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30 aprile 2013

L'Imu in Europa


La questione Imu torna a dividere in Italia. Ma come funziona la tassa in Europa?


Non ha fatto neanche in tempo ad ottenere la fiducia nelle due camere, che già il governo Letta si divide sulla questione Imu. Nel discorso programmatico di ieri alla camera, tenutosi prima della votazione per la fiducia,  il presidente del consiglio aveva esposto quelli che saranno i punti cardine del governo dalle larghe intese. Stop dell’ Imu a giugno, rinuncia all'aumento dell’Iva a luglio, cambiamento della legge elettorale e abolizione delle provincie, un  programma per accontentare il popolo della libertà e per calmare gli animi dei cinque stelle. Il piano era stato accolto dal Pdl come una vittoria, ma le parole pronunciate questa mattina da Dario Franceschini hanno già rimescolato le carte in tavola.  Il neo Ministro per i rapporti con il Parlamento ha infatti dichiarato, prima della votazione della fiducia al senato, che: l’Imu non verrà tolta, ci sarà una proroga per la rata di giugno.  Questa puntualizzazione non è stata gradita dal Pdl che aveva inteso le parole di Letta come il primo passo per l’abolizione dell’ imposta. Pronta la risposta di Berlusconi: sono fiducioso sia sull'abolizione che sulla restituzione. Non sosterremmo un governo che non attua queste misure né lo sosterremmo dall'esterno. Torna quindi lo spettro dell’ ingovernabilità e l’ago della bilancia è sempre lo stesso. L’Ue intanto si è già espressa a riguardo, l’Italia deve andare avanti con le riforme ma deve rispettare gli obiettivi di bilancio senza creare nuovo indebitamento.

Ma l’imposta sulla prima casa, che da noi è il paria degli argomenti politici come viene gestita in Europa?

Iniziamo da casa nostra. L’Italia nel periodo 1995-2010 ha perseguito una politica fiscale incongruente rispetto a quelle degli altri paesi, detassando i patrimoni a scapito dei redditi. Stando ai dati Eurostat il nostro paese era in coda alle principali potenze europee. Poi nel 2011 si è dovuto per forza di cose correre ai ripari e visto che le altre forme di tassazione erano già abbastanza elevate si è deciso di mettere mano ai patrimoni, riportandoci drasticamente in linea con l’Europa. Nata sotto il governo Berlusconi, e poi anticipata da quello Monti, l’Imu prende il posto della vecchia Ici modificandone vari aspetti con lo scopo di aumentarne il gettito. Essa prevede un aliquota base dello 0,4% sul valore della rendita catastale della prima casa (con una variazione a discrezione municipale dello 0,2%) mentre uno 0,76% per le altre proprietà. Tuttavia nel calcolo la rendita catastale va aumentata del 60%, questa rivalutazione generale è la vera causa dell’aumento dell’imposizione. Come correttivo sono state introdotte delle blande agevolazioni, come la detrazione di 200 euro più 50 euro per ogni figlio sotto i 26 anni. In conclusione nelle casse dello Stato Sono entrati 4 miliardi di euro. Un miliardo in più rispetto a quanto non arrivasse dall’Ici, dato dal fatto che molti sindaci hanno deciso di sfruttare la possibilità di aumento dell’aliquota.

Inghilterra: la tassazione inglese sul patrimonio è regolata dalla Council Tax. Essa è rivolta ai residenti e non ai proprietari degli immobili, ed al suo interno comprende anche il pagamento dei servizi municipali. Prevede un aliquota variabile dallo 0,5% all’ 1,3% basata sul valore catastale accertato nel 1991. Sono previste varie decurtazioni come ad esempio il 25% in meno se la casa è abitata da una sola persona. Ovviamente  non mancano le critiche sulla scarsa equità del prelievo in quanto non viene tenuto conto del reddito delle famiglie.

Francia: ci sono due tasse sulla proprietà. La prima è la taxe fonciere, nella quale sono imponibili tutte le costruzioni stabili e che viene pagata dal proprietario dell’immobile. La sua valutazione cambia da regione a regione, ma ha una base fissata dallo Stato. Sono previsti numerosi sgravi fiscali. La seconda tassa è l’ Impot de solidarietè sur la fortune, questa non è una vera e propria imposta sugli immobili ma una patrimoniale sulla ricchezza in generale. Prevede il pagamento addizionale per le proprietà del valore superiore ai 790 mila euro calibrata su un’aliquota tra lo 0,55 e l’1,8 per cento del valore dell’immobile. Il tributo aumenta in forma rilevante sui patrimoni oltre 1,3 milioni di euro.

