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23 luglio 2013

Abenomics: tre frecce per salvare il Giappone


Narra un'antica leggenda dello Yamaguchi che, negli anni del rovesciamento dello Shogunato di Tokugawa, agli albori dell'impero giapponese (metà del XIX secolo), un signore chiese ai suoi tre figli di spezzare una freccia. Tutti e tre obbedirono e facilmente ruppero le frecce. Quindi il padre chiese loro di spezzare altre tre frecce, questa volta contemporaneamente: nessuno dei figli ci riuscì. “Una freccia – disse il padre – può essere rotta facilmente. Tre frecce insieme, come un fascio di betulle, non possono essere spezzate”. Era un'esortazione a lavorare insieme per il bene della famiglia.

La leggenda delle tre frecce è divenuta ancora una volta simbolo di un nuovo Giappone che guarda alla tradizione, mentre si proietta verso il futuro; un Giappone che lavora unito per uscire dalla stagnazione economica dell'ultimo ventennio. Ad utilizzarla è stato l'attuale Primo Ministro, Shinzo Abe, classe 1954 (il più giovane nella storia del Giappone), eletto nel dicembre 2012. Anche lui, come la leggenda, proviene dalla regione dello Yamaguchi e rappresenta l'ala più nazionalista e conservatrice del Partito Liberal Democratico giapponese (LDP). Abe già ricoprì l'incarico tra il settembre 2006 e il settembre 2007 senza lasciare il segno e facendo emergere la sua anima nazionalista. Oggi invece si mostra con il volto del progressista che ha a cuore la tradizione dell'impero del sol levante e lo fa attuando una politica economica incentrata su tre pilastri (appunto le tre frecce): allargamento della base monetaria, supporto alla domanda aggregata e un piano per la crescita economica. Si tratta di quella che è stata ribattezzata Abenomics e che ha avuto i suoi natali la scorsa primavera.


La prima freccia è il monetary easing, l'allargamento della base monetaria, per raggiungere l'obiettivo dell'inflazione al 2% dopo anni di deflazione. Il target, nell'idea di Abe, deve essere raggiunto entro due anni, quindi via subito al raddoppio della base monetaria accompagnato da un vento di entusiasmo verso la rivoluzione dell'Abenomics per eliminare – è questa l'idea del promotore - l'atteggiamento mentale da deflazione. Dunque, non solo politica economica, ma anche grande attenzione agli umori dei mercati. E gli effetti di breve periodo non potevano che essere sensazionali: l'indice Nikkei è cresciuto del 70% e lo yen ha perso valore, favorendo le esportazioni. Insomma, tutto da manuale: il cambio della percezione verso l'economia giapponese sta creando un circolo virtuoso in cui le grandi compagnie aumenteranno i loro profitti, facendo salire salari e consumo; ciò porterà nuovi investimenti e quindi ancora profitti.
La leva sugli animal spirits dei mercati non può che essere accompagnata da ingenti interventi a sostegno della domanda aggregata (e questa è la seconda freccia), attraverso investimenti mirati. Anche perchè il PIL nominale è fermo ai livelli degli anni 90 a causa della deflazione e ciò ha fatto schizzare il debito pubblico nipponico a livelli assurdi.

Ma risolvere i problemi economici in tempi di crisi non è così facile e i primi due pilastri dell'Abenomics hanno iniziato presto a mostrare tutti i loro difetti. L'espansionismo economico e gli stimoli alla domanda aggregata hanno il loro fascino, soprattutto se guardati con gli occhi di un'Europa messa all'angolo dall'austerity, ma gli effetti strabilianti visibili nel breve periodo stanno lasciando spazio a dubbi sulla reale efficacia di un simile piano economico. E se agli investitori sorgono dei dubbi, il Nikkei, principale indice azionario giapponese, crolla come ha fatto le prime settimane di giugno. La Bank of Japan dice di tenere duro di fronte alla volatilità dei mercati obbligazionari ed azionari nipponici, che definisce un pericolo da correre, ma c'è il timore che tutto ciò non si possa schiantare contro una nuova bolla, perchè, si sa, l'eccesso di beni – in questo caso la liquidità – non fa bene all'economia.

L'Abenomics guarda solo al breve periodo? Certamente, se così fosse, ci sarebbero più ombre che luci
sulla spumeggiante politica del conservatore Abe, ma così non è – o almeno questi sono gli intenti. E' la terza freccia infatti che dovrebbe rimettere il Giappone di Abe sulla retta via, generando crescita di lungo periodo, dopo aver sconfitto la deflazione che ha paralizzato l'economia nipponica negli ultimi venti anni. Il terzo pilone non può che assumere le vesti di riforme atte a rafforzare il lato dell'offerta: liberalizzazione dei settori agricolo, medico e farmaceutico; fine delle rigidità del mercato del lavoro; investimenti sull'educazione; spinta alla competizione e all'innovazione; avvicinamento alla Trans-Pacific-Partnership (TPP), un area regionale di libero scambio. Per spezzare la terza freccia Abe ha ridisegnato la burocrazia, attraverso la creazione di comitati dove i membri governativi siedono insieme a burocrati, accademici e uomini d'affari per formulare le riforme necessarie a far ripartire il Giappone.

Poi però, a luglio, sono arrivate le elezioni per il rinnovo di parte della Camera Alta (stravinte da Abe, ndr) e il Partito Liberal Democratico ha fatto pressioni sul suo leader affinché non si accanisse troppo contro agricoltori, medici e uomini d'affari. Il risultato è stato che della terza freccia è rimasta quella che l'Economist ha definito una “politica industriale vecchio stampo, che è già stata posta in essere e che ha già fallito”.

Un giudizio definitivo sulla politica di Shinzo Abe forse è ancora prematuro. Tutto sommato, gli effetti
dell'espansionismo monetario non sono stati negativi (sempre che il monetary easing sia temporaneo), ma le riforme strutturali del lato dell'offerta hanno lasciato – per ora – un po' a desiderare. Tra qualche tempo potremo dire se quella giapponese sia una soluzione non solo accattivante, ma anche efficace alla crisi.


In Europa, intanto, non si può sperare in misure di breve periodo come quelle adottate da Abe per uscire dalla deflazione. I nostri debiti sovrani sono già drogati e un eccesso di liquidità non farebbe che creare labili illusioni scarsamente risolutive. Ma poiché non si può morire di austerità, di Abe si potrebbe adottare la volontà di porre in essere un progetto estremamente rinnovatore, che porti a riformare la BCE (l'esempio è quello della FED statunitense) e le istituzioni comunitarie, al fine di colmare il tanto decantato deficit democratico. Ma questa è un'altra storia (o un sogno?).

