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31 maggio 2013

Non è una provincia per il PD

Il PD si afferma alle Amministrative, ma è lontano dalle città che può fare la differenza.



Mi sembra che ci sia un consenso abbastanza unanime nel ritenere che questa tornata di Elezioni Amministrative sia stata un discreto successo per il Partito Democratico, flagellato da una serie incredibile di traumi negli ultimi mesi, dai franchi tiratori alla candidatura di Prodi a Presidente della Repubblica al governo in coalizione con il PDL. Particolarmente rilevante è stata la netta affermazione di Ignazio Marino a Roma che ha conquistato all’incirca il 42% delle preferenze, staccando di 12 lunghezze il sindaco uscente Gianni Alemanno. Inoltre sono state incoraggianti le percentuali uscite dalle urne a Brescia e Treviso, due comuni tradizionalmente governati dal centrodestra, in cui i candidati PD si presenteranno in posizione di vantaggio al ballottaggio. Sorprendente anche il verdetto di Siena, dove il candidato del partito non ha particolarmente risentito dell’onda lunga negativa dello scandalo Monte dei Paschi.


Se ce n’era bisogno, si è avuta la dimostrazione della solidità e del senso di appartenenza dell’elettorato del Partito Democratico che, nonostante i segnali di malumore e di insofferenza espressi recentemente (basti pensare alle tessere bruciate dai militanti a seguito della decisione di non appoggiare Rodotà nella corsa al Quirinale), si reca puntualmente alle urne per sostenere il proprio partito, anche nelle cosiddette “Elezioni di secondo ordine” come le amministrative. Questa caratteristica mi sembra che distingua nettamente il PD dai suoi principali competitors che hanno sofferto l’inquietante ed elevatissimo livello di astensione. Alemanno per giustificare la sua débacle è arrivato a sostenere che “l’astensione è di destra” e che “la concomitanza del derby di Roma non l’ha aiutato”. Il Movimento 5 Stelle era riuscito a febbraio a canalizzare la delusione e il sentimento antipolitico e guadagnarsi il voto di chi altrimenti si sarebbe astenuto. Beh stavolta contava di meno e si sono astenuti e basta.

Alcuni osservatori hanno addotto come ragione ultima dell’affermazione romana di Marino il suo (cauto) criticismo riguardo al governo di larghe intese ed una sua presunta freddezza verso la classe dirigente del suo partito e, quindi, interpretato il voto come una condanna della base alle scelte dei vertici. Sinceramente non trovo questa analisi affatto convincente, tenuto conto del fatto che Marino proviene da quella stessa classe dirigente ed è stato eletto come candidato attraverso il sistema delle primarie di partito. Inoltre mi sembra limitativo valutare l’inattesa rimarchevole performance del PD esclusivamente in base alla partita che si è giocata per il Campidoglio.
Dunque è iniziata una grande risalita del centrosinistra, che è riuscito a smentire tutti coloro (ed erano in molti a dire la verità) che ne decretavano la morte imminente e la dissoluzione? Non è oro tutto quel che luccica. A mio modesto parere questa non è altro che la conferma di una tendenza che vede il PD rafforzarsi nei centri urbani ma, allo stesso tempo, faticare a conquistare voti lontano da essi. Oggi il centrosinistra ha in mano tutte le principali città italiane: Milano, Torino, Napoli, Venezia, Firenze, Bologna e presto potrebbe tornare pure a governare la capitale. Paradossalmente però in alcune delle regioni di cui questi comuni sono capoluoghi, come le tre grandi regione del Nord, ovvero Piemonte, Lombardia e Veneto (che compongono l’immaginaria macroregione padana) sono attualmente in carica Presidenti di centrodestra, o per meglio dire, nello specifico, della Lega.

Il Partito Democratico si sta progressivamente configurando come un soggetto politico urbano. Questo a causa dei suoi dogmatismi in materia fiscale, di un particolare occhio di riguardo agli impiegati pubblici ma, soprattutto, di una certa vocazione e di certi atteggiamenti un po’ medioborghesi e snob (al limite della spocchia talvolta). La provincia, quella tendenzialmente meno istruita, meno acculturata e in cui i trend arrivano più tardi ma anche quella operosa, quella fatta di campi da coltivare e di un fitto tessuto di piccole e medie imprese, quella che manda avanti materialmente questo paese, percepisce probabilmente il messaggio veicolato dal PD come poco incisivo, poco diretto, poco “terra terra”.


In tempi di cosiddetta “seconda repubblica”, bipolarismo e fluidità del voto è, tuttavia, cruciale oltrepassare i confini del proprio bacino elettorale per vincere le elezioni parlamentari. Se ci si pone come obiettivo la vittoria, non è sufficiente la conservazione delle proprie roccaforti e delle proprie classi di riferimento, per quanto fedeli, e bisogna puntare a convincere anche chi non ti ha votato nell’occasione precedente. Il salto di qualità il PD lo deve fare lontano dalle città, dove prevalgono logiche differenti, esigenze differenti e reti sociali differenti. Sarebbe auspicabile una svolta sia programmatica e sia comunicativa per fare breccia anche nei cuori delle periferie e sviluppare la tanto evocata “Vocazione Maggioritaria” . Una svolta senza un’aulica retorica del “politically correct” che maschera le incertezze e le divisioni. Una svolta priva di terminologie altisonanti e accademiche come “Mobilitazione Cognitiva” o “Catoblepismo”. Una svolta un po’ "pop". Anche un po’qualunquista, perché no. Una svolta un po’ Renzi.

Valerio Vignoli

29 maggio 2013

Il Movimento 5 Stelle alle amministrative: riflessioni su una sconfitta inevitabile

Le ultime elezioni amministrative sono state un vero tracollo per il Movimento Cinque Stelle: nessun comune conquistato, nessun capoluogo di provincia, nemmeno un ballottaggio e percentuali di voto che faticano a raggiungere il 15% se non addirittura il 10%. 



Va detto subito che si tratta di un campione parziale della popolazione italiana e che le elezioni amministrative hanno logiche e dinamiche indipendenti dalle politiche. Il M5S ha subito un duro colpo ma non è morto: questo risultato influenzerà certamente le prossime politiche ma non può sancire un giudizio definitivo. Riassumere in un solo articolo le cause e le conseguenze di questo flop elettorale sarebbe pretenzioso, ma a mio avviso ci sono tre punti fondamentali dietro questo fallimento: l'alto tasso di astensione, il rifiuto di una linea pragmatica, l'eccessivo peso dato all'interno del dibattito politico ad argomenti superficiali e non di primaria importanza.