Germania: non è prevista una tassa patrimoniale sulla casa ma un’imposta fondiaria del governo centrale che però viene lasciata amministrare dai Land. Il prelievo parte da una base comune dello 0,35% la quale però è variabile in quanto viene calcolata con differenti moltiplicatori per ogni zona del paese. Oltre a questo è prevista un’imposta sui redditi da affitto che varia in rapporto ad un’ aliquota marginale del contribuente.

Spagna: Il paese in cui il regime fiscale sulla casa presenta le maggiori consonanze con quello italiano . Con aliquote che variano dallo 0,4% fino all’1,1%, l’ Impuesto sobre bienes inmuebles, risulta molto simile all’Imu. Viene pagata dalle persone fisiche e giuridiche proprietarie di abitazioni in relazione alla regione in cui si abita. Di recente è stata reintrodotta una tassa patrimoniale, ma  solo per gli appartamenti con un valore superiore ai 700 mila euro.

Belgio: la precompt immobilier si applica sul valore catastale dell’immobile e su base regionale. L’aliquota è del 10% nelle Fiandre e del 12,5% a Bruxelles e in Vallonia.


In conclusione possiamo quindi dire che l’Imu non è un’eccezione Italiana o, come spesso si sente dire, la tassa per l’Europa che ci chiede sanguinosi sacrifici. Certo è vero che andranno al più presto approntate le necessarie modifiche (sopratutto in materia di equità), ma essa è lo scotto che stiamo pagando per la mala gestione delle finanze pubbliche che ha contraddistinto il nostro ultimo ventennio. Per anni si è preferito tassare il lavoro piuttosto che il patrimonio, l'inversione di tendenza era necessaria. Risulta quindi come al solito inutile fare promesse su una sua totale abolizione, vista l’impossibilità di fare leva sulla fiscalità generale.




Lorenzo Mariani






Unione Europea: si temporeggia con Budapest, ci si affretta con Nicosia.


Forse non tutti lo sanno ma poco più di un mese fa in Ungheria, nel cuore della civilissima UE, è stata approvata una nuova costituzione che viola alcuni diritti civili fondamentali, come la libertà di espressione e di parola oltre ad un principio cardine della democrazia, quello della separazione dei poteri. Oggi, a causa di queste leggi promulgate dal leader ungherese anti-europeista e nazional-populista Viktor Orban, la Corte Costituzionale ungherese potrà semplicemente vagliare le leggi senza alcun potere di veto, oppure si potranno censurare giornali che minacceranno “la dignità della nazione ungherese" o, ancora, i laureati saranno obbligati a rimanere all’interno dei confini per almeno un periodo uguale a quello dei loro studi fino ad arrivare a 10 anni, pena il rimborso dei costi dei studi stessi. Credo che il carattere oppressivo di queste leggi si commenti da solo.
Tuttavia la reazione dell’UE è stata lenta e poco efficace. Dapprima il presidente della commissione Barroso, congiuntamente al Consiglio d’Europa, ha cautamente condannato la spirale autoritaria di Orban e solo da poco si sta meditando a proposito di un'inedita applicazione dell’articolo 7 dei Trattati UE che prevede sanzioni di tipo politico ed economico contro uno stato membro, come la sospensione dal diritto di voto nel Consiglio Europeo. Tuttavia il primo ministro ungherese conta sull’appoggio del PPE ( Partito Popolare Europeo in cui è presente anche la CDU guidata da Angela Merkel), di cui fa scandalosamente ancora parte, per evitare le sanzioni.
La mia riflessione parte dalla differenza di priorità attribuita da Bruxelles alla crisi del settore bancario a Cipro rispetto alla soppressione di alcuni principi basilari della democrazia e di una società libera e pluralista. Le immagini dei furgoni pieni di denaro che, nel buio della notte, si precipitavano furtivamente a Nicosia per rifornire i bancomat sono vivide nella mente, mentre nessuno si è preoccupato di quello che è stato ribattezzato il “Golpe Bianco” ungherese. La tempestività con cui le istituzioni europee hanno affrontato il salvataggio delle finanze cipriote contrasta con la riluttanza ad esprimere una doverosa condanna e ad applicare le relative sanzioni a Budapest. La disparità nel trattamento delle due vicende si è riflessa anche nel colpevole silenzio dei media europei sulla deriva autoritaria del governo magiaro.
In un così delicato momento per l’immagine dell’UE nei confronti della propria opinione pubblica, causato dall’incipiente crisi economica della zona Euro, prendere una posizione più severa nei confronti dell’Ungheria sarebbe stato cruciale per riaffermare i valori che stanno alla base del progetto europeo. La democrazia, il pluralismo e il rispetto dei diritti civili, politici e sociali sono capisaldi non negoziabili e non discutibili dell’UE e dei suoi stati membri. Qualsiasi minaccia a queste linee guida deve essere interpretata come una minaccia all’Unione stessa e alla sua (già deficitaria) legittimità. L’autogol di Barroso e colleghi è amplificato, a mio avviso, dalla sordità rispettoso e voci più o meno critiche della cittadinanza: privilegiando anche in questa occasione la dimensione strettamente economica dell’integrazione europea, si dà ragione a coloro che vedono nell’Unione un’istituzione interessata solamente e ineluttabilmente ai parametri macroeconomici e finanziari, come il debito pubblico o lo spread, e lontana dalla tutela delle esigenze e dei diritti dei suoi cittadini. Si dà ragione ai partiti e ai movimenti populisti e anti- europeisti che brulicano e si rafforzano in quasi tutti gli stati membri. Si dà ragione a chi manifesta nelle piazze europee, civilmente e non, il proprio dissenso nei confronti delle misure di austerità.
Vorrei chiudere con un’ultima considerazione. Pochi mesi fa l’Unione Europea è stata insignita del Premio Nobel per la Pace per aver contribuito, durante la sua storia, alla stabilizzazione pacifica di scenari potenzialmente esplosivi, dalla penisola Iberica negli anni settanta ai paesi dell’Europa orientale dopo il crollo del muro di Berlino passando per la polveriera balcanica, esportando i principi dello Stato di Diritto e della democrazia rappresentativa. Alcuni studiosi, per questa sua vocazione, hanno attribuito all’UE la definizione di “Potenza Civile”; nel senso di entità politica interessata principalmente nell’affermazione e nella tutela della pace e dei diritti civili nel mondo. Una potenza senza interessi strategici e materiali preponderanti e senza un esercito forte adibito a perseguirli. Credo dunque che Bruxelles, per conservare in un futuro prossimo questo suo ruolo di guida nella promozione della pace e per mantenere la propria credibilità, non possa tollerare ulteriormente lo scardinamento delle principali istituzioni democratiche e la messa in discussione dei diritti civili del popolo ungherese operata da Viktor Orban.
Valerio Vignoli