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

17 luglio 2013

Rischi e opportunità 2.0


Parlamentarie, Quirinarie, messaggi cinguettati e consultazioni online: come negare che nell’ultimo periodo la rete sia diventata una grande protagonista del palcoscenico politico? Il M5S, che del web ha fatto la propria ragion d’essere, ha sicuramente influenzato tale processo esortando le altre forze politiche a inseguirlo su un terreno dimostratosi particolarmente fertile ai fini della sponsorizzazione personale e dell’accrescimento dei consensi. In seguito a questa "svolta comunicativa” si sono sprecate le considerazioni in merito all’uso politico della rete, a volte dipinta come l’antidoto ai veleni della scarsa partecipazione di cui le democrazie contemporanee sono affette, altre tacciata di essere una piccola soluzione per un grande problema, o di risultare addirittura fuorviante poiché parziale rappresentatrice della volontà dell’elettorato.



Tra le varie posizioni a riguardo, come spesso accade, appaiono più convincenti quelle che scorgono nel nuovo fenomeno punti di forza e di debolezza. Il professore di Giurisprudenza alla Law School dell’Università di Chicago, Cass Sunstein, ha esposto nel suo Republic.com alcuni dei pericoli e dei vantaggi più significativi connessi all’uso della rete in uno stato democratico. La sua analisi muove dall’assunzione che siano necessarie esperienze condivise ed esposizioni a materiali e informazioni non preventivamente scelti per garantire l’esistenza e il buon funzionamento di una democrazia deliberativa, ovvero una forma di governo in cui i cittadini delegano alcuni poteri ai propri rappresentanti non cessando tuttavia di partecipare in prima persona alla vita pubblica. 
In quest’ottica, Sunstein scorge nel web un rischio di balcanizzazione della cittadinanza la quale, avendo possibilità illimitate di selezione, tenderebbe a privilegiare l’interazione con soggetti affini e ad esporsi a contenuti e punti di vista non distanti dai propri. Un processo di frammentazione che si accompagna a un altrettanto rischioso percorso di radicalizzazione delle posizioni iniziali, dovuto alla considerazione di un’unica prospettiva, ripetutamente confermata e mai messa in dubbio da visioni del mondo differenti. Affianco all’idea del web come “bolla artificiale”, luogo di incontro di “follower” e “following", Cass Sunstein non dimentica di evidenziare i lati positivi di internet: una tecnologia innovativa che permette di superare i limiti geografici e stabilire contatti e relazioni prima impensabili; che consente di reperire e diffondere informazioni con grande facilità, configurandosi come uno strumento di partecipazione con ampio potenziale di accessibilità. Proprio a quest’ultimo riguardo, non può essere trascurato il problema del digital divide, attualmente riscontrato in molte società fra le quali quella italiana spicca drammaticamente. Pochi giorni fa è stata infatti stilata la relazione annuale dell’Agcom che posiziona l’Italia al quarto posto nella classifica, per nulla invidiabile, relativa al numero di individui che non ha mai avuto accesso a internet (37,2%  contro una media europea del 22,4%). Dal lato opposto del fenomeno vi sono i cosiddetti nativi digitali, coloro che danno per scontato il web e l’esistenza di una connessione a banda larga rendendo evidente quanto ampia sia la doppia velocità nello sviluppo digitale. È su tale disarmonia che occorre agire primariamente, attraverso una regolamentazione adeguata e un percorso di educazione che punti a un utilizzo consapevole del web, il solo modo per renderlo uno strumento di informazione e partecipazione realmente democratico e non più un parziale rappresentante della volontà popolare. 

Ciononostante, la scarsa attenzione dimostrata storicamente a livello legislativo nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa tradizionali –che si è riproposta identica nel caso di internet- fa pensare che la volontà politica di creare una cittadinanza più cosciente e capace di usare gli strumenti in proprio possesso in senso partecipativo sia altrettanto scarsa, evidentemente non maggiore rispetto a quella di preservare l'inerme e disinteressata società con la quale siamo ormai abituati a convivere.

Mascia Mazzanti
@masciamazzanti

14 luglio 2013

TheSundayUp: la nuova rubrica Talk About The Passion - ep.1 - Carlo e gli Shandon

Ho un gusto tutto mio per i colori e i loghi ed è bene che ve ne facciate una ragione.

Questa è la prima puntata della rubrica che avevo annunciato un paio di articoli fa. In parole povere (come se potessi permettermene altre), ho deciso che ogni tanto intervisterò qualche mio amico con la scusa di farlo parlare di un gruppo che ama particolarmente, di un gruppo del quale solo lui o lei potrebbe parlare con la stessa passione e sincerità, in modo da far saltare fuori considerazioni inopportune, lacrimucce tardive, confessioni imbarazzanti e apprezzamenti tecnici di alto livello. Oppure questa rubrica serve anche a farvi capire che razza di amici io abbia e quanto sia bene stare lontano da me e/o da loro. 

Carlo.
Ciao Carlo, ho scelto te per iniziare questa nuova rubrica fichissima (più fica di quanto lo fossero le scarpe con i led rossi nella suola che si illuminano a pressione quando eravamo bambini). Vorrei che tu mi parlassi di un gruppo che ti scatena una passione irrefrenabile o un affetto sincero, qualcosa che porteresti nello spazio se il mondo dovesse finire con una bruttissima esplosione senza far rimanere niente altro che tu e questo gruppo (anche se poi sai che imbarazzo stare tutto il tempo per aria coi tuoi idoli.. dopo un po' gli autografi non ammazzano più il tempo)
Di che gruppo si tratta?

Carlo: Ciao Filippo. Grazie per aver scelto me. Non vedo l'ora di scoprire entro quando te ne pentirai.
Per quanto riguarda il gruppo, si tratta degli Shandon. Le scarpe invece erano le Bull Boys e io non le ho mai avute.

Questo è probabilmente indicativo della tua età e il non averle avute ci accomuna: io non le ho avute perché negli anni '90 i soldi si spendevano per lo psicologo, tu perché negli anni '80 i soldi c'erano eccome ma si spendevano per vacanze a Courmayeur, in modo da creare motivo di sempiterna nostalgia per il resto della vita del ragazzo/a, visto che non se lo sarebbe potuto permettere per il resto della vita. Quindi, dicci quanti anni hai, da dove vieni e quali sono le coordinate geostoriche in cui hai cominciato ad ascoltare gli Shandon.

Anni ne ho abbastanza da aver vissuto un'epoca in cui Goku ancora non sapeva trasformarsi in Super Saiyan. Vengo da Messina, quella città ormai famosa per il sindaco anarchico e credo di aver sentito nominare per la prima volta gli Shandon nel 1998.

