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30 giugno 2013

The Sunday Up: The rest is noise.

 The rest is noise - Alex Ross

Non è elegante iniziare una recensione dicendo “se vi interessate di musica, vi prego, leggete questo libro!” ma davanti a un simile lavoro è proprio necessario. D’accordo, forse un libro sulla storia della musica (“classica”, seppur con tutte le virgolette del caso) del XX secolo potrà non interessare una gran fetta di pubblico, ma fidatevi: non serve essere specialisti per apprezzarlo. L’autore è un critico musicale e anche musicista (ahimé, chi pratica l’ambiente musicale saprà quanto sia raro trovare una figura così), e sfrutta sapientemente la sua preparazione – diciamo così – tecnica e la sua indole divulgativa da giornalista per appassionare senza mai affaticare. Narrare la storia della musica del XX secolo è impresa ardua: forse mai come nel secolo scorso si sono affacciati correnti, personalità, stili così diversi. Merito della tecnologia, certo, merito anche del miglioramento delle comunicazioni; ma sicuramente anche le vicende storiche ci hanno messo del loro. Basti pensare alla musica sempre così inquieta di Shostakovic (che attese per settimane una telefonata di Stalin senza muoversi da casa, perché non sapeva esattamente quando e se avrebbe chiamato), alla passione di Hitler per la musica di Richard Strauss (che alcuni ricorderanno come compositore della famosa fanfara iniziale di “2001: Odissea nello spazio”, che è in realtà il preludio del poema sinfonico “Also sprach Zarathustra”), all’opera di John Adams Nixon in China, con un soggetto quanto più contemporaneo possibile. Musica indissolubilmente legata alla storia, dunque. Non è una banalità come si potrebbe pensare inizialmente: negli altri secoli possiamo pensare la maggior parte delle opere musicali come in un certo senso indipendenti. La Nona di Beethoven è sempre la Nona, dopotutto. Ma con la musica del novecento non è così. Nessun secolo precedente si è trascinato un numero così ampio di eredità: da quella pesante come un macigno dei milioni di morti in vari conflitti, a quella dinamica dell’evoluzione tecnologica, a quella inquieta dell’incubo atomico e della guerra fredda. La musica del novecento riflette puntualmente ognuno di questi aspetti, in tempi e modi diversi che Ross illustra minuziosamente: il libro è dinamico, accattivante, non stanca mai e non ha momenti di noia. In più, se qualcuno ne fosse incuriosito, sul suo blog (http://www.therestisnoise.com/) si trova un interessantissimo elenco di tracce audio che si possono liberamente ascoltare per integrare le informazioni del libro. Si trovano registrazioni interessanti, che fanno ben comprendere fino a che punto si sia spinta l’evoluzione musicale nel secolo scorso: come il pezzo concettualista che consiste nella distruzione di un violino, brani per pianoforte preparato, interminabili e affascinanti opere minimaliste… ascoltare per credere. E poi magari si potrà scoprire a cosa e a chi si sono ispirati i Beatles per comporre quell’enigma musicale che è Revolution 9.

Alessio Venier

28 giugno 2013

Il giorno dopo Berlusconi


Il cavaliere è sempre più anziano, stanco, intrappolato nelle sue numerose vicende processuali e nella sua personalissima e infinita disputa con la magistratura. Inoltre ha perso parte del suo fascino e della sua abilità di sedurre elettori. Sebbene le ultime elezioni siano state sconvolte dal ciclone del M5S, è innegabile che Berlusconi e la sua compagine abbiano registrato un notevole e preoccupante calo di consensi. Il PdL, la sua creatura, stenta a camminare con le proprie gambe. Quando non si identifica in  Berlusconi e non si fa trainare al successo dal suo carisma, crolla e palesa la sua incapacità di mobilitare il proprio elettorato come nelle ultime amministrative. Le debolezze di questo partito sono emerse anche durante l’assenza del  magico collante berlusconiano in cui, come un branco di pecore senza il loro pastore, i vari esponenti del PdL hanno cominciato a brancolare nel buio, progettando l’istituzione di ipotetiche primarie per la scelta del nuovo leader e disperdendosi come personaggi in cerca d’autore.

La Lega Nord è al minimo storico nei consensi e sull'orlo di un’implosione causata dagli scandali che hanno coinvolto in prima persona il suo padre padrone Umberto Bossi (e famiglia) e dei tragicomici alterchi di quest’ultimo con Roberto Maroni. Mario Monti, con la compartecipazione interessata dell’UDC di Casini e di Gianfranco Fini, ha ottenuto un così magro risultato elettorale che gli ha impedito di esercitare un qualsiasi potenziale di ricatto ed essere l’ago della bilancia per la formazione del governo, come si era prefissato di divenire. Fini non è riuscito nemmeno ad entrarci in parlamento, Monti è recordman degli assenteisti e desaparecido e nei gironi scorsi sono venuti alla luce alcuni malumori con l’alleato Casini.
Il quadro per il centrodestra è tutt’altro che incoraggiante. L’inevitabile anno zero rappresentato dall'uscita di scena del Caimano si avvicina pericolosamente e inesorabilmente (in realtà sembrava che fosse già giunto ma i colpi di scena sono ordinaria amministrazione in quel di Arcore). Quale sarà l’avvenire per il centrodestra post-berlusconiano? Nel centrodestra appena se lo sono domandati hanno iniziato ad accapigliarsi e ora preferiscono andare avanti ciecamente, fino a scontrarsi con un muro. Io vi propongo tre scenari.

Scenario 1: “La destra Europea”
Il PdL collassa e lascia campo libero ad una nuovo soggetto che si ispira ai valori del Partito Popolare Europeo, magari anche con qualche spinta occulta da Bruxelles. Ma quali valori? I partiti in fondo non sono altro che specchio della società in cui viviamo. Tanto quanto prevale nell’UE l’affermazione degli interessi dei singoli stati membri e, dunque una concezione intergovernativa (e non sovranazionale) del progetto d’integrazione europeo, tanto persiste la monolitica prevalenza delle singole società nazionali e delle loro sfere pubbliche a discapito della nascita di una comune società europea. Il PPE si configura come un artefatto politico per governare le istituzioni europee ed è, nei fatti, un’accozzaglia di partiti che devono le loro caratteristiche e posizioni alle rispettive storie e sistemi politici. In conclusione, per tali ragioni, sarebbe difficile trapiantare questo “modello” nel nostro paese, proprio a causa dell’inconsistenza del modello medesimo. In fondo, più o meno esplicitamente, era ciò che pensava di fare Mario Monti con l’endorsement della Merkel, esausta della bizzarra “peculiarità” del Cavaliere.