29 aprile 2013

Cosa nostra 2.0: dal cassiere al manager del restyling

Come si è restaurato l’assetto della nuova mafia nella provincia di Palermo.

 Siamo negli anni ’70 e a Roma, per chi bazzica in certi ambienti, è inimmaginabile non conoscere il sig. Mario Aglialoro. Quest’uomo dall’accento spiccatamente siciliano in poco tempo dal controllo delle sale da gioco, trasferisce la sua attenzione sul traffico di eroina nella capitale, intrattenendo legami con la banda della Magliana, che da anni detiene il monopolio dello spaccio. Ma il signor Mario non ha a che fare solo con criminali, si interessa anche di politica ed è in ottimi rapporti con i più illustri esponenti dell’alta finanza della città, primo fra tutti Roberto Calvi. Tutti si chiedevano come potesse una persona tanto normale, diventare in pochi mesi il burattinaio dell’intera città. Semplice! Il sig. Mario Aglialoro altri non è se non Pippo Calò, il cassiere di Cosa nostra, che ricicla il denaro sporco proveniente dalle attività criminali della mafia investendolo nel banco Ambrosiano, del quale Calvi è presidente.

Pippo Calò
Pippo Calò, della famiglia di Porta Nuova, si era schierato dalla parte dei corleonesi di Riina che stavano conquistando rapidamente il potere su tutta la provincia di Palermo, e con la provincia di Palermo su tutta la Sicilia. Erano anni nei quali il denaro circolava massicciamente e Calò aveva scelto bene la fila in cui militare, anche se prima di questo patto non si era mai verificato nella storia di Cosa Nostra che il capo mandamento di una famiglia di Palermo facesse gli interessi di una famiglia della provincia.
Ma con l’occhio proiettato al futuro si comprende bene il perché di siffatto inconsueto gesto; da lì a poco tutti gli esponenti delle famiglie di Palermo vennero trucidati nella seconda guerra di mafia e Calò ne uscì illeso.
 Facendo un balzo in avanti nel tempo di trent’anni, notiamo come la vecchia mafia sia stata messa con le spalle al muro dopo l’arresto di     Bernardo Provenzano nel 2006 e la fine dell’egemonia corleonese.
Ma sbaglia chi abbassa la guardia. Infatti dopo meticolose indagini durate tre anni, i carabinieri di Monreale (PA) hanno di recente smantellato il  supermandamento di Camporeale, nato dalla fusione delle famiglie di Partinico e San Giuseppe Jato. Il delicato incarico di riorganizzare l’assetto di Cosa Nostra era stato affidato ad Antonino Sciortino, un allevatore che era tornato in libertà dopo aver scontato la sua pena sotto il regime del 41 bis, meglio definibile come il manager del restyling dell’organizzazione.