Anche gli Shandon sono di Messina? Il loro nome non mi ricorda niente se non Shelden Williams, un insignificante giocatore degli Atlanta Hawks di cui un mio amico comprò la maglia solo perché "c'era lo sconto". Che genere fanno? Sono i migliori nel loro genere, almeno in Italia?

Farò finta di sapere di cosa tu stia parlando, tanto la cosa è reciproca, no?
Gli Shandon non sono di Messina, ma lo è un loro trombettista. Poi, visto che mi sto complicando la vita nel cercare di decidermi in che tempo rispondere, diciamo subito che gli Shandon, a parte una breve reunion recente, non suonano assieme da parecchi anni. Quindi possiamo parlarne al passato senza costringere nessuno a scongiurare alcunché.
In maniera riduttiva si può dire che fanno ska-core. Se siano i migliori o no, non sta a me dirlo che poi è sempre un po' rischioso dare certi tipi di giudizi (comunque sì, lo sono).

Il mio amico Carlo ora è molto più bello, come avete visto prima.
L'emozione di stare in mezzo agli Shandon l'aveva sopraffatto.
Ora voglio sapere semplicemente perché spaccano. Sbizzarrisciti. Fai esempi. Storci la bocca. Fai le facce.

So quanto sia difficile essere presi sul serio quando si parla di punk e credo che le cose non vadano certo meglio con lo ska, anzi. Il punto è che gli Shandon sono stati per me un punto di svolta musicale, forse il più importante, e non nel senso che tramite loro ho scoperto lo ska e ho pensato “uh, figata!, il levare, i fiati etc.”, anche questo, sì, ma hanno proprio influenzato il mio approccio alla musica in senso assoluto. Era un periodo in cui si andava consolidando la mia passione per il punk. Più nello specifico per il "tarantella-core", quell'hardcore melodico dei vari gruppi californiani. Non erano ascolti particolarmente ricercati, ma a Messina i CD non si trovavano e su internet, con i modem di allora, si era costretti a scegliere fra quell'mp3 di cui si era tanto sentito parlare o le tette diAlessia Merz. È per questo che gli Shandon li sentii per la prima volta tramite una raccolta di gruppi punk uscita con una rivista in edicola. C'era un loro brano: Vampire Girl. Era, credo, la prima canzone ska che avessi mai ascoltato. Il vero amore per loro, comunque, scattò, sempre quello stesso anno, a Bologna, durante il Warped Tour Festival. Ero andato lì per gli Offspring e i Pennywise e tornai pensando agli Shandon.
Si presentavano sul palco con il kilt. Erano piuttosto allegri e divertenti, ma anche veloci e incazzati. In quel periodo, a fine concerto, il cantante metteva sempre da parte la chitarra e suonavano un po' dei loro brani hardcore, in pieno stile old-school. Ero estasiato e, arrivato a casa, per un po' misi da parte Alessia Merz.
Mi innamorai di classici immortali come Questosichiamaska e della bellissima Skaranoid (sì, per la gioia di rockers e metallari, è la cover ska della canzone dei Black Sabbath. Quel fischio nel ritornello mi manda fuori di testa). 

Ma c'era dell'altro. Quello che mi colpiva veramente era la loro capacità di mischiare i generi. Di base ci sono sempre il punk e lo ska, ma poi nelle canzoni ci trovi di tutto. Ad esempio, nel loro primo CD, Skamobile, c'è una forte presenza di garage e lo-fi. Lo si sente sin da subito: il CD inizia con Videogame e nell'intro c'è questo riff di chitarra un po' surf, un po' garage. Poi ska, il ritornello punk e un finale che un po' spiazza, ma che ci sta benissimo. Oppure l'ultima, irresistibile, traccia, My Sun: parla di un cowboy e si apre con questo country lento e un po' malinconico con tanto di assolo di armonica. Ma poi è tutta un crescendo di velocità. Vale comunque la pena notare che il loro giocare coi generi consiste quasi esclusivamente nell'accostarli. Nel senso che non fanno un pezzo country, ma con le chitarre punk. C'è l'intro country e poi c'è il punk. L'esempio perfetto di ciò è Hamburger (ma non la trovo su youtube), un brano strumentale che ricordo dicevano di aver chiamato così proprio perché è costruita a strati. C'ha un intro fischiata che sembra presa da una colonna sonora di Morricone, poi c'è il pezzo garage, poi ska, di nuovo garage e la chiusura come l'intro. Il tutto, però, perfettamente amalgamato e senza intaccare le caratteristiche dei singoli generi. Un'operazione pregevole che è stata portata quasi all'estremo nel secondo CD, Nice Try, uno dei lavori più disomogenei che si possa avere occasione di ascoltare. Oltre al normale ska-core (ma è degli Shandon che sto parlando, quindi il "normale" è come dire “sublime”), ci sono interi brani che fanno quasi da omaggio a un singolo genere. Small town, rockabilly dall'inizio alla fine. Pizza Gangster, omaggio alla vita di Fred Buscaglione, in pieno stile swing anni '50. Poi un brano rocksteady e altre due canzoni che omaggiano rispettivamente i Deep Purple e Jimi Hendrix, con tanto di riff di chitarra appropriato al caso.
Dopo questo CD, anche se forse gli è antecedente, ascoltai un loro EP, uscito al tempo solo come 33 giri, o 45 giri, non so, dal titolo Due gusti due baci. Un lato esclusivamente hardcore e un lato garage. Un capolavoro.



Ok Carlo, ora devo interromperti: di solito, in qualsiasi campo, ma soprattutto in quello musicale (e ti parlo per esperienza diretta), quando si cerca di fare tutto è perché non si sa fare bene niente. Secondo te gli Shandon hanno fatto così per mancanza di talento e poi gli è andata bene (o sono diventati bravi in seguito) oppure sono veramente dei mostri? Ma soprattutto, che diavolo di decennio malato era quello in cui le tette di Alessia Merz erano il meglio del porno disponibile su internet? Credo abbiano fatto bene a picchiarvi, a Genova.
In ogni caso, sembra tutto abbastanza una figata (o una nerderia completa senza speranza, devo ancora decidere). Però mettiamola così: a me lo ska è interessato soltanto e solamente in quanto genere musicale di riferimento per le serate estive delle feste del mio liceo, per il resto l'ho sempre aborrito. Visto che comunque sai che sono una persona di vedute aperte (tanto che io e te siamo addirittura amici), prova a convincermi, magari facendomi sentire qualcosa, che questo gruppo SPACCA.

