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29 settembre 2013

SundayUp: Skagboys - Irvine Welsh (2014)


Una vita da tuonati, un inizio.

Cercare qualcosa non serve, perchè l'unica cosa è a portata.

A portata di vena.



Skagboys Irvine Welsch
La parabola degli skagboys viene crudemente dipinta dal solito ragazzaccio scozzese, che ci riporta per mano fra i marcioni del Leith, fra eccessi alcolici, banali risse da fùtbol, perdite di liquidi strani, parole incomprensibili, odio per gli Hearts e la Thatcher, la skag.



La skag.

L'altra donna a cui non si può resistere.



Giustificazione di un declino o impotenza davanti al delinearsi degli eventi?

Perchè è un po' questo che si contesta a Welsh: l'aver semplificato troppo la faccenda.

Una faccenda in cui le mancanze di prospettive sociali portano verso un declino autodistruttivo, che desse ritmo alle scopate frenetiche con ragazze appena conosciute, o che fosse in quegli spiragli di tempo che non si passavano a menar le mani nei pressi di Easter Road.

Quegli attimi che diventano giorni, poi mesi, poi anni, in un tunnel nichilistico in cui la luce fatica ad entrare.



Welsh si esibisce in un esercizio storico notevole (e non per forza riuscito): infilare il Leith e la sua gente negli anni in cui Maggie agitava il bastone, quasi esigendo di voler trovare le radici di un malessere comune, che sarebbe diventato a breve una piaga sociale per mancanza di futuro.



E dire che in Skagboys tutti sono al loro posto: Renton studia ad Aberdeen, Sick Boy è sempre il solito playboy, Begbie si nutre di paura e piastrine, Spud è il solito gattone che trascina le giornate fra un lavoro precario e una delusione amorosa.

Ma quando la strada di giovani annoiati e disillusi da una società che li nega si incontra con quelli di sua maestà skag, tutto diventa uno scivolo tortuoso e pregno di vaselina: ti fermi solo se c'è qualcosa a cui aggrapparti.



Famiglia, sport, interessi: non conta più niente.

"E' stato amore al primo buco".



Skagboys ci riporta agli albori delle vicende meglio note nel pre/se-quel Trainspotting.

Ma l'ultima fatica di Welsh è una scala di grigio infinita.

Opprimente, delirante, senza uscita.

Una marea di personaggi che si incontrano, se ne vanno, poi ritornano.

Tutti senza scampo.



Perchè il solo modo per andare avanti è un pizzichino di skag, e alla fine ti ritrovi a imbarcarti in avventure assurde per guadagnare due soldi per lo sballo.

I cattivi ragazzi di Leith arrivano perfino a diventare corrieri per un certo Seeker, che li imbarca su traghetti improbabili che solcano i mari del Nord.



Ma in tutto c'è una fina, e la maggior parte delle volte è a metà strada.

Parenti, amici, fidanzate: si vacilla sotto il peso di un buco, si rimane avvinghiati a una dipendenza che rende schiavi, reietti, rifiuti della società scoto-inglesoide che non ha più spazio nemmeno per i propri figli più nobili.



Forse Welsh ha esagerato.

Forse voler trovare le radici di tutto nel thatcherismo estremo, anche se lo scrittore scozzese l'ha provato sulla sua pelle, pare semplicistico e avventato.

Sprazzi di poesia si alternano a momenti di cruda violenza verbale.

Momenti in cui non conta altro che trovare una cintura per legarsi il braccio e far saltare fuori la vena, lasciano spazi a momenti di vera amicizia, connessione esistenziale e lucidità sulla propria condizione.



Rents & Co. Prendono per mano in un viaggio psichedelico, in cui ci guidano attraverso posti già visti e altri ancora da scoprire, permettendo di toccare con mano la tragedia generazionale di giovani tossici di città.



Le 618 pagine di Skagboys sono forse troppe, anche se dentro gli ingredienti sono quelli giusti: si arriva alla fine con ancora un po' di fame, ancora un po' di spazio per ingurgitare i serrati dialoghi in scoto appena masticato.

Funziona come la skag, appunto: non puoi più staccartene.

Qualche ingrediente è di troppo: si arriva alla fine senza capirne il senso, senza comprendere se quel pizzico di Begbie fosse meglio di un'indigestione di Sick Boy.



Skagboys è un'altalena in cui continui a dondolarti troppo forte e malamente.

Quell'altalena che cigola, vibra, si muove, ma sembra essere solida.

Dietro all'altalena poi arriva qualcuno che ti spinge, prendi il volo.

E mentre voli ti chiedi: voglio sapere dove arriverò?



Skagboys è un libro intenso, provocatorio, al limite del censurabile, che può essere interpretato in migliaia di modi.

E' impossibile uscirne indifferenti, uguali a prima, non scossi nell'interno.

Una tragedia moderna così farcita da sembrare banale, scontata, ma se ci si concentra sulle ferite aperte durante la lettura ci si accorge di sanguinare forte.



E troverete sempre uno stronzo che si mette a riportare tutte le belle frasi di Welsh, sbattendole in piazza così come sono: insipide, senza sugo, scricchiolanti.

E quello stronzo lo sono stato anche io.



Ma se c'è una cosa che ho imparato da Welsh è che le perle vanno cercate in profondità, scavando nella melma, chiudendole in un cassetto, ritirandole fuori dopo un po' di tempo per vedere se luccicano ancora.



Welsh ne semina tante in Skagboys.

E avrei potuto riportare belle frasi ad effetto, che illuminano qualche secondo ma poi si perdono come un rutto nel derby Hibs-Hearts.



C'è una frase profonda, sul ciglio tra i due burroni che sono speranza di redenzione e disincanto per una condizione ormai segnata.

C'è una frase che mi rimarrà sempre incisa sulla pelle dell'anima e mi farà ricordare di questo lungo viaggio con Welsh.



Can a fellow be a villain all his life?





Lorenzo Gualandi 

27 settembre 2013

"Nessun alternativa alla Merkel" - Intervista post elezioni in Germania al prof. Piero Ignazi


Le elezioni federali in Germania che si sono svolte lo scorso fine settimana hanno visto prevalere nettamente l’unione cristiano-democratica guidata della Cancelliera uscente Angela Merkel con ben il 41,5% dei consensi. Gli altri tre partiti di sinistra che sono entrati nel Bundestag (il parlamento tedesco) ovvero i social-democratici del SPD, i verdi e gli ex comunisti della Linke sommati hanno raccolto solamente un punto percentuale in più del partito al governo negli ultimi 4 anni e dei loro cugini bavaresi della CSU. Su 82 milioni di cittadini tedeschi 20 hanno votato per la Merkel. Ciononostante, anche a causa della clamorosa débacle dei liberali del FDP, Mutti (“la mamma” così viene affettuosamente chiamata la Merkel in patria) dovrà ricercare un alleanza con un altro partito per formare una maggioranza di governo. La grande coalizione con l’SPD è all’orizzonte.

Quasi tutti i media nazionali e internazionali questa settimana sono stati molto indaffarati ad osannare Angela Merkel e a descriverla come una grande statista del nostro tempo, destinata ad essere ricordata per la sua abilità nel traghettare con fermezza il proprio paese in acque tranquille in tempi di tempestosa crisi economica. Inoltre tanti osservatori si sono soffermati su quanto sia amata dal proprio popolo, grazie alla sua calma e semplicità.

Ma quali sono i suoi reali meriti in questa vittoria? Che Germania dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? Come potrebbero mutare gli equilibri all’interno della zona Euro? Ne parliamo con Piero Ignazi, politologo, docente presso l’Università di Bologna di Politica Comparata e Politica Estera dei Paesi Europei ed editorialista de “L’espresso” e de “La Repubblica".