Nonostante il clima di generale sfiducia, le politiche di febbraio sono state caratterizzate da un alto tasso di partecipazione. Il merito è stato principalmente del M5S che è stato capace di attirare una grossa fetta di ex astenuti, permettendo il salto fino ad oltre il 25%, quando tutti i sondaggi non andavano oltre il 20%. Gli ex astenuti, definiti anche “delusi dalla politica”, sono però un elettorato inaffidabile per definizione: passata l'ondata di protesta, passato l'effetto novità, molti elettori hanno praticato di nuovo l'astensione e le percentuali sono calate drasticamente. Inoltre trattandosi di elezioni amministrative è abbastanza normale un'affluenza bassa, che questa volta è stata abbassata ulteriormente da una sfiducia persistente e disillusa. La maggior parte dei potenziali elettori grillini si trova tra gli astenuti, tra quelli che non votano alle amministrative perché considerate superficialmente di secondo ordine, tra quelli convinti tre mesi fa a forza di “vaffanculo” e di “tutti a casa”, ma che difettano di sufficiente senso civico per partecipare alla vita pubblica del proprio comune. La natura trasversale ed eterogenea che ha permesso l'exploit di febbraio si è rivelata un'arma a doppio taglio: senza un forte radicamento sul territorio, senza né un'area geografica, né una classe sociale, né una fascia d'età di riferimento, il Movimento sembra essere tenuto unito solo dal senso di rabbia e di protesta, che fa fare il botto nella singola tornata elettorale come qualche mese fa, ma che rischia di ridimensionarsi velocemente.

Grillo ha anche pagato cara la strategia del no a priori. Il M5S è nato in opposizione a tutti i partiti tradizionali, con l'ambizione di rivoluzionare il modo di fare politica. Propositi nobili, però ad un certo punto bisogna anche sapersi “sporcare le mani”. I grillini non hanno esitato a definirsi i veri vincitori delle elezioni - ed è difficile dargli torto - ma se ti consideri il vincitore devi assumerti la responsabilità di governare. Il M5S ha avuto una splendida occasione ma l'ha rifiutata in modo testardo e abbastanza incomprensibile. Poteva contrattare col centrosinistra da un punto di forza, avrebbe trovato la disponibilità ad attuare molti punti del proprio programma e probabilmente avrebbe anche potuto imporre un premier che non fosse Bersani, una figura esterna condivisa da entrambe le forze. Ha preferito isolarsi dal resto del mondo politico, una scelta sicuramente vincente in campagna elettorale, che tuttavia non può essere perseguita così ostinatamente all'interno delle istituzioni. La politica e la democrazia sono essenzialmente basate sul dialogo e sul compromesso. Una strategia di rifiuto totale e opposizione perenne può essere fruttuosa per un partito da 10-15%, ma quello che numericamente è il primo partito italiano deve assumere una linea propria e cercare di portarla avanti anche a costo di fare qualche compromesso non disponendo della maggioranza assoluta. Nel tripolarismo perfetto uscito dalle urne il M5S si è autoescluso dalle principali dispute con la motivazione di non volersi mischiare coi partiti tradizionali ma con la colpa, agli occhi dei propri elettori, di lasciare proprio a questi le scelte più importanti. Troppo spesso ha scelto la via del non dialogo, che ha portato a ruoli soltanto passivi. Qualche proposta di legge è stata fatta, molte sono palesemente irrealizzabili, di stampo utopico e populista ma ci sono anche idee interessanti, che meriterebbero quantomeno un dibattito nazionale. Probabilmente non passeranno proprio a causa della strategia dell'isolamento decisa da Grillo, siccome è improbabile che altri partiti appoggino le proposte pentastellate dopo aver ricevuto dei no a priori, spesso conditi da insulti. È un peccato perché le possibilità di dare una brusca accelerata al processo di riforma della politica da tanto atteso c'erano, ma anche qui hanno prevalso gli istinti antipolitici e forse la consapevolezza che è proprio la malapolitica a produrre il malcontento e la rabbia che sono la linfa vitale del Movimento. Molti elettori di febbraio si sono ricreduti proprio perché avevano votato la speranza di un cambiamento attivo, responsabile e immediato.


Infine la pochezza di certi dibattiti nel mondo grillino: campagne anticasta, crociate contro gli sprechi della politica (alcune sacrosante), teorie complottistiche che spaziano dal signoraggio bancario alle scie chimiche infiammano gli animi in campagna elettorale e fanno breccia nelle menti più ingenue, ma alla lunga non devono degenerare nella guerra degli scontrini. Nella settimana in cui il governo Letta ha discusso della sospensione dell'IMU, i parlamentari del M5S erano impegnati a discutere della restituzione della diaria. Senza voler entrare troppo nel merito della questione (fa bene Grillo a pretendere la restituzione, si gioca la credibilità), trasparenza e taglio dei costi sono apprezzati e auspicati da tutti, non solo dai grillini, ma non dovrebbero essere messi in discussione dopo così pochi mesi e non dovrebbero togliere troppo tempo ai problemi del paese. Altro dibattito caldo è quello sulla “lista nera” di giornalisti ai quali i deputati non possono rilasciare interviste. Quello che emerge è l'assenza di democrazia interna (già si sapeva) e l'inadeguatezza dei deputati grillini, figli di un'esaltazione del dilettantismo in politica i cui nodi son presto venuti al pettine (l'argomento meriterebbe un capitolo a parte). Del resto, all'elettore del M5S il numero di interviste rilasciate interessa poco, sia perché il deputato grillino medio non è un mostro di comunicazione politica, sia perché quando ha votato non si aspettava lunghi dibattiti o enunciazioni teoriche ma fatti concreti e tangibili. Chi studia queste cose sa che non è possibile raggiungere risultati immediati in un così breve periodo di tempo, ma molti di coloro che avevano votato M5S a febbraio no. A loro era stato promesso che sarebbe stato possibile. Qualcuno ha iniziato a sentirsi tradito. C'è anche questo dietro il tracollo delle amministrative.

Fabrizio Mezzanotte

28 maggio 2013

Amministrative romane: unico appiglio, il vetro.

C'è qualcosa che non torna nei risultati di queste ultime elezioni amministrative, e non mi riferisco a Gentilini (Treviso) che, lui sì, è tornato alla carica anche se con meno brillantezza. Mi riferisco alla città su cui sono piantati gli occhi di tutti: Roma

A Roma, se ne parlava già da tempo, il riflesso dell'incertezza politica nazionale avrebbe portato o ferventi rivoluzioni, oppure un pantano del solito nulla cosmico. Nessuna delle due, ad oggi. Infatti vincono i non votanti, i delusi, gli arrabbiati. In questi due giorni di sole, c'è chi ha davvero preferito il mare alle urne.

Mia madre mi ha sempre insegnato che, se ti arriva una pacca sulle dita, devi interrogarti su cos'hai fatto, non  se, tra cinque minuti, non avrai più dolore. Ecco, questo è l'atteggiamento dei due maggiori partiti italiani: Pd e Pdl. Il primo è in vantaggio con Marino (42,6%), anche se dovrà vedersela al ballottaggio con uno scatenato Alemanno (30,3%), l'incumbent, quello dello scandalo "parentopoli" (noi italiani c'abbiamo fantasia, niente da dire), quello che "il derby di Roma ha distratto" (?). Questi due, piuttosto che dare un'occhiata alle nocche rosse si sono scagliati contro Marcello De Vito (12,43%), il candidato del MoVimento 5 Stelle. "Tonfo di Grillo", "Il MoVimento si arresta nella capitale", "Grillo ha perso il vantaggio". Ma ne siamo così sicuri?