Scenario 2: “Il ritorno della DC”
Il PdL si scioglie e si trasforma in un partito simile alla vecchia Democrazia Cristiana in una sorta di remake di “Ritorno al Futuro”. Quest’operazione nostalgica è abbastanza impraticabile per due ragioni: l’indebolimento dell’associazionismo cattolico frutto di una progressiva laicizzazione della nostra società e dalla logiche del bipolarismo. Certo l’influenza della Chiesa Cattolica è ancora rilevante ma non penso che l’elemento religioso costituisca più un fattore politicamente mobilitante ed unificante in questo paese. Inoltre un passaggio al semi-presidenzialismo indebolirebbe ulteriormente le opportunità di prosperare per un partito centrista. Negli ultimi vent’anni gli insuccessi dell’UDC di Casini e di tutti gli altri temerari testimoniano le difficoltà per una formazione cattolica di raccogliere una fetta considerevolmente ampia di elettori in Italia.



Scenario 3: “Un nuovo Berlusconi”
Marina Berlusconi? Alfio Marchini? Flavio Briatore? Sono alcuni dei nomi circolati per la successione (perché proprio di questo si tratterebbe) alla guida del centro-destra. Un po’ quello che è successo poco tempo fa in Venezuela, con il passaggio di consegne tra Chavez e il suo vice Maduro. Forse il paragone con un regime autoritario latinoamericano è un po’ azzardato (non è assolutamente mia intenzione insinuare che Silvio sia un dittatore e che l’Italia sia una dittatura), ma di abdicazione sempre si parlerebbe. È l’ipotesi più realistica ma presenta due problematiche. La prima riguarda l’appeal mediatico ed elettorale del successore. In un primo tempo potrebbe sfruttare l’onda lunga dell’incoronazione da parte del Cavaliere ma in seguito dovrà emanciparsi e dimostrare di possedere le stesse qualità istrioniche e seduttive del suo predecessore o, altrimenti, non riuscirà a convincere il popolo di Silvio. A questo punto, in caso di sconfitta alle urne, si potrebbe presentare la seconda problematica, ovvero la diffidenza del gruppo dirigente del PdL nei confronti dell’erede designato. Molti deputati e senatori vivono nell'adulazione e hanno sviluppato una fedeltà assoluta ed incrollabile verso il Cavaliere. È assai improbabile che possano nutrire la stessa devozione per il suo successore, e alle prime difficoltà, alzeranno la voce mettendo in discussione la legittimità del nuovo leader.

Insomma la situazione è abbastanza critica e il futuro nebuloso. Meglio non pensarci, giusto? “Meno male che Silvio c’è!”. Eh sì, meno male. Finché c’è…

Valerio Vignoli

26 giugno 2013

Datemi un prescelto : cronache da una finale NBA.




Il sole è spuntato da un pezzo.

Ho fame, voglia di caffè.
Duncan ha appena trivellato del petrolio con una manata sul parquet della AAA.
Lebron è elettrico: parla, si agita, comanda la difesa.
Non è la notte del prescelto.
E' la notte di Lebron James.
Inutile girarci attorno: tutto passava per le mani del numero 6 in maglia bianca.
E così è stato. 
Miami sembrava sfibrata dalle 7 durissime partite con Indiana, ma ha saputo reagire da grande, enorme squadra di pallacanestro, guidata da un Campione (la C maiuscola è d'obbligo), un gruppo solido e un allenatore capace di interpretare le partite per come si sviluppavano."One possession at the time" è stato il mantra del filippino.
Una cosa alla volta, non avere fretta, non tutto e subito.
Non siate ingordi.
Quanto è appagante vedere uno sport che si intreccia con la psicologia, con l'agonismo, col rispetto, con la volontà.
E queste Finals lo sono state, senza che sia necessaria l'ipocrisia di cui sono capaci gli addetti ai lavori di sport minori come il calcio.
La storia apre sempre due porte, e per il secondo anno di fila quella principale ha visto passare attraverso i "big three" di South Beach.
Ecco la prima differenza rispetto agli anni scorsi: Miami è stata più squadra.
Lo si è visto palesemente ieri notte.
Gli Spurs si sono affidati a Duncan e Ginobili; Parker è scomparso; Green è stato costretto a metterla per terra, dimostrando di avere ancora molto su cui lavorare.
Paradossalmente, le due squadre si sono invertite il carattere in gara 7: gli Spurs hanno giocato da Miami, mentre gli Heat si sono vestiti di nero-argento.
In che senso? Gli Spurs, con le rotazioni ridotte al minimo (solo Neal e Diaw, senza contare la breve apparizione di Splitter) si sono aggrappati a Duncan e Leonard (quello di ventun anni, sì).Miami ha reagito per merito di una panchina lunga (infinita), trovando da Battier (scongelato in gara 7, mentre nelle prime tre partite si limitava a passare gli asciugamani agli altri) quello che non ha dato Miller (particolarmente in attacco, ma anche in difesa); un Chalmers definibile solo con l'immagine di Belinelli contro gli stessi Heat (costata due spicci, per giunta); un Allen dalle caviglie nuove, che ha deciso gara 6 con un canestro di inenarrabile importanza; un Andersen dai piedi dolcissimi, che come si mangia lui la riga di fondo neanche il Flachi dei migliori anni.
Ma più di tutti, perchè è giusto così, è stata la finale di Lebron James.
"One possession at the time".
"It's a big-boy game".
Stimolato dal filippino, caricato dall'ambiente, conscio della storia che si sta scrivendo sulle sue dita, Lebron ha fatto quel che doveva. E chi si limita a guardare i punti è fuori strada.
Se eravate tra quelli imbottiti di caffè per non perdervi gara 7, non c'è bisogno che vi ricordi della chiusura in scivolamento su un attacco di Parker dal palleggio. 
Non c'è bisogno che ve lo ricordi, perchè se avete un minimo di cultura cestistica (se giocate, o semplicemente seguite da tanto tempo), sapete quanto sia difficile per un due-metri-due chiudere sul playmaker avversario senza commettere fallo.
Perchè Lebron, ancora prima che punti, è difesa, assist, rimbalzi e recuperi. Poi i punti vengono, chiaro, anche solo per il fatto che tutti se li aspettano.
"The Chosen One". 
Mi chiedo quanto sia difficile convivere con quel soprannome.Soprattutto se ce l'hai tatuato sulla schiena.
Sono davvero finiti i tempi del talco, delle maragliate da star Hollywoodiana, degli "uno-contro-tutti".
Lebron, alla corte di Spoelstra, ha trovato la sua dimensione, in una squadra che interpreta al meglio il basket moderno: un lungo agile, un play/guardia, due tiratori, e Lebron. 
Sostituite Lebron a qualsiasi ruolo: il rislutato non cambia.Giù il cappello per gli Spurs, che forse hanno pagato l'eccessiva adesione alla filosofia Popovich (anche se la storia non si fa con i discorsi da bar), un grande allenatore, come (forse, e purtroppo) non ce ne saranno più.
Di queste finali mi rimangono due immagini.
Una è quella che ho richiamato in apertura: Duncan che si china e frantuma il parquet con una manata, conscio del peso dei lay-up appena sbagliati.
L'altra è quella di Lebron negli ultimi possessi. Elettrico, concentrato, deciso, leader.
Non uomo solo al comando, ma leader.
Perché di leader ce n'è bisogno.
E io chiamo leader chi sa lasciare spazio agli altri, ma sa altrettanto bene quando gli altri hanno bisogno di lui. Lebron è tutto questo: non si dimentica da dove viene, anzi, riscrive la sua storia, dà un'altra interpretazione di sè stesso.
Lui è il prescelto non per il basket-show, ma per la pallacanestro.
E' lui stesso la pallacanestro del nuovo millennio, e in Spoelstra ha trovato chi ha saputo coglierlo e metterlo a frutto.
Io ero fra quelli convinti che gli Spurs fossero la pallacanestro, mentre gli Heat un tiro al bersaglio.
Oggi rimango convinto che in Texas si giochi una pallacanestro di rara purezza.
Gli Heat, con ancora parecchi angoli da smussare, sono un nuovo tipo di pallacanestro, che sta perlomeno fiancheggiando quella che ha dominato fino ad oggi.
Se poi il 6 te lo veste quello che "viene dalla strada", il Bingo l'hai bell'e fatto.Al bar ci chiedono come mai siamo già svegli, e buttiamo lì una battuta qualunque.
Personalmente non credo si possa spiegare quello che ti spinge a perdere il sonno per questo sport.Soprattutto se sei Spurs, ma riconosci che ha vinto il più forte.
Lorenzo Gualandi
@Larkinoshi