Per spiegare il notevole successo dei cristiano-democratici della CDU, molti commentatori hanno addotto come motivazioni il senso di stabilità e sicurezza che la Cancelliera Angela Merkel riesce ad infondere nei tedeschi e le eccellenti performances economiche dell’economia tedesca durante il suo ultimo mandato. Ritiene che altri fattori siano stati rilevanti in questo appuntamento elettorale? Se sì, quali?

Sì, io credo che ci sia stata soprattutto un assenza di alternativa. Non credo ci siano stati particolari meriti della Merkel. I meriti della tenuta economica della Germania sono unanimemente attribuiti al governo rosso-verde di Schroeder e alle riforme da lui imposte. Per esse nel 2005 chiese di essere riconfermato, anticipando le elezioni di un anno e provocando la caduta del proprio governo per avere un mandato più forte. Tuttavia non ci riuscì per pochissimi voti. E quindi il merito in realtà non è della Merkel che, contrariamente a tanti, considero un politico di media levatura. Un ottimo tattico, molto attento ad eliminare possibili concorrenti, ma non certo un politico di visione. Anzi, le sue visioni sono estremamente ridotte, limitate e parrocchiali. Il suo risultato elettorale non è certo una vittoria storica. Ho trovato di un'ignoranza abissale i commenti dei nostri giornali. La Cdu ha più volte superato il 40%; quindi non è certo una vittoria storica. Detto questo, ripeto, la spiegazione va ricercata nei demeriti degli avversari, in particolare dei social democratici, che non hanno capitalizzato il successo di Schroeder, che sono stati travolti dall'esperienza della grande coalizione e che, dopo il trauma della sconfitta storica nel 2009 (quella sì storica) non hanno trovato un alternativa.

http://it.wikipedia.org/wiki/Piero_Ignazi
Quindi c’è qualcosa che non va a sinistra…

Il problema del SPD è che non ha più una strategia e soprattutto ha un rapporto complicato con la Linke, il partito più radicale. E' un rapporto complicato, perché in parte nella Linke ci sono degli estremisti radicali alla Lafontaine ed è questo è il suo vero handicap. Questo ex leader  ha scardinato la cancelleria della SPD, ha rotto clamorosamente con Schroeder nel primo governo rosso-verde e  poi ha fatto vari passaggi in formazioni alternative di sinistra. Aveva quasi abbandonato la politica ma poi è rientrato e rappresenta sempre una sorta di spina nel fianco per l'SPD e rende molto difficili i rapporti tra quest’ultimo e la Linke. C'è una difficoltà oggettiva da parte dei social-democratici a creare una coalizione rosso-rosso-verde. Che tra l'altro avrebbe la maggioranza dei seggi. Se ci fossero le condizioni politiche ci sarebbe una maggioranza alternativa dato che ci sono 5 seggi di vantaggio.

Ha letto l'intervista del 25 settembre di “La Repubblica” al noto sociologo Ullrich Beck? In essa Beck sostiene che in un probabile governo di larghe intese i social-democratici potrebbero essere decisivi nel limitare il potere decisionale della Merkel e spingerla verso una maggiore solidarietà verso i paesi più in difficoltà della zona Euro. Cosa ne pensa?

Sì, l’ho letta e non l'ho trovata niente di che. L' SPD diventa inevitabilmente un elemento fondamentale come partner. Ma allo stesso tempo come fa un partito che ha 16 punti in meno rispetto al suo alleato a condizionare più di tanto? È molto complicato per il partito social democratico riuscire a fare una cosa del genere. È intrappolato, anche se sta un po' recalcitrando. Se aderisce alla proposta di fare una coalizione potrà porre qualche condizione, ma non più di tanto. Ci fosse stato un risultato diverso, l’SPD avrebbe potuto contrattare da una posizione più forte ma avrebbe potuto anche formare un governo rosso-verde con i Grunen, sostenuto dall'esterno dalla Linke. Ma la cosa non è avvenuta…

Parliamo della mancata entrata del partito euroscettico “Alternativa per la Germania” (TBU ne ha parlato qui) nel Bundestag. Qual è la sua opinione in merito? È un’ulteriore conferma dell’impermeabilità del sistema politico tedesco ai sentimenti antieuropeisti?

Secondo me questo partito non avrà grandi sviluppi. Ma vorrei cogliere un aspetto interessante che in pochissimi hanno sottolineato. C’è  stato un incremento del 5% nella partecipazione elettorale. E non è poco… Tuttavia la componente dell’elettorato più disaffezionata, insofferente, protestataria e alienata rispetto alla politica ha trovato uno sbocco naturale in questo partito. Esso non è però solamente una formazione anti-euro ma anche anti-establishment, anti-governo, anti-Bundesbank e contro i media più influenti. Questo soggetto politico credo che abbia raccolto questi umori di insoddisfazione che cercano capri espiatori. Nel caso specifico, l'Euro, che obbliga (nella loro personalissima narrativa) la Germania ad avere dei rapporti più “rilassati” con i paesi dell' Europa del sud. Tuttavia questa fetta di elettorato si dimentica di quanto fatto dall’Europa quando la Germania era in crisi a causa dei costi della riunificazione.

Mi aveva particolarmente colpito come, durante una sua lezione a cui ho assistito qualche mese fa, avesse accennato ad una “forte ingerenza della Bundesbank nella scelta del prossimo Cancelliere”. Ricordo bene? È un’affermazione impegnativa. Potrebbe per favore spiegarci che cosa intendesse in quell’occasione con questa espressione?

Probabilmente mi riferivo alle ambizioni e alle mire politiche del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Dagli addetti ai lavori viene descritto come un personaggio che sa molto bene ciò che vuole e che probabilmente tenterà in un prossimo futuro di candidarsi al posto della Merkel. Anche se già attualmente Weidmann fa politica nel senso stretto del termine. Perché con la Bundesbank non fa solo politica economica, fa politica, politica vera. Ecco forse intendevo questo. Anche le sue posizioni sono espressione di una certa virulenza politica, di un’aggressività spiegabile solo se uno vuole entrare nelle stanze dei bottoni della politica ed uscire dalle sedi ovattate delle Banche Centrali.

Gradualmente stiamo scivolando nel teatro europeo e nei suoi sottili equilibri. In parole povere, ancora Merkel significa ancora austerità?

Questo è troppo difficile da dire ora. Dipende da molti fattori. Mi pare eccessivo fare un pronostico in questo momento.



Quindi è troppo presto per sperare in Italia in una Germania più distesa, che, come si suole dire, “apra i cordoni della borsa”?

Beh, noi abbiamo un debito pubblico gigantesco e non possiamo dire niente. Le scelte della rieletta Cancelliera sono del tutto indipendenti dalle nostre speranze. Tuttavia non penso che l’Italia debba aggrapparsi disperatamente ad eventuali cambiamenti di rotta e ripensamenti delle linee guida della politica economica tedesca ed europea. L’Italia, come d’altronde la Spagna, ha le risorse per tirarsi su da sola. Semmai sono i paesi più piccoli, quelli privi di risorse interne come Grecia e Portogallo, in un sistema dove ci sono attori così più forti, che hanno bisogno di un sistema di solidarietà. Paesi poveri e senza industria che sono schiacciati dalle differenze all’interno dell’Unione Europea.

Concentriamoci ora sul ruolo della Germania nello scenario più ampio delle relazioni internazionali. A mio modesto avviso, il fulmineo smarcamento tedesco da qualunque tipo di intervento in Siria ha ribadito ulteriormente, dopo la mancata partecipazione al defenestrazione del colonnello Gheddafi, l’emancipazione dagli Stati Uniti. È d’accordo? Stiamo assistendo all’emergere di una nuova consapevolezza del proprio ruolo da parte della Germania? Ci dobbiamo aspettare una Merkel, che dietro la sua aria accomodante e rassicurante, nasconde una sempre maggiore assertività sulle grandi questioni globali?