Antonino Sciortino
Dalle copiose intercettazioni ambientali risulta che le famiglie di questi piccoli centri rurali della provincia di Palermo non riuscivano a svolgere al meglio l’ “ordinaria amministrazione” criminale e che da otto anni si profilava la commistione fra i tre paesi. Tutto questo è dovuto alla ingente migrazione di giovani verso il nord Italia, che sottraggono manovalanza alla criminalità e altresì alla crisi economica degli ultimi anni, che causando la chiusura di imprese, aziende e attività commerciali non rimpingua le casse della mafia come un tempo. La criminalità sente la crisi e cerca di mettere in atto piani di salvataggio che contrastano anche con la salvaguardia della “famiglia”. E’ il momento giusto per infliggere un duro colpo alla mafia. Se Cosa Nostra perde il controllo sul territorio diventa un’organizzazione criminale come tante altre, e quindi molto più vulnerabile, prevedibile e di conseguenza reprimibile.



Provincia di Palermo. Le zone evidenziate corrispondono ai territori delle famiglie  del Super-mandamento di Camporeale

Salvatore Pillitteri

28 aprile 2013

The Sunday Up : Zorba il Greco


ZORBA IL GRECO : Nikos Kazantzakis


Finalmente una riedizione in Italia di questo capolavoro! E, dettaglio non da poco, si tratta della prima traduzione integrale dal greco all’italiano (le precedenti edizioni erano basate su una traduzione inglese).
Una narrazione intensa, comica e tragica allo stesso tempo, di un’amicizia pura e autentica tra due
uomini che più diversi non si potrebbe: un introverso scrittore, imbrigliato nelle sue paure e nelle sue incertezze, che si reca a Creta per amministrare una miniera di cui è diventato proprietario, e “un vecchio operaio” (e scoprirà il lettore quanto difficile sia definirlo!) greco istintivo, esplosivo e pieno di vita, il Zorba del titolo. Un incontro, in un Pireo spazzato dallo scirocco, che colpisce immediatamente per la sua casualità: ma davvero, sembra dire Kazantzakis, ciò che c’è di meglio nella vita è sempre un caso. E Zorba l’ha capito bene: non si affanna senza uno scopo come il suo padrone scrittore, non cerca di pianificare la propria esistenza. Anzi, si lascia trascinare con gioia dall’impetuoso fiume della vita, senza puntare i piedi, senza protestare, ma accogliendo tutto con la sorpresa di un bambino, che balla e si esprime con la musica e la danza, rifiutandosi di parlare, non appena il suo grande animo viene sopraffatto dal sentimento, sia esso una gioia o un dolore, trascinando tutti (lettori compresi) con il suo entusiasmo incontenibile. Non è animato da una devozione cieca e di maniera, ma nemmeno da un ateismo ostinato e per partito preso. È un irsuto filosofo popolare, che non ha mai letto un libro e che eppure è più imbevuto che mai dello spirito greco, quello stesso spirito che (sarebbe ingeneroso negarlo) ha fondato e continua ad alimentare, seppur per vie molteplici, la cultura europea. 
L’eterno conflitto tra la civiltà compassata e – diciamolo – un po’ pedante, tipica dell’area europea occidentale, e l’istinto barbaro, grezzo a volte, ma assolutamente vitale che alberga nella parte più ancestrale e primitiva dell’anima viene risolto con una semplicità disarmante, anche grazie alla scrittura di Kazantzakis, che si muove agilissima destreggiandosi in modo sorprendente tra gli idilli più incantevoli, le tragedie più dolorose e le ironie più pungenti. 
Un libro semplicemente geniale sotto tutti i punti di vista, per quanto rischiosa possa essere una definizione del genere. C’è una frase di Kazantzakis, che oggi fa da epitaffio alla sua assolata tomba a Heraklion, Creta: “Non spero nulla. / Non temo nulla. / Sono libero.”. Ecco, in questo senso Zorba è un uomo che non ha paura di rompere gli schemi, e contemporaneamente non è animato da uno sciocco idealismo: è semplicemente un vero uomo libero.

Alessio Venier

26 aprile 2013

L'allergia della sinistra italiana



Durante questa caotica e logorroica campagna elettorale mi è capitato più volte di sentire Bersani vantarsi di essere l’unico, tra i contendenti principali alla vittoria, a non aver il proprio nome inserito nel simbolo della lista che compare sulla scheda elettorale. La domanda sorge spontanea. Perché deve essere motivo di vanto? Che problema c’è nella forte identificazione di un partito con il proprio leader (per di più nel caso del PD in cui è stato eletto democraticamente attraverso le primarie)?