http://www.youtube.com/watch?v=nFQy-qmyotc

(Se vi state chiedendo perchè ho postato un video riguardante gara 6 e non 7, allora siete pronti per andare a vedere la nuova puntata di "Bobo&Marco: i re del ballo).

23 giugno 2013

The SundayUp - Proposta di moratoria linguistica in ambito musicografico

Un mio amico mi ha dato pacco per il primo pezzo per una nuova rubrica che spaccherà di brutto e che spero di poter iniziare fra due settimane quando tornerò col SundayUp™ (sempre che nel frattempo il fisico non mi tradisca una volta per tutte). Perciò, devo ora improvvisare una supercazzola lunga una paginetta a sfondo musicale (improvvisare è una figata, una volta alle medie che non avevo fatto i compiti di storia ho fatto finta di leggere dal mio quaderno le risposte a una decina di domande del libro mai viste prima guadagnandomi in tempo reale l'ammirazione di una compagna che per molti altri aspetti credo non mi sopportasse più) 
(Alice, anche se so che giochi a calcetto spero tu non sia diventata lesbica) 
(non che ci sia niente di male, per carità, ma non ti ci vedo, ecco).

bend it like beckham
Ora, in maniera sorprendentemente casuale, l'omosessualità femminile mi dà lo spunto per continuare il discorso. L'altro giorno, impegnato in torneo di pallacanestro (eh no, qui non divagherò, checcazzo!), sentivo un tizio (uno che per inciso ne ha vista una per sbaglio trent'anni fa solo perché aveva sbagliato spogliatoio) che proclamava con inusitata sicumera che il basket femminile “non avrà mai successo perché la gente non lo andrà mai a vedere dal momento che sa che l'80% delle giocatrici è lesbica”. (come se si andassero a vedere gli sport femminili solo per la possibilità di rimorchiare... mah) Ora, non voglio infilarmi in questo terreno minato, anche perché le poche giocatrici di basket femminile che conosco sono etero (anzi, una di queste a 15 anni ebbe una fugace cotta per me – non che la cosa deponga a suo favore) (Giulia, come va? E' un sacco che non ci vediamo), ma quello che mi interessa è la guerra di genere. Sì, perché l'obiettivo della proposta di moratoria linguistica di cui mi faccio alfiere sono espressamente e precipuamente le donne. Arriviamo al punto: si tratta dell'aggettivo qualificativo “bravo”, flesso nella maniera più appropriata in accordo col soggetto, riferito a band musicali.
Pensateci. Quante volte avete sentito questo aggettivo abbinato a qualche band? Diverse volte. E quante di queste volte a pronunciarlo era un essere di sesso maschile? Quasi nessuna. A onor del vero e per correttezza, non voglio invertire l'ordine dei fattori:  quello che mi sta sul cacchio non è certo l'appartenenza di genere del parlante, quanto e soprattutto l'espressione in sé. Tuttavia, le diverse occorrenze del mio personalissimo campione empirico non fanno altro che indicarmi con segnali luminosi a intermittenza che sono principalmente le femmine ad usarla. Non si tratta di una legge normativa, è solo inferenza statisticababy (a.k.a. niente di personale).

Ma ora veniamo al punto teorico del problema. Lasciando da parte l'ipotesi che si tratti di una mia arbitraria idiosincrasia – ipotesi quasi certamente vera peraltro – quello che mi perplime di questo abbinamento risiede nella scelta lessicale. Provo a enumerarne le ragioni. 
Prima di tutto, non significa granché. In due sensi, uno pragmatico-informativo, nel senso che non mi aggiunge nulla di nuovo sull'artista in questione, specie dopo il Grande Sottinteso Culturale del punk, cioè: non è quasi per niente rilevante se chi fa musica sia bravo, l'importante è che il prodotto finale mi dica qualcosa, sia “bello”. L'altro senso in cui “bravo” è tendenzialmente vacuo è tecnico-artistico: prima di tutto, dubito che tu ascoltatore medio sia anzitutto un musicista titolato (cioè abbia studiato seriamente, a differenza di me) tanto da poter fare apprezzamenti tecnici sulla bravura (e di cosa poi? Di esecuzione, di scrittura, di arrangiamento?) degli artisti in questione, ma soprattutto, specie dopo il Grande Sottinteso Culturale della digitalizzazione del music recording, che cazzo ne sai che il, es., bassista di quel gruppo abbia realmente eseguito quello slego o che quel cantante abbia veramente cantato a quell'altezza senza sbavare l'intonazione (e chissà, magari parlano in falsetto nella vita di tutti i giorni) (analogamente, mi chiedo se James Blake parla come canta e, nel caso, dove ha la manopola del pitch shift) e che invece non sia stato automatizzato, fatto in MIDI o suonato dal cane del produttore?
Lui è probabilmente bravissimo, ma non ascolteresti mai
 il suo gruppo per un altro miliardo di ragioni, sbaglio?

Successivamente, dal punto di vista psicologico-sociale, è probabile che tu dica che i Sigur Ròs sono bravi per mancanza di argomenti, per l'appunto, più tecnici – cosa di cui nessuno ti fa una colpa, per l'amor d'Iddio! – ci può stare, non c'è scritto da nessuna parte che per ascoltare e parlare di musica bisogna essere musicisti esperti o almeno amateurs, proprio perché è un'arte che parla anche e soprattutto al centro che gestisce le emozioni delle persone. Infatti se invece che dire che i Sigur Ròs ti piacciono perché evocano paesaggi innevati e nebbiosi o un mondo fatto di elfi barbuti che vivono nella tua testa o ti ricordano il periodo in cui prima di scrivere il Tractatus Logico-Philosophicus visitavi l'Islanda insieme al tuo amichetto dici che sono “bravi”, io posso accettarlo perché non hai i mezzi o la volontà di dire altrimenti (e va bene, non è un problema), ma se dici che “Lo Stato Sociale sono bravissimi, allora, ragazzo miohai proprio qualcosa che non va. 