Eh sì, la Germania è sempre più forte. È sempre più forte economicamente ed è consapevole di tale forza. Ora, per esempio, le si riconosce il diritto di parola sui grandi temi internazionali; cosa che, in un passato non poi così lontano, le era preclusa. Si pensi al suo ruolo nel dialogo con l’Iran, in cui faceva parte dei cinque stati ammessi alle trattative, al contrario dell’Italia. Se magari insistesse vigorosamente per un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, diventerebbe una bel problema negarglielo. Tutto ciò però confligge con la politica del "no problem”, che è una delle etichette della politica estera tedesca. Si può sintetizzare così “ Non vogliamo avere problemi, non ci mescoliamo con gli altri se non siamo proprio obbligati”. La decisione della Germania sulla Libia segue la linea da lei tracciata, dimostrando proprio questa nuova assertività, ovvero la libertà da ogni condizionamento e la capacità di decidere in maniera critica e dissonante rispetto agli alleati. Ma credo che le titubanze tedesche ad uscire definitivamente dal proprio guscio siano un problema. Un grosso problema. Poiché un paese forte che rimane fuori inevitabilmente squilibra il sistema. È un plenipotenziario che rimane passivo. Come se ci fosse a bordo campo Balotelli che fino all’ultimo non sa se scendere sul terreno di gioco o meno. Renderebbe la propria squadra incerta.

Ma anche la squadra avversaria…

Ovviamente anche la squadra avversaria!

Valerio Vignoli

25 settembre 2013

Cronache da NYC: the spot revolution

NEW YORK - Fino a qualche ora prima della chiusura dei seggi delle primarie del Partito Democratico in previsione dell'elezione del nuovo sindaco di New York, i notiziari locali offrivano previsioni sempre più certe sull’esito finale della battaglia che Bill De Blasio e Bill Thompson si sono giocati, è proprio il caso di dirlo, all’ultima scheda.
Dal giorno delle primarie, in effetti, il clima politico intorno al Partito Democratico è stato dominato dall’incertezza, prima e dalla sorpresa, poi. Molte variabili hanno influenzato l’esito di queste consultazioni, alimentando il senso di confusione che le ha accompagnate fino alla data del voto, e oltre.
Per prima cosa il numero di candidati che vi hanno preso parte: sei inizialmente, poi cinque – Sal Albanese è stato infatti escluso dall’ultimo dibattito pre-elettorale perché non ha raggiunto la soglia del 2% nei sondaggi. Tutti e cinque gli sfidanti, o quasi, con una carriera piuttosto importante alle spalle e una personalità non indifferente.

Iniziamo da Christine Quinn. Unica donna (e omosessuale) in gara, il suo nome è stato il primo registrato da ogni sondaggio durante tutta la fase iniziale della campagna. Puntando fortemente sui risultati conseguiti nel suo incarico di City Council Speaker, Quinn ha costruito la sua strategia sulla promessa, rinforzata dai fatti, di poter essere un sindaco che non si sarebbe stancato di lottare per la sua città, aggiungendo così una buona dose di forza e combattività alla sua figura di candidato progressista, di donna in carriera e di esponente di una delle minoranze che compongono il variegato mosaico della società newyorkese. Il suo indiscusso vantaggio si è tuttavia ridotto progressivamente durante l’estate, lasciando così spazio a due candidati rimasti fino a quel momento sconosciuti.
Per Anthony Weiner e John Liu le primarie sono finite ben prima della data del voto: entrambi sono infatti crollati sotto il peso di scandali che hanno portato i loro nomi sulle pagine dei giornali e hanno messo un punto finale alla loro avventura come aspiranti sindaci già durante l’estate.
Nelle tre settimane precedenti il voto, l’attenzione si è dunque concentrata sempre più sul candidato emergente, Bill De Blasio, che ha raggiunto e poi superato nei sondaggi la City Council Speaker, e poi sulla sfida tra Quinn e Bill Thompson per la conquista del secondo posto. Secondo il regolamento elettorale della città di New York, infatti, un ballottaggio tra i primi due candidati è previsto qualora nessuno ottenga più del 40% dei voti. 
E’ interessante, allora, chiedersi da dove sia cominciata la piccola rivoluzione che ha scompigliato l’equilibrio della campagna elettorale fino all’esito imprevisto con cui si è conclusa lo scorso 10 settembre.
Con grande sorpresa di tutti coloro che pensano alla televisione come ad uno strumento di comunicazione politica ormai obsoleto, ciò che ha inaugurato l’ascesa di Bill De Blasio nei sondaggi e la sua popolarità sui media è stato proprio uno spot televisivo della durata di 30 secondi, trasmesso a partire dall’inizio di agosto. In un ambiente familiare e con un linguaggio semplice e diretto, il figlio adolescente del candidato democratico, Dante, spiega perché De Blasio sia la scelta migliore come futuro sindaco di tutti i newyorkesi.

Lo spot raccoglie nella sua breve durata tutti i temi cruciali della campagna elettorale democratica, a partire da un’opposizione netta a Bloomberg, che dà voce al senso di stanchezza dei cittadini verso il sindaco uscente proponendo non solo un nuovo approccio politico, ma anche una personalità completamente diversa. Se Bloomberg rappresenta il ricco businessman lontano dai problemi della gente, De Blasio si propone come un padre di famiglia (e di una famiglia multirazziale: la moglie, Chirlane, è afro-americana) e un newyorkese come tanti altri. Grazie a questo posizionamento strategico, De Blasio è riuscito nell’impresa di erodere il bacino elettorale di Christine Quinn, rivolgendosi a tutti coloro che non vedevano di buon occhio la sua stretta alleanza con Bloomberg.
In pochi semplici punti, rappresentati anche graficamente sullo schermo, lo spot affronta le issues dominanti con un messaggio chiaro e diretto: più tasse per i ricchi, una riforma del sistema educativo che garantisca a tutti i bambini un futuro migliore, politiche che permettano a tutti i newyorkesi di avere una casa in cui vivere e, soprattutto, la fine del programma “stop-and-frisk” che discrimina i cittadini violando la costituzione.
Diffuso in un momento estremamente propizio – in concomitanza con l’implosione di Weiner, lo spot raccoglie anche la delusione di una parte dei democratici, offrendo loro una figura di indiscussa integrità; e non solo: proponendo il ritratto della sua famiglia multi-etnica, De Blasio riesce a conquistare anche i voti della comunità afro-americana, mettendo nei guai il rivale Bill Thompson. Unico afro-americano tra i candidati democratici, l’ex City Comptroller non si è infatti dimostrato sufficientemente energico nel rivolgersi alla base sicura del suo elettorato, perdendo così il vantaggio offerto dal voto demografico.

Nonostante le contromisure strategiche messe in atto da Quinn e Thompson nelle settimane successive, il dibattito finale tra i candidati democratici ha offerto un’ulteriore conferma della dinamica di cambiamento avviata appena un mese prima con lo spot di De Blasio. Troppo concentrata sull’attacco diretto al nuovo front-runner, Christine Quinn non ha saputo rispondere efficacemente al disappunto di quegli elettori che, pur apprezzando la sua proposta politica, non sopportavano la sua vicinanza con il sindaco uscente. Con una storia di uomo politico dedito al servizio pubblico, Thompson non è riuscito, nemmeno nel corso del dibattito, a trasmettere agli elettori la passione e l’energia necessaria per aggiungere al profilo istituzionale un tratto personale sufficientemente carismatico.
Ed ecco che, pur non offrendo una prestazione eccellente nel dibattito, soprattutto nelle varie occasioni in cui ha dovuto difendersi dalle accuse di promettere misure irrealizzabili, De Blasio si è trovato a percorrere una strada sempre più agevole verso la vittoria.


