembra un Beppe Grillo con più consapevolezza politica e con un programma che su molti punti fondamentali presenta idee molto chiare. Nel marasma che questo risultato elettorale ha provocato, Hollande non ha saputo dire altro che un “dobbiamo rialzare la testa contro il rischio del populismo e della xenofobia”. Una dichiarazione talmente soft che sembra più una resa che uno sprono a rialzare la testa.

Mattia Temporin

20 ottobre 2013

TheSundayUp: L'Intrepido (2013)

Qualcuno mi ha confessato di non riuscire ad apprezzare un film in cui Albanese ricopre un ruolo drammatico, proprio perché siamo stati abituati in tutti questi anni a vederlo dedicarsi al mondo della commedia. Solo per citare alcuni dei suoi personaggi esilaranti: Alex Drastico, l’Ingegner Ivo Perego, Cetto La Qualunque, Epifanio. La verità è che Antonio Albanese è un attore poliedrico ed estremamente raffinato, che già in diverse occasioni ha avuto modo di dimostrare la sua capacità di variare fortemente registro, passando dai toni comici dell’Uomo d’acqua dolce (la cui regia si deve ad Albanese stesso), per il cinema d’autore de La lingua del santo (Mazzacurati), fino ad arrivare a quelli drammatici di Giorni e Nuvole (Soldini). Molti registi l’hanno voluto con sé: Pupi Avanti, Carlo Verdone, addirittura Woody Allen per il film To Rome with Love.
In questo caso Gianni Amelio ha espressamente dichiarato di aver pensato a lui nella creazione del personaggio di Antonio Pane, come un abito sartoriale confezionato su misura per Albanese. È proprio il caso di dire che Antonio è un uomo “buono come il pane”, disposto a donarsi e sacrificarsi per il bene degli altri. È un uomo Intrepido, come spiega il titolo del film. Amelio stesso racconta che lo spunto per il titolo viene dai fumetti, dalla rivista L’intrepido, che il regista leggeva con passione da piccolo. Si trattava di storie ambientate in paesi esotici, nei quali gli eroi protagonisti si dedicavano ad aiutare il prossimo in difficoltà, rispecchiando così l’ideale dell’uomo che lotta per ciò in cui veramente crede.
Gianni Amelio Antonio Albanese

In questo film vediamo narrata la vita di un eroe intrepido, simile a quelli dei fumetti, la cui caratteristica principale è quella di svolgere un lavoro fuori dal comune: Antonio Pane si occupa di fare il “sostituto” di persone che non hanno la possibilità di recarsi al lavoro per qualsiasi tipo di motivo. Lo vediamo svegliarsi all’alba di una grigia e metallica Milano e recarsi in cantiere; poi a fare la maschera; poi appendere cartelloni pubblicitari, e ancora pulire le tribune degli stadi dopo le partite. Ogni mattina Antonio si sveglia e il suo destino lo porta in un luogo nuovo e sempre diverso, a riempire il vuoto di chi non è potuto esserci. È un uomo incredibilmente umile, e forse proprio per questo felice, o quantomeno contento, della vita che fa. Gli piace l’idea di scoprire cose nuove ogni giorno e di poterlo fare aiutando qualcuno. Anche lui però insegue un sogno ed è quello di diventare insegnante. Nei ritagli di tempo si dedica infatti allo studio per preparare l’esame di Stato, per il quale ogni volta concorre, ma non viene mai preso. Proprio durante l’esame vede una ragazza, seduta accanto a lui, rimasta bloccata davanti al foglio bianco; così dopo aver concluso il suo esame, segna su un foglio le risposte giuste e gliele passa sottobanco: in questo modo conoscerà Lucia. Si tratta di una ragazza cupa e bizzarra, che Antonio non riesce a capire a fondo ma proprio per questo è spinto verso di lei, per questo suo irrefrenabile bisogno di aiutare gli altri. È molto giovane, ha la stessa età di suo figlio Ivo, che fa il musicista di professione e con il quale ha un ottimo rapporto, ed infatti tenterà invano di farli conoscere. Antonio è una persona che chiede sempre agli altri “Come stai?”, “Sei felice?”, cosa rara e difficile da domandare in modo sincero e disinteressato, ma purtroppo la sua gentilezza e disponibilità non è sempre ricambiata con la giusta dose di gratitudine. Un po’ alla volta scopriamo che Antonio è separato e che la moglie si accompagna con un uomo diametralmente opposto rispetto a lui: uomo d’affari, concreto, egoista; che suo figlio vorrebbe fare il musicista ma il suo carattere difficile e nevrotico lo ostacola nel tentativo di instaurare un buon rapporto con i colleghi e spesso prima delle performance è colto da attacchi di panico che gli impediscono di esibirsi sul palco.
Un poco alla volta tutte le certezze di Antonio vanno in mille pezzi: le persone che si occupano di trovargli i lavori da “sostituto” sono in realtà dei delinquenti e decide di mollarli, litiga con il figlio, e l’unico rapporto sincero che è riuscito ad instaurare, quello con Lucia, si conclude con una catastrofe. Ma Antonio non si ferma. Questo è il suo bello: nonostante tutto va avanti e non si lascia trascinare dagli eventi.