No, tutt'altro che mancanza di talento. Come ebbi modo di scoprire ancora più in là, gli intenti erano chiari sin da uno dei loro primi demo, intitolato PunkBillySkaCore. Il testo della canzone omonima è qualcosa tipo:
Punk billy ska core swing boogie country rock jazz surf oi dance disco pop... all music is the law

Magari mi è sfuggita qualche parola, ma la volontà di esplorare i generi era già evidente. Quindi, insomma, non credo di esagerare quando dico che gli Shandon hanno avuto un approccio unico al genere. E quando dico unico non mi riferisco solo all'Italia. Per il resto so che comunque si storce il naso quando si sente nominare lo ska, ma mi sta anche bene così.
Scegliere una canzone in particolare è difficile. Ci sono dei capolavori come Liquido o Placebo Effect. O brani inaspettati come Seagull Surf. Ma mi va di consigliare My ammonia, che non sta in nessun CD, è una delle prime che ascoltato e ci sono semplicemente molto affezionato.
Non credo di convincere nessuno così, ma i miei amici saranno contenti.

Visto che mi sono appena inserito in quella categoria, aspetta a cantare vittoria.
*ascolto il pezzo*
Ok, non male. Effettivamente l'incrocio fra generi è chiaro. Ora però voglio chiederti: è lo ska (o quel che cacchio che sono gli Shandon) sono musica di cui è costume ascoltare il testo? O, in ogni caso, tu lo facevi? Perché scorrendo velocemente e a cazzo di cane leggo cose in italiano che avrebbe potuto scrivere il peggior Manuel Agnelli

Tu confondi la realtà 
Certamente tu sai come finirà 
Lentamente su di me 
Così dolce nel succhiare 
Così brava a vincere 

Ti confonde la realtà 
Così sadica la tua felicità 
Brucia il sale su di me 
La ferita che fa male 
Io che lascio mordere 

ma anche cose che sembrano i testi dei gruppi dei sedicenni quando traducono in inglese scolastico le cagate che gli vengono in mente, tipo:

Our love for music 'cause we don't even know 
What kind of music we propose 
Oh please leave me alone 
To express the beat that I feel 
Just play!!! 
Music expression of my rage and love 
Nothing that I would enclose in schemes

Come la mettiamo adesso?

Sì, be', il primo sa un po' di emo. Il secondo, invece, a modo suo è molto carino. Ricordo l'aneddoto di come avrebbero scelto il nome Shandon, che era tipo una scritta sull'etichetta di un qualche cappello, o qualcosa del genere. Nella canzone Shandon, quella di cui hai riportato parte del ritornello, c'è la frase "So Shandon's just the label of our craziness..." e il resto che hai messo tu. Cioè, capito, no? Label, etichetta... Insomma, mi sembrava una trovata geniale, al tempo.

Sì, credo che lo sia. Ma insisto su un punto: la gente che ascolta ska ascolta i testi? Risposta sì o no. E poi vorrei chiudere con un ricordo tuo personale, meglio se di più di 10 anni fa. Un momento intimo e privato di Carlo e gli Shandon. Dopodiché vorrei chiederti se sei una persona nostalgica e che effetto ti faccia ascoltare gli Shandon oggi.

Ma dipende. I testi dei Vallanzaska, ad esempio, sono sempre piuttosto simpatici e umoristici e li apprezzavo parecchio perché mi facevano proprio ridere. Nel caso degli Shandon mi piaceva scoprire certi riferimenti culturali che facevano. Ad esempio, in un testo, nominano il cantante dei Motorpsycho. Molti testi sono ispirati a film, ad esempio quello di Taxi Driver. Molti altri sono un po' più, diciamo, personali. Ad esempio Liquido, che nominavo prima, che parla di farsi le seghe. Ma no, probabilmente non davo così tanta importanza ai loro testi, ma sono certo che i loro non fossero quelli scritti peggio.

Una volta vennero in tour in Sicilia. Doveva essere tipo il 2002. Ovviamente andai a sentirli. Al tempo si spostavano con questo bellissimo furgone giallo che, due giorni dopo il concerto, vidi a Messina. Si erano fermati a mangiare prima di attraversare lo stretto. Li saluto, ci faccio quattro chiacchiere, probabilmente sbavo e me ne vado felice come non mai.
Sono nostalgico e ascoltarli adesso è più o meno bello come allora.

Grazie Carlo. Non so se ascolterò ancora qualcosa di questi ragazzi, ma in compenso sono sicuro che gli Shandon, quantomeno, si meritassero la tua bava più di Alessia Merz. Alla prossima.



Filippo Batisti

11 luglio 2013

Renzi sì, Renzi no.

E’ indiscutibile  il fatto che, a partire dalle primarie dell’anno scorso (ma forse anche da prima), Matteo Renzi sia diventato uno dei protagonisti dello scenario politico italiano.
Il paragone che gli viene attribuito spesso è quello con l’ormai intramontabile Silvio Berlusconi. Certo, non è una novità che entrambi godano di una personalità prorompente e di un appeal da non sottovalutare sull’elettorato. Ma io credo che la caratteristica che li accomuni maggiormente sia la loro innata capacità di dividere l’opinione della gente. Mi spiego meglio: o li odi, o li ami.




Anche a livello di contenuti presentano qualche somiglianza. Una della caratteristiche più lampanti è sicuramente una forte propensione in direzione atlantista, a scapito di una europeista. Alcuni infatti sostengono che Renzi non parli abbastanza di Europa, ed effettivamente, a parte qualche sporadico accenno, non sono molto note le sue vere opinioni ed intenzioni nei riguardi del vecchio continente. Quante volte lo si è sentito parlare di Obama in termini entusiastici? Niente di male, ma pare proprio che persone come Ciampi, Spinelli o La Malfa se li sia lasciati nel cassetto.
Renzi però è uno dei pochi che tira fuori argomenti tabù come il conflitto di interesse o il finanziamento pubblico ai partiti. Tutta una messinscena pubblicitaria? Forse, ma almeno lui ne parla.
Arrivato a questo punto l’elettore del PD, come al solito, si ritrova indeciso su a chi affidare il proprio voto: fidarsi o non fidarsi? Rimanere ai vecchi nomi o lanciarsi su quelli nuovi?
Il rischio è sempre quello, ormai tristemente noto, di fare un ennesimo buco nell’acqua.

E allora si guarda alle alternative: l’attuale segretario Epifani che, stranamente per il ruolo che ricopre, sembra riuscire a prendere posizioni decise e coerenti, ha già messo in chiaro la sua intenzione di non candidarsi. Fassina, l’attuale viceministro dell’Economia e delle Finanze al contrario, ha già iniziato il solito giochino di “lanciare” la propria disponibilità, ma guai a dichiararsi troppo apertamente perché per un attimo si poteva correre il rischio di candidare una persona sicura e decisa. Infine c’è Cuperlo, noto componente dell’ala dalemiana, ma apparentemente appoggiato da pochi. Senza contare il fatto che continua a parlare di riforma interna al partito quando forse, invece, pare gli sia sfuggita l’emergenza Paese.