Lucrezia Lattanzi
@LuTheMonkey

23 settembre 2013

Putin VS America

13 settembre 2013: “La tesi dell’eccezionalità americana che sostiene, mr Obama, quando afferma che la politica degli Stati Uniti è quello che è quello che differenzia l’America, quello che la rende eccezionale, mi trova piuttosto in disaccordo. Esistono paesi grandi e paesi piccoli, ricchi e poveri, paesi di lunga tradizione democratica e paesi che stanno trovando la strada verso la democrazia. Anche le loro politiche sono diverse. Siamo tutti diversi, ma quando chiediamo la benedizione non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha creati uguali”. Questo è l’ultima parte, forse la più importante, della lettera scritta al New York Times dal presidente russo Vladimir Putin. Diamo il bentornato alla Russia nello scacchiere delle potenze internazionali, i fuoriclasse che con una mossa possono decidere le sorti della diplomazia e, in questo caso, di un conflitto come quello siriano, il quale va ben al di la della semplicistica definizione di guerra regionale.  
Stiamo per caso vivendo un revival di guerra fredda? In effetti, a Putin non sono mai dispiaciuti i riferimenti al “glorioso” passato dell’Unione Sovietica, forse ancora memore delle sue avventure all’interno del Kgb: dal sogno di creare un Unione Euroasiatica, una sorta di Comunità europea dei paesi dell’ex blocco socialista, all’asilo politico concesso ad Edward Snowden, l’artefice dello scandalo delle intercettazioni segrete attuate in ogni dove dalla National Security Agency. Simbolica fu anche la frase: “chiunque vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore”. Le ideologie possono morire, i sogni di potenza globale un po’ meno. 

Allora: se è stato ricreato un ambiente di guerra fredda, a chi va il merito? Ad una Russia che, con la situazione siriana incerta e meno ostile al suo fedele alleato Bashar Al-Assad, gioca una partita impostata all’attacco, invece dei soliti “no” di rimessa al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per marcare chiaramente quale deve essere la sua zona d’influenza, dove non sono ammesse interferenze da parte di “soggetti non graditi”? O più che altro a quello che sembra l’inarrestabile declino degli USA in fatto di politica estera, del fatto che gli americani non riescono più ad essere il temibile “guardiano del mondo” che fino a qualche anno fa incuteva timore e reverenza? 

Diciamolo: rispetto a venti anni fa la sinfonia è cambiata. Venti anni fa il mondo, reduce dal crollo dei vari regimi marxisti-leninisti, cadeva sotto il dominio tecnologico-economico-politico dello zio Sam, mentre la Russia, reduce dal tracollo dell’utopia sovietica, si affannava rovinosamente per evitare la bancarotta e ritrovare un suo ruolo nel mondo. Oggi la Russia degli oligarchi aspira a divenire sempre di più la guida dei cosiddetti “Brics”, mentre gli USA sono lo specchio del fallimento della dottrina Obama in politica estera (rispetto del ruolo dell’ONU e rinuncia all’eccezionalismo per tutelare la sicurezza interna americana), e più in generale, l’irrimediabile caduta d’immagine che l’America non riesce più ad arginare da quei pantani chiamati Afghanistan e Iraq. 

Se poi mettiamo anche il fatto che Putin, non certo un campione del pluralismo, possa dare lezioni di democrazia a chi si considera di fatto “il faro della democrazia mondiale”, allora forse non saranno le avvisaglie di una nuova guerra fredda, ma sicuramente sarà chiara la percezione che l’assetto delle potenze globali è cambiato.
Mattia Temporin

22 settembre 2013

SundayUp: Nemesi, Philip Roth (2011)

Questo romanzo, una delle ultime opere del sempre apprezzabile Philip Roth, smuove un interrogativo di portata cosmica, lasciandolo forse irrisolto. Esiste un’entità che governa con benevolenza il mondo, oppure solo “un essere […] che riunisce in un’unica entità divina non tre persone, […] ma due: uno stronzo depravato e un genio del male” (p. 172)? Oppure, su un altro livello: l’universo in generale e la vita in particolare hanno un loro senso intrinseco, oppure procedono per un susseguirsi di casualità? Interrogativi ampi, amplissimi forse, ma credo che tutti, almeno una volta nella vita, ce li siamo posti.


Philip Roth Nemesi
Eugene “Bucky” Cantor, ventitreenne con la vista troppo debole per il servizio militare, nella caldissima estate del 1944 si ritrova a combattere la propria personale guerra contro una  devastante epidemia di poliomielite che colpisce i bambini di Newark, New Jersey. Bucky lavora come animatore nel campo estivo di una scuola nel quartiere ebraico della città, ed è costretto suo
malgrado a interrogarsi sull’effettiva giustizia del mondo. Come può esistere una malattia checolpisce i bambini, i “suoi” bambini, rendendoli storpi per sempre o, nel peggiore dei casi, uccidendoli? Tutto questo mentre i suoi due migliori amici sono in guerra sul Pacifico, e lui invece è a casa, a rendersi utile in un altro modo, ma non nel modo che lui vorrebbe. Il Dio che l’ha fatto allevare con amore dai due benevoli nonni (dopo che la madre è morta di parto e che il padre, un ladruncolo della domenica, l’ha abbandonato) è lo stesso Dio che, con spietata lucidità, falcia via le giovani vite dei suoi ragazzi con un male incurabile: ecco la drammatica verità con cui Bucky Cantor dovrà scontrarsi, con esiti sorprendenti, nel corso della narrazione. 
Resisterà la sua coscienza salda? Resisterà il suo incrollabile e ricambiato amore per Marcia, la sua promessa sposa? Resisterà la sua fiducia nella vita? Non resta che immergersi nello stile asciutto, essenziale ed equilibratissimo di Roth, alla ricerca, fra le righe e fra il non-detto, di risposte, o almeno di altre domande, che aiutino a far luce sull’angoscia del protagonista.

Alessio Venier

21 settembre 2013

Elezioni in Germania: un voto per l'Europa

Domani, domenica 22 settembre, il popolo tedesco è chiamato a votare per il rinnovo della camera bassa, il Bundestag, prendendo una decisione che influirà non solo sul futuro della Germania, ma su quello dell’intera eurozona. Un momento molto atteso dunque, che pone fine a una campagna elettorale combattuta, ma priva di grandi colpi di scena.
A due giorni dal voto i sondaggi confermano infatti un assetto che la Cancelliera Angela Merkel aveva pronosticato fin dalle fasi iniziali della campagna: “sarà un testa-a-testa”, diceva. Tale andamento prende in considerazione il bacino elettorale registrato per le due potenziali coalizioni, quella virtuale di centro-sinistra formata da Socialdemocratici (Spd), Verdi, e La Sinistra (Die Linke), e quella uscente di centro-destra composta dai Cristiano-democratici (Cdu-Csu) e dai Liberali (Fdp): entrambe sono date attorno al 45%.
 
In merito a questo scenario vanno fatte però alcune precisazioni, prima fra tutte che non vi è certezza circa un’alleanza progressista che comprenda anche la Linke. Quest’ultima, i cui consensi si registrano ad oggi attorno al 10%, si colloca all’estrema sinistra dello spettro politico tedesco e in linea di continuità col partito comunista dell’ex Germania Est; un’affinità che spinge diversi leader politici, anche socialdemocratici, a guardare ad essa con sospetto e disapprovazione. Tuttavia, senza i voti della Linke, l’alleanza di centro-sinistra difficilmente potrà raggiungere la quota necessaria per battere gli avversari conservatori. I Verdi, che secondo uno studio del DIW si vanno configurando come partito delle classi privilegiate, sono dati al 10% circa, in discesa rispetto al 2009. I socialdemocratici faticano a superare il 26-28% dei consensi.
Nonostante l’Spd sia leggermente in ripresa rispetto alle scorse consultazioni elettorali non riesce ancora a eguagliare il suo competitor Cdu, probabilmente anche a causa di una campagna elettorale non del tutto riuscita. A questo riguardo, al candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peer Steinbrück, va dato atto di aver movimentato una campagna sostanzialmente noiosa e priva di slanci, a iniziare con le ormai note gaffe di cui si è reso autore dal momento in cui ha preso la guida del partito, fino ad arrivare alla copertina di SZ-Magazin che lo ritrae in bianco e nero e con un orgoglioso dito medio alzato. Ha deciso per un approccio aggressivo insomma, che forse non ha entusiasmato gli elettori ma che, a onor del vero, rappresentava l’unica possibilità di distinguersi dai modi presidenziali e pacati della Cancelliera uscente.
 