Antonio Albanese Intrepido


L’intrepido è stato presentato quest’anno alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e (che ve lo dico a fare) ovviamente ha diviso la critica: si è beccato qualche fischio e qualche urlo di gioia. Il personaggio principale è ben descritto, sicuramente anche grazie all'interpretazione di Albanese, mentre gli altri personaggi (il figlio Ivo e Lucia) lasciano un po’ a desiderare, come ombre retrostanti non ben delineate. Non è sicuramente un capolavoro, ma è un film onesto e sincero, una poesia in forma visiva sulla vita di una persona umile come poche. È per questo che strappa diverse risate ma lascia scorrere anche qualche lacrima, perché narrato in modo leggero, chiaro e favoleggiante. Sì, perché Antonio ricorda davvero un personaggio dei fumetti, un eroe fantastico in veste ordinaria, che ognuno di noi vorrebbe conoscere anche solo per sentirsi domandare una sola volta “Sei felice?”.

Roberta Cristofori

17 ottobre 2013

Intellettuali e Primavere arabe: le nuove scuole del Medio Oriente

In questo tempo di Occidente attraversato da crisi economica, contrasti politici e dibattiti più o meno espliciti sul rapporto tra comunicazione e democrazia, Medio Oriente è sempre più, nell'immaginario collettivo, sinonimo di conflitto esasperato, endemico, eterno. Medio Oriente diventa una miscela esplosiva dal gran fragore e dalle poche sfumature, ma proprio da una scheggia di questo chiasso è originario Elias Khoury, scrittore ed intellettuale nato a Beirut nel 1948, ospite in Italia della rivista “Internazionale” e intervistato da Gad Lerner, nato anch'esso nella capitale libanese ma di tutt'altro destino.
Proprio dal Libano si parla, terra originaria dei Fenici nota per i suoi cedri secolari, Paese che accoglie un numero sempre crescente di profughi dagli stati vicini, siriani, ma soprattutto palestinesi: una condizione oramai cronicizzata e non per questo accettata.
Tra tutti i conflitti del calderone mediorientale, quello per antonomasia è la “questione palestinese” che incrocia il suo destino con quello della terra dei cedri: molti sono i palestinesi che abitano lì in una situazione di tensione costante perché sono molti a pensare che gli arabi degli stati attorno ad Israele non abbiano mai fatto abbastanza per risolvere la loro questione.
In Libano in particolare, il sistema istituzionale è stato condizionato dalla guerra civile che si è conclusa soltanto negli anni Novanta e che ha portato arabi di religioni diverse scontrarsi tra loro in virtù di una fede che fino a poco prima non era stata motivo di odio: dopo anni di scontri fratricidi ha prevalso la linea politica dettata dalla Siria che ha l'obiettivo di mantenere alta la tensione religiosa, compresa quella interna all'Islam tra sunniti e sciiti.
Tra gli sconfitti della guerra civile e della politica confessionale di Damasco ci sono anche gli intellettuali di sinistra come Khoury che hanno sposato la “causa palestinese” e proprio sui motivi che hanno portato a questa scelta pone l'attenzione Lerner. “Non mi piace il termine "causa palestinese, precisa lo scrittore, io sto con i "palestinian people". Il mio dovere partigiano è in quanto essere umano, non in quanto intellettuale. Immedesimarsi nella popolazione palestinese è un dovere umano, non politico. L'umanità viene prima.”
Questo approccio è fondamentale, secondo Khoury, per contrastare la paura e la diffidenza instaurata da politiche confessionali come quella di Damasco. La paura convince, spaventa, fomenta l'odio del vicino, enfatizza differenze normalmente neutre: “la politica confessionale è una forma di razzismo”, del tutto impermeabile alla lezione della storia, in particolare quella della Shoah con la sua scia di vittime e carnefici sempre più mescolati tra loro.