Per sfizio mi sono andato a spulciare l'archivio del Comune di Roma, raccogliendo i dati relativi a primo e secondo turno delle elezioni amministrative nella capitale del 1993, 1997, 2001, 2006 e 2008. E, sempre per curiosità, ho raccolto le percentuali dei primi tre "classificati" al primo turno. Le cose sono piuttosto interessanti.

Nel 1993, freschi freschi di elezione diretta del Sindaco (D.P.R 132/1993, del 28 aprile), si sfidarono un giovane (poi vincitore) Francesco Rutelli (39,6%), il Gianfranco Fini (MSI, 35,8%) battezzato dal nascente Berlusconi, e Carmelo Caruso (Dc), fermatosi all'11,4%.
Le elezioni del 1997 furono un plebiscito per il candidato incumbent del Pds Rutelli, impostosi con il 60,4% sul candidato di FI-AN, Pierluigi Borghini, arenato ad un 35,9%. Terzo in coda, giusto per la presenza, si segnala Giuseppe "Pino" Rauti (1,6%).
La prima elezione del XXI secolo nella capitale ha avuto bisogno de ballottaggio. Al primo turno il candidato sostenuto da AN e FI, Antonio Tajani, è riuscito a raccogliere il 45,1% dei voti, staccato di soli 3 punti dal lanciatissimo Walter Veltroni (Pds, 48,3%). Chi è rimasto fuori dal ballottaggio è Antonio D'Antoni (Democrazia europea), ma con un 2,4% non si poteva pretendere di più.Per completezza, al secondo turno Veltroni ha trionfato con un 52,2%, contro il 47,8% di Tajani.
Le amministrative romane continuano ad essere un monologo a sinistra: di nuovo Veltroni. Questa volta il ballottaggio non serve, Una cascata di voti per il poi fondatore del Pd, che con il 61,4% si porta a casa la poltrona del Campidoglio, lasciando ad Alemanno un misero (mica tanto) 37,1%. Per trovare il terzo candidato classificato bisogna scendere fino alla costola di Rifondazione Comunista: Iniziativa Comunista. Il candidato Rita Casillo si ferma ad un imbarazzante 0,4%! Questo, lo sottolineo, è il TERZO partito nella capitale.
Il 2008 è l'anno dell'avvicendamento: con fatica Alemanno si impone sul sempreverde Rutelli, ma gli serve il secondo turno per averne ragione (53,7% per il candidato di destra, 46,5 per Rutelli).Ma diamo un'occhiata ai risultati del primo turno: Rutelli era addirittura in vantaggio di 5 punti su Alemanno (45,8 contro il 40,7%), mentre il povero Storace (quello de "La Destra", quello candidato ovunque, recentemente anche alla regione Lazio) si ferma al 3,3%.
E ieri le ultime, tristi, vicende elettoriali. Ok. Ora confrontate i terzi classificati. Il tanto vituperato Marcello De Vito, stabilitosi al 12,4%, è il candidato che ha realizzato il MIGLIOR risultato tra gli esclusi dal ballottaggio da qui a vent'anni. L'unico che si è avvicinato al 12% è Carmelo Caruso (nel 1993, 11,4%), ma quella era un'altra politica.
E' chiaro che le comparazioni vanno prese con le molle, vanno pesate e valutate, perchè i risultati non sempre fotografano l'orientamento politico e sociale di un Paese come il nostro. Ma a mio parere, questo excursus storico ci dovrebbe far stare sull'attenti.La storia sta cambiando. Quello che fino ad oggi era solamente un monologo destra-sinistra, si sta trasformando in un dibattito più aperto, dove la gente rinuncia al diritto di voto piuttosto che confermare una claque che ha devastato una realtà, quella dei Comuni, patrimonio del nostro dna.
Per questo, dico, sarebbe utile non far credere che abbia perso Grillo. O che abbia vinto il Pd. Primo perchè bisogna andare al secondo turno, e il 12,4% di De Vito (150.000 crani, che per un movimento  impostosi da qualche mese nella vita politica nazionale sono tutt'altro che sughero), potrebbe spingere la vittoria di Marino (un non-romano, l'ennesimo), oppure trascinare nella palude la già non esaltante partecipazione elettorale. Sarebbe utile smetterla con la retorica politica. Quegli specchi là stanno finendo tutti gli appigli.  


Lorenzo Gualandi
@Larkinoshi                                                                                                                                                                               

25 maggio 2013

Quale futuro per la scuola pubblica? Il referendum di Bologna tra la città e lo stato.


“Quale tra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali, che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole di infanzia paritarie a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola di’infanzia?   

A) Utilizzarle per le scuole comunali e statali.  
B)Utilizzarle per le scuole paritarie private.”

Ecco il quesito cui i cittadini bolognesi sono chiamati a rispondere nella giornata di domenica 26 maggio. Tramite referendum consultivo (quindi non vincolante), il capoluogo emiliano deciderà del futuro dei finanziamenti agli asili privati, detti “scuole d’infanzia paritarie private”. Una questione apparentemente locale che ben presto si è tradotta in un dibattito più ampio, poiché l’alternativa che il referendum presenta riguarda indirettamente anche le leggi e i sistemi di gestione delle scuole a livello nazionale. Altrettanto celermente, essa ha dato forma a un confronto politico-ideologico che, oltre ad allontanare la discussione dal tema “qualità dell’offerta scolastica”, ha mostrato nuove ed inconciliabili linee di divisione all’interno dello schieramento di sinistra.

Ma come si è arrivati al referendum? 
Per capirlo occorre fare un passo indietro e scoprire peculiarità e fasi di sviluppo della scuola dell’infanzia bolognese. Quest’ultima ha origini molto lontane; già a partire dal XIX secolo nascono infatti le prime istituzioni educative per l’infanzia, in parte gestite dal comune, in parte da associazioni ed enti privati, alle quali solo nel 1978 si aggiunge un asilo a carattere statale. Negli anni ’90 comincia poi a delinearsi un sistema misto di scuole infantili (tuttora esistente), che vedrà l’amministrazione bolognese investire ingenti risorse per il mantenimento degli istituti scolastici comunali, supplendo così a una grave carenza dello stato centrale. Il punto di svolta si raggiunge però nel 1994, anno in cui il sindaco PDS Walter Vitali decide a favore di un sistema integrato fra scuole pubbliche e paritarie private, sulla base del quale queste ultime avrebbero ricevuto parte dei fondi statali e comunali. Il medesimo provvedimento viene poi adottato dall’Emilia-Romagna con la legge 52 del 1995 dall’allora Presidente Regionale Pier Luigi Bersani. Fu ancora il centro sinistra ad estendere questo sistema a tutto il paese con un decreto legge del 1999 a firma Luigi Berlinguer, successivamente convertito in legge dal governo D’Alema.