Insomma, viste le alternative credo che Renzi, nel bene o nel male, possa essere l’unico candidato in grado di tenere testa al carisma del nostro (purtroppo) inscoraggiabile Cavaliere. Poca esperienza? Sicuramente. Ma, da studentessa universitaria, posso dire che fin troppo spesso questo argomento diventa pretesto di staticità e non cambiamento, che sono proprio le ultime cose di cui il nostro paese ha bisogno.
Chiudo un occhio quindi su inopportune visite ad Arcore o pranzi con Briatore (sarà forse un possibile finanziatore?) e alle prossime primarie credo darò fiducia a questo irruente ma determinato personaggio. Non pretendo sia un nuovo La Pira, ma almeno facendo così lo si potrà giudicare sui contenuti della sua politica e non più solo su pregiudizi pre-elettorali.


Silvia Ferretti

Hell is Other People (e ora si possono evitare)

 
Sembra che il mondo dei social network non vada mai in vacanza, ma piuttosto tramuti la sua natura in un calderone che ribolle costantemente producendo nuove idee, ma soprattutto scopiazzamenti. Così su Facebook sono recentemente comparsi gli hashtag in stile Twitter (la cui utilità resta oscura ai miei occhi), mentre su Instagram ora è possibile anche pubblicare dei brevi video dei gatti, dei tramonti e delle colazioni, mancanza non esattamente dolorosa dato che, proprio per i video, esisteva già Vine e via dicendo. Tant’è che anziché avvicinare, essere social tende a separare: lo studente universitario sotto esami, per esempio, di fronte alla decima foto di mare, sole, amore non riesce più a trattenere il proprio disagio (e lo esprime su twitter, trovando solidarietà.)
Per non parlare degli amici-non-amici su Facebook, quelli che è scortese rifiutare, ma dei quali, francamente, non ti interessa sapere passo dopo passo tutto quello che fanno durante la giornata, con chi lo fanno, dove: nascondere dalla Home è un palliativo, non certo la soluzione definitiva. Che poi sono gli stessi amici-non-amici che incontri al bar ed inizi ad osservare mentre nella tua testa scorri una margherita mentale che sostituisce il tradizionale “m’ama? Non m’ama?” con un più pragmatico “E’ lui o non è lui? Eppure dalle foto…” oppure con un drammatico “Saluto o non saluto?”. Il risultato? Ci si ignora oppure ci si fissa come due baccalà senza che nessuno accenni un ciao perché entrambi troppo impegnati a risolvere i dilemmi interiori di cui sopra con fare amletico (e forse perché entrambi troppo impegnati ad immedesimarsi nel baccalà).

Tuttavia, da New York, giungono buone notizie per tutti coloro che “sì, siamo amici, ma non COSI’ tanto” e che sognano un downgrade della propria vita online. Si chiama “Hell is Other People”, cita la piéce teatrale di Sartre “A porte chiuse” ed è a tutti gli effetti un anti-social network. L’applicazione permette, sfruttando FourSquare (sì, quel socialnewtwork che ti consente di dichiarare dove sei ogni volta che ne senti il bisogno.), di localizzare i propri “amici” nelle vicinanze, ciascuno di loro è contrassegnato da un puntino arancio su una mappa di Google: un’occhiata alle vie segnate e il gioco è fatto. È possibile evitare gli “amici” e godere della propria ricercata quiete, altrimenti detta misantropia.
Sul sito del social network è possibile osservare alcune mappe esempio di altri utenti, Hell is Other People non si limita soltanto a indicarti i luoghi da evitare, ma consiglia strade alternative caratterizzate dal “Green point: optimally distanced safe zones”: insomma, l’app ti pone in una botte di ferro. L’ideatore, Scott Garner, studente ad un master in telecomunicazioni, lo descrive come “un progetto in parte di satira, in parte una nota di disprezzo ai social media, e poi è anche un’esplorazione delle mie angosce sociali.”

Una provocazione generata, almeno in parte, dall’importanza che smartphone, tablet e pc hanno assunto nella vita quotidiana ed assomiglia quasi ad un gioco scaturito dalla molteplicità di stimoli che la rete sembra produrre giornalmente, tuttavia viene spontaneo chiedersi: che senso ha costruire relazioni, o forse dovrei dire stabilire connessioni, se poi si preferisce evitare le persone?
Sono sicura, però, che leggendo questo articolo avete pensato, almeno per un instante, “oh guarda! Che idea utile!”: se Hell is Other People diventerà un eremo 2.0 dove coltivare la propria distaccata solitudine, lo scopriremo solo con il tempo. Intanto è lecito sognare di poter incontrare per strada soltanto amici veri e sconosciuti (magari carini, simpatici, interessanti… ok, mi sto facendo prendere la mano.) proprio come ha fatto Scott Garner per le vie di New York.



Angela Caporale 

7 luglio 2013

The Sunday Up - Dentro e contro la crisi


Dentro e contro la crisi: pratiche di resistenza e di soggettivazione politica nell’Argentina resistente.
Con circa 10.000 lavoratori e più di 200 imprese coinvolte, i movimenti di fabbriche e imprese recuperate hanno raggiunto quella massa critica capace di trasformarli in un importante attore sociale e politico, tanto da entrare con forza nel dibattito nazionale (modificando la configurazione del governo stesso) e capace di influenzare altre esperienze di autogestione sulla scena.  Si  tratta molto probabilmente del primo caso di autogestione di massa in un contesto di capitalismo avanzato.

La forte rottura che queste esperienze di autogestione hanno operato nei confronti della logica taylorista, che domina la maggior parte dei processi produttivi contemporanei, risulta evidente e radicale: i lavoratori pongono fine alla frammentazione della conoscenza riguardante il ciclo produttivo, sia mediante il sistema di rotazione degli incarichi sia, soprattutto, condividendo la totalità dell’informazione durante le assemblee generali. Le profonde controtendenze rispetto alle attuali logiche di mercato segnano una significativa distanza rispetto alle tradizionali dinamiche capitaliste: la polivalenza funzionale si sostituisce alla sempre più marcata divisione dei compiti (tipica della catena di montaggio), la garanzia di un impiego fisso si contrappone alla crescente precarietà lavorativa e si mantiene la produzione all’interno dei confini nazionali durante una fase di crisi economica, congiuntura che generalmente viene usata come giustificazione per la messa in atto di processi di delocalizzazione della produzione.  