Questa ideologia ufficiale ben radicata impone, inoltre, una visione positiva del martirio nonostante i martiri siano giovani, nonostante siano a loro volta vittime, Gad Lerner allora si chiede come sia possibile criticare in quanto intellettuali un approccio così diffuso e radicato. Elias Khoury non ha dubbi: “Il dovere degli intellettuali è di identificarsi e stare vicino alle vittime di un conflitto, ciascun conflitto. Tutti amano la rivoluzione sui libri, ma nessuno vuole o ama la rivoluzione dal vivo perché implica distruzione, avviene soltanto quanto le persone sono disperate. È un processo lungo, complicato, toccherà anche alla Siria. Il nostro compito è esserci, stargli vicino, supportarla.”
Tutto ciò non è possibile senza una forma di solidarietà umana che, tuttavia, è morta in molti paesi della zona come Israele che ha dimenticato la sua stessa memoria, eppure la solidarietà è, secondo Khoury, l'unica via praticabile per porre fine alle tragedie del nostro tempo che siano esse conflitti, occupazioni o colonizzazioni. Lo scrittore denuncia al proposito una forma di coma nell'opinione pubblica globale che va rotto, dibattuto, discusso affinché sia possibile ricostruire un movimento di solidarietà.
Tocca a Gad Lerner far notare che la generazione di intellettuali laici arabi come Khoury, pensiamo per esempio ad Edward Said, si va spegnendo. Quale futuro immaginano?
Pronta e spiritosa la risposta di Elias Khoury: “Ogni età ha i suoi doveri. Take it easy che se tu sei generoso con la vita, la vita è generosa con te. Democrazia, diritto di libera espressione, diritto di associazione,  liberazione, indipendenza: sono tutti termini che da soli non hanno significato. La scrittura è l'unico luogo dove si può parlare con i morti, dove poterci incontrare e confrontare con gli intellettuali del nostro tempo.
Le nuove generazioni saranno migliori della nostra: noi abbiamo fatto molti errori e in molte cose abbiamo fallito. Speriamo che siano più attenti politicamente, più aperti intellettualmente e in questo senso quando sono cominciate le prime rivoluzioni arabe è stato bello vedere che a dare avvio sono stati giovani e giovanissimi. È tempo per noi di tornare a scuola, la scuola della rivoluzione e imparare dai giovani un nuovo modo di vedere il futuro. E ancora penso che, nonostante le rivoluzioni portino instabilità e terrore, queste sono le nuove accademie del mondo arabo. Toccherà alle nuove generazioni il compito di trovare una strada per uscire dai dispotismi e creare un nuovo mondo arabo nel quale tutti possono vive con dignità.
 
Angela Caporale

13 ottobre 2013

TheSundayUp - Blackelectrospaghettisoulbrotherswestern, cioè i Gnarls Barkley, St. Elsewhere (2006)


Spesso mi sono fatto regalare album che, col senno di poi, era meglio morire da piccoli piuttosto che raggiungere l'età della ragione (in senso lato) e sapere di averli ascoltati e avere anzi informato amici e parenti dei miei “gusti” per l'appunto con lo scopo di farmeli regalare. Una volta tanto, invece, l'ho azzeccata, come quell'unica volta in vita mia che riuscii a segnare un canestro della vittoria all'ultimo minuto, per giunta da tre punti (dopo averne sbagliati altri 3, tipo), coronando l'azione difensiva successiva con un fallo subìto. E' una roba che capita raramente, e forse mi è capitata più spesso coi dischi che con lo sport, il che la dice lunga su almeno una delle due cose.
Il disco in questione è St. Elsewhere (2006), dei Gnarls Barkley, che praticamente sono lo shibboleth ideale per distinguere ed eliminare gli inautentici fra le nostre conoscenze, per la gioia di noi pronunciation-nazis di tutto il mondo. (sì, la [g] è muta).