Perciò, mettiamola così, se dovete dire di qualche band che vi piace, dite che vi piace o dite che vi evoca qualcosa, o dite che vi piace il suono della chitarra o la voce del cantante. Dite quel che vi pare, il più fondatamente possibile, ma non dite "che sono bravi".


Filippo Batisti

P.s.: gli esempi di band che sono stati definiti come "bravi" o "bravissimi" sono tratti dall'esperienza reale (come qualsiasi altra cosa in questa rubrica, d'altronde).

22 giugno 2013

L'aumento dell'Iva e l'attendismo democristiano del governo Letta


Le minacce del PDL sulla tenuta del governo, i fischi a Zanonato all'assemblea di Confcommercio e ora il possibile rinvio ad ottobre. Chiaramente si sta parlando del famigerato aumento dell'Iva ordinaria al 22%, che di certo porrà un freno ai consumi nel breve periodo e colpirà il piccolo commercio, che con la drastica riduzione delle vendite non è più soggetto passivo d'imposta. Inoltre, anche sul

versante Iva si registra un imponente tasso di evasione, che l'incremento non farebbe che incentivare. Su questo tema si è espresso il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, che ha diffuso i dati relativi al 2011, da cui emerge un'evasione dell'imposta sul valore aggiunto di 46 miliardi di euro. Una cifra questa su cui pesa, in parte, il malcostume nostrano della riluttanza verso lo scontrino fiscale, ma anche e sopratutto la grande evasione, che mette in piedi sistemi a "scatole vuote", allo scopo di bypassare il pagamento della tassa.

Cosa ne pensano gli economisti. Tornando all'aumento, a dirla tutta, gli economisti non sono concordi nel giudicare gli effetti di lungo periodo dello scatto dell'Iva: per alcuni avrebbe effetti progressivi, mentre per altri regressivi.
Per esempio, secondo Daveri l'iva al 21% colpirebbe di più i ricchi, in quanto i ceti meno abbienti, secondo i dati ISTAT, avrebbero una propensione al consumo più sviluppata verso i beni per cui l'accisa è al 4 e al 10%. D'altra parte, altri studi mostrano che ad incidere di più siano i beni con l'iva al 21% e, come suggerisce Pacifico, tale imposta ha effetti progressivi per quanto riguarda il consumo, ma fortemente regressivi per quanto riguarda il reddito.

Al di là delle questioni di metodo, pare chiaro che se si deve fermare l'aumento di questa tassa non bisogna farlo attraverso l'incremento di altre imposte (come le accise sulla benzina), ma forse occorrerebbe iniziare a pensare ad un taglio della spesa pubblica improduttiva (naturalmente non scuola e sanità). Anche se, come si è detto in queste pagine riguardo all'Imu, non sono certo queste le misure da prendere per far ripartire davvero il paese.

Ma le dispute dottrinali rilevano poco di fronte all'immobilismo del governo più democristiano della Seconda Repubblica e dei problemi sociali che, vivaddio, tardano ad esplodere violentemente, mantenendo fin troppo aplomb.
I primi 50 giorni del governo Letta sono stati e continuano ad essere un vivacchiare. Ogni giorno cambia l'urgenza e si sprecano gli aut aut, ma alla fine rimane la redazione di quell'accozzaglia gattopardesca di interventi del decreto del Fare (viene da chiedersi "fare, maddechè?"). E intanto B. le prova tutte per sfuggire dalla stretta della magistratura, il PD continua ad avere le sue crisi di identità, il pentastellati si prodigano nella caccia alle strege - nuovo sport nazionale - e ora, udite udite, pare abbiano litigato Lista Civica e UDC. Ah sì, in tutto questo c'è anche spazio per lo scandaluccio ministeriale della Idem.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi


13 giugno 2013

Un anno di Hollande, un anno di indecisioni.


 Quando il 6 maggio dello scorso anno il socialista Francois Hollande divenne il nuovo inquilino dell’Eliseo, in molti riponevano grandi aspettative e speranze nella sua presidenza. A partire dai francesi che lo hanno eletto. Anche  il mondo della sinistra europea scorgeva in lui l’uomo della rinascita, in un continente in quel momento dominato da esecutivi di centro-destra: Merkel in Germania, Cameron in Gran Bretagna, Monti in Italia e Rajoy in Spagna.  Doveva essere un riscatto dopo il progetto del New Labour blariano, caduto in disgrazia con la improvvida decisione di appoggiare gli Stati Uniti nella guerra contro Saddam, e dopo l’implosione del governo Zapatero, che aveva affascinato per il suo progressismo ma che si era squagliato di fronte all’esplosione della bolla immobiliare spagnola. Un leader social-democratico che, grazie agli ampi poteri decisionali conferitegli dall’assetto istituzionale semipresidenzialista, poteva ridisegnare una Francia, e in ultima istanza, un’Europa, più equa, più giusta, più tollerante e più aperta.

A quasi un anno di distanza possiamo iniziare ad affermare che tutto quell’entusiasmo e quel fervore si è spento, che le attese sono state deluse e che tutta quella fiducia è stata malriposta. Hollande si è rivelato un presidente indeciso, titubante e passivo. Pochi giorni fa la disoccupazione transalpina ha toccato il 10,4% (mai così alta dal 1998). La Francia ha concluso il 2012 con un Debito Pubblico che si è attestato al massimo storico del 90,2% (a fronte di una previsione del 89,9%) e un Deficit del 4,8 % (0,3% in più delle aspettative). La casa automobilistica Renault ha annunciato  una riduzione del personale di 7500 unità nel territorio francese. La spropositata tassa del 75 % per i redditi sopra il milione di Euro, che ha fatto infuriare l’icona del cinema Gerard Depardieu, è servita soltanto a far registrare al minuscolo comune belga di Nechin, che dista soli 9 chilometri dal confine, un boom nelle vendite delle case di lusso. 

Per insabbiare agli occhi dell’opinione pubblica le sue difficoltà e le sue incertezze nell’affrontare l’incombente e devastante crisi economica e per recuperare la popolarità perduta, il presidente socialista ha spostato l’attenzione sull’approvazione da parte dell’assemblea nazionale del diritto al matrimonio per le coppie omosessuali e sullo sradicamento dei gruppi terroristi islamici che avevano occupato indiscriminatamente il nord del Mali. 