Fin dalla sua entrata in vigore a livello locale il sistema fu fortemente criticato da chi difendeva la priorità della scuola pubblica, com’è dimostrato dai numerosi ricorsi legali che ne chiedevano l’eliminazione. L’ultimo tentativo in questo senso è quello del Nuovo Comitato Art. 33, promotore del referendum di domenica. L’oggetto d’interesse odierno è una cifra che si aggira attorno al milione di euro all’anno, della quale occorre stabilire la destinazione: farla confluire nelle casse della scuola pubblica modificando l’attuale modello, o destinarla alle scuole private mantenendo intatto l’assetto vigente?

Chi sostiene l’opzione A, ovvero l’utilizzo del milione esclusivamente per le strutture comunali e statali, fa riferimento all’articolo 33 della Costituzione, nella parte in cui recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Di questo parere sono, oltre al Comitato promotore di cui Stefano Rodotà è presidente onorario, SEL, IdV, Movimento 5 Stelle, Verdi, Rifondazione Comunista, diverse organizzazioni sindacali come la Fiom, parte della Cgil e i sindacati di base, nonché personalità pubbliche del calibro di Gino Strada, Margherita Hack e Dario Fo, solo per citarne alcuni. Le motivazioni di tale scelta sono dettate sia dalla consapevolezza che i tagli all’Istruzione portati dalla crisi hanno toccato esclusivamente gli stanziamenti alle scuole pubbliche, sia dal carattere cattolico della quasi totalità degli asili privati (26 dei 27 esistenti) che li renderebbe adatti solo ai figli di genitori con un certo reddito e di una certa religione. A ciò si aggiunge un dato importante, quello dei bambini iscritti alle scuole private prima e dopo il 1995 (anno in cui è entrato in vigore il sistema integrato di finanziamento); rispettivamente 1.760 e 1.736. Per i promotori del referendum questo dimostra che non è il minor costo delle rette a condizionare la scelta di un genitore di mandare o meno il proprio figlio a un asilo privato; di conseguenza è improbabile che togliendo quel milione di euro alle private si ingrosserebbero notevolmente le liste d’attesa per le scuole pubbliche.

Dall’altra parte, il comitato B come Bologna. B come Bambini ritiene che il referendum vada a minare, in nome di una lotta solo ideologica, un sistema scolastico ben funzionante e caratterizzato da alti standard dell’offerta educativa. A sostegno della propria tesi, i pro-B affermano che il Comune di Bologna investe ogni anno 1.055.500 euro in favore delle scuole d’infanzia private, garantendo così 1.736 posti all’interno delle stesse; con la medesima cifra verrebbero assicurati circa 145 posti nelle scuole comunali, poiché il costo che il Comune sostiene per ogni bambino di suddette scuole è di 6.900 euro, contro i 600 circa delle scuole paritarie private. Si sono dichiarati favorevoli a questa opzione il PD, col sindaco Merola e la sua giunta in prima linea, il PDL, la Lega Nord, l’UdC, alcuni sindacati come la CISL, e il presidente della Conferenza Episcopale Italiana Angelo Bagnasco.

Il dibattito sul referendum è ancora acceso e forse nemmeno il voto di domenica servirà a placarlo. A prescindere da ciò che emergerà dalle urne e dalle riflessioni che se ne trarranno, pare significativo riportare la visione del segretario della Cgil Bologna Danilo Gruppi, il quale afferma: “La vera controparte è lo stato. Ma di fronte alle poche sezioni statali presenti sotto le Due torri, la città, invece di indignarsi, mette in scena questo teatrino”.


Mascia Mazzanti
@masciamazzanti

22 maggio 2013

“Alternativa per la Germania”: e se anche i tedeschi cominciano a dubitare dell’Euro…


Poco più di un mese fa Berlino ha visto la nascita di un nuovo soggetto politico che fa discutere l’intera Germania, mettendo in discussione un pilastro della sua politica estera degli ultimi vent’anni: la moneta unica europea, l’Euro. Ebbene sì, “Alternativa per la Germania” colloca al centro della sua agenda “la dissoluzione della zona Euro”, argomentando che “non è necessaria una moneta comune per assicurare la pacifica unità dell’Europa”. Una moneta unica che, invece di unire il continente, “è fonte di sofferenze per gli europei”. Ritorno al Marco tedesco? “È un’opzione” secondo il leader del partito Bernd Lucke, un compito professore di macroeconomia dell’università di Amburgo.
In realtà l’abbandono della moneta unica non è l’unica questione saliente per questa nuova formazione politica che ritiene necessaria una svolta per un UE eccessivamente burocratizzata, centralizzata e scarsamente concentrata sull’enfatizzazione del mercato unico.

Fin dalla scelta del nome appare chiara l’intenzione di porsi in antitesi rispetto alcune scelte compiute dal cancelliere Angela Merkel, come lo stanziamento di fondi ai paesi dell’Europa mediterranea, che, usando un eufemismo, non è stata molto apprezzata in patria. Queste posizioni, insieme ad espressioni di sfida nei confronti dei partiti e dei media tedeschi, gli sono valse il non invidiabile plauso da parte della principale formazione neonazista in Germania. Lucke si è affrettato a sottolineare come terminologie condivise (per esempio, “partiti di blocco” o “rieducazione multiculturale”) non siano sinonimo di idee condivise. Infatti “Alternativa per la Germania” si autodefinisce come una formazione dall’approccio non-ideologico e tra i suoi membri, che in poche settimane hanno raggiunto quota diecimila, vede una forte prevalenza di soggetti con un notevole background culturale. Molti possiedono anche trascorsi nella scena politica tedesca e sono frutto di una migrazione da altri partiti, in parte dalla CDU di Angela Merkel (tra i quali lo stesso Lucke) e dai loro cugini bavaresi della CSU ma, soprattutto, dai liberali del FDP, alleati della CDU al governo e da sempre i più sensibili ai grandi interessi finanziari ed industriali.