Il film-documentario “The Take” ripercorre la storia di questa esperienza e documenta la "presa" delle fabbriche argentine da parte degli operai nel periodo successivo al disastroso collasso economico del 2001. Seguendo l'iter giudiziario e il dramma umano attraversati dagli ex-operai di una "planta" produttrice di componenti per auto, nel tentativo di vedersi riconosciuto dal giudice il diritto a gestire da soli la fabbrica, il film attraversa il periodo nero della repubblica sudamericana, dalla fuga del corrotto Menem all'elezione di Kirchner.

Una pagina di storia da conoscere assolutamente e un'ipotesi reale di radicale alternativa al capitalismo. Un laboratorio politico e sociale  estremamente affascinante (e reale) e una lezione di profonda democrazia da non lasciarci sfuggire.

Davide Cattarossi

5 luglio 2013

Sognando Tony Blair.


Suppongo che l’ex primo ministro britannico Tony Blair non sia molto attratto dagli sviluppi della politica italiana e dalle vicende del Partito Democratico, in preda ai soliti psicodrammi e alle immancabili convulsioni autolesioniste da fase pre-congressuale. D’altronde da quando ha lasciato il civico 10 di Downing Street è piuttosto indaffarato a costruirsi una fortuna come consulente per alcune multinazionali come la JP Morgan, come relatore alle conferenze (il cachet si aggirerebbe a 250.000 sterline ad intervento) e con fruttuosi investimenti immobiliari. Sì, non se la passa proprio male, diciamocelo. Aveva ventilato poco tempo fa un ritorno sulla scena politica ma, viene spontaneo chiedersi, chi glielo fa fare?

Invece in Italia c’è qualcuno attratto da lui. È ovviamente il vulcanico e onnipresente sindaco di Firenze Matteo Renzi, che, ormai mi sembra lapalissiano, si candiderà alla segreteria del partito. Fin dalle primarie scorse non ha mai nascosto la sua ammirazione per il leader laburista, che per ben 10 anni ha guidato la Gran Bretagna, e per il progetto del New Labour. Da allora si sono susseguite frequenti dichiarazioni in cui ha ribadito d’ispirarsi a lui e, ultimamente, quasi a voler lanciare la sua corsa al posto che fu di Bersani, ha affermato di voler “trasformare il Partito Democratico nello stesso modo in cui Blair ha trasformato il suo partito nel 1997”. In Italia l’ex primo ministro britannico è noto ai più per la sciagurata campagna militare contro Saddam insieme al presidente-cowboy George W. Bush, fondata sulla fantomatica presenza di armi nucleari mai reperite e costata un numero ingente ed insensato di caduti. Non un grande viatico per riscuotere la benevolenza e l’approvazione del popolo della sinistra italiana e del suo establishment (a dir poco scettici nei confronti della figura di Renzi e delle sue ambizioni riformiste) che, da sempre, fanno del pacifismo e dell’opposizione alle operazioni militari senza se e senza ma un loro manifesto. Allora perché fare riferimento all’esperienza Blairiana? È un mero tentativo di scimmiottare uno statista che ha segnato la storia recente delle relazioni internazionali o c’è di più? È plausibile una “mutazione genetica” (come la chiamò a suo tempo Scalfari) del Partito Democratico speculare a quella avvenuta a metà degli anni novanta al di là della manica ai Laburisti o, essenzialmente, la sua evocazione è l’ennesima riprova di una conoscenza superficiale da parte della nostra classe dirigente dei fenomeni politici che si verificano al di fuori del nostro orticello (assai poco fertile)?

Comincerei dalle differenze. Quando il sindaco di Firenze accenna al New Labour principalmente, leggendo tra le righe (ma neanche troppo), manda un messaggio volutamente intimidatorio al sindacato di riferimento, la CGIL (la Camusso non so se lo coglie, visto che fa parte a pieno titolo della suddetta classe dirigente). Il messaggio contiene l’avvertimento che il PD non sarà più soggetto ad alcun tipo di pressione dell’organizzazione sindacale nella formulazione delle sue politiche. Lo stesso fece Blair ma la distinzione dei due casi risiede nella genesi del Partito Laburista. Infatti esso nasce come diretta emanazione del sindacato che, per questa ragione, fino a vent’anni fa ne condizionava totalmente le  scelte e le posizioni. A ciò mi sentirei di aggiungere che lo sfilacciamento dei rapporti tra il pronipote del PCI e la CGIL è già iniziato da un pezzo.

Forse, tuttavia, ciò che mi preme di più sottolineare è il mastodontico gap in termini di spessore intellettuale che sussiste tra il progetto dell’intraprendente Matteo e quello del New Labour. Il secondo reifica in uno scenario politico (che non poteva essere altro che quello di Westminster) la “terza via” teorizzata da Anthony Giddens, uno dei massimi sociologi contemporanei. Una via che superi tanto il paradigma economico socialista quanto quello neoliberista, entrambi limitati e inadeguati per affrontare le complesse sfide della contemporaneità, per plasmare un nuovo soggetto. Ora, con tutta la stima e l’empatia che nutro per il sindaco di Firenze, non mi pare di intravvedere un’architettura concettuale altrettanto solida e articolata nelle sue proposte per rivoltare il PD come un guanto.

Inoltre la nostra situazione economica e quella della Gran Bretagna di metà anni ’90 sono diametralmente opposte. Blair, dopo quasi vent’anni di (vere) privatizzazioni e di smantellamento del Welfare State da parte dei governi conservatori, si era ritrovato una strada spianata per ricominciare ad investire risorse nei sevizi pubblici e, in particolare, nell’istruzione. Stritolati come siamo in una morsa composta dalla combinazione di un abnorme debito pubblico e degli assurdi e controproducenti vincoli imposti dal “Patto di Stabilità”, è impensabile  immaginare un consistente incremento della spesa da parte di un governo italiano in un futuro prossimo venturo. Promettere ciò significherebbe sottoscrivere la propria condanna all’incoerenza e all’irresponsabilità e nessuno francamente ne sente il bisogno.

Arriviamo ai punti di contatto. Mi sembra che nelle parole proferite e nelle azioni intraprese dal sindaco di Firenze ci siano sostanzialmente tre convergenze con il New Labour di Tony Blair. La prima riguarda un avvicinamento ai grandi gruppi finanziari e industriali ( i cosiddetti Big Business) e una maggiore sensibilità alle loro istanze. Il recente tentativo di ricucire i rapporti con l’amministratore delegato della FIAT Sergio Marchionne e l’estrazione sociale dei suoi finanziatori della campagna elettorale nelle scorse primarie ne sono una chiara testimonianza.