Hollande ha attribuito una enorme priorità alla legge sulle nozze gay. Era una promessa elettorale e sapeva che in gioco c’era la sua credibilità politica. Infatti, a fine aprile, dopo un lungo e serrato dibattito, il parlamento ha dato il via libera. Tuttavia il Presidente non aveva fatto i conti con le numerose associazioni cattoliche e con la componente più conservatrice dell’élite intellettuale francese. Il drammatico suicidio del pensatore di estrema destra Dominique Venner, di fronte alla cattedrale di Notre Dame, nel tentativo di “scrollare le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini” e le manifestazioni in numerose piazze in difesa della “famiglia”, dimostrano tutte le resistenze della società francese nei confronti di questo provvedimento.

La missione maliana (operazione Serval), è iniziata il 10 gennaio in seguito all’approvazione di un risoluzione ONU e con l’appoggio dell’Unione Europea. L’obbiettivo fissato era scacciare i gruppi jihadisti instauratisi, senza il consenso della popolazione locale, nel nord del paese africano. Essa si è prevedibilmente rivelata un rapido successo per l’esercito transalpino, in grado di mettere in campo una potenza di fuoco e un’organizzazione militare assai maggiore degli avversari. Nell’arco di un mese sono state riconquistate le città occupate e liberata la popolazione. A fronte di un contingente di 4000 uomini sono caduti solamente 5 soldati francesi. Hollande ha dichiarato che l’operazione si evolverà lasciando che siano le forze locali, coadiuvate ed addestrate da un migliaio di unità francesi, a consolidare la pace e vigilare sul territorio. Tuttavia il caso dell’Afghanistan mette in guardia dal considerare prematuramente concluso un conflitto contro questo genere di organizzazioni terroristiche, che cercano esattamente di allungare le ostilità per far prevalere le loro strategie di guerriglia.

Il vero disastro però di questo primo anno di presidenza è costituito dalla scarsa influenza esercitata da Monsieur Hollande tra i palazzi di Bruxelles. In campagna elettorale aveva promesso il superamento delle politiche di austerità fiscale ed economica dettate da Berlino, attirandosi così le simpatie e le speranze di molti analisti e politici di sinistra in tutto il vecchio continente. Proprio su questo piano, quello delle trattative con gli altri leader europei per superare la recessione e combattere la disoccupazione, si è dimostrato poco determinato e molto indeciso. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, come ormai sostengono in molti, per fare uscire l’UE dalle sabbie mobili in cui si trova in questo momento bisognerebbe accelerare il processo di integrazione politica per costruire Stati Uniti d’Europa”. A tal proposito la classe dirigente politica transalpina è da sempre molto scettica, arroccata in un’assiomatica e anacronistica protezione delle prerogative e della sovranità dell’”état”. Inoltre, come già si potrebbe evincere dai dati economici all’interno dell’articolo, la Francia è oggigiorno più vulnerabile e meno in grado di determinare la linea dell’Unione Europea. Infine, per spiegare le difficoltà di Parigi a schierarsi apertamente contro Berlino (e magari fare fronte comune con Roma e Madrid) , bisogna prendere in considerazione la natura identitaria del legame Franco-Tedesco come cuore pulsante dell’Unione, oltre agli stupefacenti risultati che ha prodotto dagli anni ’50 ad oggi. Probabilmente nei tentennamenti di Hollande riguardo alla creazione di una sorta di alleanza “anti-austerità” insieme ai paesi mediterranei si nasconde anche una combinazione di orgoglio nazionale e di superbia, che gli impedisce di posizionarsi alla stessa stregua di paesi considerati di rango inferiore.

Le problematiche occorse durante il primo anno di François Hollande come Presidente della Repubblica francese stimolano ed incentivano alcune riflessioni su temi politicamente estremamente rilevanti come la sovranità degli stati in Europa e su come si deve immaginare un governo di “sinistra” nel prossimo futuro. È possibile per un singolo stato membro prendere delle iniziative che differiscono sensibilmente con i dictat che provengono da Bruxelles? C’è ancora spazio in Europa per politiche economiche e sociali di “sinistra” per come si era abituati a concepirle? Se non c’è più, come si deve ripensare una “sinistra di governo” in un paese dell’Unione Europea? Domande spinose e complesse a cui è difficile fornire una risposta. Io personalmente ho una mia opinione, ma cautamente e con un velo di timore che sia sbagliata, non la esprimo lasciando a chi legge la libertà di costruirne una propria.


Valerio Vignoli

11 giugno 2013

La questione siriana: the equilibri internazionali e spettri del passato

La guerra civile siriana sta diventando sempre di più una questione spinosa dalla quale non si riesce a trovare una via d’uscita.



All'inizio il conflitto sembrava muoversi su due precisi fronti in guerra: le truppe lealiste e fedeli al presidente Bashar al- Assad contro l’esercito libero siriano, coordinato dal Consiglio nazionale siriano. A due anni dall’inizio della rivolta (marzo 2011) ci si è accorti ormai che questo schema semplificativo non parla chiaramente di quello che realmente sta accadendo, cioè una situazione dove stanno operando diversi attori internazionali, più o meno impegnati attivamente nel difendere interessi personali, sostenendo direttamente o indirettamente questo o quel gruppo armato. Il tutto mentre le atrocità hanno fatto segnare il macabro picco dei 90.000 morti, in buona parte tra la popolazione civile, segnata dai bombardamenti, dalle esecuzioni di massa e (ennesimo spauracchio o questa volta fonte certa?) dell’uso di armi chimiche. 

Ma cerchiamo di dare uno sguardo in profondità al teatro degli scontri. Per prima cosa sembra che la Siria sia divenuta la pentola a pressione dello scontro decisivo tra le due anime dell’Islam, lo sciismo e il sunnismo. La famiglia del presidente Assad appartiene al clan degli Alawiti, vicina agli sciiti, e il regime è appoggiato da Iran ed Hezbollah, il movimento sciita anti-israeliano del sud del Libano. Questi due soggetti temono di subire un accerchiamento sunnita nel caso di vittoria delle truppe ribelli, nelle quali combattono numerosi fondamentalisti legati alla Fratellanza Musulmana e al movimento salafita, appoggiati in denaro e armi da Arabia Saudita e Qatar. Dell’impegno diretto dei miliziani di Hezbollah al fianco del regime di Damasco si sospettava da tempo (notizie di rientri di salme nel Libano di combattenti caduti in Siria, i raid dell’aviazione israeliana contro presunti carichi di armi diretti al “partito di Dio”); la conferma definitiva però si è avuta con l’infiammare della battaglia di Qusayr, cittadina siriana a pochi chilometri dal confine libanese, dove le milizie di Hassan Nasrallah hanno dato un contributo determinante all’esercito di Damasco per scacciare i ribelli dal centro abitato, in mano loro da un anno. 