Danger Mouse e Cee-Lo Green.
Io, come tutti quanti, ancora guardavo Mtv, quando ancora Mtv si faceva guardare, almeno durante la colazione o la merenda e perciò, come tutti quanti, non avevo potuto fare a meno di incappare nell'heavy rotation di Crazy, un singolone col ritornellone, che però aveva qualcosa di speciale, capimmo subito che non era il Gotye di turno [ANACRONISMO! ANACRONISMO!]. Fu anche impossibile resistere al secondo (che poi non era tecnicamente il secondo, se non sbaglio, ma ai quei tempi cosa vuoi che sapessimo) singolo con video, quella che imparai essere una cover di un gruppo alternative/country-punk (sic), i Violent Femmes. (oh, a proposito di nazi della pronuncia: a rigore bisognerebbe dire vàiolent fàms, dando vita a una enunciazione mistilingue tra inglese e francese, perché altrimenti per suonare violàn fàm avrebbe dovuto essere Violentes Femmes; allo stesso modo prima di studiare filosofia, non avevo idea della buffa concordanza dei due termini Port-Royal e soprattutto della sua pronunzia).
Era un video che trovo tuttora godibile e stimolante: una banda di scalcinati insettacci colorati (un po' alla tutti voglion fare jazz) corre dietro a una donna che rappresenta uno stranissimo incrocio fra una casalinga improbabile di Wisteria Lane e una coniglietta di Playboy, ammesso che questa stessa definizione non collassi nel suo primo termine (cioè, 'casalinga improbabile di W.L. = casalinga + coniglietta di PB), rappresentando il marcio del mondo o forse solo la mente giusto quel cinìn perversa dell'adolescente medio (a tal proposito, non è possibile non citare il video degli Is Tropical). Un libero gioco fra perversione orrenda e innocente esplorazione, che si colloca su una linea rossa che va dal Bukowski di Panino al prosciutto e il Nick Cave di Let love in, pt.2
E una volta ricevuto e avuto il ciddì in quel colorato 2006 non potei fare a meno di dire “hm, bah, bih, boh, ochei, carino, belli i singoli, ma vabbè”. Non ero evidentemente pronto culturalmente ad apprezzare i Gnarls. Ho avuto occasione di riscattarmi, informandomi meglio e facendo tesoro dei brufoli e degli ormoni acquisiti e passati nel frattempo, col loro secondo e ultimo disco, del quale non parlerò. Da allora sono entrati nel mio personale olimpo di gente a cui voglio bene, anche in considerazione dell'esibizione del proprio fisico che fa Cee-Lo Green, che tra parentesi è quello che forse ricorderete per un singolotto di medio successo, “Fuck You”, al cui riguardo non si può non ricordare il suo più nobile predecessore di un personaggio che andrebbe ricordato e al quale forse dedicherò un episodio di Talk About the Passion.

Non essendo ancora riuscito a dire un cazzo dell'album in quasi una pagina, continuerò a non farlo, perché per capire i Gnarls Barkley è necessario prima avere una basilare conoscenza di Ennio Morricone, e in secondo luogo di Brian Burton, che è l'altrà metà dei GB. Perché un duo di ?hiphop sperimentale/pop/soul/funksoulbrothersshakeitoffnow dovrebbe avere come grande antefatto storico uno di cui nelle redazioni di tutto il mondo è pronto il coccodrillo come Ennio Morricone, nominato e vincitore degli Oscar dell'Academy e compositore di qualsiasi cosa tu abbia udito in questo paese, dai celeberrimi spaghetti-western a qualche filmetto italiano moderno, ai b-movies all'italiana alle canzoni di Gianni Morandi? Perché Danger Mouse (il moniker di Burton) ci è rimasto sotto, con Morricone, come dimostra un suo album più recente, veramente veramente stupendo, che prende il titolo di Rome, composto e suonato insieme a tal Daniele Luppi*, un italiano che ha lavorato a colonne sonore e cose di questo genere e che si fa foto da piacione, e in cui prestano la voce Jack White e Norah Jones, che non è necessariamente l'accoppiata che daresti per vincente, ma che in questo caso vince e stravince tutto. Qui c'è lo streaming integrale.



