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31 agosto 2013

L'esempio britannico


Una delle principali criticità dei sistemi democratici dei nostri tempi è quella della insufficiente rispondenza nei confronti dei cittadini. Gli apparati burocratici e amministrativi tendono ad avvilupparsi nelle loro gabbie dorate fatte di interessi nazionali e di vincoli internazionali e a fare orecchie da mercante alle esigenze e ai bisogni dei propri cittadini o di parte di essi. Tale problematica ha assunto un carattere globale ed ha favorito la nascita di movimenti di protesta come Occupy Wall Street, che reclamano un maggior peso della popolazione e della comunità globale nelle grandi decisioni dei governi e delle istituzioni sovranazionali.
Dal Brasile alla Medio Oriente, passando per la Zona Euro in questi mesi il deficit di rispondenza dei regimi democratici (o supposti tali) si è manifestato in tutta la sua gravità e con altrettanta forza si è palesata la potenziale violenza derivante da una scarsa empatia dei governanti verso i governati.

Tuttavia, nella giornata di ieri, è arrivato un segnale in forte controtendenza dalla culla della democrazia rappresentativa, la Gran Bretagna. Il parlamento di sua maestà riunito a Westminster ha bocciato lo stanziamento di fondi per l'intervento in Siria, nonostante l'espressa volontà del primo ministro Cameron di appoggiare gli Stati Uniti nell'operazione. Questo voto penso che inciderà fortemente sul ruolo del Regno Unito in questo complicato scenario. Ovviamente costituisce un durissimo colpo all'autorità e alla legittimità di Cameron e del suo governo, considerando anche che alcuni parlamentari Conservatori si sono uniti ai Laburisti su questo pronunciamento. Qualcuno nell'aula ha persino caldeggiato le dimissioni del Primo Ministro, sconfitto su un tema di politica estera così urgente e saliente.
A questo punto Cameron sarebbe potuto andare dalla regina e fare appello alla sua  secolare Royal Prerogative per superare il veto posto dal parlamento all'intervento siriano. Eppure ha promesso solennemente davanti ai suoi colleghi a Westminster che non lo farà, affermando che “gli sembra chiaro che il parlamento britannico, riflettendo l'opinione del popolo britannico, non vuole la Gran  Bretagna in questa missione e che il governo agirà di conseguenza rispettando la decisione”.



Si possono dire tante cose di David Cameron come politico ma non gli manca astuzia e buon senso. Meglio una batosta oggi in parlamento, seppur cocente, che un crollo nei sondaggi di popolarità domani, imbarcandosi in una guerra non condivisa dall'elettorato. Ancora brucia in Gran Bretagna la ferita della missione irachena, mai digerita, ma soprattutto mai compresa, da una vasta maggioranza della popolazione. Ed evidentemente le ripercussioni di questa insofferenza si sono riversate anche nelle menti e nei punti di vista di chi occupa i banchi e i palazzi delle istituzioni, attraverso un comune (o tale dovrebbe essere) processo di rappresentanza degli elettori tramite gli eletti. Un processo democratico se ce n'è uno. Tutto ciò a discapito del vizio inglese di sdraiarsi acriticamente sulle posizioni in politica estera del grande alleato americano e di rinverdire continuamente la “special relationship”. Anche per tale ragione questo voto assume notevole significatività ed estrema importanza.


Eccola dunque la risposta della più antica democrazia rappresentativa al mondo alle falle dei contemporanei sistemi di governo e distribuzione del potere. Una risposta decisa ma al contempo pacata. Senza bisogno di inutili e costosi referendum. Senza vetrine di negozi assaltati e senza scontri a fuoco tra poliziotti e manifestanti. Senza una goccia di sangue versato. Proprio come nella Glorious Revolution del '600. “Gloriosa” perché pacifica e frutto di una struttura politica funzionante che sa rinnovarsi guardandosi dentro ma senza smettere mai di dare un'occhiata anche a quello che succede fuori, nelle strade e nelle piazze. Rimanendo in contatto con la propria società, la propria comunità, tastandone sempre il polso. Questo è il significato di “democrazia rispondente”. Si prenda esempio, prego. In Italia e ovunque.

Valerio Vignoli

22 agosto 2013

A Nord Est di Che: una finestra sul mondo, a portata di click.

In queste soleggiate giornate di fine agosto ci sono tanti modi per ridurre ai minimi termini il tedio e ogni scusa è buona per dividersi tra mare, montagna e stanze chiuse rigorosamente con aria condizionata.
Quest'ultima è la condizione ideale per lasciare i pensieri a briglie sciolte e presto ci si trova a fantasticare su viaggi d'avventura o di scoperta in luoghi nuovi. Perché, dunque, non approfittare di questo tempo per navigare e scovare in rete qualche viaggio virtuale che ci faccia compagnia?