Accanto a questo sanguinoso scontro tra dottrine islamiche, assistiamo all’impotenza nella quale stanno non giocando la partita le diplomazie europea e statunitense: soprattutto gli americani non sembrano riuscire a fare il decisivo passo in avanti, armando ufficialmente i ribelli. La paura di ripetere gli errori del passato è altissima, il ricordo degli armamenti dati in dotazione ai ribelli afghani durante l’invasione sovietica del paese e il pantano nelle quali le truppe dello zio Sam sono rimaste intrappolate prima con il conflitto contro i Talebani e poi, soprattutto, con l’invasione dell’Iraq determinano l’impotente immobilismo dell’amministrazione Obama. Il caro tema delle armi chimiche viene trattato con una certa prudenza (anche qua ci ricordiamo qualcosa?), mentre Francia e Gran Bretagna affermano che dei loro ispettori hanno ritrovato sui campi di battaglia tracce di Gas Sarin, molto probabilmente impiegato dalle milizie di Assad. 


In tutto ciò si avvicina la conferenza di Ginevra, dove grazie alla pressione della Russia il governo di Damasco parteciperà ai negoziati di pace: una prova di forza di Vladimir Putin, alleato del regime, per dimostrare che la situazione è sotto controllo e che i ribelli devono rivedere le loro strategie, non avendo più la situazione sotto controllo come qualche mese fa. Strategia che potrebbe portare dei risultati, visto che il generale dell’esercito libero siriano, Salim Idriss, ha fatto sapere che a queste condizioni l’opposizione non prenderà parte ai negoziati, invocando la fornitura di armi da parte della comunità internazionale, e mettendo in guardia dalla crescita delle organizzazioni fondamentaliste come il fronte Al-Nusra, legato ad Al-Qaeda.  

Mattia Temporin

9 giugno 2013

The Sunday Up - My Bloody Valentine: quelli che Casaleggio lo preferivano quando suonava la chitarra

Non li possiederò in una vita intera così tanti amplificatori
 (e, soprattutto, non li suonerò mai contemporaneamente!)
Una volta, mentre ero andato su Youtube a cercare non so più che canzone di Barry White (e ne avevo trovato una versione live bellissima, dove lui cantava a qualcosa che assomigliava molto a un matrimonio di mafiosi messicani fine '70 e, sudatissimo, faceva vibrare ogni cosa, come nella puntata dei Simpson), nei commenti al video avevo letto una tipa (probabilmente leiche, entusiasta, raccontava a tutti come Barry nostro le avesse “fatto all'amore nelle orecchie”, che almeno in inglese suona indubbiamente meglio.


Ora, al concerto dei My Bloody Valentine tenutosi in quel baraccone che tante gioie e tanti dolori mi ha regalato che è l'Estragon di Bologna, non posso dire di aver provato la stessa cosa, se non altro perché ho usato le protezioni. Una storia che un giorno vi racconterò (ma anche no) narra di come il mio apparato uditivo sia stato parzialmente offeso da una coda strumentale molto, molto rumorosa (almeno tanto quanto inutile) di un gruppo che per inciso amo e amerò sempre tanto. Per questo motivo, mi ero portato dietro un paio di tappi per le orecchie, anche dopo aver ascoltato diversi 'appelli alla calma in tivù' (cit.) sull'argomento, ai quali però la maggior parte dei miei commilitoni all'Estragon non ha, evidentemente, creduto più, per poi pentirsene amaramente quando dal palco è partito un pataccone noise di 10-15 minuti al posto dell'uscita di scena che, nella consunta liturgia del rock moderno, prelude ai bis.

No, a 52 anni vostra madre non è altrettanto bòna.
Ma andiamo con ordine: il palco si presentava come in certi video (di cui non me ne viene in mente neanche uno da linkare) con un muro di amplificatori, nel senso meno metaforico che riusciate a immaginare. E, come era facile immiginarsi date le premesse, appena attaccano all'unisono il dato immediato è la pacca che ti arriva in faccia. Molto compatta, compressa, non violentissima, ma solida, unita. Un'altra premura che avevo recepito tramite i mezzi di informazione di massa era quella di non scassaminchiare il fonico dicendogli di alzare le voci. Perché erano decisamente basse. Tuttavia, cari ragazzi, abbuonando il giusto aggrottamento iniziale, chiunque abbia continuato a pensare che le voci fossero troppo basse, non ha capito niente dei My Bloody Valentine o, per chi ha fatto le scuole, della loro poetica, che è quella del magma, dell'indistinto da cui, ogni tanto, come in un ciclo naturale, emergono singolarità distinguibili. E devo dire che, una volta abituatisi, era piuttosto bello.

Certo, dopo 45 minuti di concerto in diversi avevamo la sensazione che, lascia pure il magma, l'indistinzione, il brodo primordiale e tutte cose, quelli sul palco si stesso facendo grasse, postmoderne risate alle spalle del pubblico in discreto visibilio ripetendo dei pezzi già eseguiti precedentemente. Certo, questo è un difetto connaturato al genere da loro praticato, se vogliamo, ma non mi aspettavo niente di diverso, visto anche l'ultimo, hyper-hyped album, mbv, che era sì, carino e non deludente (cosa mica da poco, sia chiaro), ma niente di W.O.W.

Shields (sx) e Debbie Googe (dx) hanno qualcosa in comune. Per scoprirlo, continuate a leggere.
Non so se sia stato un evento assoluto (che male che fanno gli esami del Dams, ragazzi), ma di sicuro non avevo mai visto su un palco una scena come quella che è andata avanti per 50 minuti: una testata delle 6 o 7 presenti aveva qualche problema (non che la presenza o assenza di una cassa in più avrebbe determinato chissà quale differenza nella resa psicoacustica del concerto) e due baldi (oddio, quello più giovane sembrava il clerk dei Simpson)(Gesù, sto esaurendo i miei riferimenti culturali, devo fare qualcosa, vado a cercare un cinema d'essai così posso ampliare il mio repertorio) fonici hanno passato metà serata a sventolare la testata in questione che si era evidentemente surriscaldata. Anche i loro, di timpani, devono aver fatto festa.

Per quanto riguarda invece gli attori in scena, i nostri 4 erano supportati da dei visuals (che ormai credo si porti dietro anche Al Bano, pure per i concerti improvvisati) astratti e da una giovincella che suonava un po' di tastiere. Di chitarre ce n'erano tante, molto colorate, alternate continuamente, tanto che a un certo punto si sono ritrovati tutti con strumenti blu elettrico o azzurro, ed era una gioia per gli occhi. Bilinda Butcher era una specie di opera di Fidia, per la compostezza e non certo per le proporzioni di donna esile e graziosa che la contraddistingue. Poi, beh, come era già stato fatto notare, Kevin Shields (oltre ad appartenere a quella lunga e gloriosa stirpe dei menwholooklikeoldlesbians / 2 / 3) (il vero mindfuck della situazione però è che Debbie Googe assomiglia a un uomo che assomiglia a una vecchia lesbica più di quanto lei stessa assomigli a una vecchia lesbica) è uguale a Gianroberto Casaleggio, anche se io opto per l'ipotesi del complotto: sono la stessa persona. La verità è che i Mbv sono tornati sulle scene per finanziare il M5S, oppure il contrario, il Movimento è stato fondato per poter far uscire l'album – non sono ancora sicuro, devo controllare meglio le scie chimiche di oggi.

https://www.facebook.com/pages/Shoegazers-per-Casaleggio/140668039434266?fref=ts
Insomma, se vi capita, andate (e non menatela tanto per i 35 euri del caso, non vi ricapiterà mai più di vederli). E se vi capita un festival all'aperto, molto meglio: la pacca sarà maggiore, ma l'assenza del rimbombo delle pareti sarà solo che un vantaggio.