Ora, alla fine della prima cartella, siamo forse pronti per parlare di St. Elsewhere. Crazy, per l'appunto, racchiude elementi palesemente e manifestamente morriconiani, senza che nessuno di noi, nei suoi splendidi (?!) sedicianni se ne fosse vagamente accorto. In primis, i cori e i mormorii, come anche la instant-saudade della parte di archi del ritornellone. Ovviamente tutto quanto risciacquato in Detroit - altrimenti col cavolo che ci finiva su Mtv.
Forse il pezzo migliormente rappresentativo di questo felice incontro nato ad opera di Danger Mouse fra Motown, Morricone e Methodman in tinte di largoconsumo e con quel tanticchia di elettronica che personalmente mi fa sempre impazzire nei dischi, quando funge da spolveratina di parmigiano su un piatto di tagliatelle al ragù (cf. It's a Wonderful Life dei Sparklehorse **), è Smiley Faces, che a sua volta ha un video indimenticabile, una roba al cui confronto Dani California sparisce nella melma, visto che al suo interno ha persino Dennis-fucking-Hopper diol'abbiaingloria (e a posteriori, forse anche perché assomiglia molto al video del mio pezzo preferito di Elio e le storie tese). 
Un pezzo molto interessante da questo punto di vista è il primo, Go-go Gadget Gospel, col suo sfanfarare isterico che accompagna un delirio mistico da predicatore alla James Brown nel famoso film con tanto di controcanti su un tappeto di loop di batteria pseudo-jungle [Scaruffi abbandona questo corpo!] Altri richiami all'affresco morriconiano di tristezza epica si hanno in Just a Tought, e se pensi che questa chitarra spagnoleggiante è unita a un pattern di batteria del genere, non puoi fare a meno di pensare che il mondo sia un bel posto, in fin dei conti.

St. Elsewhere è il brano dell'ascesi mistica con l'altissimo, o per meglio dire, col profondissimo – spiegherò cosa intendo più avanti. Improvvisi scatti e accessi di un coro demoniaco alternati a momenti di lucida enunciazione di una situazione dello spirito fatta allegoria geografica (un po' alla Gorillaz del Mulino Bianco a vento o Cloud of unknowing per capirci). Quello di Santo Da un'altra parte è un concetto che mi piace e non starò a dirvi perché, ma mi limiterò a segnalare la sua origine, che riguarda una vecchia serie Tv omonima (in italiano, A cuore aperto):
The hospital's nickname, "St. Elsewhere," is a slang term used in the medical industry to refer to lesser-equipped hospitals that serve patients turned away by more prestigious institutions. 
Posti in cui non manderesti tua suocera, insomma. St. Elsewhere è invece un luogo dell'anima o per meglio dire della psiche: infatti una tema ricorrente nei testi è quello della frammentazione dell'ego, della molteplicità del sé (vedi, didascalicamente, Transformer). Se facessi uncerto tipo di blogging o se fossi il reginetto di Blogspot citerei Starobinski, uno dei più dei grandi letterati viventi e svizzeri allo stesso tempo, e i suoi studi sulla melanconia o userei l'aggettivo “egoico” senza vergogna di me stesso, ma pensandoci bene non credo che lo farò. (ah, la preterizione è anche la mia figura retorica preferita). In molti altri pezzi sono presente bei versi di introspezione (la stessa Just a Tought) che lascio a voi da scovare. Degna di nota è l'interpretazione secondo cui, invece che essere una raffinata metafora per i mostri che il sonno della ragione cela quotidianamente all'io, The Boogie Monster sarebbe una canzone sulla disfunzione erettile – il che la renderebbe, oltre che spassosissima, il secondo miglior pezzo sull'argomento dopo quella degli indimenticati (credo solo da me) Art Brut.

Molte altre cose ci sarebbero da dire, su questi due notevolissimi personaggi e su questo stesso album, ma, per carità di patria, abbiamo deciso di rimandarle a un secondo appuntamento, sempre su questi schermi. Sempre che siate arrivati a leggere fin qua.

Filippo Batisti



*in modo postumo, vengo a sapere che Luppi ha suonato anche in questo disco,  bass, Minimoog, organ, synthesizer e ha orchestrato Storm Coming, non a caso, insomma. Inoltre, diversi degli stessi pezzi di St. Elsewhere contengono campionamenti da paladini della colonna sonora all'italiana, quali Armando Trovajoli, recentemente scomparso, o i fratelli Reverberi.
** coi quali, guarda un po', successivamente ha collaborato proprio Danger Mouse insieme a David (uff) Lynch, prima del suicidio di Mark Linkous. 

SundayUp: To the sound of the monstrance clock: l'ascesa dei Ghost

C’è qualcosa che unisce gli ABBA e i Black Sabbath.
Fino a 5 anni fa se qualcuno mi avesse detto questa cosa probabilmente l’avrei preso per matto. Oggi, però, la situazione è diversa.
Infatti, nel 2008 si sono formati, in Svezia, i Ghost (ora Ghost BC negli Stati Uniti, per ragioni di copyright).