Proprio così mi sono imbattuta in A Nord Est di che. A prima vista un blog di reportage di viaggio, in realtà di fronte ad un osservatore attento si aprono stimoli e opportunità molto varie.

 
AND è frutto della passione del suo fondatore, Luca Barbieri, giornalista del Corriere del Veneto e appassionato di Esteri. Nel 2009, di ritorno da un viaggio di lavoro, ha proposto al suo giornale di creare uno spazio online nel quale raccontare storie, inizialmente proprio quelle dei veneti all'estero. L'obiettivo, e quindi il nome, era inizialmente quello di emancipare il Nord Est dallo stigma di locomotiva d'Italia, di terra ricca di industria e chiusa su sé stessa: il blog era un'occasione per "smitizzare" l'area collocandola in un contesto ampio abbastanza da rendere quasi anacronistico il concetto geografico stesso di Nord Est. 
Accanto alle storie di migranti veneti, si sono presto aggiunti spontaneamente reportage di viaggio, racconti di esperienze di volontariato e di cervelli in fuga ed, infine, notizie di cultura, flash dal mondo e una ricca sezione di offerte di lavoro rivolte ai giovani, sia in Italia che all'estero. Barbieri racconta come dell'originario concetto di A Nord Est di che resta soltanto la suggestione di sparsamente geografico che valica i confini del Veneto, inglobando e ricollocando l'intero Bel Paese. Anche la redazione si è ampliata: Enrico Albertini affianca Barbieri nell'opera di filtro e redazione, ma i collaboratori tra fissi ed occasionali sono oltre 100, originari di tutta la penisola e con le esperienze professionali e di studio dei tipi più diversi.

Dal 2012 AND è una testata giornalistica registrata presso il tribunale di Bolzano, un modo per suggellare da un lato il successo del blog, dall'altro l'aspirazione alla serietà e una forma di garanzia dei contenuti del sito. Nell'ultimo mese i visitatori che sono approdati sul blog sono stati più di 40.000, principalmente giovani attratti dalle offerte di lavoro. È possibile, infatti, sul sito trovare anche piccole guide al trasferimento nei paesi più gettonati, dall'Australia ai paesi nordici, ricche di consigli da parte di chi il salto l'ha già fatto.

 AND di fatto è una piattaforma che incoraggia un'esperienza di giornalismo partecipativo traendo arricchimento dallo scambio e dal confronto. L'ingrediente imprescindibile è la curiosità del mondo, raccontando ciò che si vede, senza retorica, affinché ciascuno possa porre il suo mattoncino alla conoscenza globale.
Tuttavia l'immaginazione della mente creatrice di AND non si ferma qui, anzi."Pur mantenendo un filtro, mi piacerebbe creare una piattaforma più ampia che faciliti l'interazione e la condivisione delle esperienze. E poi? Chissà! Magari degli eventi, un festival tutto nostro e, perché no?, sarebbe bello creare una collana di guide per quei Paesi dimenticati a Est ma non solo."
Valigia chiusa? Pronti a partire?

Angela Caporale

4 agosto 2013

L'ultima fermata (forse)

L'ultima fermata.
(forse)
Chiariamoci subito. La sentenza pronunciata dalla corte di cassazione che conferma la condanna ai danni di Berlusconi è una “sentenza politica”. Non però nella distorta e vittimistica accezione berlusconiana del termine. Non è il tentativo di una subdola e sovversiva magistratura “comunista” di annientare a suon di inchieste un avversario che non si riesce a sconfiggere politicamente. Bensì si tratta di una sentenza politica semplicemente nella misura in cui coinvolge una (probabilmente “la”) figura di primo piano della scena politica italiana del presente e del recente passato. Eventualmente, se proprio qualcuno è particolarmente affezionato al significato attribuitegli dal Cavaliere, potremmo definirla una sentenza “politicamente rilevante”. Alla stessa maniera, tuttavia, potremmo parlare di “sentenza politicizzata” (e sarebbe più appropriato) per descrivere un pronunciamento guidato da obiettivi o orientamenti politici.