Ma non sono solo le strategie di campagna a sfavorire i socialdemocratici. Il contesto generale, che vede la Germania attraversare un periodo di prosperità economica -soprattutto se paragonato agli altri paesi europei- si traduce in un vantaggio per l’incumbent, la cui capacità di gestione della crisi internazionale è stata largamente riconosciuta. Ciononostante, se La Cdu si prospetta essere il primo partito raggiungendo quota 40% (successo che ha avuto conferma nelle elezioni bavaresi di domenica scorsa), la stessa fortuna non si può attribuire al suo alleato Fdp. Il partito liberale si trova oggi a lottare per superare la soglia di sbarramento del 5%, una situazione drammatica se si considera che alle consultazioni del 2009 aveva superato il 14% dei consensi. Un problema, quello della coalizione di centro-destra, che non verrebbe risolto nemmeno se l’Fdp riuscisse ad entrare al Bundestag, poiché sarebbe comunque in misura insufficiente per creare una maggioranza di governo assieme ai cristiano-democratici.
 
E’ sulla base di questo possibile scenario che si è cominciato a parlare di “governo di grande coalizione”. Soluzione per nulla estranea alla politica tedesca che prevede la creazione di una maxi alleanza tra le principali forze in competizione, Spd e Cdu-Csu. Per quanto incomprensibile agli occhi di un italiano, le “larghe intese”  in Germania sono spesso esistite in momenti di stallo elettorale (il governo Merkel I ne è un esempio), senza tradursi automaticamente in perdita di credibilità e legittimazione per le parti coinvolte.
Chi probabilmente non sarà incluso in nessuna coalizione è l’Adf (Alternativa per la Germania), l’outsider di questa tornata elettorale, impresentabile come alleato ma non per questo privo di sostegno da parte degli elettori: i sondaggi lo danno al 4%, ma in ascesa. Potrebbe dunque farcela a superare la soglia di sbarramento ed entrare anch’esso in parlamento. Restano invece al 2% i Pirati, nonostante le buone affermazioni a livello locale.
 
Discutendo dei principali protagonisti di queste elezioni non ci si può dimenticare dell’astensionismo. Le previsioni sull’affluenza alle urne sono l’unico aspetto in cui la Germania pare non essere in controtendenza rispetto agli altri paesi europei. A partire dagli anni ’70 -in cui si recava ai seggi più del 90% dei votanti- ogni tornata elettorale segna un calo di partecipazione. Nel 2009 l’astensione aveva sfiorato il 30%, questa volta si pensa che andrà oltre.
Detto ciò, dopo tutte le previsioni dei sondaggi e le aspettative degli attori politici non resta che attendere la scelta degli elettori tedeschi, anche perché, chi meglio di noi conosce il margine d’errore degli istituti demoscopici?

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Mascia Mazzanti
@masciamazzanti

20 settembre 2013

Forza Italia II: la vendetta

La storia è nota: ieri Berlusconi si è svegliato, ha fatto colazione con latte umano, ha letto i suoi (nel senso più stretto del termine) giornali, ha giocato con Dudù, si è travestito da Mao Tse Tung e ha fatto il tanto atteso videomessaggio. Dopo lo ha trasmesso a reti unificate, come, ne siamo certi, accadrebbe in qualsiasi altra democrazia moderna.
Siccome trovo la telenovela sull’ineleggibilità estremamente noiosa, non dedicherò molto tempo al contenuto (una definizione molto generosa) ma cercherò di concentrarmi soprattutto sulla forma. È tutto così scontato e risaputo che mi sembra superfluo  indignarsi anche stavolta: a parte la Santanchè, la Biancofiore, Brunetta e quelli dell’esercito di Silvio che pensavano che la Cassazione avesse annullato la condanna per evasione fiscale, lo sono praticamente già tutti, anche i suoi stessi elettori anche se non lo ammetteranno mai.
Non ha detto nulla di nuovo: un po’ di attacchi alla Magistratura, qualcosa contro la sinistra, spot elettorali, totale assenza di argomenti politici, richiami mistico-religiosi.. il classico discorso berlusconiano, niente di più. Non ha fatto cadere il Governo, e a mio avviso era assolutamente prevedibile. Ha troppo fiuto politico per cadere in questo tranello, sa bene che lui e il suo (anche in questo bisogna dare all’aggettivo possessivo l’interpretazione più letterale) partito in questo momento non potrebbero mai migliorare i risultati di quest’inverno, meglio allora attizzare i fedelissimi, cercare di mostrarsi come il grande benefattore che rimane fianco a fianco dei propri aguzzini per amore del paese e aspettare pazientemente che l’ostinato cammino della sinistra lungo la via dell’autolesionismo porti i suoi frutti.
Ma veniamo allo storico punto di forza del cavaliere: la forma, la confezione, che gli ha garantito di vendere per anni un prodotto scadente ma estremamente affascinante per i più superficiali. I segni del declino sono evidenti. Berlusconi è apparso stanco, lento, invecchiato e depresso. Non ricordo altre sue performance così spente. Dopo la sfiducia del 2011 era scomparso dalle scene per qualche mese, si diceva per nascondere un umore e una forma pessimi, forse sarebbe stato meglio se si fosse un po’ defilato anche stavolta. Invece non ha saputo resistere all’idea di riproporre Forza Italia. Cambia niente, sia chiaro. Si tratta solo di un tuffo nel passato. Anche l’ambientazione è tornata quella del 1994, lo studio di casa, con foto di famiglia in bella mostra e la luce un po’ troppo soffusa, quasi come se non si volessero evidenziare i particolari. Tutto così retrò, così anni 90’.
Un uomo notoriamente energico, ottimista ed empatico ha lasciato spazio alla controfigura stanca e triste di se stesso. Non è più quello di vent’anni fa, perciò ha provato a ricreare quel contesto. Il risultato è stato un malinconico flop. Come le reunion delle rock band che ritornano a suonare dopo anni ma sono tutti vecchi grassi e alcolizzati. Come i sequel a distanza di anni di film epocali, che risultano una schifezza perché fuori dal contesto che aveva permesso ai loro antenati il successo (mi viene in mente la pellicola scialba che doveva essere il continuo di Wall Street, film-manifesto yuppies di fine anni 80’). O come il ritorno di Kakà al Milan.
La storia politica di B non finisce qui, continuerà a fare politica anche se dichiarato ineleggibile, continuerà a guidare il suo partito, forse abdicherà a favore della figlia Marina per fare un po’ di restyling ma di certo non scomparirà nel breve periodo, a meno di esiti particolarmente negativi degli altri processi in corso. La sua epopea non può considerarsi finita ma ormai è evidente che si trovi in fase calante. Sta per passare per questo paese una sbornia lunga e pesante, e si sa che ci vuole un po’ di tempo a riprendersi da queste cose. Se acquisissimo tutti quanti la consapevolezza che quello a cui abbiamo assistito in questo ventennio non rappresentava la realtà delle cose ma era distorto da questa ubriacatura sarebbe tutto più facile, ma se continueremo a vivere nei ricordi di un passato che non c’è più come il vecchio leader, uscire da questo stato comatoso potrebbe rivelarsi impossibile.