Ad oggi i sondaggi stimano che difficilmente questo partito riuscirà, alle elezioni del settembre prossimo, a superare la fatidica soglia di sbarramento del 5% necessaria per ottenere la rappresentanza al Bundestag, il parlamento tedesco. Ma la partita è ancora lunga per questa neonata compagine, che ha qualche carta da giocare. Una di queste è appunto la crescente impopolarità della moneta unica in Germania. All'incirca un quarto della popolazione si dice insoddisfatto dell’Euro. In realtà fin dal principio l’opinione pubblica teutonica nutriva un certo scetticismo nei confronti dell’Euro e manteneva un forte attaccamento al Marco, moneta che nella Germania Ovest aveva garantito decenni di ininterrotta crescita economica. Tuttavia le élites politiche tedesche hanno imposto dall'alto questo passaggio e i buoni risultati dell’operazione, in termini di benessere prodotto e di crescita economica, hanno tacitato le perplessità e non hanno permesso la coagulazione di sentimenti contrari all'Euro in organizzazioni politiche. La crisi finanziaria, economica e soprattutto, a mio avviso, istituzionale che sta falcidiando la zona Euro sta facendo però vacillare la monolitica fiducia tedesca riguardo alla costruzione Europea. Si sta materializzando in Germania un vuoto nel panorama politico che, vista l’incrollabile avversione della totalità delle forze politiche presenti nel parlamento per qualunque forma di euro-scetticismo e di populismo, potrebbe essere proprio riempita da “Alternativa per la Germania”.
Per di più, questo partito, sebbene gli vengano attribuiti i voti di una piccolissima porzione di elettorato, potrebbe costituire eventualmente un ostacolo ad una rielezione di Angela Merkel al ruolo di cancelliere. Un suo exploit probabilmente toglierebbe consensi al Partito Liberale, che fa parte dell’attuale governo di coalizione, e che rischierebbe così di non ottenere la quota di voti necessaria per ottenere seggi  al Bundestag.

Questo clima di sfiducia interna nei confronti dell’Euro, un’opinione pubblica che non ha visto di buon occhio la concessione di prestiti a stati considerati inefficienti e spreconi (e che non considera che tali aiuti servono proprio a questi paesi per ripagare i debiti contratti con le incaute banche tedesche) e  le elezioni incombenti credo che possano avere un enorme impatto sull’atteggiamento del governo tedesco negli imminenti meeting e consigli europei. Sinceramente mi sembra inimmaginabile un mutamento nella tetragona posizione tedesca fatta di austerità e di rigidità sui  conti pubblici. Credo che Angela Merkel sia ben consapevole del fatto che ogni segnale di cedimento e di debolezza sul fronte dell’UE potrebbe costarle un calo di popolarità e una conseguente sconfitta elettorale.

Penso dunque che prossimamente il calcolo politico prevarrà sul buon senso, a scapito del tanto vituperato Enrico Letta, a cui va dato quanto meno il merito di aver finalmente compreso la centralità (forse ancor più di Monti e del suo girovagare per il mondo alla ricerca di buoni samaritani che investissero in Italia) del tavolo europeo per la risoluzione della recessione economica in Italia. Quindi purtroppo per noi. Quindi purtroppo per Spagna, Grecia e Portogallo (e neanche gli altezzosi francesi sembra che se la passino troppo bene stando alle recenti rilevazioni). Quindi purtroppo per l’Europa.

Valerio Vignoli

20 maggio 2013

Governo ostaggio: la questione IMU


Come definire il rinvio del pagamento dell'IMU se non palliativo? Quale effetto benefico può avere  la sospensione di una tassa, che fino a prova contraria dovrà comunque essere pagata, per le casse statali e per quelle dei contribuenti?
Il fatto che questo sia il primo argomento concretamente trattato dal governo Letta fa intuire quello che molti temevano: siamo davanti ad un governo “ostaggio” di Silvio Berlusconi, che può decidere di staccare la spina da un momento all'altro con il vantaggio, molto rilevante, di non dover mettere la propria faccia davanti a fallimenti o decisioni impopolari. La questione IMU imposta come primo provvedimento da attuare in cambio della fiducia al governo stesso è la prova di forza dell'ex premier, desideroso, in tempi di continua campagna elettorale, di sfoggiare il trofeo di “colui che ha tolto una tassa ingiusta a tutti gli italiani”. Letta non ha potuto fare altro che dire “obbedisco”, vista la precarietà della sua posizione, quella di un uomo messo dal proprio partito alla guida di un governo figlio di una curiosa tendenza del suddetto partito di fronte a importanti scelte strategiche: sbagliarle. Tutte.
Ma non parlerò delle manie autodistruttive del PD in questo articolo. La questione fondamentale non è nemmeno l'assurdità di questo palliativo fiscale. Se anche venisse rimossa completamente l'odiata tassa sui beni immobili sarebbe solo una boccata di ossigeno per un malato terminale. Le poche centinaia di euro risparmiate non cambierebbero comunque più di tanto il destino di famiglie di cassintegrati, disoccupati, precari, esodati. Il problema continuerebbe a sussistere. Il mercato del lavoro sta collassando inesorabilmente. Non ci sono segnali di ripresa, le imprese chiudono e i lavoratori rimangono disoccupati. Questa crisi ha avuto il merito di ricomporre la frattura tra capitale e classe operaia, con operai e imprenditori insieme sulla stessa tragica barca. Il poco denaro presente nelle casse dello Stato dovrebbe essere destinato lì, al rilancio del mondo del lavoro, indispensabile per un'economia reale che boccheggia. Invece non godrà nemmeno del palliativo IMU, poiché la sospensione non è prevista per gli immobili lavorativi come capannoni o negozi.
Inoltre non bisogna dimenticare che nel mese di luglio dovrebbe scattare l'aumento dell'IVA dal 21% al 22% , che andrebbe ad incidere indistintamente sui consumi, danneggiando ulteriormente ad esempio quelle famiglie che non hanno un'abitazione di loro proprietà quindi non godrebbero nemmeno della sospensione o dell'annullamento dell'IMU. Inoltre un aumento dell'imposta sui consumi porterebbe ad una miriade di altri problemi per il mercato: diminuzione dei consumi, diminuzione della domanda di beni e di conseguenza del lavoro, maggiore propensione all'evasione. Si stima che l'annullamento dell'IMU sulla prima casa porterebbe circa 4 miliardi nelle tasche dei loro proprietari. L'aumento dell'IVA andrebbe a pesare su tutti i consumatori per  2,1 miliardi nel 2013 e 4,2 miliardi nel 2014. Se si seguisse questa strategia, a pagare maggiormente sarebbe quella parte di popolazione che non possiede un'abitazione propria. E che non fa parte dell'elettorato PDL, a voler essere maliziosi. Ma anche senza essere maliziosi, pare fin troppo evidente che l'imposizione del Cavaliere di questa manovra dei connotati populisti porterebbe qualche vantaggio nel breve termine ma molti svantaggi nel medio-lungo periodo. L'unica a guadagnarci sarebbe proprio la popolarità di Berlusconi poiché anche in caso di misure impopolari approvate dalla sua stessa compagine politica sarebbe come sempre abile a districarsi ed evitare responsabilità, magari togliendo pure la fiducia al governo, come è accaduto qualche mese fa con Monti.
Ma non scopriamo certo oggi l'irresponsabilità politica di Berlusconi. Quello che purtroppo emerge oggi è che anche questo nuovo governo che dovrebbe avere come cardine la responsabilità nazionale (anche se sarebbe più appropriato parlare di senso di colpa, visto che questo governo tragicomico di larghe intese è figlio del fallimento di PD e PDL nel proporre un assetto bipolare credibile) continui invece a gettare polvere negli occhi dei cittadini, sperando di mascherare un'incapacità di riformare e riformarsi (che forse è ancora più spaventosa della crisi stessa) con qualche euro in più nelle tasche di chi potrà godere di questa sospensione. Come se volessero comprare il silenzio e il consenso della popolazione con qualche soldo in più per le vacanze estive. Come se si volesse stimolare la pancia degli elettori sperando che questo offuschi il cervello. Come somministrare un palliativo ad un malato terminale.