La seconda riguarda invece la serissima volontà di apportare modifiche al nostro assetto istituzionale. Il leader Laburista ha infatti dimezzato il numero dei componenti della Camera dei Lord e avviato il processo di devoluzione di autonomia nei confronti delle regioni di Scozia, Irlanda del Nord e Galles. Teoricamente, lo stadio finale di questo processo doveva essere la creazione di una seconda camera rappresentativa dei singoli territori; il senato federale e il superamento del bicameralismo perfetto suggerito da Renzi.
La terza è quella che più preoccupa “l’apparato” del PD e molti devoti ed integralisti elettori di sinistra, ovvero l’intenzione di spingere il partito verso il centro. L’obiettivo è quello di accaparrarsi nuovi voti all’interno di inesplorati segmenti della società, necessari a governare il paese in questo conflitto politico bipolare. Proprio come fece Tony nel 1997, prosciugando i bacini d’utenza dei Conservatori e costringendoli a radicalizzarsi e, conseguentemente, marginalizzarsi.

Mentre l’esperimento del New Labour è stato dichiarato definitivamente concluso in Gran Bretagna nel 2010 con l’insediamento di Ed Milliband alla direzione del partito, ora potrebbe rinascere in Italia. Oppure come Berlusconi è stato un liberista un po’ sui generis, che si è premurosamente preoccupato di consegnarci un debito pubblico ipertrofizzato, anche Renzi sarà una versione maccheronica di Tony Blair? Chi vivrà vedrà.

P.S. Avendo profonda stima e considerazione dell’operato in politica interna di Blair nei suoi 10 anni di governo, mi esimo dal commentare il giudizio di Nichi Vendola sul New Labour. Lo derubricherei al già citato deficit culturale della nostra élite politica.

Valerio Vignoli

3 luglio 2013

E se, per una volta, vincessero i buoni?



Prospettive sulla lotta all'evasione fiscale.

“Si loda la virtù, ma la si lascia morire di freddo.” Come può una frase di Giovenale essere legata alla lotta all'evasione fiscale? Cosa c'entra l'Illuminismo, fioritura della razionalità nella cultura occidentale, con tasse, redditi e controlli?
La classicità e la cultura settecentesca sono, infatti, alla base dell'approccio al problema dell'evasione fiscale dell'economista e professore dell'Università di Bologna Stefano Zamagni che richiama il conflitto intellettuale tra la corrente illuministica milanese il cui principale esponente è Cesare Beccaria e quella napoletana, animata da Antonio Genovese e Giacinto Dragonetti.
L'opera più celebre di Beccaria è “Dei delitti e delle pene”, pubblicata nel 1764 e influenzata dalla cultura germanica e dal calvinismo: nel phamplet l'evasione fiscale era annoverata tra i delitti e la via per debellarla passava attraverso l'inasprimento delle pene. Rendere la vita difficile agli evasori sarebbe stato il miglior deterrente possibile affinché il delitto sparisse. Due anni più tardi, Dragonetti rispose esplicitamente alla teoria del Beccaria con “Delle virtù e dei premi”. Secondo l'intellettuale napoletano, la tecnica descritta non è efficace per sconfiggere i comportamenti contrari alla legge: sarebbe meglio utilizzare le risorse a disposizione per premiare i virtuosi, coloro che pagano le tasse in maniera conforme a quanto previsto.

Mentre il pensiero di Beccaria è giunto intatto e celebre fino ai giorni nostri, la teoria di Dragonetti è scivolata nell'ombra almeno finché l'economia civile non ha recuperato il suo approccio. Questo recupero è stato stimolato dall'evidente difficoltà che lo Stato italiano incontra da anni: a fronte di un dispendio di risorse sempre maggiore, i risultati in termini concreti stentano a palesarsi. L'evasione fiscale è un processo endemico che attraversa tutti gli strati della società del Belpaese, coinvolge parimenti le regioni meridionali come quelle del Nord, gli artigiani così come i liberi professionisti. Il vecchio adagio secondo cui “fatta la legge, trovato l'inganno” non sembra poi tanto una storiella di fronte ai dati condivisi dall'Agenzia delle Entrate che quantificano l'evasione fiscale al 27% del Pil, circa 120 miliardi di Euro. (Ricordiamo che l'evasione fiscale è un'attività sommersa, tutti i dati sul tema si basano su stime e, dunque, non sono a prova di bomba. Ndr) A questi dati, vanno aggiunti i costi di funzionamento delle istituzioni che si occupano della raccolta: Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, ma anche carceri e tribunali. Il modello di matrice beccariana tiene, ma ha dimostrato i suoi limiti, dunque secondo Zamagni è razionale cercare un cambiamento orientato all'efficacia e perché non riprendere l'approccio “dimenticato” di Dragonetti? Pagare le tasse non è semplicemente un dovere, ma è una forma di virtù che va coltivata e premiata.


Potrebbe sembrare un progetto utopico frutto di un intelletto vivace, tuttavia un modello basato sulla riduzione delle spese attraverso il premio delle virtù è attuato da anni in Australia, ma non solo così lontano. L'Emilia Romagna ha recentemente attivato un progetto che sfrutta la sinergia tra Agenzia delle Entrate, Regione e Comuni e che si sviluppa in maniera molto semplice: il raccolto dalla lotta contro l'evasione viene spartito equamente tra Roma e i singoli nuclei locali. I fondi recuperati vengono stanziati per potenziare le strutture assistenziali come ospizi o asili, secondo il principio di sussidiarietà. Il protocollo d'intesa, siglato nel 2008, tra l'Anci Sezione Emilia-Romagna e l'Agenzia è nato nel quadro delle norme legate al federalismo fiscale e ha ottenuto, fin ad subito, risultati concreti di successo. Il quadro normativo di riferimento, le informazioni utili per i Comuni per collaborare all'accertamento dei tributi erariali e i risultati ottenuti sono stati raccolti nel 2010 in una piccola guida consultabile online (qui http://emiliaromagna.agenziaentrate.it/sites/emiliaromagna/files/private/documenti/Federalismo%20Fiscale/guidainter.pdf ). Una trasversale attività di sensibilizzazione è stata attivata attraverso una serie di seminari informativi, sia nei Comuni che già collaborano (in costante crescita) sia in quelli ancora esclusi dall'intesa. In questo modo si è configurato un vero e proprio “modello Emilia-Romagna” efficace e virtuoso, tanto che anche altre regioni hanno valutato l'opportunità di replicare un protocollo d'intesa analogo. 