Fabrizio Mezzanotte

18 settembre 2013

Omofobia: in Europa tutti predicano bene, ma chi razzola male?


Con l'inserimento di un riferimento alla Carta di Nizza all'interno del Trattato di Lisbona, l'Unione Europea è stata la prima istituzione sovranazionale ad inserire una nuova qualificazione agli individui affinché non vi sia alcuna forma di discriminazione e in tutela dell'eguaglianza sostanziale di tutti gli esseri umani, l'articolo 21 recita infatti: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali.

 E' proprio quest'ultimo passaggio a configurare in maniera del tutto originale ed innovativa la norma europea, costituendo così un precedente positivo a livello internazionale nonché uno stimolo agli stati membri ad aggiornare le proprie legislazioni nazionali in modo da garantire efficacemente i diritti previsti dalla carta e dal resto della normativa internazionale sul tema.

L'effettiva applicazione della Carta di Nizza non viene controllata soltanto a livello istituzionale, ma al proposito è fondamentale il ruolo svolto da alcune Ong, in particolare quelle che hanno visto riconosciuto lo status consultivo presso le Nazioni Unite.

Tra di esse, per quanto riguarda il tema delle discriminazioni per via delle inclinazioni sessuali, è particolarmente attiva ILGA Europe (International Lesbian and Gay Association), una rete che collega oltre 400 associazioni di omosessuali in tutto il mondo. L'ILGA ha recente pubblicato il suo Annual Review, un rapporto annuale che analizza l'implementazione dei principali diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale in riferimento alle comunità parte del network. Il rapporto analizza prima le istituzioni 
internazionali e sovranazionali per poi concentrarsi sui singoli stati membri.


 In generale, il rapporto rileva come ONU e Alto Commissario per i Diritti Umani rispondano positivamente alle petizioni dando così il “buon esempio”, tuttavia ciò è dovuto principalmente alla forza delle reti come l'ILGA che sfruttano la loro posizione per condurre battaglie d'opposizione organizzate e sempre più efficaci. A livello europeo, il Consiglio d'Europa mantiene un ruolo particolarmente attivo e propositivo includendo il monitoraggio di crimini determinati dall'omofobia nel mandato della Commissione Europea contro il Razzismo e l'Intolleranza e procedendo regolarmente a verifiche riguardo alla violazione dei diritti delle persone LGBTI all'interno dei Paesi membri. Per quanto riguarda l'Unione Europea è sottolineato come il Parlamento Europeo sia, tra tutte, l'istituzione che più si occupa dei diritti di gay e lesbiche con l'obiettivo di promuovere l'eguaglianza sostanziale all'interno dell'Unione.

L'analisi della situazione dei vari stati membri tiene in considerazione diversi criteri tra i quali l'accesso a beni e servizi, le informazioni riguardo alla concessione dello status di rifugiato, i processi per violenza fisica e verbale, l'educazione e la salute, le condizioni di lavoro, l'eguaglianza e il livello di non-discriminazione, l'opinione pubblica, la garanzia delle libertà fondamentali, l'implementazione dei diritti e la politica estera.

I paesi nei quali il livello di rispetto e garanzia dei diritti è più alto sono il Regno Unito, il Belgio e la Norvegia: cattive notizie, invece, per l'Italia che registra un alto tasso di discriminazione, intolleranza, razzismo ed omofobia piazzandosi al 36° posto della classifica stilata dall'ILGA tra Bosnia e Bulgaria. Il rapporto registra dei miglioramenti in termini di equità dovuti principalmente all'attività giudiziaria piuttosto che a quella legislativa. L'ILGA registra un atteggiamento particolarmente cauto della classe dirigenziale italiana: pare che la politica ponga ancora ostacoli e resistenze all'adozione di leggi in favore dell'equiparazione del valore legale delle unioni e altri diritti che restano, quindi, soltanto garantiti formalmente, ma ben lungi da un pieno raggiungimento di una piena eguaglianza sostanziale.

Angela Caporale

15 settembre 2013

TheSundayUp -Se voti Jónsi, voti Renzi: Sigur Rós - Kveikur (2013)

Mi appresto ad ascoltare l'ultimo Kveikur dei Sigur Rós forse nella attitudine e posizione migliori per farlo: nel bel mezzo dell'estate, in braghe e maglietta e senza aver sentito una nota del precedente Valtari (nota: solo una di queste tre condizioni è rilevante ai fini critici). Ho vaghi ricordi della dossografia riguardo Valtari e nella mia testa rimbalzano in maniera ossessiva tipo Victor Barna le parole "influenze" e "dubstep". Sperando che almeno il primo termine non si riferisca a sudori freddi e tremarelle post-ascolto, durante il primo pezzo (Brennisteinn) mi viene il dubbio che forse quelle etichette si riferisso a Kveikur stesso e non a Valtari. "Mi son preso una bella pésca", penso fra me e me nel mio dialetto mediopadano, valutando l'opportunità di rovinarmi i bei ricordi che i Sigur Rós mi hanno regalato durante l'adolescenza dovendo invece adesso recensire un disco 'con influenze dubstep'. 

Comunque, tutta questa storia della dubstep che è salita agli onori della colonna di destra di Repubblica cronaca mondiale ormai un paio di anni fa grazie a personaggi tricologicamente ambigui tipo Skrillex e a certi fresconi tipo i Muse che, in nome di una strategia di marketing che la sanno poi loro,  la inseguivano nei loro dischi compresi nel periodo 2011-2013, mi ricorda un bel documentario di MTV (quando ancora non si limitava a trasmettere taranzi da baraccone e ginnaste venete) nel quale si ripercorreva l'epoca d'oro della disco music. Si raccontava di come, oltre ad essere tutto molto bello, lo stile musicale disco in se stesso (o almeno la sua crosta esteriore) dopo la sua esplosione commerciale venisse scimmiottato e abusato da chiunque. E allora si passava a citare l'esempio di tale vecchia signora della musica pop anni' 50 che decise di far uscire un album disco, per compiacere le masse - insomma, come se domani uscisse Guccini con un album di electro-clash (piuttosto in ritardo coi tempi, peraltro) o come se Wilma De Angelis* facesse una cover di Lady Gaga [no, l'analogia è un'altra, ma non potevo resistere].

Il peggior effetto seppia-vintage che abbia mai visto.

Mi sono ritrovato d'emblée, narcolettico come Dante, alla title track che, anche lei, presenta quelle paraculate dubstep, che, è ora di dirlo, non faranno certo ascoltare i Sigur Rós ai fan della dubstep e neppure potranno mai compiacere alcun fan dei Sigur Rós. E' un po' come quando Renzi apre ai voti della destra: non farà contento nessun elettore del Pd, come probabilmente non farà strage tra i fantomatici moderati che votarono Forza Italia in attesa della rivoluzione liberale (e non, come l'élite semicolta vorrebbe, per le più facili prospettive di tutta la notte/ coca e mignotte).

Per fortuna, la cosa si limita a quei due pezzi. Per il resto è un album dei Sigur Rós senza picchi né in basso né in alto, e ve lo dice uno che non ha problemi coi pezzi di 12 minuti, che peraltro stavolta non ci sono - la durata media si attesta sui cinque. Non ci sono picchi neanche all'interno delle canzoni, mancano cioè quelli che - grazie alla dubstep appunto - sappiamo che si chiamano drop, o, più genericamente, i contrasti forte / piano tipici di quella cosa, ormai più indefinibile del termine 'indie', che risponde al nome di 'post-rock'. Mancano altresì cavalcate che pestano duro dopo un inizio come al solito falsettato ed accorato come Festival, da Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust (2008) o pezzi orecchiabilissimi come Hoppipolla, da Takk.. (2005).