Li ho scoperti cercando informazioni sugli Opeth (formazione prog metal svedese): i Ghost, infatti, hanno partecipato a un loro tour assieme ai Mastodon. In tour promuovevano il loro primo album, Opus Eponymous, che parla… della nascita dell’anticristo.
Ora, considerato che all’epoca si trattava comunque di una band minore del circuito metal alternativo svedese, non c’era granché da stupirsi: probabilmente c’erano gruppi con tematiche ben più cruente. Quello che stupisce è il successo che i Ghost hanno avuto in seguito: attualmente sono in tour, e quest’anno hanno in programma un tour americano con gli Avenged Sevenfold e i Deftones e uno inglese con gli Alice in Chains. Soprattutto i secondi, concorderete, sono piuttosto lontani come stile dal circuito metal alternativo svedese. Il loro successo, insomma, come ho detto, stupisce.

Ma perché hanno avuto un successo tale? Cosa rende i Ghost così speciali?
Ci sono diversi elementi che hanno contribuito al successo della band. Il primo è sicuramente la loro forte caratterizzazione visiva, la loro immagine. I sei membri del gruppo suonano sempre indossando abiti di scena che ne celano l’identità: i cinque strumentisti non hanno nome (ma ognuno di essi è associato a uno dei cinque elementi alchemici: fuoco, acqua, terra, aria e etere), sono i Nameless Ghouls; il cantante, la cui identità è altrettanto segreta, è Papa Emeritus II (sul primo album cantava Papa Emeritus I, sostituito dal II durante il primo concerto di presentazione del loro secondo album).
Un secondo elemento sono i testi: tutti i loro testi parlano di Satana. Non parlano di Satana come i Black Sabbath, in modo suggerito, o come i Led Zeppelin, in modo casuale e più che altro teorizzato da pazzi scriteriati e non parlano di Satana neanche come i vari gruppi Black Metal, che danno all’ adorazione del demonio una connotazione seria. I Ghost parlano di Satana in tutti i loro testi e in modo decisamente esplicito, per dileggiare la religione (principalmente quella cattolica, dato che il loro cantante è un messo del diavolo): nelle parole di un Nameless Ghoul, “what we've actually done is just taken the church and painted a moustache on it1. La dileggiano anche associando a Satana, nei loro testi, diversi elementi riguardanti la sfera sessuale e delle perversioni. Una cosa curiosa, a questo riguardo, è ciò che è successo negli Stati Uniti: la pubblicazione dell’album è stata ritardata perché non si riusciva a trovare un tipografo che stampasse le illustrazioni dell’album, tra cui una illustrazione del 16° secolo raffigurante un’orgia. Un Ghoul ha raccontato il suo stupore riguardo a ciò: il problema non era l’adorazione di Satana nei testi, ma le nudità e le oscenità, e “That's exactly what the record is about2: il fatto che, negli anni, con la scusa dell’adorazione di Satana, le chiese abbiano sempre voluto punire la libertà sessuale.
Il terzo elemento che ha contribuito al successo dei Ghost è, neanche a dirlo, la musica.
Le loro canzoni sono fighe.
Non ce n’è una a cui manca un ritornello che non sfigurerebbe su un disco degli ABBA (ma con più Satana), e hanno tutte un ritmo incalzante che ti piglia tipico delle canzoni pop più che del metal. D’altro canto, hanno anche dei groove di chitarra e basso inquietanti tipici di band come i Black Sabbath o i Kyuss e delle tastiere che sembrano suonate da Belzebù in persona.

Infestissumam, il loro secondo album, che riprende il filo del discorso lasciato in sospeso da Opus (cosa succede DOPO l’arrivo dell’Anticristo?), è prodotto da Nick Raskulinecz, che ha prodotto gli ultimi due dischi dei Rush, e One by One e In Your Honor dei Foo Fighters, non esattamente un principiante, insomma, e si sente: Infestissumam ha un suono davvero curato (a parte forse la batteria un po’ invadente, ma è verosimile che ciò sia voluto).
Il disco si apre con l’intro Infestissumam, che fa così:

Il Padre
Il Filio
Et lo Spiritus Malum
Omnis caelestis
Delenda est

Anticristus
Il Filio de Sathanas
Infestissumam



Se non l’aveste capito finora, è questo che significa “tutti i loro testi parlano di Satana”.
L’intro prosegue direttamente in “Per Aspera ad Inferi”, poi il disco prosegue scalpitante fino al pezzone portante, ovvero Year Zero, primo singolo dell’album e vero e proprio inno dei Ghost, il cui ritornello fa così:

Hail Satan, Archagelo
Hail Satan, welcome Year Zero

E come potrete intuire, parla del momento dell’ascesa al potere dell’Anticristo.
Il disco poi prosegue per concludersi con il vero, grande capolavoro dei Ghost: Monstrance Clock, che parla di un’orgia satanica, e si conclude con un coro che proclama a gran voce:

Come together, together as a one
Come together, for Lucifer’s son

Giocando chiaramente sul doppio senso tra il “venire tutti assieme” e il riunirsi tutti insieme, come una sola creatura, tra le braccia dell’Anticristo.