La realtà è che il grande partito progressista italiano soffre di un’allergia. È allergico ai leader. L’idiosincrasia nei confronti di una figura che accentri su di sé il controllo del partito, che definisca l’indirizzo politico e che decida la strategia da seguire durante la campagna elettorale, ha radici antiche ma si è accentuata nel (in)consapevole tentativo di contrapporsi, con una collaudata gestione collegiale, al personalismo e all’individualismo berlusconiano. Non stupisce, dunque, una repulsione da parte degli stati maggiori del PD nei confronti di qualsiasi personalità all’interno del partito che presenti una forte personalità. Chiunque sia, costui viene percepito come una minaccia nei confronti di questa peculiarità. Un corpo estraneo etichettabile come pericoloso e facilmente accomunabile al nemico. Credo che vi sia chiaro il riferimento all’ostilità nei confronti di Matteo Renzi da parte della quasi totalità delle figure di riferimento all’interno del Partito Democratico.

Si può supporre che l’ostentazione di questa avversione sia una sorta di garanzia agli elettori di trasparenza e democrazia interna. Magari l’obiettivo è presentarsi come un soggetto politico che mette le idee e i programmi davanti ad una bella faccia convincente. Tutto ciò è lodevole. Non c’è che dire. Ma poi bisogna fare i conti con la realtà. La realtà di una modalità di fare politica sempre più incentrata sulla personalità, sul carisma, sulle capacità retoriche e sull’appeal mediatico del leader. Quel processo definito come “americanizzazione della politica”.  Ormai tutti i partiti, di destra e di sinistra, anche nel contesto europeo sono alla costante e spasmodica ricerca di guide forti, che suscitino empatia ed identificazione nell’elettore. La destra, più avvezza a sfumature populiste, nel nostro paese ma un po’ in tutto il continente, ha da tempo compreso la centralità di questo aspetto. Recentemente però casi come quello di Blair in Gran Bretagna ma anche di Zapatero in Spagna dimostrano, a mio avviso, come anche la sinistra si stia adeguando piano piano. Tuttavia, mi sembra che nel PD l’allergia sia ancora manifesta.

Il nodo è venuto al pettine in questa tornata elettorale in cui l’avversione endemica per una personalità capace, come si suole dire, di “bucare lo schermo”(di TV o computer che sia) ha pagato ben poco.  Il risultato è stato lapidario: i grandi demagoghi hanno vinto. Ha vinto chi ha saputo parlare alla cosiddetta “pancia dell’elettorato”, seppure con promesse poco credibili da consumato imbonitore o con schiamazzi inneggianti ad una rivoluzione vagamente qualunquista. Sarebbe ora giunto il momento per il PD di capire che non c’è nulla di degradante nel fare affidamento ad una personalità forte e di scacciare, con l’aiuto magari di un po’ di sano cinismo e realismo, quest’allergia.

Valerio Vignoli

25 aprile 2013

La vittoria di Debora: una questione di comunicazione.

C'è una domanda che serpeggia tra elettori e simpatizzanti del centro sinistra italiano alla luce dell'esito delle ultime elezioni amministrative in Friuli Venezia Giulia: perché Debora Serracchiani sì e Pierluigi Bersani no?
Come ha fatto una donna, politicamente giovane a prevalere, seppur sul filo di lana e con un tasso di astensionismo preoccupantemente alto, proprio in una regione storicamente fedele al centro destra, spesso dimenticata e associata al vicino Veneto, feudo della Lega Nord (Zaia, Tosi...)? Come ha fatto a convincere 107.155 persone, il 26,82% degli elettori, a votare Partito Democratico nonostante il suicidio romano ad opera della carica dei 101 franchi tiratori?

La storia dell'affermazione locale e nazionale di Debora parte la lontano e in particolare da questa occasione: era il 21 marzo 2009 all'Assemblea nazionale dei circoli del Partito Democratico.




Anche a distanza di anni, la grinta e l'impeto che la contraddistinsero in quella situazione non si sono sopiti e questo mix di leadership e dolcezza è stato, sicuramente, un ingrediente fondamentale della ricetta per vincere le elezioni. Questo potrebbe far pensare alla sua vittoria come una scia di altri successi del centro sinistra a livello locale, un'ennesima dimostrazione di acume nella scelta dei candidati più vicini all'elettorato, ma in questo caso il successo era troppo poco a portata di mano per poter avvallare questa tesi.
Tuttavia, il merito della sua personalità non è da sottovalutare, anzi. E' eloquente il tweet di Ettore Rosato, parlamentare del PD, pubblicato prima dell'esito delle elezioni : "Lo scrivo prima dello spoglio. se ha vinto, ha vinto lei, altrimenti abbiamo perso noi, con le incredibili vincende romane."