Poca emozione in generale e nemmeno molta emozione nera, come certi pezzi (post)apocalittici dei primi album erano riusciti a farci provare. Simona Ventura avrebbe detto, al timido homo guercio Jónsi, che "non [le] arrivava". Come mai? Nuova etichetta, riduzione della formazione e forse anche palle piene.
Una categoria di valutazione dei dischi che ho sempre trovato azzeccatissima è "only for fans", adatta a dischi che, se non sei un fan, non ti faranno mai diventare tale, e se invece lo sei, ti piaceranno, ma solo per motivi secondari, per abitudine e mai perché li riterrai dei punti alti nella discografia dei tuoi eroi. Per farla breve, se hai votato Forza Italia ( TakkÁgætis Byrjun o addirittura ()** ) è piuttosto difficile che ti piaccia Renzi ( Kveikur). Tuttavia questo non ti impedirà di contribuire a portare l'Italia verso destra ( flirtare con sonorità pseudo-dubstep) col sorriso sulle labbra, una volta che avremo finalmente ricominciato a dare del tu alla speranza (cit.) per poi sentirci dire "se ne vada o chiamo le guardie".

E' un po' come quando i fan dei Dandy Warhols (per me uno dei gruppi più sottovalutati della storia) fecero il botto con Thirteen Tales from Urban Bohemia (2000), quell'album che tutti ricordiamo per Bohemian Like You che, oltre a essere stata successivamente stuprata da un personaggio che solo e soltanto negli anni 1998-2005 poteva sussistere come Mousse-T, salì agli onori della cronaca in Italia grazie a un fortunato spot della Omnitel con Megan Gale (e persino Michael Schumacher, gli venisse un bene) di cui peraltro ha campeggiato per anni un cartonato seminudo*** nel garage di mio zio.
Quel pezzo, come lessi su Scaruffi scuotendo vigorosamente la testa in verticale, non aveva quasi nessuno degli ingredienti peculiari degli altri album dei Dandy Warhols e che li avevano resi grandi presso i loro fans accaniti, quelli che potresti incontrare in una festa à la Not your bottle. In Italia, come al solito, ebbe il successo che ebbe anche per via del video bizzarro e contente nudità maschile, tanto che - e qui volevo arrivare, alla rimozione del trauma - ricordo bene uno sprazzo di un TRL (altro programma di Mtv quando era ancora una roba seria, ecc.) in cui la veejay di turno riportava alla folla in festa la dichiarazione del cantante per cui il ragazzo nudo sarebbe sicuramente ritornato in altre successivi video del gruppo (cosa che poi, annaspando a tentoni nel buio dei miei post-13 anni, non mi pare si sia verificata).

E' terribile, sembra uno di quei manifesti propagandistici pakistani-iraniano-iracheni  con le facce degli ayatollah.
Grazie Mousse-T!
Insomma, ai fans dei Dandies quell'album piacque perché era orecchiabile e sgarzullo (e perché a parte tutto conteneva anche un paio di veri pezzoni tipo Godless), ma se fosse stato il primo album avrebbe attirato tutta un'altra fetta di pubblico, forse la stessa che tiene cartonati di Megan Gale in garage e che crede che Jovanotti non si faccia disegnare gli abiti da Spike Lee negli intervalli delle partite dei Knicks. I fans invece dissero "bella lì, magari al prossimo giro tornano con la psichedelia rock marciona chitarrona e ci divertiamo". Poi uscì Welcome to the Monkey House (2003) con la sua elettronichetta del cazzo e tanti saluti.

Filippo Batisti

* anche il suo sito web è rimasto fermo al 1994, tipo.
** molto intelligente da parte mia inserire un disco che si chiama () al termine di un elenco racchiuso fra parentesi
*** gesù cristo, ovviamente non parlo di Schumacher!

14 settembre 2013

La “Merkel del nord” vince le elezioni in Norvegia: ecco le ragioni della virata a destra.

BERGEN - Le montagne di Bergen, ad est della Norvegia, offrono le viste mozzafiato di una città a picco sul mare, ma quando il cielo è limpido l’orizzonte è sporcato dalle petroliere che spuntano dietro l’azzuro dell’oceano. Quando invece raggiungi “la porta d’ingresso ai fiordi della Norvegia” (così è soprannominata Bergen) in aereo, mentre stai atterrando puoi vedere enormi cerchi disegnati sul mare, sono gli allevamenti di pesce. Petrolio e pesce, i pilastri dell’economia di uno tra i paesi più ricchi al mondo, dove lo scorso weekend si sono tenute le elezioni politiche che hanno decretato la “storica vittoria” del centro-destra, come l’ha definita la neo-premier Erna Solberg, nata e cresciuta a Bergen.
La coalizione conservatrice ha ottenuto 96 seggi sui 169 totali che formano l’unica camera del Parlamento norvegese, lo Storting, eletto ogni 4 anni con sistema proporzionale. In realtà il Partito Laburista continua ad essere il primo partito norvegese con il 30,8% dei suffragi, seguito appunto dal Partito Conservatore (26,8%) e dal Partito del Progresso (16,3%). Essere il primo partito però non è sufficiente e il nuovo governo, nel regno della social-democrazia, dovrebbe essere formato da Partito Conservatore, Partito del Progresso e due partiti minori (Cristiano-democratici e Liberali). Dunque, se l’accordo verrà raggiunto, un azionista della nuova compagine governativa sarà quel Partito del Progresso, formazione anti-immigrazione assurta ai (dis)onori delle cronache quando dopo la strage di Oslo del 22 luglio 2011, Breivik, l’attentatore, dichiarò la sua affinità con le idee di questo partito di destra. Ora, detta così la cosa spaventa e tutti i giornali italiani hanno colto la palla al balzo sottolineando il fatto che la Norvegia si sia spostata fortemente verso una destra nazionalista e razzista. A ben vedere, però, il Partito del Progresso ha perso consensi rispetto alle elezioni del 2009, quando si era affermato come seconda formazione con il 22,9% dei suffragi, mentre oggi la grande novità è l’Høyre della neo-premier Erna Solberg che passa dal 17,2% del 2009 al 26,8%, guadagnando quasi trecento mila voti.

A dire il vero, un qualche nazionalismo esiste da queste parti, ma forse è da accostare più alla loyalty anglosassone verso le istituzioni, che ad una becera retorica razzista. Certo, c’è in Norvegia, così come in tutta la Scandinavia, la volontà di tenersi stretto il welfare state e non concederlo ai primi arrivati. Ad esempio la Finlandia, che vanta uno dei migliori sistemi scolastici al mondo, sta valutando l’ipotesi di far pagare chi si trasferisce solo per studiare, per poi rimborsare gli studi nel caso in cui il soggetto continui a soggiornare per lavoro al termine degli studi. Ma ciò non sembra troppo da biasimare: sappiamo tutti cosa è successo in Europa e in particolare nella nostra Penisola dove il welfare state è qualcosa di non più sostenibile a seguito degli sprechi degli anni del boom. Che poi, leggere certi titoli terrorizzati in Italia, dove fino all’altro giorno avevamo la Lega al governo, fa un po’ sorridere. Ma questo è un altro paio di maniche.