Mettendo da parte queste sottigliezze terminologiche, questa “sentenza politica” si colloca in un ben determinato contesto e momento storico del nostro paese. Dopo vent'anni, il berlusconismo, come esperienza politica e culturale, sembra essere giunto al capolinea. La sua locomotiva, fatta di altisonanti promesse di benessere diffuso e di individualistiche realizzazioni delle aspirazioni di fama e successo, attraverso l'emulazione di un ammirabile self-made man, si è incagliata di fronte al declino e alla recessione economica. Il carburante rappresentato dalla cosiddetta e fantomatica “Rivoluzione Liberale” annunciata nel lontano 1994, si è esaurito di fronte alla manifesta incapacità (o alla totale mancanza di volontà, secondo i più maligni) del Caimano di rendere l'Italia un paese più moderno, dinamico e competitivo. Lo sterzo in cui districarsi nei meandri delle relazioni internazionali è andato in avaria tra le “eleganti” cene di Arcore e rapporti bilaterali fin troppo amichevoli con personaggi come Putin e Gheddafi, non certo catalogabili tra i paladini dei diritti e della democrazia.

Ben altre sono state le sue preoccupazioni in questo ventennio. Principalmente, provare, a colpi di leggi ad personam, a sfuggire a quella che, a suo dire, è una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti. Ha ingaggiato  perciò un'acerrima e interminabile battaglia contro i magistrati, rappresentanti e custodi della legge dello stato da lui più volte governato. Una guerra personale, egoistica ed egocentrica, alle volte spacciata strumentalmente per generoso martirio nei confronti del bene collettivo, che ha sfinito ed esaurito psicologicamente l'opinione pubblica.


Giovedì sera il piazzale di fronte al palazzo in cui si trova la Cassazione era quasi completamente vuoto. Nessun segno di mobilitazione popolare. Nessun anti-berlusconiano. Nessun berlusconiano. Un gruppetto di indomiti fans (perché esattamente di questo si tratta, fans) del Cavaliere si sono radunati sotto il suo quartier generale romano. Nulla più. Domina l'apatia, il disinteresse, l'indifferenza, la noia e anche un pizzico di menefreghismo.

Ci siamo, dunque. Fischio del capo stazione. Berlusconi condannato. Condannato per davvero. Condannato definitivamente. “Smacchiato il giaguaro!” direbbe Bersani. Ultima fermata, gente! (anche se con B. non si sa mai). I passeggeri sono pregati di scendere. Com'è che non scende nessuno? Dove sono i passeggeri? Si sono buttati in anticipo, piano piano, alla spicciolata, quando il treno ha cominciato a dare segni di cedimento. E ora dove sono? Che fanno? Vagabondano nel deserto della politica italiana, stremati e disidratati. Paiono spaesati, quasi in stato catatonico. Navigano a vista e sono inclini ad allucinazioni. Aspettano nuovi treni su cui salire. Magari un po' più affidabili.

Valerio Vignoli

1 agosto 2013

Radio's Spring


“Video killed the radio star”, cantavano i Buggles nel 1979. “Video killed the radio star, pictures came and broke your heart.” Non soltanto un motivetto orecchiabile, ma una piccola rivoluzione: capostipite dello stile musicale imperante negli anni Ottanta, il video della hit fu anche il primo ad essere trasmesso su MTV il 1° agosto 1981.
Per molti era la fine di un'era, quella della radio come fulcro dell'informazione, dell'intrattenimento e dell'intera vita familiare. Molti credevano che le nuove generazioni avrebbero trovato l'elettrodomestico solo in vetusti negozi di antiquariato o sporadici mercatini delle pulci. Da molti era canticchiata come il canto del cigno definitivo.


E invece questa profezia non si è avverata, anzi la radio sta ora vivendo una nuova giovinezza nonostante gli ingenti tagli destinati all'editoria. È riuscita, infatti, ad adattarsi alle novità tecnologiche in tempi brevi e a basso costo e, ben presto, a ritagliarsi un nuovo spazio da protagonista sul palco dei mass media.
La radio si presta, innanzitutto, ad un utilizzo personale e personalizzato, caratteristiche tipiche della fruizione dell'informazione e dell'intrattenimento moderni. Scaricando i contenuti ed interagendo direttamente, l'ascoltatore-utente partecipa direttamente alla costruzione del palinsesto.
Emittenti e conduttori, soprattutto quelli delle stazioni più seguite dai giovani, sono stati i primi a “farsi social” promuovendo (e promuovendosi) i propri programmi, le proprie serate in giro per il Bel paese, i propri libri. (Interessante questo proliferare di best seller di autori radiofonici e il loro successo.).