C'è, a mio avviso, un elemento particolare che ha differenziato nettamente la corsa della Serracchiani dal pasticcio di Bersani: Debora ha condotto una campagna elettorale da manuale.
La comunicazione politica democratica ha utilizzato in maniera efficace tutti i mezzi possibili, vecchi e nuovi.
Nei mesi precedenti alle elezioni, Debora ha girato l'intera regione come una trottola, instancabile e sempre sorridente, aperta e decisa nel diffondere le sue idee dialogando direttamente con i friulani. In ogni appuntamento è stata seguita fedelmente da una macchina fotografica, da uno smartphone, da un tablet per poter condividere tutto in tempo reale con amici e followers.
Il momento clou della campagna sul territorio è stato senza dubbio l'incontro pubblico con Matteo Renzi, leader in ascesa, parte della stessa generazione della Serracchiani, atto ad enfatizzare il bisogno di cambiamento e l'intenzione, seria, di passare dalle parole ai fatti, dando concretezza e peso a promesse e programmi troppo spesso destinati ad essere "aria fritta". Dal punto di vista della campagna online, la neo governatrice ha dimostrato di sapersi muovere agilmente sui socialnetwork, ritagliando per esempio dei momenti nei quali rispondere direttamente alle domande degli elettori che si sono rivolti a lei su Twitter (l'hashtag scelto è stato #quidebora). Alcuni possono sostenere che questa esperienza è stata attuata anche da Mario Monti qualche mese fa, ma a differenza del professore, la Serracchiani ha risposto a tutte le domande poste, senza badare se provenissero da un giornalista, un opinion leader o un semplice utente.
La sinergia tra un'attività intensa sul territorio e l'esperienza maturata negli ultimi anni sul suo blog  ha permesso di aggregare un consenso trasversale intorno alla candidata dem, elemento non scontato.
Ogni scelta compiuta é stata facilmente inscrivibile nella strategia della campagna, sintetizzata nello slogan "Torniamo ad essere speciali", inclusivo, connotato emotivamente, proiettato al futuro.




In sintesi, Debora Serracchiani, insieme al suo staff e all'agenzia di comunicazione Proforma, è riuscita perfettamente in ciò in cui il suo partito ha indubbiamente fallito nel percorso che ha portato alle ultime elezioni politiche. Ha costruito una campagna elettorale comunicativamente perfetta, efficace e di successo: un passo deciso verso un modello post moderno simile a quello americano e sempre più distante rispetto alla videocrazia alla quale il leader del Popolo della Libertà, Silvio Berlusconi, ha abituato il Paese negli ultimi vent'anni. Se, da un lato, innovare la comunicazione elettorale non è abbastanza per invertire la rotta e rinvigorire l'agonizzante fiducia nella politica e nelle istituzioni, dall'altro il "caso friulano" dimostra che può essere un passo in quella direzione.
Che questa inaspettata vittoria locale costruita su una strategia così solida possa essere stimolo ed esempio per la rinnovante direzione del Partito Democratico a livello nazionale affinché sia capace di aggiornare il suo approccio alla comunicazione politica?


Angela Caporale

Le sconfitte cicliche del Partito Democratico


 Una piccola premessa: il seguente articolo è stato scritto in tempi non proprio “recenti”, tuttavia riteniamo sia una riflessione ancora oggi molto attuale per cui… lo si pubblica. 


Chi pensava che l’Italia avesse raggiunto il punto più basso dal quale continuare a scendere avrebbe significato scavare e chi, ottimista, sperava nelle elezioni per imprimere una svolta positiva all’andamento del paese avrà dovuto certamente ricredersi alla luce dei più recenti avvenimenti. Lo scenario emerso dalle urne è nient’affatto incoraggiante: cittadini sfiduciati, un paese frammentato, politici incapaci di proporre soluzioni vincenti.  A ben riflettere, il panorama attuale non si presenta molto diverso da quello degli ultimi anni. Tuttavia, in quest'occasione più che in altre, sarebbe servito un segnale positivo che potesse essere considerato tale anche e soprattutto a livello internazionale. 