Dunque, perché questa strabiliante vittoria della “Merkel del Nord”, così come è stata ribattezzata la Solberg? Le ragioni sono prettamente economiche. Nell’ultimo ventennio, il petrolio è diventato il baricentro dell’economia norvegese, togliendo spazio alla diversificazione. Se la Norvegia era il paese più ricco al mondo, in un sistema di economia diversificata, oggi continua ad essere ricca, ma dipende esclusivamente dal petrolio. Per cui viene da chiedersi quanto questo modello di sviluppo sia sostenibile. Da qui deriva la volontà di cambiare dell’elettorato norvegese, che come è naturale teme la fine del benessere.
Collegato a ciò c’è il disagio della grande impresa, penalizzata dalle politiche ambientali del Partito Laburista, che mi è capitato di sentir definire “ideologiche” da parte di esponenti dell’imprenditoria norvegese. Si sa che le aziende sono sempre contrarie alle politiche ambientali (se dico Ilva vi viene in mente niente?), ma forse l’economia della pesca merita una riflessione meno superficiale. Si tratta di un settore fortemente intensivo in capitale, in cui i costi di produzione sono altissimi e il processo produttivo è molto lungo (per il salmone occorrono 3 anni), ma dove soprattutto c’è una grande incertezza (ciclicamente molte imprese falliscono). In questo contesto, i governi laburisti hanno introdotto stringenti norme che impediscono alle imprese del settore di fondersi per ridurre i costi (la quota di mercato non può essere troppo alta) e il costo delle licenze è diventato negli ultimi anni insostenibile. Se a ciò si somma un costo del lavoro sempre più alto, con le grandi imprese norvegesi che stanno iniziando a delocalizzare la lavorazione del pesce da surgelare in Cina, si capisce il malcontento verso le politiche laburiste. Inoltre, uno dei punti del programma elettorale della Solberg è proprio la volontà di liberalizzare il settore delle licenze, rendendolo più flessibile e meno oneroso per le imprese.

Di sicuro la situazione non è così tragica come talvolta viene dipinta dagli ambienti imprenditoriali norvegesi: questo paese continua ad avere uno tra gli standard di vita più alti del mondo, il debito pubblico non sanno neanche cosa sia e, per quanto riguarda l’esportazione di pesce, questo porta alle imprese norvegesi 40 miliardi di euro all’anno (dati del 2012). Però un dato emerge da questa tornata elettorale e non è tanto l’affermazione del partito di estrema destra, che, come si è visto, ha ridotto il suo elettorato; quanto più c’è una tangibile richiesta dell’imprenditoria norvegese delle politiche liberali, promosse dal Partito Conservatore. Infine, non dimentichiamoci che in Norvegia vige un sistema elettorale proporzionale puro dove il Partito Laburista, sebbene mantenga la maggioranza relativa dei voti, è costretto all’opposizione.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

10 settembre 2013

Siria: l'innocente generazione perduta

Il messaggio di uomini come Nelson Mandela

o Martin Luther King è un messaggio di speranza,

speranza che le società moderne sappiano superare i conflitti

attraverso una comprensione reciproca e una pazienza vigile.

Per riuscirci occorre basarsi sui diritti;

e la violazione di questi, non importa per mano di chi,

deve provocare la nostra indignazione.

Su questi diritti non si transige.”

(Stéphane Hessel, "Indignez-vous!")




La situazione siriana occupa, in questi giorni, le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: insieme alle minacce, ai dibattiti e alle esercitazioni belliche si è spostato sulla regione anche l'occhio di bue dei media. Tuttavia il conflitto sta martoriando la regione da oltre due anni e a farne le spese è, in gran parte, la popolazione civile che, ora più che mai, cerca una via di fuga dal Paese che è sempre più simile ad una polveriera.

I venti di guerra e le ipotesi di coinvolgimento di attori globali come gli Stati Uniti e la Russia hanno acuito la crisi, tant'è che l'UNHCR (Alto Commissariato ONU per i rifugiati) ha lanciato un allarme: la soglia del milione di rifugiati siriani sotto ai 18 anni è stato superato. Soltanto nel mese di agosto, secondo i dati dell'agenzia per i rifugiati, sono state oltre 30.000 le persone che hanno lasciato Damasco cercando protezione altrove.

Un milione di bambini che sono stati costretti a lasciare le loro case, dopo aver provato sulla loro pelle la brutalità della guerra, giocando tra le bombe, rischiando la vita anche soltanto per andare a scuola. I Paesi verso i quali si dirigono, spesso insieme alle loro famiglie, sono Turchia, Libano, Giordania ed Iraq che hanno bisogno costante di sostegno internazionale per far fronte a quella che si configura come un'emergenza in ascesa che va a pesare su una Regione già fragile.

Secondo i dati più recenti divulgati da UNICEF e UNHCR, i bambini sono la metà di tutti i rifugiati provocati dal conflitto, tra di essi 740mila hanno meno di 11 anni. Circa 7mila sono, inoltre, i bambini che hanno perso la vita durante gli ultimi tre anni e oltre 2 milioni sono quelli sfollati ancora all'interno del Paese.

Durante il conflitto, infrastrutture e servizi sono stati sistematicamente distrutti, per esempio una scuola su cinque è stata rasa al suolo, danneggiata oppure convertita in un rifugio per ospitare le famiglie di sfollati. La disponibilità di acqua è ridotta di due terzi rispetto a prima della crisi e i bambini nei rifugi sono maggiormente esposti a malattie viste le condizioni sanitarie precarie; sono stati registrati numerosi casi di infezioni respiratorie e infiammazioni cutanee, come la scabbia. Sono tuttavia i traumi psicologici quelli che portano a definire i bambini siriani come “la generazione perduta”: 1 su 3 è stato picchiato o ferito con un colpo di arma da fuoco, moltissimi sono stati testimoni di omicidi, scontri e altri atti di violenza, il senso di paura e lo stress lasciano segni indelebili che supereranno ampiamente la durata del conflitto.


Le due agenzie ONU, impegnate insieme in uno dei più ampi progetti di sostegno ed intervento umanitario, sottolineano come una volta varcati i confini siriani, le minacce alla salute dei bambini non calino, ma al contrario siano esposti al rischio di essere vittime di sfruttamento lavorativo e sessuale, matrimoni precoci nonché traffico di essere umani. Questi traumi sono riconosciuti come gravi violazioni dei diritti umani, secondo il diritto internazionale di settore, ma le difficili condizioni in cui si trovano richiedenti asilo e rifugiati rendono la garanzia una flebile speranza.

Per poter far fronte alla crisi umanitaria, è stato redatto un Piano di risposta regionale che prevede un finanziamento pari a 3 miliardi di dollari USA per rispondere alle necessità dei rifugiati fino al prossimo dicembre, tuttavia attualmente è stato possibile accedere soltanto al 38% della cifra richiesta.

L'opera di fund raising rischia, però, di rivelarsi inutile di fronte all'acuirsi della crisi dal punto di vista politico: dal momento in cui per risolvere la questione si prospetta un intervento militare, senza mandato delle Nazioni Unite, è difficile immaginare che a breve termine vi saranno le condizioni ideali per restituire alla popolazione civile siriana infrastrutture, servizi e standard di vita umani.


Il milionesimo bambino rifugiato non è solo un numero” ha dichiarato Anthony Lake, Direttore Esecutivo dell'UNICEF. “È un bambino reale, strappato alla propria casa, forse anche alla propria famiglia, e costretto ad affrontare orrori che noi possiamo comprendere solo in parte”.

Tutti noi dobbiamo condividere questa vergogna” ha aggiunto Lake “perché mentre noi lavoriamo per alleviare le sofferenze di coloro che sono colpiti dalla crisi, la comunità globale ha mancato alla propria responsabilità nei confronti di questo bambino. Dovremmo fermarci e chiederci come possiamo, in tutta coscienza, continuare a deludere i bambini della Siria”.

Un richiamo trasversale alla responsabilità rivolto non solo alle istituzioni politiche internazionali affinché soppesino il prezzo umano da pagare per la difesa dei propri interessi, ma anche a ciascuno in quanto essere umano affinché si senta, quanto meno, turbato di fronte ad una tale violenza perpetrata nei confronti della dignità stessa della persona.

Angela Caporale