Fabrizio Mezzanotte

19 maggio 2013

The Sunday Up: Quel che resta del giorno. (Kazuo Ishiguro)

 Sarà la nebbia, sarà il freddo, sarà questo maggio a tratti inusuale. Quel che resta del giorno non è propriamente una novità (è del 1989), ma senz’altro è un libro adatto a questo clima.
Una storia “bella e crudele”, la definisce Salman Rushdie, elegantissima, compassata ma allo stesso tempo piena di irrazionali paure. Una narrazione intrisa di un rimpianto senza sollievo, immersa  nella nebbiosa campagna inglese. Curioso che l’autore, un giapponese (seppur trapiantato in Inghilterra), abbia saputo creare un romanzo che potremmo definire “più inglese degli inglesi
stessi”: leggere per credere. 

Mr Stevens, un maggiordomo irreprensibile, che ha dedicato la sua vita al lavoro presso la sontuosa residenza di Darlington Hall, in occasione di qualche giorno di libertà trova il tempo per un viaggio in automobile dall’Oxfordshire fino in Cornovaglia (siamo nel 1956), allo scopo di incontrare di nuovo una sua collega governante, Miss Kenton, con cui ha condiviso anni e anni di servizio. Sebbene Stevens si sforzi di giustificare il suo viaggio con motivazioni di carattere professionale, appare evidente che, dietro l’impenetrabile scorza di impeccabile eleganza e dignità, nasconde un animo tormentato e inquieto, e che è spinto a incontrare Miss Kenton da motivazioni forse più profonde. Durante il tragitto Mr Stevens annota lunghe pagine di diario piene di ricordi di un’età che non tornerà più, in cui il lettore riconoscerà senz’altro vari indizi di una personalità profondamente chiusa ma, dettaglio importantissimo, solo all’apparenza fredda. Mr Stevens si rende conto che probabilmente ha sacrificato la sua vita al lavoro, a quell’ideale astratto di “dignità” a cui dedica così tante riflessioni al limite del filosofico. L’incontro con Miss Kenton, nel quale entrambi sono consapevoli che non si rivedranno mai più (pur non rivelandolo apertamente), è suggellato dalla malinconia, dal rimpianto e dal ricordo del tempo passato assieme, con l’adombrato sospetto che la loro vita avrebbe potuto essere diversa se solo Mr Stevens fosse stato un po’ meno freddo e si fosse aperto al sentimento che, pare di leggere tra le righe, Miss Kenton ha provato per lui per lunghi anni.
Assolutamente degno di nota è lo straordinario stile del romanzo: il diario di Mr Stevens rivela con
il solo stile di scrittura tante informazioni quante i fatti narrati, se non di più. Lo stile ossessivamente puntiglioso di Mr Stevens corrisponde esattamente, con le sue esitazioni, reticenze
ed innegabili ricercatezze, al carattere del personaggio.

Merita una menzione particolare l’omonimo – e splendido – film che da questo libro è stato tratto, con gli impareggiabili Emma Thompson e Anthony Hopkins come protagonisti.
Un libro che ribalta la solita e – diciamolo – un po’ trita visione delle storie d’amore dalla consueta trama “incontro – innamoramento – ostacolo – superamento – lieto fine” per regalare una visione forse più pessimistica, ma indubbiamente più reale di un incontro mancato, di cui entrambi si rendono conto ma che nessuno ammette all’altro. Ma, cosa forse più importante, lo ammettono con se stessi?

Alessio Venier

SundayUp: Si scompare per tornare ad essere (Viva la libertà - 2013)

Viva la libertà

di Roberto Andò
con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon

Viva la libertà

Reduce da eccessi alla Luhrman, frammenti di brillante cinema francese e sconcertante Ryangosling-mania, decido di parlare, nella mia prima recensione, di un film che si è già palesato sullo schermo da qualche mese, ma che a mio avviso merita una particolare considerazione.
Viva la libertà è l'ultima opera cinematografica di Roberto Andò, 94 minuti di film costruiti sul romanzo premio Campiello "Il trono vuoto", scritto da Andò stesso. Al centro della scena ritroviamo il tema del doppio (un tema antico e caro a tutta la cultura occidentale) e della politica italiana, una politica che necessita sempre più di un restauro e che per rialzarsi sembra aver bisogno di, niente meno che, un po' di cinema e di follia.
Per riportare in scena queste tematiche Andò affida il ruolo del protagonista (o "dei protagonisti") a un grande Toni Servillo che già aveva dato prova della sua bravura sotto le direttive di Sorrentino.
Enrico Olivieri (Toni Servillo, appunto) è il segretario del principale partito di opposizione italiano. Più volte contestato e sconfitto decide improvvisamente di fuggire dal claustrofobico ambiente politico a cui appartiene lasciando il partito senza una guida e rifugiandosi a Parigi. Andrea Bottini (Valerio Mastandrea), suo affezionato collaboratore, rimasto a Roma senza avere inizialmente idea di come gestire la situazione con i media e con il resto dei colleghi di partito, decide di affidarsi a Giovanni Ernani, gemello di Enrico. La sinistra italiana viene così messa, inconsapevolmente, nelle mani di un professore di filosofia da poco uscito da un ospedale psichiatrico, folle e sognante che porta la stessa faccia della vecchia politica, ma un cuore nuovo. Una politica che torna a parlare alla gente ("Io sono qui per far sì che domani non si dica: i tempi erano oscuri perché loro hanno taciuto!") tramite Brecht, haiku e svolazzanti ironie. Nel frattempo Enrico in fuga da se stesso, si ritrova in un'amante di tanti anni prima (Valeria Bruni Tedeschi, unico pugno allo stomaco del film) e nella grande passione per il cinema che era stato portato ad abbandonare.
Il partito raccontato da Andò è un partito che implode in sé stesso colto da una crisi interna e da un forte sentimento di inadeguatezza. Il regista non si è astenuto dal far notare come nell'istinto di fuga e di autodissolvimento di Olivieri si riveda quel Veltroni che aveva tentato di prendere le redini del Partito Democratico, scivolando in un completo fallimento. E proprio nel momento in cui il potere diventa angoscia e indecisione, sembra che solo Fellini e la filosofia siano in grado di gettare nuove basi per una nuova politica.