Filippo Batisti

The Sunday Up: Tempesta - Roger Vercel

Auschwitz, Gennaio 1945. Nel “momento di nessuno” nel campo ormai evacuato dai tedeschi e non ancora liberato dall’Armata Rossa, Primo Levi si trova nell’infermeria, lasciato lì assieme ai moribondi senza speranza, che sarebbero soltanto un peso nel corso della fuga. Un medico greco, prima di fuggire assieme agli altri, gli getta un libro sulla cuccetta: “Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo”, credendo, ovviamente, che sarebbe morto di lì a poco. E invece Levi sopravvive, e ricorda tutto: oltre alle note atrocità, anche quel dettaglio quasi senza importanza che è il titolo di quel libro. Si tratta diTempesta di Roger Vercel, nom de plume di  Roger Delphin Auguste Crétin, del 1935. Questa, uscita nel febbraio 2013 è la prima traduzione integrale in italiano.


Se si ha in simpatia la kantiana teoria del sublime, non si potrà non apprezzare questo testo: il capitano Renaud, capitano del rimorchiatore Cyclone in servizio a Brest (Bretagna, nel dipartimento di Finistère, la prua dell’Europa, estremo lembo di terra prima dell’Atlantico) risponde alla richiesta di soccorso di un mercantile greco, l’Alexandros, in una notte in cui infuria una tremenda tempesta. Vercel sa come fare il Turner della letteratura: con buon gusto e senza annoiare mai. È vero, si può rimanere inizialmente perplessi di fronte alla narrazione dell’epica battaglia contro un mare tra i più pericolosi al mondo, battaglia che dura tre giorni, tre notti e una buona metà del libro, con il rischio di sembrare fine a se stessa; ma la compensazione arriva rapida nella seconda metà, e con essa la nuova luce sotto la quale ripensare a tutta la prima parte. L’orizzonte, che vediamo aprirsi a poco a poco, dall’angusta stanza da letto del capitano a Brest, fino al porto, al canale del Goulet che si apre gradualmente verso il Mare d’Iroise, e infine all’Atlantico sconfinato sconvolto dalla tempesta, improvvisamente viene, con un vertiginoso zoom, ristretto di nuovo alla sfera privata del capitano, come un cappio, verrebbe da dire: i remorques (“rimorchi”) del titolo originale non sono soltanto bastimenti in avaria o mercantili greci comandati da canaglie che le studiano tutte pur di non pagare il servizio. No, si tratta di tutt’altro, remorques interiori, fardelli che il capitano porta con sé forse senza neanche rendersene conto, finché l’evidenza della malattia incurabile della moglie e un fortunoso incontro con la bella sposa del capitano greco non formeranno un fatale incastro perfetto, che aprirà la serratura e lo condurrà alla scoperta delle sue reali paure.

Il capitano Renaud, un uomo che non teme alcuna tempesta, che resta impassibile davanti al pericolo di sfracellarsi sugli scogli della Baia dei Trapassati, che resta sveglio per tre giorni di fila pur di ricondurre in porto un cargo greco il cui equipaggio non sembra saper fare altro che lamentarsi, implorare e mandare SOS telegrafici, questo stesso capitano tra le mura di casa si sente sperduto, come senza orizzonte, come braccato. Così quando la moglie del capitano dell’Alexandros, esasperata da una routine coniugale che non sopporta più, decide di testimoniare contro il marito e offrire a Renaud la possibilità di vendicarsi del mancato pagamento, lui accetta, credendo forse di aver così messo ordine nella sua vita privata. Ma non è così: la salute della moglie continua a peggiorare e il capitano non trova altra soluzione che la fuga, dalla casa, dalla realtà, e probabilmente da se stesso. Una fuga che lo riconduce, per l’ennesima volta, durante l’ultima, struggente scena, sul Cyclone, a sfidare l’ennesima tempesta alla ricerca dell’ennesima nave da salvare, eroe per tutti tranne che per se stesso.

Alessio Venier

6 giugno 2013

I confini "nascosti" della cittadinanza: una necessaria riflessione.

“Rivoluzionare” la cittadinanza promulgando lo ius soli oppure continuare su quel relitto chiamato ius sanguinis, prodotto di un’epoca passata e riconducibile all’Ancient Regime


E’ una proposta scomoda quella buttata sul tavolo dalla neo-ministra Cécile Kyenge che prevede l’allargamento dello spazio della cittadinanza, eppure può risultare un momento importante  per ripensare  al concetto stesso di cittadinanza e intavolare un dibattito costruttivo e costitutivo di una  nuova cittadinanza. Lo Ius soli rappresenterebbe certamente una tappa fondamentale verso il riconoscimento dei diritti ai figli, nati in Italia, dei migranti, ma di fatto non risolverebbe il problema nascosto, o meglio troppo scomodo per essere nominato, dell’umanesimo liberal-borghese: il rifiuto del riconoscimento dell’altro. “A nulla servono i discorsi astratti sull’uomo, sull’umanità, se ciò che abbiamo di fronte non è una condizione umana comune, ma un mondo gerarchicamente diviso, un uomo amputato dalla sua umanità”. Con queste parole Frantz Fanon descriveva l’Algeria coloniale degli anni cinquanta. Dopo più di mezzo secolo quell’ “uomo amputato dalla sua umanità” è ancora davanti ai nostri occhi, è ancora il limite intrinseco alla democrazia liberale europea. Rilevante è mostrare come il riferimento all’altro sia costitutivo dell’origine di un modello di antropologia politica segnato da un rapporto con l’ “altro da se” connotato in termini di dominio e sfruttamento. L’antropologia politica moderna ha permesso all’individuo (moderno) di costruirsi come cittadino tracciando, allo stesso tempo, confini precisi che condannavano, e condannano, all’esclusione tutto ciò che è altro da sé. Importante risulta dunque leggere e indagare quel movimento di immaginazione e costruzione del soggetto moderno. Prendendo, ad esempio, spunto dalle opere di Locke, le quali ebbero una grandissima influenza nello sviluppo del dibattito sulla cittadinanza, possiamo vedere come l'individuo europeo si è immaginato e si è costruito come cittadino attraverso la violenta istituzione di precisi confini che delimitavano un dentro e un fuori dallo spazio della cittadinanza.