Tempo fa (prima di scoprire i Ghost), parlando di cosa voglia dire davvero essere “ribelli”, caratteristica che dovrebbe appartenere in modo particolare a chi fa metal, con il cornamusista degli Ad Plenitatem Lunae, formazione folk metal friulana, si constatava tristemente che nel panorama musicale moderno non ci sono più gruppi che fanno paura alla mamma e vengono quindi proibiti (c’era Marilyn Manson, una volta). Ecco, i Ghost sono esattamente questo: con il loro satanismo plasticoso e la loro immagine cupa e malvagia, pur se palesemente fasulla, fanno ritrovare quello spirito di goliardia rock n’roll che davvero, negli ultimi anni, avevamo dimenticato.

All hail Ghost!

Guglielmo De Monte


(dovesse venirvi voglia di approfondire, ecco un ottimo modo per cominciare)
1 “quello che, in realtà, abbiamo fatto è stato prendere la Chiesa e disegnarci un paio di baffi”
2 “è proprio quello di cui parla il disco”

7 ottobre 2013

Oltre Lampedusa

Oltre Lampedusa c'è il mare, c'è il mare in qualsiasi direzione che si perde a vista d'occhio, una sensazione di pace, eppure dietro l'angolo c'è l'Africa. Sono soltanto 167 i km che separano l'isola dalla costa tunisina ed in quel tratto di mare si consuma a volte il raggiungimento di un sogno, a volte il compimento di un incubo.
La tragedia dei giorni scorsi che è costata la vita a (almeno) 111 immigrati, metà dei quali donne, la maggior parte proveniente da Somalia ed Eritrea è soltanto l'ultimo segnale che indica che qualcosa non funziona perché non si può morire ad un passo dalla riva e proprio questo è stato il punto di partenza dell'incontro organizzato dalla rivista Internazionale all'interno del suo Festival con Fabrizio Gatti (giornalista de L'Espresso e autore di “Bilal”), Andrea Segre (regista, autore di “Mare Chiuso”), Ahmet Içduygu (professore e ricercatore nell'ambito dei flussi migratori presso la Koç university di Istanbul), Loris De Filippi (presidente di Medici Senza Frontiere, Italia) e Lucio Battistotti in rappresentanza dell'Unione Europea.


La fila fuori dal cinema Apollo di Ferrara è quella delle grandi occasioni e sin dalle prime battute “Sulla rotta della speranza” entra nel vivo del tema dell'immigrazione, forte è l'eco delle immagini del viaggio finito in tragedia di qualche giorno fa e proprio da Lampedusa parte Fabrizio Gatti rilanciando la proposta di candidare l'isola siciliana al premio Nobel per la pace. “Normalmente servirebbero strumenti, eppure quando si è così disperati tutto assume significato. Questo Nobel potrebbe diventare un simbolo, un segno di disperazione, qualcosa che possa servire per portare alla luce quello che accade sul versante meridionale dell'Europa.” Si parla tanto di cosa fare per fermare questi flussi migratori, come se così si potessero evitare tragedie, ma è triste accorgersi -sottolinea Gatti- che si è rinunciato ad istituire dei corridori umanitari per aiutare le fughe di queste persone, individui che scappano da zone di conflitto, dimenticando che avrebbero diritto a varie forme di protezione (dallo status di rifugiato alla protezione internazionale). Si fa presto a dire “immigrato”, ma delle 30.000 persone sbarcate a Lampedusa nel 2008, 10.000 sono di origine eritrea e hanno dovuto lasciare il loro Paese che è retto da una dittatura dal 2001.
E una volta in Italia, quale destino attende quei fortunati che riescono a varcare i confini, via mare e via terra? Secondo Andrea Segre non smettono mai di essere clandestini, anzi lo diventano ogni giorno di più. “Mancano luoghi, luoghi per capire, conoscere, confrontarsi: ci voglio persone, soldi e strutture. E se queste tre risorse vengono investite soltanto in misure di contrasto, il risultato è nascondere il fenomeno migratorio, non affrontarlo.” La retorica politica ha portato soltanto ad un appiattimento dello status del migrante: come se esistesse soltanto il clandestino, come se esistesse solo il migrante economico (che per antonomasia è in Italia per “rubare il lavoro agli italiani”), come se non esistessero forme di migrazione legali, come se non esistesse un dovere umano di accoglienza e protezione di coloro i quali scappano da situazioni che umane non sono più.