Il pessimismo originario del romanzo dato dal vuoto e dalla mancanza di una figura leader dominante, nel film lascia il passo a un gentile e deciso messaggio di speranza: gentile e deciso come la regia di Andò, come i due volti della recitazione di Servillo, come lo sguardo di Mastandrea, che calza le scarpe del personaggio che è solito interpretare. Deciso e gentile come quel fantastico tango di Ernani con la cancelliera tedesca e come l'ouverture della Forza del destino di Verdi, che è inevitabile canticchiare una volta usciti dalla sala.

Fedra Galassi

18 maggio 2013

La TAV in Val di Susa: nessuna luce in fondo al tunnel.


 Della serie: a volte ritornano. Martedì 14 maggio l’opinione pubblica italiana si è ricordata che, oltre alle tante “gatte da pelare” che ha il nostro paese, esiste e continua a permanere la questione attorno alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino- Lione. 

E’ di martedì 14 maggio la notizia che nella nottata le frange estreme dell’attivismo No Tav hanno assaltato a colpi di molotov e bombe carta il cantiere di Chiomonte, dove le imprese abilitate stanno proseguendo nella costruzione del tunnel in mezzo alla montagna dove passeranno i treni ad alta velocità. Si torna quindi a sentire le autorità politiche e giudiziarie evocare climi da “stagione terroristica”, di necessità di prendere provvedimenti urgenti. Il capo della procura di Torino, Gian Carlo Caselli, ha lanciato un appello alle istituzioni, chiedendo se c’è ancora la voglia di proseguire con il progetto o se è ormai diventato una perdita di tempo per il quale non vale più la pena proseguire, soprattutto per ragioni di pubblica sicurezza. Questa ennesima sollecitazione sembra essere stata recepita dal neo ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi, il quale ha annunciato che porterà la ratifica del trattato internazionale sulla Tav in parlamento. Sembrerebbe essere l’ennesimo tentativo di velocizzare una questione che ormai ha raggiunto i livelli di una commedia, soprattutto per i costi che ogni anno lievitano (siamo passati dai 12 miliardi di euro del 2002 ai 25 attuali) e per le proteste attorno al progetto che non diminuiscono. Nonostante tutto il potere pubblico italiano continua imperterrito nella realizzazione della linea in Val di Susa, forte anche dell’indebolimento del movimento No Tav, il quale, nonostante le numerose azioni di protesta negli anni, non è riuscito ad ostacolare il progetto. 
Certo è che continuiamo ancora ad interrogarci sulla reale utilità della Tav: dall’inizio degli anni ’90, cioè quando è partito il progetto, il traffico sulla linea è drasticamente diminuito, oltre al fatto che il costo crescente della sua opera peserà notevolmente sulle nostre finanze pubbliche già disastrate. Da questo punto di vista, ci chiediamo come mai non si attui un potenziamento dell’attuale ferrovia del Frejus, sottoutilizzata e dai costi minori. Non dimentichiamo poi l’impatto ambientale, forse il problema più forte (lo ha ammesso a stessa Ltf, Lyone Turin Ferroviare): nelle montagne dove dovrebbero passare le gallerie sono presenti notevoli quantità di amianto e uranio. Dall’altra parte della barricata però il movimento No Tav dovrebbe elaborare una nuova strategia di opposizione: si ha l’impressione infatti che le frange antagoniste e radicali siano sempre più le vere forze dominanti della contestazione, rischiando così di fare entrare nella spirale di violenza anche l’ala non violenta, sia nelle azioni di sgombero delle forze dell’ordine dei vari sit in di protesta, sia nelle azioni della magistratura. Le azioni violente rischiano solo di aumentare una militarizzazione del territorio e la frattura tra la società civile e delle istituzioni che hanno perso qualsiasi contatto con le realtà locali, prendendo decisioni che rischiano di devastare un territorio naturale, sulla pelle delle popolazioni locali. 
Bisogna anche essere realisti: sono stati ormai presi degli impegni, con la Francia e con l’Unione Europea: sperare che i governi abbandonino il progetto è utopico; la soluzione sarebbe una sorta di azione condivisa da parte delle parti in causa, attraverso la creazione di un tavolo dove si possa arrivare alla ricerca di punti che soddisfino tutti. Anche qua però entriamo nel meraviglioso regno delle illusioni; la verità è che al momento vie d’uscita non se ne vedono, il muro contro muro continuerà mettendo in conflitto la fazione del progresso contro quella della resistenza e della salvaguardia del territorio. Un miraggio pensare che un giorno questa lotta potrà essere risanata dal dialogo?

Mattia Temporin

17 maggio 2013

Reddito minimo garantito: la vera riforma necessaria


Il welfare italiano va rinnovato e semplificato senza i dogmi del secolo scorso. Il reddito minimo sarebbe un grosso passo verso questa direzione.






Negli ultimi tempi è entrato nel dibattito politico, sebbene sotto svariate e improprie terminologie, il tema del reddito minimo garantito. In ordine di tempo, l'ultimo a nominarlo è stato Enrico Letta nel discorso alla Camera del 30 Aprile scorso, quando parlando di ammortizzatori ha aperto a “qualche forma di reddito minimo”.
Per di più, in questo caso, vale l'ormai celebre motto “ce lo chiede l'Europa”. A ben vedere, l'Europa ce lo chiede da venti anni: il monito risale alla Raccomandazione 92/441/CEE, in cui si legge che “...
il Parlamento europeo, nella sua risoluzione concernente la lotta contro la povertà nella Comunità europea, ha auspicato l'introduzione in tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d'inserimento nella società dei cittadini più poveri”.

L'Italia, guarda caso insieme alla Grecia, è l'unico paese in Europa a non avere un sistema di supporto alla povertà di questo tipo. Se i paesi nordici si collocano al top di una ipotetica classifica sul reddito minimo, il nostro benchmark ai tempi della crisi, la Germania, prevede un sussidio di 345€ per tutti i disoccupati tra i 16 e 65 anni (si badi bene, anche a chi non ha mai lavorato, non solo ai disoccupati) a cui si aggiungono le spese di affitto e riscaldamento.
In realtà, in Italia un esempio significativo è quello della Provincia di Trento che ha introdotto un Reddito di garanzia pari a 6500 € annui (calcolati come reddito disponibile equivalente), corrispondenti ad un costo di 3€ al mese per residente.

Ma che cos'è il reddito minimo garantito? Come spiegano gli economisti Tito Boeri e Roberto Perazzoli, il RMG va distinto dal reddito di cittadinanza. Se quest'ultimo consiste in un sussidio dato a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito e dallo status lavorativo; il reddito minimo garantito si contraddistingue per un universalismo selettivo, in quanto caratterizzato da regole uguali per tutti (e senza differenza tra categorie di lavoratori) che fanno dipendere la concessione da accertamenti su reddito e patrimonio.
Detto ciò, pare ovvio che, in tempi di suicidi, i populismi sull'Imu e gli arroccamenti sull'art.18 dovrebbero lasciare spazio a discussioni serie su vere innovazioni del welfare come il reddito minimo.