Ma così non è stato, allora che fare? Guardare avanti, ovviamente. E alla ricerca di un’improbabile via d’uscita dall’empasse è chiamato il Partito Democratico, impegnato in un ossessivo corteggiamento verso il M5S, con il quale un’ipotetica unione difficilmente si risolverebbe in qualcosa di funzionante e duraturo. Che la situazione sia faticosamente gestibile e i margini di manovra piuttosto limitati non si può negare, ma è altrettanto indiscutibile che nulla sia stato fatto al fine di evitare che tali circostanze si verificassero. Dalla caduta del governo Berlusconi, e poi per tutta la durata dell’esecutivo tecnico, il Pd avrebbe potuto (e dovuto) approfittare di un contesto che, per quanto delicato, risultava ad esso vantaggioso in termini di consensi elettorali. 

Sembrava avesse imboccato la strada giusta indicendo per novembre le primarie, una modalità partecipativa di selezione del leader che gli ha garantito un’ampia visibilità mediatica e l’opportunità di mobilitare la propria base. Nonostante l’idea vincente e il discreto successo nel portare alle urne i propri simpatizzanti, il partito è riuscito a non sfruttare appieno le potenzialità dell’evento, facendo nuovamente emergere lo spettro della conflittualità interna che da sempre caratterizza il centro-sinistra. Matteo Renzi -fra i principali promotori delle primarie e unico reale sfidante di Bersani- è stato apertamente contrastato dai suoi colleghi di partito, gli stessi che si definiscono “progressisti”, ma che di rinnovamento ed evoluzione non vogliono proprio sentir parlare. La politica di ostilità promossa dai quadri dirigenti ha portato all’elezione di un candidato la cui capacità comunicativa era nota, proprio in virtù della sua annosa permanenza sul panorama politico italiano. 

I fatti hanno dimostrato quanto sbagliate siano state anche le successive mosse strategiche della coalizione di sinistra, che si è resa protagonista di una delle peggiori campagne elettorali della storia. Se ciò non bastasse, ad accrescere la delusione per i fallimentari esiti elettorali v’è l’atteggiamento recidivo del Partito Democratico, che non risulta molto migliore rispetto a quello dimostrato in occasione delle politiche del 2006: anche all’epoca la situazione di partenza era sbilanciata a favore del centro-sinistra; anche all’epoca quest’ultimo vanificò il vantaggio di cui godeva peccando di superficialità nell’elaborazione della strategia elettorale, che si rivelò inadeguata a rispondere alla ben più aggressiva campagna degli avversari. 

A quanto pare i democratici non vogliono proprio trarre insegnamenti dalla loro storia. Chissà, magari riusciranno a diventare un modello per qualcun altro: “Pd, le dieci cose da non fare per essere un partito di successo”.

Mascia Mazzanti

24 aprile 2013

Il dramma silenzioso dei bambini soldato



bambini soldato africa

I bambini costretti a vivere in qualsiasi situazione di conflitto sono vittime di innumerevoli forme di violenza, concreta e psicologica: l'associazione tra bambini e guerra è qualcosa di mefistofelico caratterizzato da sfumature che vanno rendere particolarmente complesso l'argomento.
La tutela dei minori sembra essere uno dei pochi temi sui quali tutti gli stati parte delle Nazioni Unite siano d'accordo. L'azione dell'Unicef, l'agenzia ONU dedicata a questo argomento, è trasversale e di riconosciuta importanza; nel 1989 è stata promulgata una Convenzione sui diritti dell'infanzia, integrata da due protocolli aggiuntivi concernenti l'uno il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati, l'altro la lotta contro la vendita, la prostituzione e la pornografia rappresentante bambini. Sebbene organi e strumenti di garanzia siano previsti, la tutela non è efficace a sufficienza. 
Un esempio è quello descritto dal regista Stefano Moser che ha avuto modo di osservare da vicino il trattamento dei minori al confine tra Uganda e il Sud Sudan in occasione degli scontri tra le forze statali e i ribelli dei Lord Resistants Army guidati da Joseph Kony. Moser si trovava lì per girare un docu-film e la realtà davanti ai suoi occhi gli è apparsa davvero sconvolgente ed impossibile da ignorare. Le bambine venivano rese schiave sessuali e serve del signore del gruppo di guerriglieri; generalmente avevano soltanto 8/10 anni. Il ricatto era all'ordine del giorno: ad una ribellione corrispondevano ripercussioni sulla famiglia nel villaggio d'origine. I bambini, invece, venivano addestrati e poi arruolati per sparare, combattere, uccidere. Anche loro erano minacciati quotidianamente e per inibire ogni possibilità di fuga venivano obbligati all'omicidio a sangue freddo di un componente della propria famiglia e del proprio villaggio. I più piccoli vengono sfruttati per tutte quelle attività che servono a mantenere un esercito: i lavori e i compiti più umili sono tutti assegnati ai più fragili tra tutti. 
I bambini tutti, in situazioni analoghe a questa, sono schiavizzati, ad un livello paradossalmente ancora inferiore e più profondamente doloroso rispetto all'immagine superficiale di un ragazzino che abbraccia un fucile, stereotipo occidentale del “bambino soldato”. 
In qualsiasi situazione dove vi sia conflitto, i bambini assieme alle donne e agli anziani sono le prime vittime: vengono colpiti perché sono prede facili e su di essi è più facile far leva, viene subdolamente sfruttata la loro innocenza. La presenza delle organizzazioni internazionali si sta rivelando insufficiente, per questo motivo è particolarmente preziosa l'attività di sensibilizzazione ed informazione di molte ONG, sviluppata soprattutto grazie e attraverso la rete. Ricordiamo che sono attualmente in corso più di settanta conflitti armati nel mondo, tuttavia un numero estremamente esiguo è quello di cui sentiamo parlare. Molti scontri non fanno notizia, alcuni sono talmente endemici da diventare mediaticamente poco interessanti, questo però non impedisce violenze, crudezza, ingiustizia di fronte alle quali una coscienza non può tacere.