I vantaggi non sono soltanto in termini economici, ma una stretta collaborazione con gli enti territoriali permette all'Agenzia delle Entrate di avvicinarsi al cittadino che, in questo modo, vede coltivata la propria coscienza civica. Infatti, l'evasione non è sempre un problema altrui, ma riguarda da vicino ogni segmento della cittadinanza proprio per la sua trasversalità; avere l'opportunità di fruire dei vantaggi di una riduzione del tasso di evasione nel proprio comune è un concreto stimolo a collaborare, in quanto bolognesi, piacentini, forlivensi o semplicemente italiani, ad una lotta che non è soltanto del lontano Stato, ma anche di ciascuno.
Un Paese nel quale tutti pagano le tasse, è un Paese nel quale, nonostante i periodi di recessione economica, vi saranno sempre delle risorse alle quali attingere finalizzate al mantenimento di uno stile di vita dignitoso e del benessere.
Certo, questo modello virtuoso di lotta all'evasione fiscale non è da considerarsi una panacea di tutti i mali della fiscalità italiana, ma un mutamento di prospettiva in senso positivo è un passo in tal senso, un passo che potrebbe rivelarsi davvero efficace. Del resto, riprendendo Giovenale, perché ignorare la virtù, quando la si riconosce?

Angela Caporale

Per chiunque voglia approfondire l'argomento, consiglio il saggio del professor Zamagni “Il contribuente virtuoso: come vincere la lotta all’evasione fiscale” disponibile a questo indirizzo: http://aiccon.it/file/convdoc/Il_contribuente_virtuoso.pdf

1 luglio 2013

Il mio articolo moralista: reazioni a caldo al processo Ruby


Ci sono frasi e modi di dire che vengono inghiottiti dal linguaggio comune, diventano slogan e spesso finiscono per essere svuotate del loro significato e del loro spessore. Una di queste è “fare del moralismo”. Con moralismo si intende una “degenerazione della morale usata con eccessiva intransigenza per una severa, talora ipocrita, condanna degli altri”. Tuttavia, viene utilizzata con accezione negativa, un po' a casaccio, verso chi non concorda con la tesi discussa e propone un punto di vista diverso, magari più etico, ma non per forza una degenerazione di cui sopra.
Questa lunga introduzione serve per avvertire i miei ipotetici lettori che questo articolo potrebbe essere facilmente tacciato di moralismo, perché in effetti contiene un malinconico richiamo alla morale. Vent'anni di berlusconismo hanno fatto macerie nella società italiana, ma penso che la crisi sia soprattutto lì, ancora più che nell'economia e nella politica. Milioni di italiani hanno assistito alla vicenda del processo Ruby nell'unico modo con cui vengono affrontate le vicende politiche e non in questo paese: da tifosi. 
Quelli che tifano contro Berlusconi hanno gioito ed esultato, quelli a suo favore hanno detto che è stato un complotto. Sempre affascinanti le teorie complottistiche: ormai qualsiasi sentenza presa da un organo terzo non viene più accettata in quanto tale ma viene rifiutata perché considerata come danno intenzionale per i più svariati motivi, alla base dei quali c'è sempre una sorta di odio dettato perlopiù dall'invidia. Come quando a scuola prendevo quattro perché non aprivo libro ma a casa mi giustificavo dicendo che la prof ce l'aveva con me. O come quelli che nel calcio continuano a scrivere “31 sul campo” nonostante le intercettazioni e gli arbitri chiusi negli spogliatoi, perché ritengono che sia tutto un complotto delle altre squadre stanche di guardarli vincere.

Tornando al processo di B, ho provato una gran tristezza osservando le reazioni degli avversari politici, giornalisti, gente comune che hanno esultato e festeggiato perché il loro nemico era stato finalmente sconfitto. Non nego di avere provato una sorta di senso di giustizia, però il quadro che vede il cavaliere finalmente sconfitto grazie all'intervento dei giudici paladini della giustizia fa così tanto, troppo, sinistra rancorosa. Significa innanzitutto ammettere di essere tutt'ora incapaci di sconfiggerlo definitivamente in campo politico ed in più alimentare le teorie che millantano una magistratura politicizzata al servizio degli avversari dell'ex premier. Dall'altra parte dello schieramento invece dopo il rifiuto della condanna è arrivata la rassegnazione al fatto che toghe rosse o non toghe rosse, il verdetto non cambia. A quel punto sono scattati i processi di giustificazione. Era solo una "scopata", lei era consenziente, non sapeva che fosse minorenne, sette anni sono troppi. Tutti argomenti che permettono di testare con mano la profonda crisi morale in cui siamo sprofondati. Un premier ultrasettantenne che organizza nella sua casa orgie con prostitute ancora minorenni, alle quali tra l'altro partecipano anche grandi nomi della politica e dello spettacolo, viene giustificato, così come viene giustificato il fatto che il suddetto premier di fatto ordini alla Questura di Milano di rilasciare una di queste prostitute (trattenuta per furto) poiché nipote di Mubarak. Non credo che tutto ciò sia accettabile in un paese civile e moderno. Non è questione di essere bigotti, la questione è che per il primo ministro di un paese occidentale del terzo millennio la linea di demarcazione tra vita privata e vita pubblica è così labile che non si può pensare di tenere una condotta così sfrenata nella vita privata senza che questa vada ad influire su quella pubblica. Se anche l'operato politico non dovesse risentire di questa condotta, rimarrebbe comunque un problema di immagine, essendo al tempo Berlusconi il primo rappresentante dell'Italia nel mondo. E nessuno meglio di lui dovrebbe saper riconoscere l'importanza dell'immagine ai nostri tempi. 

C'è però una parte d'Italia che lo giustifica. Lo fa principalmente perché sogna di essere come lui e di potere un giorno partecipare a queste orgie o dare ordini a pubblici ufficiali. È quell'italietta cresciuta con i reality show e le riviste di gossip. L'italietta di chi non ha mai fatto uno scontrino ma si lamenta delle troppe tasse o di quelli che “lei non sa chi sono io”. Quell'italietta che si è riconosciuta nell'uomo da Arcore perché “Silvio è l'italiano medio, ama il calcio e le belle donne”. Solo che si auspicherebbe che il Presidente del Consiglio rappresenti l'italiano eccellente, non l'italiano medio. Che poi a me medio sa tanto di mediocre. E proprio da questa mediocrità bisognerà iniziare ad uscire, prima o poi.

Per capire quanto questo dibattito sia degenerato in uno scambio di insulti tra tifoserie opposte basta leggere il titolo degli articoli che commentano la sentenza di due giornalisti, anche piuttosto stimati, che meritano di essere eletti a veri e propri capi ultrà. Gad Lerner scrive “Condannato il puttaniere, lui e lo Stato sono incompatibili”, mentre Giuliano Ferrara lancia una campagna di difesa di Berlusconi dal nome “Siamo tutti puttane”, e lo fa in un video nel quale si dà il rossetto sulle labbra. Ve li meritate, mi verrebbe da dire. Poi penso agli occhietti rancorosi del primo e alle labbra rosso rubino dell'altro e penso che no, nemmeno questa povera italietta se li merita.

Fabrizio Mezzanotte