Certo, si parla di un costo che si aggirerebbe tra gli 8 e i 10 miliari per un sussidio di 500€, come suggeriscono di nuovo Boeri e Perazzoli, ma si tratterebbe di andare a sostituire tutto il marasma scoordinato di sussidi del welfare italiano con questo strumento.
È vero, inoltre, che l'attuazione del reddito minimo garantito presenta problematiche relative ad errori di primo tipo (mancata assegnazione del sussidio a chi ne ha diritto) e del secondo tipo (assegnazione a chi non ne ha diritto), ma ciò potrebbe essere bilanciato dalla previsione di incentivi al monitoraggio per le amministrazioni locali, nell'ambito di un vero federalismo.
Infine, una manovra corposa come l'introduzione dell'RMG richiede estrema attenzione nella modulazione della durata e dell'ammontare del sussidio ai bisogni del richiedente, nonché la previsione di interventi per l'inserimento nel mercato del lavoro.

Il reddito minimo ci avvicinerebbe finalmente alle democrazie europee, semplificherebbe gli strani e ingiusti meccanismi dello stato sociale nostrano e se applicato in maniera seria (cioè non all'italiana) ridurrebbe gli sprechi. Se vogliamo ripartire, bisogna farlo dal welfare, superando, da una parte, il rifiuto di uno stato che fornisce servizi e dall'altra, la paura di un mercato del lavoro veramente liberalizzato. Ciò richiede una nuova Italia, libera dai dogmi del '900, dagli interessi corporativi, dalle mazzette e dal malcostume generalizzato.
Purtroppo sembra che per ora ci terremo le balle sull'Imu, una riforma della giustizia che aiuta i potenti (e che non riduce la tempistica dei processi come si vuol far credere), le sterili urla contro la casta e un mercato del lavoro che continua a discriminare, con i suoi totem, tra chi è dentro e chi è fuori.

Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi


Fonti:


  • Per un approfondimento sul reddito minimo in Europa si veda lo studio comparatistico di Gianluca Busilacchi, docente di sociologia dell'organizzazione dell'Università di Macerata.

14 maggio 2013

Acido: il nuovo volto della violenza.


Si discute molto spesso e molto a lungo di alcune questioni di genere: donne femministe e donne antifemministe, uomini che propongono le “quote rosa” e uomini che fanno del maschilismo una bandiera, episodi violenti, stalking e anche delitti e della necessità di una tutela più efficace.

Un caos schizofrenico tra razionalità open minded e istinti conservatori caratterizza l'intera opinione pubblica non appena è la questione femminile a finire nell'occhio di bue dell'interesse mediatico. 
Tuttavia ci sono stati tre casi di cronaca avvenuti tutti nell'ultimo mese che hanno attirato la mia attenzione. Tre storie, tre città (Pesaro, Milano e Vicenza), tre donne sfigurate con sostanze acide.

Questo tipo di violenza non è certo una novità, anzi il “vetrioleggiamento” [l'atto di deturpare un individuo con il getto di vetriolo e altre sostanze acide] ha radici piuttosto antiche e trasversali in molte culture. I dati più recenti riportano una diffusione nei paesi in cui la legge islamica è applicata con maggior rigidità ma anche in America Latina. Oltre che in Italia, come testimoniano i giornali.

Sfigurare una donna con l'acido va oltre un puro atto di violenza, ha infatti una forte valenza simbolica. Da un lato l'obiettivo è la ferita, ma dall'altro l'acido distrugge la bellezza della donna, l'immagine e il volto sono spezzati definitivamente. Nonostante la chirurgia plastica sia ormai capace di tutto, per la vittima anche soltanto specchiarsi resterà a lungo un problema, il segno dell'acido, fisico e psicologico, è tatuato indelebilmente.

È lecito chiedersi se l'eco mediatica che hanno avuto queste notizie non sia la causa dell'attivarsi di un processo a catena per cui l'acido viene improvvisamente legittimato come nuova forma di “soluzione” di problemi spesso con ex compagni e compagne. Sicuramente si attiva un effetto di emulazione che fa presa soprattutto su individui che covano risentimento o rancore, razionale o immaginario, spesso in seguito ad un abbandono ritenuto ingiusto. Per questo tipo di persone, spiega lo psicologo Alessandro Meluzzi, l'acido si rivela essere il modo ideale per distruggere la vita affettiva di una persona che si ritiene abbia distrutto la propria senza un motivo. Tuttavia non raccontare questi fatti renderebbe attiva una forma di censura che non solo è proibita dalla legge, ma che poco si addice ad un regime democratico come quello italiano. Inoltre, la censura non è mai stata una modalità efficace per frenare i crimini, ma si è sempre rivelata soltanto una giustificazione per un atteggiamento “da struzzo” di media e pubbliche autorità che, in virtù di essa, ritenevano lecito tacere reati di ogni genere.

È possibile, invece, mutare il modo con il quale la cronaca viene sviluppata, riducendo spettacolarizzazioni e commenti connotati emotivamente, pubblicazione di fotografie spensierate e interviste con l'obiettivo di comprendere personalità e gusti della vittima. Sarebbe forse meglio porsi di fronte al crimine in maniera neutra, rispettosa. La violenza, spesso, parla da sola e non importa se la vittima fosse bella o brutta, giovane o vecchia: è sempre follia distruttiva e malata.

Un segnale positivo per dire basta ad ogni forma di violenza contro le donne viene, a sorpresa, dalla politica. Infatti la neo ministra per le Pari Opportunità, la ex canoista Josefa Idem, ha cominciato la sua attività di governo istituendo una task-force interministeriale per comprendere a fondo e, poi, contrastare efficacemente gli abusi contro le donne. Il progetto godrà della collaborazione dei ministeri della Giustizia, del Lavoro, della Salute e degli Interni, oltre che dell'appoggio della ministra per l'Integrazione Cècile Kyenge e della Presidente della Camera Laura Boldrini. Proprio la Boldrini ha richiamato l'attenzione sull'urgenza di ratificare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica promossa dal Consiglio d'Europa: il trattato, firmato nel maggio 2011, non ancora stato recepito nell'ordinamento italiano.

Forse qualcosa si sta muovendo e l'attività di sensibilizzazione e mobilitazione di molte associazioni, come per esempio il comitato “Se non ora, quando?” o il flash mob “One Billion Rising”, sembra essere efficace dal momento che è riuscita a portare in primo piano questo problema, reale e concreto.

Una questione che va ben al di là delle “quote rosa” o dello stupore di fronte al numero di donne ministro o imprenditore, ma che sfiora l'immagine e il ruolo concreto della donna nella nostra società che deve poter essere libera. Una donna che teme di poter essere sfigurata con l'acido sul pianerottolo di casa o mentre va all'ospedale per una visita medica non è libera. E questo è, a mio avviso, inaccettabile. 


Angela Caporale
@angisel18