È lecito chiedersi perché queste sfumature non riescano ad essere trasmesse all'opinione pubblica, senza di essa infatti, secondo il professor Içduyngu, è impossibile perseguire attività più efficaci per contrastare l'immigrazione irregolare evitando quel processo di criminalizzazione dell'immigrazione a tutti i costi che si è affermato dopo l'attentato alle Torri Gemelle. “Oggi i politici, l'opinione pubblica e anche gli accademici considerano l'immigrazione come un tema spinoso tanto quanto secondario. Bisogna cambiare prospettiva, creando un clima nel quale si può riflettere sul tema della frontiera. La svolta è cambiare mentalità analizzando le cause dell'immigrazione clandestina, ponendo la giusta attenzione su come si compone questo concetto: le entrate infatti sono minime, sono molti quelli che entrano in un paese con visto regolare e finiscono poi nella clandestinità e nel dimenticatoio.”
Tocca a Loris De Filippi il compito di spiegare chi sono i profughi: migranti eritrei, somali e in numero sempre maggiore siriani, individui che scappano, come possono, da situazioni drammatiche, salvo trovarsi in situazioni quasi peggiori. “I campi profughi si stanno espandendo in modo impressionante, ma non crescono altrettanto gli standard di vita sono al di sotto degli standard umani del UNHCR. I Turchi stanno gestendo 450.000 profughi da soli, mentre in Italia si fa fatica con qualche migliaio di arrivi. I numeri parlano chiaro.”

Le crisi arabe implicano una crescita dagli arrivi, è naturale che i profughi cerchino di attraversare il Mediterraneo. Di fronte ad un conflitto è necessario preoccuparsi ed organizzarsi ed è paradossale che in Italia manchi l'emergency prepareness, quella lungimiranza, quella attenzione che permetterebbe di attrezzarsi per gestire l'accoglienza e il flusso di persone che hanno bisogno di cibo, coperte, un tetto sotto al quale dormire.
È bello che gli abitanti di Lampedusa, così come di altre città costiere partecipino all'accoglienza, ma De Filippi ricorda come l'Italia non rispetti dal 1998 gli standard minimi europei per quanto riguarda la ricezione dei profughi: chi arriva in Sicilia dovrebbe poter richiedere lo status di rifugiato e, in attesa di conoscere l'esito della domanda, godere dei diritti e degli standard riconosciuti al richiedente asilo. “In Italia queste cose non si sanno, come non si sa per esempio che il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani, ha visitato il Cie di Gradisca d'Isonzo, insieme alla presidente della Regione FVG Debora Serracchiani: tutti dicono che bisogna chiudere il Cie e tutti ignorano questa notizia che non è stata nemmeno ripresa sui media nazionali. Perché? L'unica notizia che passa sull'immigrazione in Italia è quella che riporta i fischi contro Balotelli o le schermaglie tra la Lega e la Kyenge. Chi denuncia? Chi ce la fa? Chi riesce a far conoscere? Ci vuole militanza, imponendo le notizie sui migranti in prima pagina. Anche noi abbiamo sbagliato, abbiamo abbassato la guardia, ma ora torniamo alla voglia che avevamo 10 anni fa di far cambiare le cose!”.

È tempo, quindi, di andare oltre Lampedusa, di ripartire dall'informazione, dalla conoscenza, dal dibattito affinché sia possibile contrastare la retorica xenofoba dell'immigrazione criminalizzata e affrontare il problema in ogni sua parte, cominciando dalla tutela dei richiedenti asilo, aprendo corridoi umanitari in modo da togliere i profughi dalle mani delle mafie che gestiscono le attraversate. La politica del “dobbiamo essere cattivi!” (cit. Roberto Maroni) non ha dato i suoi frutti e si dimostra ancora poco lungimirante e affinché non ci troviamo costretti a dare ragione all'anonimo writer genovese che ha lasciato un appello agli immigrati “Non lasciateci soli con gli italiani!”, è necessario andare oltre.