Angela Caporale
@angisel18

23 aprile 2013

Il ritorno di Re Giorgio : uno sterminio generazionale.


A pochi minuti dalla nuova, ennesima votazione pare ormai scontata la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica. Re Giorgio si assume le sue responsabilità davanti all'inettitudine di questa classe politica.
Giunti ad un tale livello di stallo, la convergenza su Napolitano pare l'unica soluzione plausibile. Se da un lato ciò è vero, è altrettanto vero che si tratta di una non-decisione gerontocratica dai dubbi effetti benefici per il paese. Rimarrà lo stallo per la creazione di un esecutivo. Rimarranno le macerie di un PD distrutto. Rimarrà un sentimento di antipolitica sempre più forte.

Si opterà per un governo di larghe intese (Amato?), ma sorge un dubbio. Se non si è riusciti nell'ultimo anno a riformare la legge elettorale, come si potrà farlo ora, senza dare alla luce un mostro? Si tratta di un ritorno al passato, come se gli ultimi 365 giorni fossero stati cancellati in un attimo. Come se il fallimento del governo Monti, dettato dall'irresponsabilità berlusconiana e dalla piccolezza del centrosinistra non avesse insegnato niente. La Terza Repubblica pare lontana e le urne un incubo sempre più vicino.
L'unica cosa chiara è che l'Italia si sta muovendo di fatto verso un semipresidenzialismo, risultato del default dei partiti.
In tutto ciò il PD ha riso in faccia ai suoi giovani e alle istanze di cambiamento, trovandosi in una guerra tra bande, con i soliti Ras. Più che all'inizio della Terza Repubblica, siamo di fronte ad una polveriera, una bomba ad orologeria, che non tarderà a scoppiare. A pagare il conto sarà come sempre la generazione dei venti-trentenni. Uno sterminio generazionale. 
E pensare che bastava scrivere Rodotà, non silurare Prodi o considerare l'opzione Bonino.
                                                                                              
   
Roberto Tubaldi
@RobertoTubaldi

20 aprile 2013

Il senso di The Bottom Up

Abbiamo vent'anni e potremmo dare un senso a questo blog attraverso la retorica dello scontro generazionale e la denuncia della mancanza di adeguati spazi comunicativi per i più giovani. Sì potremmo, ma non è (solo) questo il nostro obiettivo.

Siamo studenti universitari nel campo delle scienze sociali e potremmo dare un senso a questo blog argomentando che troppo spesso i mass media si occupano in maniera superficiale e sommaria dei fenomeni sociali, politici ed economici che ci circondano, riducendoli a volte a mere "chiacchiere da bar". Sì potremmo, ma non è (solo) questo il nostro obiettivo.

Forme d'arte come la letteratura, la musica e il cinema ci attraggono e ci stimolano; potremmo dare un senso a questo blog affermando come, in un paese afflitto da un grave declino culturale e da un evidente provincialismo, ci sia un costante bisogno di parlare di cultura con la "C" maiuscola. Potremmo (forse), ma non lo faremo.

Il senso di questo blog invece sta tutto nel titolo: "The Bottom Up". Nelle scienze sociali con questo termine si indicano tutti quei processi che nascono dal basso, dalle masse per arrivare in alto, all'élite. Questo concetto non può che implicare valori come la democrazia, il pluralismo e il rispetto di tutte le idee e le opinioni. Ed eccolo qua il senso di questo blog: uno zibaldone leopardiano di voci, pensieri, interpretazioni, punti di vista che danno forma ad una visione del mondo, il nostro mondo.


 La Redazione
@TheBottomUp13