La primavera della radio non è determinata solo dalle potenzialità tecnologiche e social, ma anche dalla sua capacità di inserirsi negli interstizi temporali lasciati liberi dagli altri mass media. A differenza della televisione, infatti, non ha bisogno del divano di casa e a differenza di tutti i contenuti audio-visual non catalizza l'intera attenzione: la radio non interferisce né con la navigazione su internet, né con la cucina, la guida o il lavoro. Tutte attività durante le quali la radio diventa un mezzo di compagnia, una fonte di informazione indiretta ma non per questo meno efficace. Tant'è che le voci degli speaker entrano nelle case quanto quelle dei principali personaggi televisivi, diventando familiari al punto da risultare affidabili. Questo rapporto di fiducia e confidenza ha ricadute positive anche sulla pubblicità che ha trovato nella radio un nuovo terreno fertile di sponsorizzazione targetizzata dei propri prodotti: alcuni studi hanno dimostrato come una sinergia tra spot radiofonico e utilizzo della rete può aumentare sensibilmente i contatti determinando un incremento del successo di un prodotto o servizio.

Molte volte abbiamo assistito ad elogi funebri della radio compagna di vita, spesso considerata soltanto l'ombra di Radio Londra, resa grande dal suo ruolo durante il tempo di guerra e presto sostituita, soppiantata e soffocata dalle immagini della televisione. Ma è proprio la tivù ad avere un grosso debito nei confronti di essa: quiz e varietà sono nati in radio, così come telegiornale e telecronaca sono trasposizioni di format radiofonici. Il legame è da sempre economico, culturale, di generi, ma anche di persone: i primi conduttori, annunciatori, presentatori provenivano tutti dalla radio (e non dal cinema) poiché abituati alla diretta, alla battuta veloce, al contatto diretto con il pubblico.

Non è un caso, inoltre, che la radio abbia assunto durante tutto il Secolo Breve importanza durante periodi di conflitto e di tensione: non mi riferisco soltanto a Radio Londra, Radio Mosca o Radio Bari, ma anche alle radio libere che si sono diffuse negli anni Settanta in Italia. Hanno saputo interpretare per prime i bisogni di una generazione di giovani inquieta: le radio libere esprimevano un altro modo di fare politica, autodeterminate e libere dal potere politico e, allo stesso tempo, hanno costruito un proprio spazio economico e commerciale, liberandosi dalle leggi invisibili del mercato. La stagione delle radio libere è sfumata da anni, ma la città di Bologna ha mantenuto il suo ruolo di culla di innovatori, tant'è che proprio dalla città rossa è partita, nel 2010, la start-up di Spreaker, un progetto vincente che si inserisce nel fenomeno, tutto contemporaneo e giovanile, delle web-radio. L'idea di Francesco Baschieri, Marco Pracucci e Rocco Zanni è stata quella di unire su un'unica piattaforma tutte le funzioni necessarie alla creazione di un piccolo programma radiofonico rendendolo disponibile agli utenti, sia in modalità free che premium. Spreaker, oggi, conta 2 miliardi di utenti, dà lavoro a 12 dipendenti tutti italiani e divide la sua gestione tra Bologna, Berlino e la Silicon Valley. Sebbene sia difficile determinare il successo di una web-radio in termini di ascolto o pubblicità, la piattaforma è diventata, negli ultimi mesi, un megafono per i ribelli delle Primavere Arabe: Spreaker ha permesso di raccontare direttamente e senza mediazioni proteste e manifestazioni mentre giornalisti ed inviati faticavano a trovare il giusto varco per avvicinare la verità. "In Turchia molti hanno usato Spreaker per trasmettere in diretta la protesta di Piazza Taksim. Quando abbiamo visto crescere la tensione anche al Cairo abbiamo offerto 6 mesi di accesso gratuito alla piattaforma premium". Così negli ultimi giorni #spreaker è diventato anche il megafono di Piazza Tahrir. "Sempre all'insegna della libertà di parola”, parola di Baschieri, ingegnere 38enne e “padre” della start up.

E mentre è sempre infuocato il dibattito sul futuro della televisione tradizionale sottoposta alle pressioni della rete e di nuovi soggetti, come Netflix, che ne mutano l'offerta, la radio è riuscita con successo a ritagliarsi uno spazio proprio ed originale. In macchina, al lavoro, attraverso smartphone e tablet, la musica in modalità shuffle intervallata da curiosità ed informazioni resta un ingrediente quasi giornaliero della nostra vita. E, paradossalmente, noi tutti conosciamo il motivetto dei Buggles proprio perché, con una certa dose di ironia, ancora passa per radio. Come a dire “video killed the radio star, video killed the radio star”... già, ma video chi? 

Angela Caporale