Per Locke la proprietà risultava essere centrale. Nella sua teorizzazione, proprietà è per prima cosa proprietà di sé, proprietà della propria persona; cioè la capacità dell'individuo di auto-disciplinarsi, ovvero tenere sotto controllo i propri impulsi. L'immagine è dunque quella di un soggetto estremamente razionale capace di soffocare i propri elementi irrazionali. Questa capacità di auto-disciplinamento è il presupposto, secondo Locke, per la proprietà di beni materiali. È dunque il disciplinamento a rappresentare la cifra d'insieme che permette agli individui di accedere all'“arena” della  cittadinanza. Tutti quelli incapaci, però, di porre dei vincoli all'irrazionalità dell'uomo non potevano avere accesso a quello status privilegiato di cittadini. Ecco che quei confini, costitutivi dello stesso concetto di cittadinanza, emergono chiaramente mostrando il loro carattere violentemente escludente: il folle, l’ateo, il povero incapace di sopperire alla propria riproduzione a causa del “vizio” e della “pigrizia” e “naturalmente” la donna succube delle proprie emozioni. È attraverso questo processo di continua esclusione che si è andato progressivamente costruendo la soggettività borghese, quale soggettività storica del sistema capitalistico.

Decentrando il nostro sguardo possiamo vedere come altri confini, oltre quelli già citati, risultino altrettanto costitutivi di un preciso modello di antropologia politica. Il concetto di razza ha permesso all'individuo, costituitosi come cittadino, di recintare, di perimetrare lo spazio della civiltà e di esportare questo modello di riferimento al di fuori dei confini europei che si inscrivono all'interno del discorso sulla cittadinanza “europea”.

. Questi confini, che perimetravano e dividevano, ma soprattutto condannavo, sembrano oggi ricomporsi all'interno delle nostre metropoli riproducendo quella divisione coloniale tra suddito e cittadino che segna i corpi di milioni e milioni di persone a posizione subalterne.
 La cittadinanza è la formalizzazione di uno status sociale predeterminato, è una formula giuridica che, se da una parte include, dall’altra opera una minuziosa e violenta esclusione del soggetto “altro”, ovvero del non cittadino.

Lo ius soli non modificherebbe quella che possiamo tranquillamente definire una società  fondata sul razzismo e la divisione di classe, dove il multiculturalismo formale nasconde il rifiuto del riconoscimento dell’altro e dove, quest’altro, viene confinato a spazi e a condizioni ben definite. Fondamentale risulta dunque indagare anche il nesso strettissimo che la cittadinanza intrattiene con le migrazioni e come questo “fenomeno sociale complesso” scompone e altera il concetto stesso di cittadinanza rendendolo uno spazio di conflitto e di tensione.

 Le migrazioni non sono un fenomeno italiano, greco o francese; sono un “fatto sociale totale”. Investono l’intero spazio globale e dunque non possono essere pensate come problematiche circoscritte a determinati confini nazionali. Le migrazioni “attraversano e condizionano le dimensioni costitutive di una società mettendo in tensione la materialità dello stesso concetto di cittadinanza”. I movimenti migratori sono per loro definizione indisciplinati e antisistemici ovvero ristrutturano l’impalcatura nazionale, ibridano la composizione sociale di quel determinato spazio  che attraversano e alterano i codici nazionalistici di uno stato-nazione. I dispositivi che regolano la cittadinanza e i confini indicano la posizione di fronte ad un ordine politico e giuridico definendola appunto rispetto ad un “dentro” ed un “fuori”. Vediamo come le migrazioni mettono in crisi tale ordine come confine che garantisce un’unità di spazio e di diritto, mettendo in crisi il concetto westfaliano di stato-nazione. I movimenti migratori sono dunque rivoluzionari proprio per la loro matrice antisistemica. Ecco che allora lo stato–nazione, attraverso le sue politiche migratorie, grazie cioè a quella costellazione di dispositivi di potere, tenta di disciplinare le migrazioni, renderle cioè funzionali alle esigenze della sua società e alla riproduzione del mercato del lavoro, attraverso la produzione di una “mobilità regolata e funzionale”. Oggi il regime migratorio europeo si articola attorno a due cardini: la detenzione amministrativa e il permesso di soggiorno ( legato al contratto di lavoro). Questi due pilastri limitano strutturalmente (e violentemente) la mobilità sociale e spaziale dei migranti assegnandoli a posizioni di sub-ordine all’interno della fortezza europea e all’interno del mercato del lavoro. Questi dispositivi di potere, appunto, tendono ad inscrivere all’interno dello spazio europeo del XXI secolo, quella linea del colore che, il grande intellettuale afro-americano, W.E.B. Du Bois ci presentava come “il problema del XX secolo”; riproduce oggi nel nostro presente globale, quella netta distinzione tra suddito e cittadino. Ci troviamo oggi di fronte a nuove configurazioni del razzismo che risultano essere funzionali a sostenere politiche migratorie che puntano a regolare “la convivenza gerarchicamente ordinata di corpi diversi all’interno di un medesimo territorio, fino a legittimare vere e proprie forme di segregazione ( i centri di identificazione ed espulsione sono dei veri e propri lager dove non vi è nessuna considerazione per la vita e soprattutto la dignità umana).

Oggi nessuna grande metropoli, e neppure le città più piccole ( che riproducono la stessa divisione classista, razziale e settaria delle metropoli) potrebbero esistere, produrre ed essere competitive al di fuori della composizione ibrida e meticcia della sua popolazione e naturalmente del suo mercato del lavoro.
Non possiamo quindi pensare e indagare il concetto di cittadinanza senza far riferimento alle continue lotte dei migranti sul campo dei diritti che, attraverso pratiche di soggettivazione e di sottrazione da questo “mondo a scomparti”, che la cittadinanza di fatto fotografa, ne mettono in discussione lo stesso linguaggio e ne definiscono la natura conflittuale. Sono dunque convinto che la lotta dei migranti oggi non possa esaurirsi nel semplice accesso alla cittadinanza (seppur fondamentale), senza minarne radicalmente il fondamento al fine di alterarlo, in quanto prodotto di  un’antropologia politica che ha costruito il soggetto cittadino sempre in relazione all’“Altro” non europeo e quindi basato sulla funzionalità dell’esclusione del soggetto migrante.

Assumendo il punto di vista dei migranti, ci è permesso operare una forte cesura a concetti (sempre più in crisi) quali democrazia e cittadinanza  e, perché no, tentare di riempirli di nuovi significati attraverso una loro radicale re-invenzione dall’interno di un processo di soggettivazione politica del soggetto migrante. Si tratta di andare oltre lo stesso concetto di cittadinanza, mettendo in luce la crescente difficoltà che il binomio cittadinanza e democrazia incontrano oggi nel “contenere” e “limitare” il fenomeno migratorio. Disarticolare dunque quel fitto reticolo di potere che recinta la cittadinanza, ovvero cortocircuitare quei dispositivi escludenti che ne hanno accompagnato l’evoluzione e l’istituzionalizzazione; la linea del colore, la linea di genere e la linea di classe, per poter iniziare a ragionare su un altro modello di cittadinanza, una nuova cittadinanza fondata su quella che il filosofo marxista francese, Etienne Balibar, definisce come la sintesi tra libertà e uguaglianza, egaliberté.
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Davide Cattarossi